Don Quijote Encantado - Testo Teatrale
Don Quijote Encantado - Testo Teatrale
Don Quijote Encantado - Testo Teatrale
Desocupado lector: sin juramento me podrás creer que quisiera que este libro, como hijo del
entendimiento, fuera el más hermoso, el más gallardo y más discreto que pudiera imaginarse.
¿Qué podrá engendrar el estéril y mal cultivado ingenio mío, sino la historia de un hijo
seco, avellanado, antojadizo y lleno de pensamientos varios y nunca imaginados de otro alguno,
bien como quien se engendró en una cárcel?
Acontece tener un padre un hijo feo y sin gracia alguna, y el amor que le tiene le pone una
venda en los ojos para que no vea sus faltas, antes las juzga por discreciones y lindezas y las
cuenta a sus amigos por agudezas y donaires.
Pero yo, que, aunque parezco padre, soy padrastro de Don Quijote, no quiero irme con la
corriente del uso, ni suplicarte, casi con lágrimas en los ojos, como otros hacen, que perdones o
disimules las faltas que en este mi hijo vieres.
Puedes decir de la historia todo aquello que te pareciere, sin temor que te calunien por el
mal ni te premien por el bien que dijeres della.
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Don Quijote: - La ragione della nissuna ragione che alla mia ragione vien fatta, rende sì debole
la mia ragione che con ragione mi dolgo della vostra bellezza. (Pausa) Gli alti cieli che la divinità
vostra vanno divinamente fortificando coi loro influssi, vi fanno meritevole del merito che
meritatamente attribuito viene alla vostra grandezza.
Don Quijote: - Ronzinante, nome elevato e pieno di una sonorità che indica il passato esser suo
ronzino, e ciò ch'era per diventare, vale a dire, il più cospicuo tra tutti i ronzini del mondo.
«Ah principessa Dulcinea, signora di questo prigioniero mio cuore, gran torto mi avete fatto col
darmi commiato comandandomi altresì ch'io non osi mai più comparire al cospetto della vostra
singolare bellezza. Vi scongiuro, signora mia, di rammentarvi di questo cuore che v'è schiavo, e
che tanto soffre per amor vostro!»
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DON QUIJOTE: - ! O tu savio incantatore, chiunque tu sia per essere, a cui sarà dato in sorte
d'essere il cronista di questa peregrina storia, priegoti non obliare il mio buon Ronzinante,
perpetuo compagno in ogni mio viaggio e vicenda.»
(Pausa).
Tu omo dabbene (se pure così può dirsi di chi è povero) ma con poco sale in zucca. Tanto ti dico e
ti persuado con le promesse di venir con me in qualità di scudiere.
Tu Sancio Panza. Ed io don Quijote de la Mancha, (E già vestito. Elmo. Scudo. E petto).
Prima Uscita.
Don Chisciotte: «Hai da sapere, amico Sancio, che fu usanza degli antichi cavalieri erranti di fare i
loro scudieri governatori delle isole o regni da loro conquistati, ed io sono risoluto che non si perda
per me così lodevole consuetudine. Se noi viviamo, che fra sei giorni io conquistassi un regno da
cui fossero dipendenti altri regni, e giudicassi a proposito di coronarti re di uno di essi; (pausa)
(chiede parere) né credere impossibile questa cosa, poiché vicende sì prodigiose e impensate
intravengono a noi cavalieri; con poca fatica, se la fortuna mi arride, io sarò forse per darti cosa di
gran lunga maggiore di quella che ti prometto.
DON QUIJOTE: «La fortuna va guidando le cose nostre meglio che noi non oseremmo desiderare.
Vedi là, amico Sancio, come si vengono manifestando trenta, o poco più smisurati giganti? Io
penso di azzuffarmi con essi, e levandoli di vita cominciare ad arricchirmi colle loro spoglie;
perciocché questa è guerra onorata, ed è un servire Iddio il togliere dalla faccia della terra sì trista
semente.
Don Quijote: - Quelli che vedi laggiù, con quelle braccia sì lunghe, che taluno d'essi le ha come di
due leghe.
Don Quijote: - Ben si conosce, che non sei pratico di avventure; quelli sono giganti, e non mulini
da vento, e quelle che le ti sembrano le pale delle ruote son le loro braccia. E se ne temi, fatti in
disparte e mettiti in orazione mentre io vado ad entrar con essi in fiera e disugual tenzone.»
