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Anteprima del libro
IL CANGURO - Massimo Bettini
Il canguro
ISBN 9788868551520
© 2013 Massimo Bettini
Massimo Bettini
IL CANGURO
Erano i primi giorni che Antonio Spataro viveva con un braccio solo. L’operazione era riuscita perfettamente, e nonostante i timori e le angosce che per natura si accompagnano a esperienze tanto drammatiche, il suo umore non era stato tagliato a metà. Quando l’avevano messo di fronte all’inevitabile, si era proposto, e successivamente imposto, di mantenere intera la sua vita, e questi erano i giorni in cui cominciava a rendersi conto che la cosa gli riusciva assai bene, ancorché gli facesse una certa impressione abbracciare quei due o tre colleghi che si erano premurati di fargli visita. Da quando aveva lasciato l’ospedale, Antonio si allontanava ogni giorno sempre più dal suo braccio, e contrariamente a quanto gli avevano prospettato, quel pensiero era rimasto un pensiero e non era diventato un’ossessione. I medici avevano già previsto per questa prima fase l’intervento dello psicologo, quindi ci sarebbe andato, anche se in realtà sapeva che era inutile. Aveva ripreso a fare quasi tutto quello che faceva prima. A parte il lavoro, s’intende, ma quello non era un problema, anzi, perché si era stancato di guidare, tanto che un giorno addirittura aveva pensato, così scherzando tra sé, che piuttosto che continuare per tutta la vita con quel volante e quella leva del cambio e quel clacson, e quel pulsante per aprire e chiudere le porte, insomma piuttosto si sarebbe tagliato un braccio. Poi quell’incidente tanto stupido quanto provvidenziale aveva fatto il resto. Ed ora improvvisamente gli piaceva anche la pioggia, e chissà quando sarebbe venuta la nebbia, chissà come se la sarebbe goduta. Per non parlare della neve. Per giocare con la neve un braccio gli poteva bastare, meglio che averne due incatenati a un volante. Proprio non gli riusciva di pensarsi a metà. E com’era lontana quella paura che niente sarebbe stato più intero. Doveva essere il letto dell’ospedale che faceva venire certe idee, perché adesso era diverso alla luce del sole che entrava serenamente dalla finestra, al punto da chiedersi che cosa ci facesse con l’altro braccio quando l’aveva, avrebbe potuto arrivare dove la vita l’aveva portato anche con un braccio solo, dunque essersi liberato di un gingillo tanto inutile non poteva che essere di buon auspicio per il futuro. E poi, il valore di un uomo poteva essere misurato dal numero delle braccia? Cosa dire allora di chi si ritrovasse ad avere tre braccia? Forse che poteva sentirsi per questo superiore? E certamente non inferiore ad un altro che ne avesse venti. A volte, a dire il vero, qualche maledizione gli era scappata, ma era stato così, inaspettatamente, e in un modo tanto astratto, così come un vizio, quel vizio che tutti hanno di avere due braccia e di pensare la vita di conseguenza. Ma anche questo sarebbe passato presto, anzi un giorno gli era parso già di intuire che quell’imprecare non fosse riferito alla sua nuova condizione, ma piuttosto al fatto di avere trascorso tutta la vita con un braccio in più senza rendersene conto e di essersene liberato troppo tardi. Quando usciva a passeggiare la gente lo guardava e lui si divertiva a scoprire come lo facesse di nascosto, con uno sguardo faticosamente casuale, nessuno prima si era mai dato tanto da fare per lui, aveva pensato. La sua esistenza all'improvviso sembrava prendere una direzione piacevolmente obbligata, senza più l’impegno di dirigerla da una qualche parte e nemmeno il dubbio che fosse invece dalla parte opposta l’indirizzo migliore. Come se quel braccio così dispari avesse rimesso in pari ogni cosa. La ragazza del quinto piano, per dirne una, l’aveva salutato questa mattina guardandolo con quell’aria disinvolta che hanno gli innamorati. Certo restavano alcuni particolari da sistemare, appropriarsi di nuove abitudini, dimenticarne altre che riguardavano il passato. Ma erano davvero cose di poco conto. Ad esempio, quando la ragazza del quinto piano l’aveva salutato lui non aveva risposto, accorgendosi del malinteso quando ormai era troppo tardi. Era successo che istintivamente aveva alzato il braccio per salutare, ma l’aveva fatto col braccio sbagliato. E il sorriso col quale aveva accompagnato il