Racconti in sala d'attesa: Storie brevi per vincere il tempo
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Anteprima del libro
Racconti in sala d'attesa - Maurizio de Giovanni
Caracò Editore
Cosmi
9
AA.VV.
RACCONTI
IN SALA D’ATTESA
Storie brevi per vincere il tempo
a cura di Cristina Zagaria
AA.VV.
RACCONTI IN SALA D’ATTESA
Storie brevi per vincere il tempo
Caracò Editore
Collana Cosmi
ISBN 978 8897567 585
I edizione dicembre 2013
© Tutti i diritti sono riservati
www.caraco.it
INTRODUZIONE
di Cristina Zagaria
In attesa. Sei fermo. Come chiuso in una scatola, senza poterti muovere, al massimo puoi fare qualche passo avanti e indietro. Se va bene, nella sala c’è una finestra, se va male ci sono vecchie riviste sgualcite e leccate da chissà quanti prima di te, se va malissimo solo un muro con un orologio.
In attesa. Di una buona notizia o di una brutta notizia e comunque impaziente.
In attesa del tuo turno: annoiato, preoccupato, indifferente.
In attesa il tempo si dilata.
Il cellulare, il tablet, il telefono esauriscono presto il loro magico potere di ingannare i minuti. E non sai più cosa fare, a quale pensiero aggrapparti. Fissi le persone nella sala e ogni volto riporta a te. Anche gli odori indugiano.
E allora perché non moltiplicare il tempo? Perché non approfittare dell’attesa per spostarti in altri luoghi, per vivere altre vite, per emozionarti, commuoverti, sorridere, stupirti, amare?
Lo diciamo sempre: «Mi piacerebbe leggere, ma non ho mai tempo». Sfruttiamo le attese, le attese alla fermata del bus, dal medico, in posta, in ospedale.
Le sale d’attesa sono non-luoghi: non accade niente, non si può far niente, se non aspettare il proprio turno. Il tempo a disposizione diventa tempo nemico. Le sale d’aspetto degli ospedali tra tutte sono le più solitarie: cariche di tensioni, pensieri e preoccupazioni.
Questa raccolta di racconti nasce proprio in ospedale. L’ultimo posto dove uno si aspetterebbe di trovare dei racconti.
Eih, Ita, che fai?
Vincenzo digita l’sms sul cellulare.
Ciao Vincio, sono al lavoro.
Margherita, sua sorella, risponde veloce.
Io sono in ospedale. In attesa del mio turno di chemio. Mi annoio, anzi no, la verità è che vengo assalito da pensieri terribili.
Vincio, non ci pesare.
Eh, già.
Ti racconto una storia?
Sì, se ci fosse un libro in questa sala leggerei e riuscirei a non pensare. Ma un libro non c’è, dai raccontami una storia.
Vincenzo Federico è morto il 16 gennaio 2012. Tumore al cervello. Ha lottato prima di morire e ha lasciato suo figlio, Giuseppe, che all’epoca aveva due anni, sua moglie, Marina, e la sua famiglia, una famiglia allargata fatta di parenti e molti molti amici. Ma la vita di Vincenzo è sempre stata una vita dedicata a costruire. Costruire legami, amore, imprese.
Ecco, un anno fa il mondo si dischiudeva dinanzi a me, e tutto mi è apparso nitido davanti, e da allora mi sembra di vedere il mondo filtrato da una lente che elimina orpelli e superficialità lasciando solo il cuore delle cose, scoperto, inerme e vulnerabile e al contempo sfuggente all’osservatore casuale. Momenti che non saprei descrivere altro che come essenziali, nell’accezione privativa, sinonimo di semplice.
Scrive Vincenzo sul suo blog.
Ed ecco questa antologia, un libro semplice
, un libro essenziale
, nato da quello scambio di sms. Un libro che vuole eliminare gli orpelli e andare dritto al cuore.
Due fratelli cercano di ingannare l’attesa e si raccontano una storia, come fa la mamma con il suo bambino prima di andare a nanna, come può fare solo una sorella, che vuole disperatamente aiutare suo fratello a non pensare a tutte le cose terribili che invadono la testa quando si è in attesa di un ciclo di chemio.