Don Quijote: - «Non fuggite, codarde e vili creature, che un solo è il cavaliere che viene con voi a
battaglia.»
Don Quijote: - «Potreste agitar più braccia del gigante Briareo, che me l'avete pur da pagare.»
DQ: - T'acqueta, amico Sancio, le cose della guerra sono più delle altre soggette a continuo
cambiamento; massimamente perché stimo, e così senza dubbio dev'essere, che il savio Frestone,
il quale mi svaligiò la stanza e portò via i libri, abbia cangiati questi giganti in mulini per togliermi
la gloria di restar vincitore; sì dichiarata è l'inimicizia ch'egli mi porta! ma alla fine dei conti non
potranno prevalere le male sue arti contro la bontà della mia spada.
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DQ: - Così è veramente, e se non mi lagno del dolore che sento, egli è perché non è lecito ai
cavalieri erranti il dolersi per nessuna ferita, quand'anche uscissero loro le budella dal corpo.
Don Quijote: - Sancio Pancia, fratello mio, possiamo attenderci venture a dovizie e di ogni nostra
soddisfazione; ma sta bene avvertito che per quanto tu mi vegga in pericolo, non dei metter mano
alla spada in mia difesa, salvo se vedessi chiaramente che fosse canaglia o gente vile quella che mi
assalisse; in tal caso tu puoi darmi aiuto; ma se fossero cavalieri non ti è lecito né concesso a
verun patto immischiarti, vietandolo le leggi della cavalleria sino a tanto che tu pure non sarai
armato cavaliere.
(Pausa).
«La professione a cui mi son dato non mi consente né mi permette di vestire altrimenti. Il passo
agiato, i piaceri, il riposo son fatti soltanto pei delicati cortigiani; ma il travaglio, la inquietudine e
l'arme s'inventarono e sono proprie di quelli che vengono chiamati dal mondo cavalieri erranti, dei
quali io, benché indegno, sono il minore di tutti.»
(El Actor don quijote abre un libro grande como una puerta y lee:).
«Non hanno le signorie loro, letto mai gli annali e le storie di Inghilterra, che narrano le celebri
imprese del re Arturo? Il quale è tradizione universale in tutta la Gran Brettagna che non morì, ma
che per arte magica fu convertito in corvo, e che risalendo col volger dei tempi sul trono
riprenderà il suo scettro? E in prova di questo non si è mai dato il caso che nessun Inglese dopo di
allora uccidesse un corvo. Al tempo dunque di questo buon re fu istituito quel famoso ordine di
cavalleria, chiamato della Tavola rotonda. , e gli amori che si raccontano di don Lancillotto del
Lago con la regina Ginevra, cantata sì di frequente nella nostra Spagna:
Chiude il libro.
DQ: - « La mia dolce nemica, che il suo nome è Dulcinea, la sua patria è il Toboso, e la sua
condizione debb'esser per lo meno quella d'una principessa, essendo signora e regina mia;
sovrumana poi è la sua bellezza, giacché sono veri e reali in lei tutti gl'impossibili e chimerici
attributi della perfezione che i poeti attribuiscono alle loro amanti; e sono oro i capelli, è un eliso la
fronte, archibaleni le ciglia, due soli gli occhi, rose le guancie, coralli i labbri, perle i denti,
alabastro il collo, avorio le mani, neve la bianchezza...»
Don Quijote: - Hai con tutto questo da sapere, fratello Pancia, che non v'è reminiscenza la quale
non venga cancellata dal tempo, né dolore a cui la morte non metta fine. (Pausa)
Le ferite che si ricevono nelle battaglie recano più onore che vergogna.
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2) Questo, o signori, caproni. è l'essere vero cavaliere errante.
3) Io, benché peccatore, ho fatto la professione, e mi esercito allo stesso modo dei cavalieri
soprannarrati.
4) Io dunque me ne vado errando per queste solitudini e deserti in traccia di avventure.
5) Con deliberato animo di offrire il mio braccio e la mia persona ai cimenti più perigliosi.
6) Che mi presenti la sorte per soccorrere i deboli, ed ognuno cui fia necessario il mio
ministerio.»
