PITIPACCHIO Maiku Sae diviene strega kuarzica
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Anteprima del libro
PITIPACCHIO Maiku Sae diviene strega kuarzica - Alessandro Gruppi
PITIPACCHIO
Come Maiku Sae diviene strega kuarzica
by: Alessandro Gruppi
Dedicato alla mia amica,
che disse l’importante non è quindi…
ma è quando…
UNA PRODUZIONE FANTASMAGORICA DI POLLUZIONE ARTISTICA SDECORATA D’EMOZIONE IN CODICE CRIPTATO PER CAPIRLO MEGLIO.
ESSERE, tornare a casa.
Aria brumosa, blu e rossa, ti si piglia secca nelle ossa, le nuvole a guardarle ti danno la scossa, la tua anima viene rimossa dalle pupille sovraeccitate.
Vivo, poi vado a casa, scopro il portone rotondo, e come ogni giorno giro la chiave, salgo le scale e mi ritrovo in una stanza, dietro la porta ormai chiusa, a guardarmi allo specchio.
La cassettiera mia è quadrata, apro un cassetto, dlip, mi stacco la bocca, la ripongo in un contenitore con dentro un po’ di zucchero e caffè, poi chiudo il cassetto.
(Non è una dentiera, è proprio la mia bocca, sono giovane, ho (quasi) tutti i denti al loro posto, anche (quasi) tutti quelli del giudizio. Io mi stacco la bocca, le labbra, per non parlare più. La cosa non mi crea dolore, ma il piacere del silenzio assoluto, da parte mia.)
Non avevo più voglia di parlare ed allora mi sono staccata la bocca, le labbra, con molta calma, rosse, sottili, morbide. Dlip.
Voglio stare in silenzio per un poco, voglio trastullarmi nel gioco di questa stanza senza proferire parola, senza rispondere al telefono, lo lascerò squillare… are are.
Chiedo scusa, se per caso dovesse venirmi a trovare qualcuno, allora, la rimetto e proferisco, altrimenti, sto in silenzio.
Ah, che sensazione pacifica non poter parlare, non essere muti davvero e per fortuna non esserlo, ma staccata, per qualche tempo, mi farà bene.
Eccezionale, come per una previsione artistica squilla il telefono, non rispondo, non potrei, lo lascio squillare, are, are, e quando smette, finalmente, godo del silenzio che mi avvolge in un atmosfera cupa di grigio solitario ma rilassante.
In fondo oggi ho lavorato tutto il giorno, in città qui a Dynburg, in banca, è anche giusto prendersi una pausa, così, per riflettere su tutto quello che oggi ho detto, mille parole, milioni di parole inutili senza gergo. Intanto preparo un caffè, un bollente spirito denso e cremoso.
Guardo il tardo pomeriggio dalla finestra. Lungo le vie dell’orizzonte si vedono i tonni rasentare gli scogli in attesa dell’alta marea, che li porterà al di là delle sensazioni presenti, in un futuro senza più scatolette di latta.
Tiro in ballo la voglia di stare ad occhi nocciola piantati sul soffitto, sdraiata sul letto, con le mani in mano, senza tempo da non perdere, e una tazza di caffè sul comodino, e anche accendino e sigarette a portata di mano. Posso fumare anche se non ho la bocca. Sì sembra strano a dirlo, ma posso fare tutto quello che si fa con la bocca, dopo il dlip, dopo che l'ho staccata e messa via, tutto tranne parlare, e proprio quello voglio non fare.
Mi ci metto di impegno ad aspettare la cena tra un niente ed un forse sibilato verso la cucina.
Chi si muove!
Giro in tondo senza meta, a cercare una mia chiesa tutto fare dal tono singolare e monosillabo, stampiglio brevi discussioni su di me, dentro me, in accordo con me stessa.
Sono una donna scapigliata dal fare semplice, me ne vanto, spengo la luce, suona di nuovo il telefono, efono, efono, lascio andare, si placa. Sorso di caffè. Zuccherato alla perfezione.
Driin che palle, figurati se rispondo, senza bocca, potrei mugugnare qualche sillaba male scandita, al di la della cornetta mi prenderebbero per matta, rimpiangerei il mio sdraiarmi comodo, chi me lo fa fare.