L’obiettivo è portare gratuitamente questo libro in tutte le sale d’attesa e le corsie degli ospedali italiani, per i pazienti che devono affrontare cure impegnative, ma anche per i parenti e gli amici, che li accompagnano e aspettano con loro, accanto a loro, e per gli infermieri, i medici, i volontari, le associazioni, il personale amministrativo.
Un progetto reso possibile grazie a una squadra di scrittori e a un lavoro lungo un anno. Elisabetta Bucciarelli, Luigi Romolo Carrino, Maurizio de Giovanni, Patrick Fogli, Gabriella Genisi, Andrej Longo, Giuseppe Lupo, Emilia Marasco, Marco Marsullo, Antonio Paolacci, Patrizia Rinaldi hanno scritto un racconto gratuitamente. Hanno lavorato con passione e dedizione, tra i mille impegni quotidiani. Tutti hanno accettato la sfida, come lo ha fatto la casa editrice, che in un’Italia dove l’editoria è sempre più in crisi, ha scelto di pubblicare un’antologia dedicata a chi ha bisogno di aggrappassi a un racconto per vincere il tempo.
Gli scrittori hanno raccontato delle storie per lenire paure, distrarre pensieri, ingannare il tempo. Storie piccole, storie di coraggio, amicizia, manie quotidiane, amore. Storie per non sentirsi soli, e per non avere paura, proprio come quando eravamo bambini. Storie che, raccolte in un’antologia come questa, diventano un esperimento d’amore… per chi scrive e per chi legge.
CR7
di Elisabetta Bucciarelli
1
A te non è mai successo. Di arrivare al limite, in quel punto esatto dove s’intuisce la possibilità di essere già oltre.
Era buio, ho accostato la macchina al bordo dell’autostrada. Ho spento i fari. Ti ho guardata e ti ho detto che dovevo dormire.
Ho fissato per un istante i tuoi occhi, dietro all’espressione interrogativa, dietro agli occhiali che non togli mai.
Non so perché hai deciso di tenere quelle protesi così ingombranti.
Nessuna donna bella come te lo farebbe.
Gli occhi, i tuoi, erano spalancati. La bocca leggermente socchiusa. Ho pensato di baciarti. Hai le labbra morbide come piacciono a me. Ma i baci si danno senza chiedere il permesso e in quel momento mi avresti impedito di farlo e io faccio fatica a sentirmi dire di no.
Ho dormito sette minuti, poi abbiamo ripreso il viaggio. Non ti ho detto niente di quello che mi stava succedendo. Forse perché temo il tuo giudizio, l’ipotesi che tu te ne vada via da me.
Ho quarantasette anni, mi sono separato da tre. Storie, qualcuna. Amici, non saprei. Piuttosto li definirei altri uomini con cui condividere lavoro e passatempi. Gioco sempre di meno, gioco a calcio intendo, ma a questa età nessuno, ormai, gioca quasi più.
Però giocavo bene. Molto e bene.
Io e te ci siamo conosciuti tra i palloni. Ero rimasto ad ascoltare la tua lezione ai calciatori dell’agonistica. Ragazzi di quindici anni che si rimpinzano di hot dog e bevono birra come fosse acqua minerale. Li guardavi uno per uno negli occhi. Cercavi in tutti i modi di catturare la loro attenzione. Cambiavi strategie, trattandoli da esseri umani e non da piccoli sbruffoni, pieni di sé e della loro passione. Tronfi della loro consapevolezza di essere in una squadra professionista, con il crisma di un talento annunciato che si sta facendo realtà e li rende in potenza padroni del mondo. Dicevi loro che erano belli, forti, capaci. Non so fino a che punto consapevole che di questo erano già a conoscenza. Aggiungevi che il loro talento si sarebbe compiuto solo a patto che il carattere li aiutasse ad aver cura del corpo. Il cibo e il corpo. Di questo parlavi.