Quijote: - «Quest'è il giorno, o Sancio, in cui s'ha da conoscere a qual bene mi riserba la sorte; e il
valore del mio braccio, ed in cui ho da operare meraviglie degne di essere registrate nel libro della
fama pei secoli tutti avvenire. Vedi tu, o Sancio, quel polverio che colà si solleva? Sappi che dentro
vi è chiuso un esercito poderosissimo, composto di varie nazioni e di gente innumerabile venuta da
diverse parti.
DQ: - Che casa fare noi? Prestare assistenza e favore ai più deboli e bisognosi. Hai da sapere
Sancio, che questo che ci viene di fronte lo conduce e lo guida il grande imperatore Alifanfarone,
signore della grande isola Taprobana; quest'altro che ci viene alle spalle, è quello del suo nemico
re dei Garamanti Pentapolino detto dal braccio ignudo, perché entra sempre in battaglia col
braccio destro scoperto.
Quel cavaliere che vedi là coll'arme gialle che porta nello scudo un leone coronato schiavo a piè di
una donzella, è il valoroso Laurcalco signore del ponte d'argento; l'altro che ha l'arme coi fiori
d'oro, e che porta nello scudo tre corone d'argento in campo azzurro, è il temuto Micocolembo
gran duca di Chirozia; l'altro che ha le membra gigantesche, che sta alla mano dritta, è l'ardito
Brandabarbarano di Boliche, signore delle tre Arabie che viene armato di una pelle di serpente, e
tiene per iscudo una porta, che, a quanto si dice, è una di quelle del tempio fatto precipitare da
Sansone allorché morendo si vendicò dei nemici. Ma volgi l'occhio a quest'altra parte, e vedrai
dinnanzi e alla fronte di quest'altro esercito il sempre vincitore e non mai vinto Timonello di
Carcassona, principe della nuova Biscaia, che viene coll'armatura divisa in quarti azzurri, verdi,
bianchi e gialli, e porta sullo scudo un gatto d'oro in campo leonato col motto che dice Miau, ch'è il
principio del nome della sua signora: la quale per quanto si dice, è la senza pari Miaulina, figlia del
duca d'Alfegnincheno dell'Algarvia; l'altro che carica e opprime la schiena di quella grande alfana,
coll'arme bianche come la neve e collo scudo bianco senza insegna veruna, è un cavaliere novello
francese, chiamato Pietro Papin, signore delle baronie di Utricche; l'altro che batte i fianchi colle
armate calcagna a quel veloce e chiazzato daino, e porta l'arme delle pelli azzurre, è il poderoso
duca di Nerbia Espantafilando del Bosco, che ha per impresa nello scudo uno sparviere con un
motto in castigliano, che dice così: Rastrea mi suerte, e che significa: Investiga la mia sorte.»
(Pausa).
Questo squadrone di fronte è composto di nazioni fra loro diverse; si raccolgono in essi di quelli
che beono le dolci acque del famoso Xanto; i montanari che calcano i massilici campi; quelli che
cribrano il finissimo oro dell'Arabia Felice; quelli che godono delle celebri e fresche acque del
chiaro Termodonte; quelli che per molte e diverse strade deviano le acque dell'aurifero Pattolo;
quelli di Numidia mal fidi nelle loro promesse; i Persiani rinomati nell'uso degli archi e delle frecce;
i Parti, i Medi che combattono fuggendo; gli Arabi erranti; gli Sciti crudeli non meno che i bianchi;
gli Etiopi dalle labbra forate, e infinite altre nazioni, le cui facce conosco e vedo, e tuttoché non mi
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sovvenga bene come si chiamino. Vengono in quest'altro squadrone quelli che bevono le cristalline
onde del Beti ombreggiato da ulivi; quelli che si rendono tersi e lindi i volti col liquore del sempre
ricco e dorato Tago; quelli che godono delle salutari acque del divino Genil; quelli che vantano ne'
tartesii campi abbondanti pascoli; quelli che vivon felici nei campi elisi di Xeres; i ricchi e di bionde
spighe coronati Manceghi; quelli vestiti di ferro, antiche reliquie del sangue goto; quelli che si
bagnano nel Pisuerga famoso pel suo corso tranquillo; quelli che pascono il loro armento nelle
pianure del tortuoso Guadiana, celebrato per lo nascosto suo corso; quelli che tremano pel freddo
del selvoso Pireneo e per le bianche vette dell'alto Apennino; e finalmente quanti in seno chiude
l'Europa intera.»