saluto, essendo stato colto di sorpresa, era troppo timido e insignificante, e senz’altro non era stato notato. Ma non importava, aveva tempo nella sua nuova vita per darle spiegazioni. E anche tutte le spiegazioni che doveva dare e sé stesso circa un’infinità di questioni che nel corso della sua vita precedente erano rimaste in sospeso, anche per quelle aveva tempo. Poiché il tempo aveva preso altre sembianze, non fuggiva più per nascondersi in qualche anfratto della sua stanchezza, adesso si muoveva con lui, si potrebbe dire… sottobraccio, ma sì, un po’ di ironia, che prima gli avevano sempre rimproverato di non avere, se la poteva permettere. Quanto ci aveva guadagnato con quell’incidente, e tutto in cambio di un solo pezzo del suo corpo. Un doppione per giunta. Voglio proprio vedere quando sentirò la mancanza di questo braccio, pensava. E quando sarà, non mi dispererò di certo. Da anni per la verità non gli capitava più di attraversare certi paesi bui e correre per strade battute da lividi pensieri, di risvegliarsi in gelide stanze tra muri cosparsi di sguardi sconosciuti. C’era stato un tempo, sì, un tempo che la disperazione era dietro la porta del bagno, negli armadi e nei cassetti, un tempo in cui ogni cosa sembrava la preghiera di un angelo rivoltoso e inferocito, e il sole era verdognolo, e c’era vento. Gli era successo a volte di fermarsi a rivedere questo sogno. Capitava quando aveva voglia di sentirsi felice. Una sera ci aveva pensato, anzi più verosimilmente era stato rapito da questi ricordi, riavendosi solo quando una donna lo sfiorò con dolcezza sulla spalla. Lui si voltò e si accorse di essere in servizio, e che doveva completare l’ultima corsa. Aveva fermato l’autobus, e chissà da quanto stava lì. Fortunatamente non c’erano altri passeggeri, ma non c’erano nemmeno case, non c’erano luci. Quante volte aveva fatto quel percorso, ma adesso non riusciva a capire dove i suoi pensieri l’avessero portato. Si vergognò un po’ e si scusò, ma la donna con un sorriso gli chiese solo se si sentiva bene, e poi volle restare con lui fino al capolinea. Passarono buona parte della notte a parlare, raccontandosi tutto ciò che riguardava il loro passato, immersi nel buio sterminato del deposito. Le voci nel silenzio incondizionato si facevano via via più sottili, come se i ricordi diventando dolorosamente delicati volessero affiorare sottovoce, e con l’approssimarsi dell’alba, delle loro parole non era rimasto che un leggero sussurro. Come sarebbe bello incontrarla ancora, per parlare del futuro, si disse. Il futuro di un uomo senza braccio. Era questo un dettaglio, un povero braccio, da cui il futuro poteva forse lasciarsi persuadere? Eppure sì, gli sembrava come di essere garantito da quel braccio che non c’era più, o forse era solo la sensazione che la sorte gli dovesse un qualche risarcimento. Mai come adesso si sentiva rassicurato da tutto quello che gli poteva accadere. Le giornate cominciavano ad essere fredde. Gli piaceva pensare che sarebbe andato in giro per la città con la sciarpa e il cappello fino a che ne avesse avuto voglia, a guardare la gente con le loro zavorre natalizie, e magari con l’unico suo braccio aiutare qualche signora a portare i pacchi fino alla macchina.
Intanto però la prima cosa che doveva fare era liberarsi dello psicologo. I medici erano stati gentili con lui, per cui si era limitato a rispondere che se quella era la procedura si sarebbe adeguato volentieri. Tanto più che dal letto di un ospedale non è facile avere obiezioni. Ma adesso si sentiva bene, si svegliava riposato come non gli era successo mai, e i suoi pensieri si muovevano leggeri e trasparenti senza lasciare avanzi di noia o impigliarsi in qualche ruvida inquietudine. Finalmente ogni cosa si era sistemata, e questa era per lui una sensazione così insolita che c’erano dei momenti in cui, sbalordito, sentiva quasi il bisogno di camminare in punta di piedi per non disturbare il destino. Tuttavia all’appuntamento aveva deciso che ci sarebbe andato. Poteva avere paura di uno psicologo? E cosa avrebbe potuto fare, quali dubbi avrebbe potuto risvegliare? Ormai era sicuro, il braccio non lo voleva di certo indietro, e se anche fosse stato possibile non avrebbe saputo proprio cosa farsene. Gli avrebbe spiegato educatamente che non era il caso di perdere tempo. Sì, così.