Mentre tu proseguivi in progressione di temi e parole, io guardavo la tua forma. Ti ho radiografata come faccio quando vado a fare scouting nelle società della periferia del mondo. Ho misurato le tue proporzioni. Spalle, torace, bacino. Lunghezza delle gambe. Schiena, collo, braccia. Mi sono accorto che ti giravi sia a destra che a sinistra. Che spostavi leggermente i fianchi in avanti quando cercavi la concentrazione. Ho valutato il grado di mobilità delle anche. La forza di bicipite e tricipite. L’ovale del viso. Inclinavi leggermente il capo per mettere a fuoco. Prima di ricominciare ti aprivi in un sorriso e insieme le gambe stavano piantate, divaricate come se tu stessi prendendo la rincorsa per tirare un calcio piazzato. Stoppavi le parole come avresti potuto fare con un pallone. Al volo, a terra. Ti ho immaginata impegnata a scartare, dribblare, liberarti da un uomo. A letto sdraiata. Su un tavolo, di schiena. In piedi, contro un muro. Ho pensato d’istinto, più volte, che non saresti stata capace di liberarti di me. Se io ti avessi voluta. Se solo io ti avessi voluta.
2
Ogni anno, prima di iniziare la stagione, dobbiamo passare una visita medica. Analisi del sangue, delle urine, elettrocardiogramma sotto sforzo. Non amo gli aghi e non mi piacciono le mani degli uomini addosso. Mi dà fastidio che mi guardino l’uccello, non so, è una questione di pelle. Le donne possono farlo, gli uomini no. Quando ero piccolo mi accompagnava mio padre, stava fuori seduto e mi aspettava. Adesso ci vado da solo, ho diciassette anni, me la devo cavare. Il mio corpo è scolpito, la massa muscolare evidente. Le spalle larghe, le gambe solide. Mi alleno tutti i giorni, studio per la maturità e gioco a calcio. Non fumo, non bevo. A volte mi faccio una scopata. Lontano dalle partite. Basta vestire una maglia con uno stemma importante e non si fatica a trovare una ragazza che ci stia. Che resti è diverso. Più bella è, più la maglia deve essere importante. Una delle domande che le ragazze ti fanno sempre è dove andrai a giocare, dove sarà il tuo esordio. Non ti chiedono la certezza di essere amate, ma ti stressano per sapere se resterai nella rosa di quelli che andranno in una squadra vera, dove guadagni, dove i fotografi ti inseguono, dove sei un essere al di sopra degli altri, un semidio. Io sono destinato a restare. Ho tutto il tempo per scegliermi una donna definitiva. Una come me, una vincente, una dea. Ne voglio una che sia davvero bella. Bella che piace a tutti, non solo a me. Una modella. Una perfetta.
Vivremo in una villa grande con la piscina. Avrò macchine sportive e moto. Orologi, tatuaggi e orecchini. Capelli come mi pare, vestiti di tutte le marche. Sarò un fulmine di gioventù, un eroe, un capo tribù.
3
Mi ero alzato dall’aula prima che tu avessi finito la tua enumerazione degli alimenti che un agonista dovrebbe mangiare prima di scendere in campo. Carboidrati anche subito dopo la partita. Per reintegrare. I ragazzi lo sapevano già, ma da quel giorno, ne ero sicuro, lo avrebbero saputo meglio. Ti avevo lasciata di spalle, dentro alle parole dove mi sembrava ti muovessi a tuo agio. Io le consumo le parole, le uso e le manipolo e nessuno mi dice che sbaglio. Avevo chiuso la porta pensando alla libertà che avrei avuto di fare qualsiasi cosa. Non rendere conto a nessuno del mio tempo e dei miei spazi. Finire tardi, finire presto. Non finire niente. La scelta possibile di andarmene senza salutarti. Oppure di aspettare la fine del tuo discorso e di stringerti la mano.
Ti ho attesa da un punto che tu non avresti potuto vedere. Mi piace guardare senza essere visto. Qualcuno la considera una perversione. Penso che abbia a che fare piuttosto con una forma di pudore estrema. Con la difficoltà che ho nel mostrare apertamente le emozioni che provo. Di questa consapevolezza, adesso posso dire, sei responsabile tu. Lo sai che è così. Mentre io non so, in questo momento, se doverti ringraziare o maledire per avermi costretto a stare nelle cose più del tempo che io avrei dedicato loro.
Non è il momento per rispondere a questa domanda. Rimando.
Così ti ho guardata uscire, salutare e sorridere. Abbracciare e baciare chiunque con la disinvoltura della superficialità o con