La notte di San Lorenzo
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Anteprima del libro
La notte di San Lorenzo - Vincenzo A. Pistorio
te
I
10 agosto - San Lorenzo
Dormiva ancora tutta rannicchiata sul fianco sinistro, mentre la prima luce del mattino già cominciava a penetrare dalle finestre, rimaste aperte durante quell’afosa notte. La osservava: i raggi solari le illuminavano gradatamente la schiena, lievemente abbronzata, alla quale conferivano un colorito dorato quasi inaspettato per una come lei, così chiara di carnagione. I lunghi capelli biondi, sciolti e disordinati dall’appassionata notte d’amore appena trascorsa, le ricoprivano delicatamente le spalle: ma chi era questa donna che in poco più di una settimana d’agosto gli aveva sconvolto la vita? Fissava i suoi fianchi che fino a qualche ora prima le cingeva abbracciandola mentre facevano l’amore. Osservava le cosce scoperte che aveva accarezzato prima che lei si fosse addormentata. Immaginava i seni turgidi che aveva esplorato e che adesso invece si intravvedevano appena, mentre fuoriuscivano leggermente dalla canotta bianca abbastanza aderente che aveva indossato di fretta nelle prime ore del mattino, quando un po’ di frescura aveva finalmente raffreddato i bollori di una serata cominciata presto a Porto Santo Stefano e conclusa nel grazioso appartamento della donna.
Era stata la loro prima volta insieme, ed era stata una cosa improvvisa come mai prima di allora gli era capitato lungo il corso dei suoi quarantacinque anni.
Si rivedeva più giovane, a quando con le ragazze che gli piacevano aveva tanti problemi e non riusciva a comunicare quanto interesse stesse provando per loro: adesso invece aveva dormito con una della più belle donne che avesse mai incontrato e che in una settimana gli aveva rivoltato l’esistenza come un calzino. Forse dormito non era certamente il termine più esatto per indicare come fosse trascorsa per lui la notte. Aveva provato a farlo, ovviamente, ma l’adrenalina di una serata spumeggiante - come da tempo non gli capitava - e soprattutto l’enorme quantitativo di pensieri e interrogativi che gli avevano attanagliato la mente, non gli regalarono che pochi scampoli di riposo. Nemmeno lo scotch, che lei gli aveva offerto a casa dopo aver sfogato la loro intensa passione sul divano, era riuscito a metterlo al tappeto: gli aveva certamente fatto crollare tutti i freni inibitori, quelli che la sua ragione gli faceva sempre tenere ben serrati, concedendogli una notte di sesso sfrenato come da tempo non gli accadeva. Ma quando i fumi alcolici del whisky si erano esauriti, la sua mente era tornata a ragionare e a porsi mille interrogativi. E dopo che lei si era addormentata sul suo petto, mentre delicatamente le accarezzava i capelli, aveva iniziato una lunga notte di ricordi tristi e felici di un passato lontano, di domande esistenziali senza risposte accettabili, di decisioni assolutamente da prendere e altre decisamente da evitare.
Aveva girovagato per una casa che non conosceva alla ricerca di un qualunque valido motivo per rimanere mentre la paura di soffrire lo faceva vestire e spogliare a intermittenza. Tornava in camera da letto e la osservava dormire serena, nuda e di una bellezza disarmante come quel suo sorriso che la sera prima gli aveva fatto rompere tutti gli indugi, baciandola al chiaro di luna davanti a un mare calmo e pacifico.
Cercava di capire qualcosa di lei guardando i suoi libri e i suoi dischi, i suoi quadri e le sue foto. Dalle guide turistiche e dalle stampe cercava di farsi un’idea del tipo di persona che fosse, e non gli sembrava proprio una che preferisse le vacanze super organizzate. Anzi. Era evidente che lei amasse l’imprevisto divertente, un’avventura improvvisata, una deviazione dall’itinerario principale. E sebbene non facesse una seria vacanza da cinque anni, anche per lui un viaggio era innanzi tutto esplorazione e ricerca del contatto con le culture del posto, inserendosi per quanto possibile nella vita quotidiana della gente del luogo.