Così mi rotolo fra i cuscini, senza cadere dal letto, penso al mio berretto, capostipite di fragilità immense, sui capelli sciolti e densi, mi sta bene, è un ricordo di mia madre, lo portava quando era allegra.
Andavamo nel parco ed io pigliavo a calci il pallone di qualche simpaticone, mi giostravo sull’altalena.
Adesso, dopo la scomparsa di mia madre, il cappello, fuori moda ma sempre efficace e bello, è passato a me, come i bulloni passano da un operaio all’altro sul nastro trasportatore della fabbrica.
Chioma argento, mio padre il bello, suona l’armonica ancora, nella sua tomba di marmo o cosa sia, ancora suona, vicino a mia madre che ascolta in silenzio perenne.
Ogni tanto una foglia si posa su di loro, a benedirli di pazienza infinita, fida di speranza per il mio futuro, io la vedo e non la sposto, fossi matta, con quello che può significare una foglia al giorno d’oggi.
Ho una carta da giocare quasi in trance poggiata sul mio corpo adagiato sul materasso, che chiasso c’era oggi, pieno di gente così che pretendeva, pretendeva, chissà cosa voleva da me, che, povera, mi guardavo le spalle da dietro la cassa e pregavo che nulla passasse in convento.
Schiamazzi, come ho già detto, inutili parole, futili, furtive discussioni a cielo aperto su questioni stupide, di poca importanza, traspare l’ignoranza attraverso questo caos di immagini putride che compongono la mia giornata lavorativa.
Schiva, me ne andavo su e giù per il corridoio della banca mangiando, anzi, bevendo un caffè durante la pausa, e stupidi i miei colleghi mi domandavano se fossi allegra o serena o se le mie bretelle fossero in tiro.
Io rispondevo, se non altro, che nessuna illogicità avrebbe mai potuto colpirmi così a fondo, come quella di costoro che, invece di farmi benessere adorno, mi stordivano di paranoie tutt’attorno, dovunque andassi cadevano rocce di cretineria ambulante.
Pochi ma limpidi bagliori me li ha dati il mio caffè, che sembra poco ma è un gentiluomo dalla penombra irsuta, piena di conforto per il palato insano.
Così, tiè!, adesso me ne sto senza bocca, colle labbra nel cassetto nell’apposito contenitore e aspetto, fra due ore mangerò, chiacchiererò all’interno di me stessa e non proferirò parola alcuna.
Zitta, devo stare zitta, ora posso, eh, eh, che genio che sono ad inventarmi simili prelibatezze canoniche, tipo riporre via una parte della mia faccia, per quanto prima fosse utile, anche se futile, adesso sarebbe inutile, anche se duttile.
E allora cosa me ne faccio di un pasticcio tale, così vicino alle gengive da farmi sentire il rosso torvo, umido, delle parole che fuoriescono attraverso i denti, battute dalla lingua pendula.
Quale mai, parola, potrà darmi un avvenire, un futuro piccolo e minuto nel presente quotidiano, cosa mai mi aspetto da un discorso a maglie larghe.
Dilagare, poi, fra un tiro e l’altro di una sigaretta è il mio forte, ma nessuno mi ascolta, parlo del tutto, cosmogonizzo il dolce fare sereno, ma nessuno mai mi ascolta.
Sembra che le mie parole di Sole finiscano sempre nell’ombra di un albero gigantesco, nessuno ne raccoglie i frutti per paura che siano amari.
Invece sono fra i più succosi e maturi che madre natura abbia mai creato sulla faccia della terra, profumata.
Punto, sì ecco un punto, se mai i miei sproloqui interiori o esteriori si facessero frasi scritte per un libro, ebbene qui ci starebbe un punto.
Bello grosso, punto, ah rotondo, rubicondo, dal rotolio giocondo, che salta tutto in tondo, se ne va in giro per il mondo, ondo, ondo, ondo.
CITTA’
Dynburg è la mia città preferita, qui ho tutti i miei amici, i miei capricci, ma questa sera proprio non ho testa di uscire nemmanco se mi pagano, guarda, nemmeno cascasse il mondo metterei piede fuori di casa.