Quijote: - Che dici tu? non odi il nitrir dei cavalli, lo squillare delle trombe, il batter dei tamburi?
DQ: - La tema, t'ingombra per modo, che tu né odi, né vedi a dovere; e in verità che uno degli
effetti della paura è quello di sconvolgere i sentimenti, e di presentare le cose diverse affatto da
quello che or sono. Ora se sei così dappoco, ritirati, e lasciami solo, che io solo basto a rendere
vittoriosa la parte da me protetta e assistita.»
DQ: - Olà, cavalieri tutti che militate sotto agli stendardi del prode Pentapolino dal braccio ignudo,
seguitemi quanti siete, e vedrete com'io presto saprò vendicarlo del suo nemico Alifanfarone di
Taprobana. Ove sei, superbo Alifanfarone, vieni a misurarti meco, che sono un solo cavaliere e
bramo da solo provar le tue forze e toglierti la vita in pena delle offese che mediti contro al
valoroso Pentapolino Garamanta.
DQ: - Questa, è tutta mal'opera di quel ladrone incantatore mio nemico. Sappi, o Sancio, che ho
gran bisogno della tua assistenza e de' tuoi servigi. Accostati e vedi quanti mascellari mi mancano,
che temo purtroppo di averli perduti tutti.»
Sancio: - In somma, che è ciò che ha determinato di fare la signoria vostra in questo deserto?
Quijote: - Non tel dissi? voglio imitare Amadigi, facendo quivi il disperato, il pazzo, il furioso; e così
batterò anche le tracce del famoso Roldano allorché trovò scolpito presso una fonte che Angelica,
la bella, si era avvilita a farsi moglie di Medoro: che diventò pazzo di afflizione, svelse gli alberi,
intorbidò le acque delle chiare fonti, ammazzò pastori, manomise mandre di armenti, incendiò
capanne, rovinò case, strascinò cavalli, e fece mille altre bestialità degne di eterna fama e
scrittura.
DQ: - Non v'è né merito né grazia in un cavaliere errante se impazzisce per qualche giusto motivo:
il sublime si è impazzare senza un perché al mondo, e far conoscere alla mia signora che io mi
conduco a tal passo senza causa e senza motivo; e poi, non ne avrei io un'ampia causa nella mia
lunga lontananza dalla sempre mia signora Dulcinea del Toboso? Tu hai il più corto intendimento
di ogni altro scudiere del mondo.
(Pausa).
È questo il luogo, o cieli, ch'io deputo e scelgo per piangere la dissavventura in cui voi medesimi
mi avete posto: è questo il sito ove le mie lagrime accresceranno le acque di questo ruscello, ed i
miei profondi ed incessanti sospiri agiteranno continuamente le frondi di questi montani alberi in
testimonio della pena che soffre l'affannato mio cuore! O Dulcinea del Toboso, giorno della mia
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notte, gloria della mia pena, tramontana dei viaggi, stella della mia ventura, ti prego di considerare
il luogo e lo stato cui mi ha condotto la tua lontananza, e di pietosamente concedermi quanto si
dee alla fede! O arbori solitari che sarete compagni del mio ritiro, date segno col susurrare dei
vostri rami che non vi è discara la mia presenza! O tu, scudiere mio, dolce compagno nei miei
avventurosi e contrari eventi, imprimi bene nella tua mente ciò che qui vedrai operare, affinché tu
possa poi farne racconto esatto e fedele alla sola cagione del mio soffrire!» (Degustandolo) IL
cavaliere della triste figura.
(Pausa).
semmai fallo leggere ad uno di loro dato che tu non sai ne leggere ne scrivere…
La mia sofferenza, non mi prometto di sostenermi più a lungo in questa infelicità; che oltre
all'essere aspra fuor di misura, minaccia di essere di una intollerabile lunghezza. Sancio, mio fedele
scudiere ti darà piena relazione, o bella ingrata, o adorata nemica mia, dello stato in cui per tua
colpa mi trovo. Se ti piacerà di porgermi aita sarò tuo; se no, fa pure quanto ti è a grado, che col
terminare di mia vita io avrò soddisfatto alla tua crudeltà e al mio desiderio.
Tuo fino alla morte.