In cucina tutto era ben riposto e - si notava proprio - era piuttosto evidente che la casa fosse non molto vissuta. Sembrava infatti che la donna tornasse sempre tardi a casa e che la vivesse veramente per poche ore del giorno, un po’ come lui. Sicuramente era una persona che cenava spesso fuori o comunque acquistasse la cena in qualche take away, almeno a giudicare dal numero di bacchette asiatiche: evidentemente amava la cucina orientale. E certamente aveva anche una predilezione per la pizza: c’erano un sacco di bollini di una pizzeria a domicilio poco distante da lì, una specie di raccolta punti per una pizza omaggio. Nonostante però la scarsa abitudine a vivere molto a lungo l’appartamento, questo non dava una sensazione di glacialità, tutt’altro: i colori delle pareti, le tende e il mobilio mettevano una certa allegria. Così come i ricordi dei suoi viaggi, di lavoro o di piacere che fossero, conferivano a tutta la casa una dimensione multietnica, multiculturale e tanto colorata.
Il grande open space del salone, invece, sul quale la cucina si affacciava, era certamente la parte più vissuta: il divano, mezzo ammaccato e pieno di cuscini in disordine, era la prova che spesso lei si ritrovava ad addormentarsi lì, rimanendoci spesso per tutta la notte. Un po’ come quello che lui ormai da tempo faceva a casa sua per il rifiuto di voler dormire in camera da letto. Un grande tavolino di fronte era pieno di documenti e libri, con un MacBook, chiuso a malapena, a mo’ di fermacarte, segno che spesso lavorava da casa fino a tarda sera.
Dormire sul divano e lavoro fino a notte fonda: ci fosse stato un terzo indizio e sicuramente non ci sarebbero stati dubbi che lei fosse la sua anima gemella.
«Chi sei?» - era la domanda che inconsciamente si continuava a formulare, mentre a voce alta se ne rivolgeva un’altra, sempre la stessa da tanti anni a questa parte, da quando gli amici avevano cercato di svegliarlo dal suo torpore: «Che ci faccio qui?».
Voleva andar via, scapparsene per rintanarsi dentro il suo rifugio, proprio perché temeva da un lato di non essere all’altezza di lei, della sua bellezza e della sua giovinezza; dall’altro la grande paura del dolore, di riprovare ancora una volta sulla sua pelle quella lama che ti attraversa l’anima, come Samuele predisse alla Vergine, quando il Bambinello fu presentato al Tempio.
Già, il dolore: aveva cominciato a eviscerarlo sin da bambino. Poi lo aveva trasformato in qualcos’altro e aveva imparato a evitarlo. Certo c’era un grande prezzo da pagare ma non si curava di questo: gli costava il progressivo allontanamento da tutti gli altri intorno, che provavano in qualche modo ad amarlo, a volergli bene, a voler il suo bene, ritrovandosi però respinti, talvolta silenziosamente, altre volte bruscamente. Solo che adesso proprio quel timore che il dolore un giorno, non sapeva nemmeno quando, potesse riaffiorare e infilzarlo come un pollo sulla brace, lo portava sul punto di voler andare via, da quella casa, da qualunque cosa potesse significare quella notte, da lei che in qualche modo poteva aver compreso quali fossero le chiavi per penetrare nella sua mente e nella sua anima e infine albergarvici.
Forse avrebbe dovuto seguire l’invito della sua amica psicologa e farsi aiutare.
«Non c’è nulla di male nel chiedere aiuto» - gli aveva detto - «siamo tutti esseri umani imperfetti per definizione e limitati per grazia di Dio!».
Imperfetti e limitati: forse era lì la chiave del suo problema. Pensava di aver raggiunto uno stato di equilibrio perfetto semplicemente non muovendosi: come un pendolo che sta ben fisso nella sua posizione. Solo che quando poi arriva una piccola, anche minuscola, perturbazione allora ecco che comincia a dondolare. Solo che quella non era di certo minuscola come perturbazione: era stata una specie di tornado, un uragano che lo aveva travolto e sballottato, senza che lui potesse resistervi. Anzi: senza che lui avesse voluto veramente opporre resistenza. Si era lasciato afferrare, trattenere, sbattere e adesso provava un serio mal di testa e non sapeva nemmeno perché lo avesse fatto. Aveva la sensazione di aver corso, accelerato verso il burrone, svelandole tutto, esponendosi a petto in fuori alla tempesta che la donna aveva portato con sé.
