Oberon L'avamposto tra i ghiacci
Di Paolo Aresi
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Fantascienza - romanzo (169 pagine) - Dall’autore vincitore del Premio Urania 2004 un avvincente mistero ai confini del Sistema Solare.
Una solitaria sentinella attende il cambio. L'avamposto è Titano, uno dei maggiori satelliti di Saturno.
Ma due avvenimenti sconvolgono la tranquilla routine della Stazione avanzata di Titano: un guasto all'astronave che deve riaccompagnare il custode sulla Terra e… la scomparsa della Terra dal Sistema Solare.
Nel frattempo su Oberon, satellite di Urano, un'altra sentinella solitaria svolge il suo compito di osservatore: il robot sovietico Tovarisc. Ma Tovarisc, abbandonato dagli uomini, sente il peso della solitudine e decide di porvi rimedio…
Su tutto incombe il sospetto di una presenza aliena, forse solo immaginaria, forse reale e pericolosa, forse amichevole.
Paolo Aresi è nato a Bergamo nel 1958. Laureato in Lettere, giornalista a L’Eco di Bergamo, ha debuttato nella narrativa con il romanzo di fantascienza Oberon, l’avamposto fra i ghiacci. Nel 1992 ha ottenuto il premio Courmayeur con il racconto Stige. Nel 1995 ha pubblicato Toshi si sveglia nel cuore della notte, un romanzo realistico, dai toni noir. Nel 2004 ha vinto il Premio Urania con Oltre il pianeta del vento. Con Ho pedalato fino alle stelle (Mursia, 2008, due edizioni) è tornato al romanzo realistico con un’opera di sentimenti e passione per la bicicletta. Nel 2010 per l’editore Mursia nella collana di letteratura ha pubblicato il romanzo post-apocalittico L’amore al tempo dei treni perduti. Nel 2011 è apparso in Urania Korolev, appassionato omaggio al “progettista capo” del progetto spaziale sovietico che diventa una sorprendente epopea fantascientifica.
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Oberon L'avamposto tra i ghiacci - Paolo Aresi
9788825406054
A Lucilla che avrebbe voluto leggerlo
Prologo
Cinque anni prima
– Hai una bella fortuna a non essere umano, accipicchia!
Tovarisc guardò l'uomo dai capelli corti e gli occhi bruni espirare una boccata di fumo e appoggiare la sigaretta al posacenere.
– Perché? – chiese.
– Perché? Accipicchia – fece Valéry portando alle labbra la sigaretta – ma sai che cosa vorrebbe dire per una creatura umana dover restare qui, restare qui per sempre? – Tirò una boccata e riprese. – Solo una cosa programmata apposta… volevo dire una cosa, un essere, una creatura nata apposta per questa vita può farcela. Solo un robot. Un uomo impazzirebbe. – Scosse il capo.
Tovarisc lo osservò con occhi che erano rossi come braci, nel viso di plastica bianca e metallo.
– Perché? – chiese.
– Come, perché! Accipicchia – Valéry sorrise – impazzirebbe per la solitudine. Non capisci? – Picchiettò la sigaretta sul posacenere e il fumo salì nell'aria della stanza disadorna, illuminata da un fioco neon. – No, non puoi capire, non sei fatto per capire. Ed è un bene che sia così.
Si alzò, diede una manata sulla spalla del robot che era più alto di lui di qualche centimetro e varcò la porta stagna che conduceva all'alloggio degli astronauti.
Tovarisc restò in piedi; sul suo corpo levigato si rifletteva la luce lattiginosa. Solitudine – pensò – sentirsi soli.
Si grattò la testa di plasticron bianco. – Sentirsi soli. Perché, forse lui non era già solo? Non era forse un'unica entità? Be', anche Valéry era solo, se era per quello. Non era forse anch'egli un'unica entità? Un'unica entità, un'entità sola. E, allora, che gliene fregava di essere solo in mezzo a tanti o solo in mezzo a nessuno?
Valéry doveva averlo preso in giro. Bah. A meno che… A Tovarisc venne un sospetto. A meno che finora non gli avessero nascosto una sconvolgente verità.
Già. Il robot entrò nella sala comandi della base, superò la porta stagna e la richiuse alle sue spalle; si trovò fuori dalla base, nella pianura fredda e tenebrosa, nella notte perenne dalle stelle luccicanti.
Un piccolo faro rosso brillava in mezzo alla pianura, e la luce indicava la presenza del modulo di atterraggio, dove gli altri quattro astronauti stavano trafficando per preparare la partenza. Solo Valéry non era andato con loro, perché Valéry aveva mal di testa. Gli occhi di Tovarisc, sensibili all'infrarosso, potevano scorgere la sagoma del modulo profilata contro il bordo di un cratere, e le figure degli astronauti che ora scendevano la scaletta e si incamminavano verso la base.