Il cavaliere dalla Trista Figura»
«Alberi, erbe e piante; che siete in questi luoghi sì elevati verdeggianti e splendidi, se non vi diletta
il mio male, ascoltate le mie sante querele. Il mio dolore non mi nuoca per quanto sia terribile;
poiché in premio del soggiorno qui pianse don Chisciotte la lontananza da Dulcinea del Toboso.
E questo è il luogo dove il più leale amante della sua donna si nasconde, venuto a tanta sventura
senza saper come o perché. Un amore avverso lo travaglia e si piglia giuoco di lui; e però don
Chisciotte sparse qui tante lagrime da empirne una botte piangendo la lontananza da Dulcinea del
Toboso.
Mentre egli andava cercando avventure per aspre roccie maledicendo un cuore più aspro di quelle,
senza trovare fra i rischi e balze altro mai che infortunii, lo sferzò Amore tanto aspramente che
don Chisciotte qui pianse la lontananza da Dulcinea del Toboso!»
Quijote: - «Fermati ladrone, malandrino, poltronaccio, che ti ho già preso, e a nulla ti varrà la tua
scimitarra. (Pausa). Un taglio netto alla tua testa come se fosse propriamente una rapa. (Pausa)
Questa è una casa incantata; perché l'altra volta avete dato al mio scudiere molte morsicature e
molte percosse senza sapere da chi venissero, e senza che egli potesse vedere alcuno. Dov’e la
testa che ho tagliato me medesimo, mentre il busto buttava un fiume di sangue? Sancio, sei
sfortunato a segno se non trovi quella testa n'andrà in fumo la tua contea dileguandosi come sale
nell'acqua:»
LA SANTA HERMANDAD
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Ci accusano Sancio! Dicendoci… Prendendo i costumi del prete e del barbiere.
Infilandoseli a due del pubblico.
«Date mano alla Santa Hermandada; e perché si conosca la ragionevolezza del fatto, si legga
quest'ordine, e si vegga che contiene la commissione di legare questo assassino da strada.»
Ascoltate, Ci chiamano gentaglia vile e malnata: chiamati noi dunque assaltare alla strada il
donare la libertà a uomini incatenati, il lasciar andare i prigioni, il soccorrere i miserabili, il rizzare i
caduti, il dare aiuto ai bisognosi?
Ci imputano di essere gente infame e degna per lo basso e vile vostro intendimento che il Cielo
non vi renda mai capaci di conoscere il valore che in sé racchiude l'errante cavalleria, né vi faccia
mai aprir gli occhi sull'errore e sulla ignoranza in cui siete mancando del rispetto che pur dovreste
alla presenza, anzi pure all'ombra di qualsivoglia cavaliere errante!
EN LA JAULA.
Quijote: - O qualunque ti sia, che sì gran bene, hai pronosticato, procurami, te ne prego, dal
savio incantatore che regge i miei destini la grazia che non mi lasci perire in questa prigione dove
ora mi rinserrano sino a tanto che io non vegga compite sì liete e tanto incomparabili ed alte
promesse, quante sono quelle che mi vengono fatte. Se a tal favore ei discende io mi ascriverò a
gloria la pena di questo carcere, e a dolce alleggiamento le catene che mi tengono avvinto; né già
terrò per duro campo di battaglia il letto sul quale ora mi trovo steso, ma piuttosto per soffice
origliere e per talamo avventuroso.
(Pausa).
Perdonatemi, belle dame, se per qualche mia trascuraggine vi avessi apportato dispiacere; che di
animo deliberato non so di averne mai fatto alcuno; e pregate Dio che uscire mi faccia da questa
prigione, dove mi ha posto un qualche incantatore perverso.
Non dirmi Sancio che questi due che vengono col viso coperto, sono il curato ed il barbiere del
nostro paese, e ti figuri che abbiano divisato di condurmi a questo modo per la invidia che provano
della gran nominanza a cui pervengo colle mie prodezze. Non sono incantato, ma ingannato e
imbalordito? Che questo è tutto un inganno?
((((((Ho da continuare con la mia avventura!!!!))))) da ora in poi, l’attore dovrà cercare di fare
conti con la “sua follia”, o con questa realtà che si ribella una farsa. Ci provo a vivere dentro di una
finzione.
II Parte.
don Chisciotte: - Cavaliere errante sono, e cavaliere errante morrò, se ne venga il Turco o se ne vada, e con
quante forze gli pare; e torno a dire che Dio m'intende.»