E la paura di non aver più una via di fuga cominciava a essere sempre maggiore: si rivestì, cercò un blocco note dove scrivere due righe alla donna, una sorta di ringraziamento - cominciava proprio così la breve nota che stava scrivendo - per la sera e la notte. Solo che poi gli parve ridicolo.
«Di cosa dovrei ringraziarla? Di aver fatto l’amore con me?» e strappò il biglietto.
Si affacciò un’ultima volta alla camera da letto: lei continuava a dormire, mentre una lacrima rigava leggermente il suo volto.
«Chissà perché piange?» - pensò lui, dirigendosi piano verso la porta di ingresso e chiedendosi se stesse facendo la cosa giusta. Sempre la sua amica psicologa gli aveva suggerito di pensare bene a cosa fosse giusto per lui, cercando di ragionare a fondo sulle proprie scelte. Qualche dubbio gli era rimasto ma ormai, dopo una notte insonne, aveva soltanto voglia di andarsene: cosa fosse giusto per lui riteneva di averlo acclarato ed era ora di riportare il pendolo alla sua posizione di riposo, di equilibrio e di evitare possibilmente di esporlo a nuove sollecitazioni. Anzi, forse era il caso di riporlo proprio in una teca!
Si guardò nuovamente attorno, quasi a voler salutare quella casa e quella donna che comunque era riuscita in un’impresa niente affatto semplice e che nessuna donna finora aveva tentato.
Rovistò nelle tasche del giubbino che indossava la sera prima per cercare il telefono e le chiavi della macchina: dovette accendere la luce e rimase colpito da una bella foto che campeggiava sopra l’Hi-Fi della donna. Quando erano arrivati, in piena notte, erano talmente eccitati che non aveva nemmeno dato un’occhiata in giro, altrimenti quell’immagine l’avrebbe certamente colpito. C’era lei in primo piano: la fotografia era stata probabilmente scattata in un paese islamico visto che le donne ritratte sullo sfondo indossavano l’hijab. Guardava dritto la macchina fotografica centrando - anzi bucando - l’obiettivo: aveva uno sguardo pieno e intenso, che trasmetteva un senso di sicurezza e di determinatezza, insieme con una tristezza di fondo. Probabilmente era stata ritratta durante un viaggio particolarmente impegnativo e gli occhi - «Dio, quegli occhi!», pensava - era come se parlassero e gli dicessero di non andare, di non lasciarsi sfuggire l’occasione di ricominciare a vivere.
Rimase imbambolato per qualche minuto, davanti a quello sguardo penetrante che lo rendeva nudo di fronte a se stesso, senza più alibi né scuse: una decisione andava presa. E subito.
II
Antonio Augusto Martinelli (Pisa, 18 ottobre 1970) è un accademico e politico italiano, attualmente professore ordinario di Filosofia del Linguaggio all’Università Roma Tre …
Cominciava così la sua biografia su Wikipedia che alcuni suoi studenti gli avevano dedicato; forse però sarebbe stato meglio dire che il professor Antonio Martinelli era in realtà un predestinato.
Figlio e nipote di letterati e storici, era cresciuto a pane e libri praticamente da quando era nato. Il nonno Augusto, originario delle Langhe e ordinario emerito di Storia alla Statale di Pisa, era unanimemente considerato il più fine conoscitore delle elezioni pontificie. Il padre Guglielmo, invece, aveva preferito le lettere classiche ed era un grecista di fama internazionale, stimato e ricercato da tantissimi studiosi dell’antica Ellade.
Quando Antonio nacque, nell’ottobre del 1970, il nonno, ormai in pensione, poté dedicarsi a quel nipotino che gli regalava tanta soddisfazione, a differenza della sorella maggiore, Eugenia, molto più complicata e difficile da gestire e che infatti da grande preferì viaggiare per il mondo, inseguendo il sogno di ogni viaggiatore: girare il pianeta soltanto con uno zaino in spalla, lavorando in ogni luogo visitato per ottenere quel minimo che serve per campare.