Era stata una bella serata, avevano mangiato e cantato e riso e si erano complimentati fra loro per il lavoro eseguito. Valéry era proprio soddisfatto quando Romanov, il piccolo e tarchiato Romanov, comandante della spedizione, disse che era ora di andare a dormire, perché l'indomani sarebbe stato il giorno degli ultimi collaudi e della partenza e avrebbero dovuto svegliarsi in forma.
Per tutta la sera Tovarisc era rimasto in mezzo a loro, con i suoi occhi di brace in apparenza impassibili, infernali. Non aveva mangiato, certo, e neppure aveva cantato, ma era rimasto lì, seduto insieme agli umani e stare lì in compagnia lo aveva fatto sentire bene; era come se tutti i circuiti funzionassero al meglio, come se l'energia fluisse tranquilla e rigogliosa dentro al suo corpo.
Romanov augurò la buona notte, Boris e Salasky lo seguirono.
– Be', buonanotte, Tovarisc – fece infine Valéry alzandosi.
– Valéry – disse Tovarisc, – mi prendevi in giro oggi?
L'uomo sorrise. – No, certo… A che proposito?
– Quando dicevi che un umano si sarebbe sentito solo, qui.
– No, accipicchia, dicevo sul serio.
– Allora mi avete nascosto un segreto.
Valéry osservò la tavola piena di piatti sporchi, le bottiglie aperte e il robot seduto che lo scrutava.
– Che segreto? – fece.
– Voi uomini non siete un'unica entità. Non siete un'entità sola.
– Ah, no?
– No. Se foste un'entità sola, vi sentireste soli sempre, sia nel deserto sia in mezzo alla folla.
– Che cavolo stai dicendo?
– Che probabilmente tu sei più di uno. In te ci sono due, tre, quattro… Valéry.
A Valéry venne da grattarsi il naso; guardò per terra, poi fissò il robot bianco. – Senti – disse, – siamo venuti dalla Terra insieme e abbiamo allestito la base insieme. Ti do un consiglio: non farti sentire da Romanov perché direbbe che sei pazzo e ti smantellerebbe. Buona notte.
Buonanotte, buonanotte!, pensò Tovarisc riassettando la sala degli astronauti. Perché Valéry gli aveva risposto così? Una spiegazione tutt'altro che esauriente. Aveva detto di non dirlo a Romanov perché l'avrebbe fatto smantellare!
Dalle camere giungeva il respiro pesante e a tratti il russare degli uomini. Il robot terminò di sistemare la stanza, sedette (in realtà non aveva alcun bisogno di sedersi) e si collegò alla presa di energia per la ricarica.
Valéry si girava e rigirava fra le lenzuola, all'interno della base spaziale di quel mondo sperduto. Un Valéry, due Valéry, tre Valéry... Ma che diavolo voleva dire To-varisc? Che il robot avesse davvero qualche rotella fuori posto? Accipicchia. Per un attimo l'uomo si disse che forse era bene avvisare il comandante Romanov, ma poi si acquietò. Pensò al giorno dopo, alla partenza, al ritorno a casa, e gli parve di gustare già l'accelerazione del razzo e la spinta che lo schiacciava contro il lettino. Tornavano a casa, finalmente, dopo mesi e mesi trascorsi nel vuoto fra le stelle e in quel mondo oscuro. Tornavano verso la loro Terra, le ragazze sorridenti e il Sole tiepido nei tramonti d'estate.
Si sentì felice.
Romanov era già a bordo e aveva messo in azione i motori per preparare il modulo al decollo. Boris e Salasky stavano salendo la scaletta. Nella fredda e buia pianura, sotto le stelle, erano rimasti Tovarisc e Valéry.
– Be', Tovarisc, io vado.
– Addio, Valéry – fece la voce elettronica.
– Mi raccomando, è una missione importante.
– Lo so.
– Ricorda che sei qui per controllare, osservare, forse per entrare in contatto… Per scoprire il più grande mistero.
– Lo so.
– Va bene. Ricordati di verificare sempre tutte le funzioni della base e attieniti strettamente alla programmazione.
– Certo.
– Bene, e…
– Sei contento, Valéry, di tornare a casa – disse d'un tratto Tovarisc. Valéry guardò gli occhi rossi dell'automa e sentì una voce che si intrometteva nel dialogo, dentro al casco: Romanov gli diceva di muoversi, perché la finestra per l'aggancio dell'astronave in orbita non aspettava lui.
– Ciao, Tovarisc. – Indicò con il dito guantato. – Ti abbiamo costruito una bella base.
– Si, è davvero bella.
– Ci vediamo.
– Ci vediamo.
L'uomo camminò verso il modulo che ora scintillava con tutte le sue luci rosse, bianche, azzurre, pronto a spiccare il volo, e si arrampicò sulla scaletta e una volta si girò, agitando la mano.