Quando fu davanti allo psicologo, poco prima di sedersi, uno strano pensiero risuonò nella sua testa improvviso. Se fossi un musicista, pensò. Il dottore lo guardò, come se lui avesse parlato, o come se il passaggio di quella nuvola fosse cosa normale e prevedibile. Antonio restò per un momento ancora in piedi, si guardò intorno, vide di sfuggita un quadro con degli animali, e poi si sedette.
- Lei non ci crederà - disse - ma io mi sento veramente bene. Nonostante tutto. Non so cosa mi stia succedendo realmente, ma qualsiasi cosa sia posso assicurarle che non è niente di sgradevole. Non provo davvero alcun fastidio per questo braccio, anzi. Mi rendo conto che la cosa possa sembrarle assurda e incomprensibile, forse anche incredibile, ma io sto molto meglio di prima, come se questa appendice del mio corpo fosse stato l’alloggio di tutto ciò che di negativo c’era nella mia vita. Non so come lei, ammesso che mi creda, possa spiegarmi questo, ma devo dirle sinceramente che mi interessa poco. Se potessi, lo sa, io mi farei tagliare anche l’altro braccio, se solo fossi sicuro di averne beneficio nella stessa misura. Ma temo che potrebbe non essere così semplice, e non intendo, almeno per il momento, sfidare gli equilibri oscuri di questa nostra indecifrabile esistenza.
Appena finì di pronunciare quest’ultima parola vide spalancarsi qualcosa davanti a sé, e sentì della musica, prima un violino, poi un pianoforte, e l’orgoglio con il quale aveva appoggiato la schiena alla sedia velocemente svanì. Il dottore lo guardava mantenendo la testa abbassata, con disinvolta voluttà. Cosa aveva detto? Si rese conto di non ricordare nulla di quello che aveva detto. Forse era già ora di andarsene. Doveva alzarsi? Adesso il dottore sembrava voler sorridere. E se avesse parlato? Finora non l’aveva fatto, ma se improvvisamente avesse detto, d’accordo, se adesso va tutto bene, allora parliamo del passato?
- Mi scusi, io non ho niente contro di lei - disse allora Antonio per anticipare ogni pericolosa divagazione - Solo mi sembra inutile. In ospedale mi avevano detto che sarei andato incontro a seri problemi, e anch’io lo credevo per la verità, anch’io ho pensato che potesse servirmi venire qui, ma adesso è diverso, io sto bene. Le voglio raccontare una cosa, posso? - Il dottore annuì sistemandosi sulla poltrona. Dunque non era tempo di andarsene, pensò Antonio. Quindi doveva continuare. Ma cos’era questa voglia di raccontare? E raccontare cosa? In cuor suo voleva solo spingere il dottore a congedarlo, fare in modo che dicesse, ne parliamo la prossima volta, e lui avrebbe potuto concludere dicendo che difficilmente ci sarebbe stata una prossima volta, e tutto sarebbe finito. Però adesso il dottore se ne stava languidamente dentro la poltrona, con uno sguardo che sembrava dire, non ho altro da fare oggi e posso restare qui ad ascoltare tutto quello che vorrai dirmi. Certo poteva sempre cambiare idea, alzarsi e dire lui, ne parliamo la prossima volta. Ma un’altra volta non ci voleva proprio venire. Dunque era meglio risolverla subito, raccontare qualcosa, qualsiasi cosa. E nel tumulto dei suoi pensieri accadde che uno di questi si fece largo, raffigurando quella strada piena di gente e di rumori, quel giorno, il giorno più importante della sua vita. Non l’aveva ancora raccontato a nessuno, e a pensarci bene, quel dottore che non aveva mai visto e che sicuramente non avrebbe mai più rivisto, proprio lui, con quella sua aria disillusa, pareva esserci apposta per questo. Si rallegrò pensando di aver trovato una collocazione anche per lui, quindi cominciò a parlare senza altri indugi.
- Ho un ricordo nitido di quel giorno. In fondo non è passato molto tempo. Eppure non riesco a ricordare i colori. C’era un vento tiepido, impalpabile. Io camminavo per la strada e mi dicevo, chi sono questi corpi che mi passano accanto? Sentivo di essere avvolto dalle