Purtroppo per Eugenia e per tutta la famiglia Martinelli, la giovane scomparve durante un viaggio umanitario nel centro dell’Africa: i suoi resti furono recuperati fra le macerie di un piccolo velivolo bimotore, sul quale la donna era salita insieme al medico che frequentava all’epoca e che si occupava di curare alcune popolazioni indigene nella giungla. L’uomo e la donna avrebbero dovuto portare aiuti ad alcune popolazioni bloccate da una frana: nessuno si era proposto volontario così il dottore, che aveva anche il brevetto di pilota, montò sul bimotore e provò lui. Ma una tempesta li colse improvvisamente di sorpresa: l’uomo perse il controllo dell’aereo, schiantandosi su una collina e con lui morì la donna. La prematura scomparsa di Eugenia portò alla disperazione genitori e nonni: l’innaturalità di sopravvivere ai propri figli e nipoti dovrebbe essere forse proibita per legge, specialmente quando le persone, che il destino richiede debbano sopravvivere, sono assai fragili e non in grado di sopportare il peso del lutto. La madre di Antonio, Carolina, una donna proveniente da una famiglia pisana abbastanza benestante, bibliotecaria della Scuola Normale, cadde in una depressione profonda che la portò a consumarsi e spegnersi lentamente, senza comprendere nemmeno i successi che nella vita il figlio man mano otteneva. Il padre invece si buttò a capofitto nel lavoro e nell’educazione del figlio, sperando che quello che loro chiamavano il virus della sorella - definivano così il desiderio di libertà di Eugenia - non l’avesse contagiato.
Per Antonio avevano infatti in mente il medesimo percorso di tutti i maschi della famiglia: solidi studi letterari, ricerca, università, insegnamento. Possibilmente alla Normale o quanto meno alla Statale, da dove Augusto aveva pontificato i suoi insegnamenti storici e dove aveva avuto i mezzi necessari per seguire la sua ossessione per le storie che i conclavi si portavano dietro e per quello che nascondevano, studiando diari segreti di cardinali recuperati in gioventù come se fosse una specie di Indiana Jones. Per il figlio, Guglielmo preferiva una vita assolutamente e totalmente sacrificata agli studi e alla carriera: anzi, a tutto ciò che sia lui che suo padre ritenevano fosse il percorso giusto per l’ultimo maschio di casa Martinelli, non altro. Si auguravano pertanto che la sorella Eugenia non lo avesse infettato con il morbo del viaggiatore - come lo definì proprio il nonno Augusto - quando anziché le favole della buonanotte gli aveva raccontato talvolta le sue avventure in giro per il mondo che - vere o presunte che fossero - per Antonio erano comunque epiche.
Il bambino soffrì moltissimo la mancanza della sorella alla quale era tanto legato nonostante la notevole differenza di età. Anzi proprio perché gli anni di differenza erano quattordici, Eugenia aveva maturato un forte desiderio di protezione nei confronti del fratello, specialmente quando si trovava ad affrontare le pressioni costanti e asfissianti della famiglia, soprattutto quando si trattava dello studio.
Ma oltre a essere predestinato, Antonio era anche un piccolo genio: visto che Augusto ormai non lavorava più salvo qualche apparizione televisiva durante l’estate dei due conclavi e dei tre papi, nel 1978, si dedicò anima e corpo al nipotino, assecondando la passione per i libri che il bambino manifestò sin dall’infanzia. Imparò a leggere prestissimo - a tre anni - e già meno di due anni dopo era pronto per frequentare la prima elementare: o meglio, per scaldare il banco della classe IA della scuola elementare Edmondo De Amicis, visto che il nonno gli aveva già insegnato tutto il programma di prima elementare nell’estate precedente, per «prepararlo al meglio all’ingresso nella scuola dell’obbligo» - tuonava a chi avrebbe voluto che il bambino giocasse di più. Inoltre dato che avrebbe dovuto aspettare un anno «inutilmente» - almeno questo era il parere del patriarca della famiglia Martinelli - sapendo già leggere e scrivere, Augusto spinse figlio e nuora affinché non commettessero con l’erede maschio il terribile - a suo dire - errore compiuto con Eugenia, che invece cominciò il percorso della scuola dell’obbligo ai sei anni previsti dalla legge. Antonio - già allora - era più interessato ai suoi studi che a comprendere le ragioni di quelle diatribe familiari, mentre Eugenia, fresca maggiorenne, già pianificava dentro di sé il modo di fuggire da quella gabbia di matti che era la sua famiglia. Sta di fatto che Antonio Martinelli entrò per la prima volta nel mondo degli studi a nemmeno cinque anni: li avrebbe compiuti dopo un mese, senza mai più venirne via.