Tovarisc conosceva quel gesto e a sua volta alzò la mano di plastica bianca e non la abbassò, e così la tenne fino a quando i razzi fiammeggiarono e il modulo si levò nel buio e corse incontro alle stelle fino a diventare una piccola luce fra le altre.
Allora Tovarisc abbassò il braccio e guardò la buia desolazione attorno.
Accipicchia, pensò.
Cristina De Milato
Capitolo primo
Titano
Da miliardi di anni. Da miliardi di anni il grande pianeta se ne stava sospeso nello spazio, mescolato alle stelle, e riluceva bianco e silenzioso, unico e superbo, e dietro si affrettavano le lune e attorno brillavano incantevoli gli anelli.
Da miliardi di anni. In angoli remoti dell'universo le stelle nascevano, consumavano la propria energia, da diamanti azzurri si trasformavano in fuochi rossi, piccoli e rarefatti e le nebulose, pian piano, si contraevano e divenivano grembi di nuovi astri… Da miliardi di anni, da sempre, il grande pianeta dominava l'oscurità di quella luna, della pianura di ghiaccio, segnata all'orizzonte da acuminate montagne, come merlature di manieri medievali.
L'uomo rimase ad osservare ancora una volta il pianeta con gli anelli. Lo fissava, i ramponi piantati nell'anidride carbonica ghiacciata, e lo vedeva splendere grande e solitario, sopra il deserto senza luce.
La solitudine. In quel luogo, la solitudine era profonda quanto un abisso, profonda fino a Dite, e li accomunava tutti: i pianeti alle stelle; i pianeti e le stelle allo spazio.
Heinz chiuse gli occhi, per un attimo, dietro la visiera ambrata.
Il Sole sfolgorava in cielo, davanti alle onde, e i bambini dalla pelle abbronzata si tuffavano nella schiuma che andava a morire sulla sabbia, la sabbia che scottava i piedi, fra ombrelloni rossi e gialli, nell'aria tiepida e azzurra… Heinz socchiuse le palpebre, sbatté le ciglia. Con un movimento goffo girò su se stesso, lentamente: tutto, davanti a lui, sopra di lui, stava fermo, gelido, imperturbato. All'orizzonte, sopra i picchi taglienti, il Sole appariva fioco e lontano, poco più luminoso di una qualsiasi stella.
L'uomo rimase ad ascoltare il proprio respiro, dentro lo scafandro; il rilevatore della pressione al polso gli disse che l'ossigeno si sarebbe esaurito entro quindici minuti. Nell'oscurità, Heinz riprese a camminare, impacciato, ridicolo, ancora una volta diretto verso le luci color rubino che segnalavano l'Avamposto, a ridosso di una montagna di ghiaccio.
Questo era il mio sogno, pensò, ora è la mia prigione, il mio incubo, una gabbia stellata.
La piccola cupola di metallo emergeva dal ghiaccio e portava sulla sommità tre distinte luci rosse. – «Sesamo» – mormorò Heinz dentro al casco e l'impulso radio azionò il marchingegno: la massiccia porta scorse in modo lento. Sesamo, sorridevo nel dirlo.
Il portello si richiuse alle sue spalle e l'ossigeno prese a fluire nell'ambiente; le luci si erano già accese. Heinz fece scattare gli allacci, si tolse il casco, respirò profondamente: ogni volta quell'operazione gli procurava sollievo, una suadente sensazione di libertà. Come d'inverno, nelle giornate più rigide, con il vento del Nord e la neve che non scende perché fa troppo freddo; come d'inverno, entrando in casa e levandosi di dosso cappotto e sciarpa e cappello e scarpe…
Si sfilò la tuta spaziale, l'appese ai ganci e indossò pantaloncini e maglietta.
Altre porte si aprirono ed egli fu nel vestibolo e poi nel laboratorio, dove il calcolatore raccoglieva i dati forniti dagli strumenti esterni. In quel luogo, durante le prime settimane, Heinz aveva trascorso ore ed ore, giorni interi, affascinato dalla danza delle luci intermittenti, gialle, rosse, verdi, sedotto dalle immagini che i quattro schermi espandibili offrivano, immagini dell'universo, riprese ravvicinate di Saturno e dei suoi anelli, e satelliti… In quel momento su un monitor appariva Mimas, dal volto grigio e butterato di crateri. Eccomi tornato a casa, pensò amaramente.