Cosa vuol dire, se avessi risposto al telefono magari era Mary, magari Antonio, ma tanto avrei detto uhm, ho la bocca nel cassetto, sono staccata, non rompetemi le balle, scusate.
Tra l’altro è giunto il tempo di cucinare. Vado in cucina alzandomi con molta calma dal mio letto preferito.
Subito prendo una pentoluccia, la riempio per metà d’acqua e la metto sul fuoco.
Fuoco sacro fai bollire l’acqua per me questa sera d’autunno in cui le gocce addolciscono gli oceani, danzando in una botticella color cioccolato.
Dall’altro lato preparo in un piatto la giusta quantità di riso da cuocere, per una persona sola, sola in mezzo al mare.
Poi l’acqua bolle, il riso cuoce, lo condisco con la soya, lo mangio in tutta fretta.
Finito il piatto mi preparo un caffè bollente e lo bevo con molto zucchero, così mi piace, zuccherato.
Che bello, ho cenato, poco cibo ma buono, questa è la mia ricetta da quando ho messo su una certa pancetta.
Non mangio mai carne. Non sono vegetariana ma non ho mai voglia di andare dal macellaio, poi la carne costa troppo, è molto meglio un risotto.
Mi rimetto subito a letto, la pigrizia mi opprime ed io la assecondo, la cena veloce non mi sta sullo stomaco come invece potrebbe starmi un pranzo natalizio od una cena di capodanno.
Mi fumo una sigaretta da sdraiata, posso, anche se non ho le labbra, la tengo stretta fra i denti ed aspiro lentamente.
Il sapore di caffè si condisce con il fumo ed il tutto mi rilassa, il posacenere si riempie di cenere, naturalmente, è fatto apposta.
Finita la sigaretta chiudo gli occhi, mi giro sulla destra mia, accoccolo la testa sul cuscino e faccio per addormentarmi.
Uh, che palle, suona di nuovo il telefono, proprio questa sera devono cercarmi in così tanti, o sarà la stessa persona che continua ad insistere, ere, ere.
Finito il drin drin, riesco finalmente a trovare la pace interiore per compiere una piroetta verso il regno dei silenti dormienti.
Cantano, due messicani buddisti, conditi d’amaranto, scivolando nell’ombra come un unico gabbiano, pescano lungo la costa.
Uh, però non mi sono ancora spogliata, allora lo faccio, in tutta fretta, ho ancora gli occhi semi chiusi e la voglia di dormire avanza, anche se è presto.
Finito lo spogliarello mi metto nuda sotto le coperte, ah finalmente nel luogo paradisiaco dei miei sogni migliori.
Il sonno mi prende in fretta, la stanchezza accumulata tutt’oggi mi rimbalza nel cervello e lo spegne poco a poco.
Di tutti i miei cuscini, quello su cui riposo adesso, è il mio preferito, dall’aspetto trasognato, manicaretto di cobalto su cui rimbalzano le pietre dell’ipocrisia.
Poi arriva il soffio della notte, le stelle brillano, la Luna ulula a se stessa, le mie gambe giocano sotto le coperte come frasche spazzate dal vento tiepido di fine estate.
Mi spengo, piano piano, gli occhi si fanno pesanti, sono in silenzio ed i sogni si rendono interessanti.
Ho le orecchie a punta e sono verde, cosparsa di lenticchiette verdi come la buccia delle pere verdi.
Immagino così il mio corpo che si abbassa verso l’infinito piacere del sonno primario, di primaria importanza per un essere umano, figuriamoci per una che lavora in banca tutto il giorno.
Il suono di un flauto accompagna il richiamo verso le foreste dell’incanto, la mano di un santo mi porta verso i rami di un' albero di albicocche, felici di accogliermi, tra le foglie vive, verde e arancione, codesto alberone.
Ho oltrepassato il limite e adesso dormo tranquilla nel letto come un piccolo insetto si nutre di erbette di prato, come un ghiacciaio è congelato, come l’acqua scorre da esso in torrenti freddissimi.
Non ci siano limiti al mio dormire…
Poco alla volta il mio spirito si stacca da me e vola in alto verso il soffitto, poi gira verso la cucina e si accumula sui piatti non lavati messi alla rinfusa nel lavandino. Va bene, li laverò domani, ma