Tanto Eugenia era stata una bambina e una ragazza problematica, piena di dubbi, colma di insicurezze e poi zeppa di perplessità dopo l’esame di maturità, così Antonio era invece un ragazzino che amava studiare e che stava sempre attento a non deludere le tante, probabilmente troppe, aspettative che la sua famiglia gli caricava continuamente addosso.
E quando la sorella morì così tragicamente, la famiglia gli riversò addosso - e con gli interessi - tutto l’amore (come lo intendevano loro, naturalmente), tutte le attenzioni e tutte le ossessioni che non avrebbero più potuto dare a Eugenia, sommergendo il bambino sotto una coltre inestricabile di pressione.
Le elementari scivolarono via in breve tempo, sebbene - specialmente nei mesi degli anni scolastici - erano spesso più i giorni trascorsi in cortile a leggere che quelli fra i banchi con i compagni: il nonno durante l’estate gli faceva infatti anticipare buona parte del programma che si sarebbe dovuto tenere da settembre, perché «a scuola si arriva preparati» - ripeteva - non senza aggiungere a volte «non come quella somara di tua sorella», che per Antonio era come un farla morire di nuovo, un dolore che ancora si acuiva proprio quando il tempo sembrava lo stesse riuscendo a lenire.
Eugenia era stata una scolara e una studentessa assolutamente normale: buoni voti, ben oltre la media in tutte le classi che aveva frequentato, ma agli occhi dei genitori e del nonno avrebbe comunque potuto e dovuto dare di più, visto che studiava il minimo indispensabile - sempre secondo loro ovviamente - a differenza di quanto poi avrebbe fatto il figlio prediletto. In realtà la ragazza otteneva i risultati che interessavano ai professori e ai genitori impiegando il tempo che lei e soltanto lei riteneva fosse sufficiente dedicare allo studio formale mentre per il resto curava altri interessi che per i suoi familiari erano semplicemente incomprensibili.
Specialmente quando poi si iscrisse al liceo. Tre volte a settimana - che poi diventarono cinque nel giro di qualche anno - si allenava con la squadra di atletica leggera della sua scuola mentre le sere prendeva lezione di chitarra da un sedicente insegnante, cosa che peraltro aveva fatto storcere - e parecchio - il naso alla madre, violinista in gioventù che aveva tentato invano di far apprendere alla figlia maggiore i rudimenti del principe delle orchestre.
Dopo la scomparsa di Eugenia e la progressiva depressione di Carolina, Antonio divenne sempre di più succube dei due uomini di famiglia. Se quanto meno il padre un lavoro l’aveva e all’università doveva comunque farsi vedere, il nonno che non aveva null’altro da fare cominciò a stilare un lungo programma educativo parallelo all’istruzione formale che il ragazzino riceveva. Ovviamente Antonio cominciò il latino e il greco sin dalle medie: anzi, a dir la verità, al primo venne iniziato sin dagli ultimi due anni di elementare, visto l’interesse che il nonno aveva intravisto - chissà come - quando il bambino aveva assistito insieme ai genitori e a lui stesso, alla messa di inaugurazione dei pontificati di Papa Luciani e Papa Wojtyla: ad agosto prima e a ottobre poi, Augusto Martinelli era stato invitato fra gli ospiti d’onore dei due eventi, essendo naturalmente il commentatore principe per quelle cerimonie ed era stato fra quelli che - specialmente alle televisioni straniere piazzatesi attorno a Piazza San Pietro - aveva predetto un lungo pontificato del giovanissimo papa venuto dall’est europeo.
Dentro di sé, poi, Augusto era molto felice di quell’elezione.