L'Avamposto, ultimo insediamento umano nel Sistema solare, a un miliardo e mezzo di chilometri dalla Terra, costituiva una base scientifica, scavata sotto la superficie del satellite. Heinz viveva lì, solo, da quasi un anno. Sedette dinanzi al grande schermo che mostrava l'immagine rugosa di Mimas, schermo collegato al Telescopio Esterno Uno, il più potente dell'Avamposto, e le sue dita corsero rapide sulla tastiera. Per qualche secondo l'immagine svanì e lo schermo si fece trasparente; poi la luce dello spazio stellato, della notte luccicante, apparve improvvisamente. Le dita sfiorarono il video e le stelle divennero meno fitte a mano a mano che l'ingrandimento aumentava… Più di così, si disse, i telescopi di Titano non possono fare. Rimase davanti al video, immobile e con lo sguardo lontano, come cercasse qualcosa al di là dell'immagine, al di là dello schermo… Il suo pensiero era assente, la mente vuota, come una bella scatola senza più caramelle. Soltanto qualche cosa di assai più profondo, dentro la sua anima, continuava a cercare, soffocato dal dramma, frustrato dal dramma… Cercava e cercava… Il dito andò a sfiorare il punto dove egli sapeva doveva trovarsi quella piccola luce… Senza razionalità, aperto all'intuizione; l'inconscio sostituiva la mente vacillante e cercava…
Franz, piccolo Franz, amore, dove sei? Franz, piccolo Franz, piccolo Franz, piccolo…
Ci fu un'irregolarità nel monotono ronzio dei generatori. L'uomo si destò di scatto. Il video offriva ancora l'immagine delle stelle, immobili. Fra quelle stelle, proprio in mezzo ad esse, avrebbe dovuto brillare un pianeta azzurro e bianco. Si passò il dorso della mano sugli occhi, perché gli occhi bruciavano. È meglio che non ci pensi, meglio non pensarci, non pensarci, non c'è spiegazione, non esiste. Lottò contro il nodo che gli opprimeva la gola. In quel punto, fra quelle stelle, avrebbe dovuto trovarsi il suo pianeta. Ma il globo bianco e azzurro era scomparso, nel nulla: la Terra era come svanita, esattamente cinque mesi prima, senza lasciare traccia. Nessun radiomessaggio, nessuna esplosione aveva turbato la quiete cosmica. Nessuna ragionevole spiegazione. Da cinque mesi i telescopi ottici inseguivano un fantasma e, nel punto dove la Terra avrebbe dovuto apparire, regnavano poche, insipide stelle. Da cinque mesi il radar volgeva il suo orecchio al cielo oscuro e gelido alla ricerca ansiosa di un messaggio, di una voce… Gli rispondevano le scariche di pulsar impazzite, di radiogalassie ai confini dell'universo le cui voci erano nate miliardi di anni prima.
Heinz si addormentò tardi, nella stanza, guardando gli altri letti vuoti. Ancora una volta dovette prendere un sonnifero.
Il giorno dopo uscì per la solita passeggiata, ma sentiva di non stare bene; avvertiva mal di testa e fiacchezza, malavoglia. Camminava fra i ghiacci oscuri, sotto Saturno che troneggiava grandioso e monotono, sempre eguale, quando all'improvviso ebbe paura. Impiegabile, il terrore lo aveva ghermito senza preavviso: un'idea assurda gli sfiorava la mente: qualcuno stava per aggredirlo alle spalle. Si girò, con il cuore che batteva forte. Non vide nessuno. Solo il buio, le luci della base, le montagne lontane. Che idiota, che idiota, pensò. Qui non c'è nessuno, nessuno vorrebbe venirci. Qui abito soltanto io. Heinz, soltanto tu vivi su questa luna maledetta! Nessuno può aggredirti, nessuno, nessuno!
I rumori di Titano gli erano preclusi: si accorse di non avere attivato i microfoni esterni. All'interno del casco poteva ascoltare soltanto il suo respiro, sempre più affannoso.
Mosse ancora qualche passo, poi si fermò, incerto. Decise di tornare verso le luci familiari.
Quando fu rientrato, le stanze gli parvero ancora più fredde e vuote. Osservò la mensola sopra il suo letto, la mensola di plastica con le pietre di Titano che aveva collezionato, e provò un lieve conforto. Una volta tornato sulla Terra, quelle rocce avrebbero reso parecchi quattrini.
– Magari le venderò – si disse – e diventerò ricco… E forse non avrò neanche necessità di venderle, perché lo stipendio di Custode dell'Avamposto mi consentirà…
Si infuriò con se stesso. Sferrò un pugno sulla mensola e la plastica si ruppe e le pietre caddero e si sparsero sul letto e sul pavimento; l'uomo serrò gli occhi e i pugni, strinse i denti: ancora una volta aveva lasciato che l'illusione si insinuasse in lui, aveva sognato ad occhi aperti. Sto diventando pazzo, pensò. Doveva metterselo bene in testa: non c'era più nessuna Terra, non aveva più alcuna famiglia. Forse non esisteva più neppure l'astronave che doveva