Sancio! Molto mi pesa che tu mi vai incolpando di averti tolto di casa tua per le mie peregrinazioni: noi siamo
usciti insieme; scambievole fu la nostra colleganza e la nostra varia fortuna; una medesima mutabilità di
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vicende abbiamo corso egualmente; e se tu fosti una volta sbalzato in aria colla coperta, io cento volte fui
bastonato; ed in ciò solo ho io avuta una parte maggiore della tua. Sancio mio, giusta il detto:
Quando caput dolet... Ho voluto dire, che quando duole la testa, dolgono anche tutti gli altri membri; e
perciò essendo io il tuo padrone e signore, sono la tua testa, e te parte di me per essere mio servidore;
Dimmi, amico Sancio: che si dice di me in questa terra?
(Pausa) Pazzo ma grazioso? Valoroso ma sfortunato? Cortese ma impertinente? Ti dissero che già la mia
storia si leggeva col titolo: L'ingegnoso idalgo don Chisciotte della Mancia.
Quijote: - Scommetterei, o Sancio, che l'autore della nostra istoria debb'essere stato qualche savio
incantatore;
DQ:- Se in qualche storia di cavalieri erranti avessi trovato pur un esempio che m'indicasse o mostrasse,
almeno per congettura, il guadagno che gli scudieri faceano o in un mese o in un anno: ma ho lette tutte o
quasi tutte cotali istorie, e non mi sovviene di avere trovato che alcun cavaliere errante abbia mai assegnato
salario determinato allo scudiere: Se con tali speranze e fondamenti ti piace tornare al mio servigio, sia alla
buon'ora, ma pensare ch'io debba scomporre in qualsiasi modo l'ordine e le costumanze antiche della
cavalleria, è un pensar l'impossibile. A me non mancheranno scudieri più obbedienti, più solleciti e non tanto
importuni e ciarlatori come tu sei.
Prende tre cappelli e gli fa indossare a tre del pubblico. Le porta davanti alla scena e
inginocchiandosi con voglia di crederci. Come se sancio le avesse proposto dell’incantesimo:
“che si prendi tre a caso comparirà davanti a te Dulcinea”.
Dopo una pausa lunga. Cercando che l’incantesimo si avverasi.
DQ: - Io non iscorgo, se non tre povere contadine a cavallo di tre asini. Che tanto è vero che asine o asini
sono quelle, come è vero ch'io sono don Chisciotte e tu Sancio Pancia: o per lo meno a me sembrano tali.
(Pausa). Inginochiato.
DQ: - Levati, Sancio, ché ben mi avviso che implacabile è meco la sorte, ed ha chiusa ogni strada al
conforto per questa afflitta anima che ho nelle carni; e tu, o apice del merito il più singolare, confine
dell'umana gentilezza, unico rimedio di questo angustiato cuore che ti adora, credi pure che un malefico
incantatore mi perseguita, ed ha velati con nubi e cateratte gli occhi miei, trasformando per queste sole luci
infelici la tua senza pari bellezza e sembianza in quella di una rozza contadina, e fors'anche ha cambiato il
mio viso in quello di qualche fantasima per renderlo detestabile agli occhi tuoi: ma, deh, non mi negare un
tenero amoroso sguardo, compiacendoti di vedere nella sommessione e nell'inginocchiamento che da me si
fa dinanzi alla tua contraffatta bellezza, Dulcinea…. l'umiltà con cui quest'anima mia ti adora.
DQ: - Sancio mio, e che ti sembra dell'odio che mi portano gl'incantatori? Guarda sin dove arriva la malizia e
l'astio che mi hanno giurato, privandomi della soddisfazione che avrebbe potuto darmi il vedere la mia
signora nel suo vero essere.
LA CARRETA DE LA MUERTE.
DQ: — Carrettiere, cocchiere, o demonio qual tu ti sia, rispondimi; chi sei? dove vai? che gente è quella che
guidi in questa che pare piuttosto la barca di Caronte che una carretta?»
DQ:— In fede di errante cavaliere, che alla comparsa di questo carro mi figurai subito che offerta mi si
sarebbe qualche grande occasione, ma dico adesso che conviene toccare con mano le apparenze per
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illuminarsi bene nelle venture. Andate in pace, buone genti, fate la vostra festa, e se valgo a servirvi lo farò
di buon cuore e di buona voglia, perché fino da ragazzo io fui affezionato alle maschere, e nella mia gioventù
solevo intervenire alle commedie con gran piacere.» Un momento Buffoni! (Pausa).