«Con un Papa così giovane finalmente nessuno si ricorderà più di me e potrò dedicarmi soltanto al mio nipotino» - non mancava di puntualizzare sarcasticamente con chiunque ne parlasse.
E in effetti, a parte la grande paura dell’attentato del 13 maggio 1981, quando Ali Ağca sparò a Giovanni Paolo II pochi minuti prima che il pontefice cominciasse l’udienza generale, i buoni propositi del nonno furono soddisfatti.
Antonio doveva prediligere gli studi classici, praticare sì sport ma senza eccedere come aveva fatto Eugenia, imparare qualche strumento musicale - anche perché facevano parte delle tradizioni di famiglia (la nonna era stata una grande pianista e possedevano un meraviglioso pianoforte a coda) e la musica classica era ovviamente parte fondamentale della Storia - e soprattutto non perdere tempo né con il «morbo» che aveva afflitto la sorella né dietro ad amicizie scomode e pesanti. I vecchi parenti a Roma, che ogni tanto andavano a trovare per svagare dalla vita pisana, potevano bastare ai fabbisogni di relazioni di uno studente così dotato.
Il nonno però non aveva fatto i conti né con gli ormoni del nipote, che ovviamente cominciarono a presentarsi con tutti i loro scompensi, né con quel mondo sconosciuto all’ormai vecchio professore universitario che era rappresentato dalle ragazze, ormai liberate dalle ossessioni degli anni Cinquanta.
Tuttavia a tendere una mano al vecchio patriarca era stato lo stesso Antonio: se con i libri e il pianoforte giocava in casa, un po’ meno lo era sui campi da tennis, che presto costituirono semplicemente una valvola di sfogo e non - fortunatamente per lui - un altro settore nel quale bisognasse eccellere, sebbene Guglielmo avesse di certo preferito che il figlio qualche partita ogni tanto fosse riuscito a portarla a casa, specialmente quando veniva organizzato l’ormai tradizionale torneo presso l’esclusivo circolo che frequentava insieme ad altri docenti blasonati.
Quanto alle ragazze, invece, era proprio un imbranato: tanto bravo sui libri quanto incapace di decifrare messaggi, ammiccamenti e occhiolini che le ragazzine, sin dalle medie, gli lanciavano. Se Filippo Corsetti, il suo compagno di banco, sembrava attirasse il gentil sesso come i ragni le mosche nella propria ragnatela, Antonio Martinelli aveva la straordinaria capacità di far fuggire via persino quelle che erano più ben disposte nei suoi confronti: quelle che magari non avevano proprio una cotta, ma che sicuramente un vivo interesse e una certa curiosità, per approfondire la conoscenza, erano abbastanza chiari agli occhi di tutti!
Così durante l’ultimo anno delle medie e durante il ginnasio, Antonio Martinelli era inequivocabilmente etichettato come il secchione asessuato, quello che non pensava ad altro che a studiare e che non provava attrazione per le sue compagne le quali - ovviamente - alimentavano pure le voci della sua presunta omosessualità repressa e del suo essere segretamente innamorato proprio di Filippo il quale, dopo l’estate del secondo liceo - che lo aveva visto crescere a dismisura e diventare un vero adone - continuava invece a fare strage di cuori.
«Si può sapere perché non ci provi con Eleonora?» - gli chiedeva l’amico.
«Non credo di piacerle» - rispondeva Antonio - «e poi come dovrei fare? La dovrei invitare a studiare a casa? Sai che palle con mio nonno che mi controlla pure quante pagine di greco studio per la maturità o mio padre che storce il naso anche quando guardo dieci minuti di televisione!»
Non doveva certo essere una vita facile per lui e le cose si complicarono ulteriormente quando alla fine di maggio, in piena preparazione per gli esami di stato, Augusto Martinelli venne colpito da un ictus che se lo portò via in meno di quarantotto ore, lasciando Guglielmo orfano di entrambi i genitori, con una moglie ormai ameba che anche lei aspettava la chiamata del Padreterno che però non arrivava mai (è curioso come quelli che più parlino di morte, o che si chiedano spesso se ci sarò di fronte a un evento futuro, siano quelli che il buon Dio ascolta meno di tutti, facendoli vivere più a lungo!) e con un liceale di diciassette anni, iperdotato, futuro allievo di una della più prestigiose e antichissime scuole di Filosofia e Storia del mondo, alle prese con la maturità, gli ormoni e una serie di lutti e duri colpi che nel giro di nemmeno un ventennio di vita lo avevano provato a sufficienza.