Sancio, corri e cerca fra queste persone ai proprietari di questi fastosi vestiti da Duca. Sicuramente saranno
signori tutori e garanti dell’isola che ti ho promesso.
Vede la sagoma di Don Quijote di spalle. Con sotto la scritta “Il Cavaliere degli specchi”. Chi ha
combattuto con don Chisciotte, e l'ha vinto e sconfitto.
DQ: — Oh questo poi no, io sono cavaliere della Mancia. Eccovi presente lo stesso don Chisciotte in persona
che lo sosterrà coll'arme alla mano, a piedi o a cavallo o in qualunque altro modo che più vi piacesse.»
(Pausa).
Sia intanto condizione della battaglia, che il vinto debba rimanere soggetto alla volontà del vincitore, sicché
possa questi disporre di lui a sua voglia, sempre però entro i confini che si convengono ai cavalieri d'onore.
Al momento del duello Dq gira la sagoma ed scopre il suo viso nella sagoma.
DQ: - Corri qua, Sancio, e guarda quello che si può guardare e non credere! fa presto, figliuol Sancio, e
considera di quanto è capace la magia, e quanto possano gli stregoni e gli incantatori.»
LOS DUQUES. Cappelli verdi e mantello-. Pancia verde scritta barataria. E sancio aveva
trasformato due spettatori in duca.
DQ: - Corri, figliuolo, e di' alla signora del palafreno e del falcone, che io, il cavaliere dai Leoni, mi dichiaro
servitore alla sua esimia bellezza, e che se dalla grandezza sua si permette, io andrò a baciarle le mani; e a
rendermi suo schiavo in quanto le forze mie si estenderanno, e quanto sarà per comandarmi l'altezza sua.
(Pausa).
DQ: - O malavventurato scudiere! animalaccio, cuore di sughero, viscere di macigno, di acciaio! Se ti fosse
comandato, o ladrone, o prepotente, di gittarti dall'alto al basso di una torre; se si esigesse da te, nemico
dell'uman genere! che avessi ad ingoiarti una dozzina di rospi, due ramarri e tre serpenti; se ti avessero
persuaso di ammazzare tua moglie e i tuoi figli con truculenta ed acuta scimitarra, non sarìa maraviglia che ti
mostrassi schifo e restìo; Volgi, o miserabile e indurito animale, volgi, ripeto, quei tuoi occhi di muletto
ombroso, nelle pupille di questi miei, che sono tante roteanti stelle, e li vedrai a filo a filo, a matassa a
matassa, sgorgare lagrime, facendo solchi, carriere e sentieri pei campi delle mie gote. Ah batti, batti quelle
tue carnacce, bestione indomito: spoltra quella tua anima, che pare nata per mangiare e per divorare
Dq: - Passando a trattare di ciò che si appartiene al governo della tua persona e della tua casa, quello che ti
raccomando, o Sancio, prima di tutto si è che tu ti serbi mondo e pulito, e ti tagli le ugne, non lasciandole
crescere, come fanno alcuni così ignoranti da credere che le ugne lunghe abbelliscano le mani; quasi che
quell'escremento e quell'aggionta che lasciano di tagliare fosse ugna, quando invece è branca di chieppa o
artiglio di lucertola.
Esamina accuratamente quanto può rendere il tuo offizio: vale a dire che se hai da vestire sei paggi, vestine
tre soli, e tre poveri: così allestirai paggi per la terra e pel cielo: dai vanagloriosi non è mai bene inteso
questo vero modo di dare livree.
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Non mangiar agli o cipolle affinché non si scopra dall'odore la tua contadinanza, cammina adagio e parla
riposatamente, non però in modo che sembri che tu accarezzi le tue parole: ogni affettazione è pessima.
Sia il tuo desinare parco, e più parca ancora la tua cena: la sanità di tutto il corpo si compone nell'officina
dello stomaco. Sii temperato anche nel bere, considerando che l'uso eccedente del vino fa violare i segreti e
mancare di fede.
DQ: - Quando tu monti a cavallo…. Scopre la carta infilata nella fascia di Governatore di barattaria.
Sancio Pancia
a don Chisciotte della Mancia.
«L'occupazione dei miei negozi è tanto grande, che non mi resta tempo da grattarmi la testa, né da tagliarmi
le ugne, sicché le porto tanto lunghe come Dio sa. Io dico questo, o signor del mio cuore, perché vossignoria
non faccia le meraviglie se prima di adesso non le ho fatto sapere alcuna cosa intorno al mio bene o male
stare in questo governo, nel quale patisco più fame di quando noi andavamo insieme per le selve e per i
deserti.
Vorrei mandarle qualche cosa, ma non so che, quando non le mandassi qualche cannoncino da schizzatoi,
che se ne fanno in questa isola di curiosissimi. Ad ogni modo se la mia carica durerà, cercherò qualche cosa
da mandarle o per fas o per nefas.
Vossignoria paghi il porto delle lettere che capitassero di mia moglie Teresa Pancia, e me le mandi, perché
ho gran voglia di sapere come se la passano in casa mia e la moglie e i figliuoli. E con questo Dio liberi
vossignoria dai perfidi incantatori, e faccia che mi cavi sano ed in pace da questo governo, della qual cosa
però dubito.
«Servitore di vossignoria
«Sancio Pancia il Governatore.»
La libertà, o Sancio, è uno dei doni più preziosi dal cielo concesso agli uomini: i tesori tutti che si
trovano in terra o che stanno ricoperti dal mare non le si possono agguagliare: e per la libertà, come per
l'onore, si può avventurare la vita, quando per lo contrario la schiavitù è il peggior male che possa arrivare
agli uomini. Io dico questo, o Sancio, perché tu hai ben veduto co' tuoi occhi le delizie e l'abbondanza da noi
godute nel castello or or lasciato; eppure ti assicuro che in mezzo a que' sontuosi banchetti e a quelle
bevande gelate, sembravami di essere nello strettoio della fame. Io non gustava di alcuna cosa con quella
soddisfazione con cui gustata l'avrei se fosse stata mia propia, mentre l'obbligo del dovere e della
retribuzione ai benefici ed alle grazie ricevute sono altrettanti legami che non lasciano campeggiare l'animo
libero. Beato colui cui ha dato il cielo un tozzo di pane senz'altro obbligo fuor quello di essergli grato.
DQ: - Di grazia, Sancio, sta cheto, ché già la mia reclusione e ritiro non ha a durare più di un anno; e
compìto questo, tornerò ai miei onorati esercizi, né potrà mancarmi il conquisto di un regno, e quindi di
qualche contea da regalarti.
DQ: - Pon fine a coteste stoltezze ed entriamo in buon'ora nella nostra terra, dove daremo pascolo alle
nostre immaginazioni e ordine alla vita pastorale che abbiamo pensato di esercitare.
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DQ: - Io tengo già il giudizio libero e sano, scevro dalle ombre caliginose dell'ignoranza in cui mi aveva posto
una continua e detestabile lettura dei libri di cavalleria; conosco adesso i passati spropositi e imbrogli, e mi
duole soltanto di essermene avveduto troppo tardi senz'avere più mezzo di risarcire il tempo perduto colla
lettura di altri libri che siano luce dell'anima. Chiamami, ti prego, o figliuola, i miei buoni amici, il curato, il
baccelliere Sansone Carrasco e mastro Niccolò barbiere, che ora voglio confessarmi e fare il mio testamento
Congratulatevi meco, miei buoni amici, che io ho cessato di essere don Chisciotte della Mancia, e sono
quell'Alonso Chisciano che per i miei esemplari costumi ero chiamato il buono. Dinanzi a voi mi dichiaro
nemico di Amadigi di Gaula e di tutto l'infinito stuolo della sua stirpe; adesso mi vengono in odio tutte le
storie profane della cavalleria errante; adesso conosco la mia balordaggine ed il pericolo che ho corso nelle
mie letture; adesso per misericordia del Signore Iddio imparo a mio costo a dispregiarle e ad averle in
abbominazione.»
DQ: - Perdonami amico, le occasioni che ti ho date di parer pazzo con me, facendoti cadere nell'errore in cui
io era che vi fossero o vi siano al mondo cavalieri erranti.
DQ: - Fui don Chisciotte della Mancia, ed ora, ripeto, non sono altro che Alfonso Chisciano il buono.
Fine
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