Antonio si buttò a capofitto nell’ultimo mese della sua vita liceale, ottenne ovviamente il suo scontato 60/60, unico nella sua classe perché «una differenza la dovevamo fare per forza» - sottolineò il presidente della commissione esaminatrice insieme al membro interno a una docente della scuola.
Prima di ricominciare con gli studi universitari cadde in un vero stato di euforia, incomprensibile per gli altri, figurarsi per se stesso così abituato ad analizzarsi oltre ogni limite. E chi veniva a far visita alla famiglia, dopo la scomparsa di Augusto che a Pisa era una vera e propria istituzione, rimaneva assai sorpreso dalla vitalità del ragazzo.
«Certo, uno strano modo di elaborare il lutto» - pensavano.
Il punto era che Antonio non era giù di morale e che quelle facce tristi e partecipate, che facevano la processione per porgere le loro condoglianze alla famiglia Martinelli, per lui erano assolutamente buffe.
E la ragione era tutto sommato semplice: a lui, era mancato e scarseggiava ancora quel coraggio che invece la sorella aveva avuto e che le aveva consentito di andarsene via e sacrificare persino la vita, pur di vivere secondo ciò che lei ritenesse giusto e non attraverso le scelte e le imposizioni degli altri. E dentro di sé non provava certo né un senso di colpa, come spesso attanaglia chi subisce un lutto particolare, né un dolore atroce: tutt’altro.
Antonio provava una sorta di sollievo per l’assenza del nonno e anzi in cuor suo sperava che quanto meno le redini del padre (e di quel poco che rimaneva della madre) potessero allentarsi un pochino, dopo la scomparsa del vecchio. Se c’era un senso di colpa, il ragazzo lo provava maggiormente per non essere riuscito ad aiutare la sorella a evitarsi il peso di una famiglia che l’avrebbe portata ad accelerare la sua fuga e quindi l’avrebbe condotta verso la disgrazia. Sapeva bene che aveva soltanto otto anni quando Eugenia era morta tragicamente e che quindi non avrebbe potuto realisticamente opporsi alle pressioni familiari: dopo quasi nove anni questo sollievo lo sentiva come una sorta di vendetta nei confronti della sorella.
Il nonno era per lui un vero torturatore, capace di far impazzire chiunque e probabilmente Eugenia non era stata così forte da riuscire a contrastarlo. Questa era stata per lui la spiegazione della fuga della sorella.
Certo, gli altri sarebbero inorriditi di fronte al sollievo e non al dolore ma fondamentalmente non gliene poteva importava di meno.
«Tutti conoscono il professor Augusto Martinelli, il papista, quello che ne sa più di tutti riguardo alla storia dei pontefici, ma pochi conoscono l’uomo, una specie di fascista che si mascherava da progressista per non dar nell’occhio!» - si confidava con Filippo, col quale sarebbe rimasta una certa amicizia anche dopo la fine del Liceo e dopo che il vecchio compagno di banco avrebbe trovato successo nel mondo della moda.
«Per questo molti trovano surreale il mio distacco da questo evento, pensano che sia il mio modo di soffrire. Invece, caro Filippo, non è proprio così: in verità a me non frega assolutamente nulla che il nonno non ci sia più e anzi prima si sbrigano a passare a miglior vita gli altri meglio è. Questa non è una casa, non è una famiglia: è un lager. Il fatto che io abbia avuto qualche dote particolare li ha eccitati a tal punto che io sono diventato una specie di esperimento scientifico. E adesso che ho diciassette anni vorrei fare le mie scelte e i miei studi in maniera autonoma, senza rendere conto a nessuno!».
«Ma tuo padre e tua madre? Anche loro sono come il nonno?» - aveva provato a interloquire l’amico.
«Filippo, mio padre è il nonno con ventisette anni di meno. È un