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Coincidenze che fanno innamorare
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Coincidenze che fanno innamorare
E-book406 pagine5 ore

Coincidenze che fanno innamorare

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Info su questo ebook

Se questo romanzo cambiasse la tua vita lo leggeresti lo stesso?

Cambiare è possibile
Basta avere la ricetta giusta

Stella Weston, produttrice televisiva con una smisurata passione per i dolci, ha sempre cercato di conciliare lavoro e famiglia e per anni ha dovuto sopportare turni impossibili, ritmi serrati, lunghe trasferte e un capo infame.
Come se non bastassero i sensi di colpa a darle il tormento, suo marito Tom e sua figlia Grace non fanno che lamentarsi e rinfacciarle le continue assenze. Quando poi le viene assegnato un programma trash sul giardinaggio e la religione, in cui si ritrova ad avere quotidianamente a che fare con una pazza ninfomane, un prete ansioso e un giardiniere un po’ sopra le righe, Stella si rende conto che la misura è davvero colma: forse è giunto il momento di mollare tutto, di rimettersi in gioco, di inseguire un sogno e di smettere di rinunciare all’amore…

Amore, torte e soufflé: un romanzo goloso per chi sogna di mollare tutto e riprendersi la propria vita

Non leggetelo a stomaco vuoto!

«Un romanzo divertentissimo, ben scritto e pieno di personaggi esilaranti, su come trasformare la propria passione in una professione. Tra mille ansie, contrattempi, disavventure e successi.»
The Daily Mail

«Lo divorerete in un sol boccone.»
Closer


Sue Watson
È nata e ha studiato a Manchester per poi trasferirsi a Londra, dove ha scritto per tabloid e riviste femminili. Successivamente ha lavorato come produttrice televisiva per la BBC. Ora vive nel Worcestershire con il marito e la figlia e si dedica a tempo pieno alla scrittura.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854159020
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    Anteprima del libro

    Coincidenze che fanno innamorare - Sue Watson

    1

    Spuntini ipercalorici e pranzi vegetariani

    Due settimane prima…

    Erano le nove e cinque quando, quel funesto lunedì mattina di giugno, varcai finalmente la porta dell’edificio dalla facciata di vetro dov’era il mio ufficio, nel centro di Birmingham. Mentre mi affrettavo a raggiungere la scrivania, vidi la mia diretta superiore, Mary-Jane Robinson o MJ, come le piaceva farsi chiamare, che mi fissava torva dalla macchinetta del caffè. Il suo fisico tirato e nervoso, fasciato in una gonna nera a tubino e in un’impeccabile camicetta bianca, denotava una ferrea autodisciplina e pasti a base d’insalata. Per quanto fosse infelice e perennemente affamata, dovevo ammettere che quei tacchi altissimi le slanciavano le gambe da fare invidia.

    «Buongiorno, MJ!», esclamai con falsa allegria, mordendo con gusto un croissant al burro tra un sorso e l’altro di cappuccino.

    «Oh, ciao Stella». Mi passò davanti lentamente e salì le scale che portavano al livello superiore. Alla Media World le scrivanie dei comuni mortali erano disposte in un grande open space, mentre gli uffici dei dirigenti si trovavano su balconi elevati da cui potevano sorvegliare il pollaio sottostante e prendere nota di ogni movimento sospetto.

    MJ si fermò per un attimo sul balcone davanti al suo ufficio, ordinò una Diet Coke alla sua assistente e, rivolgendomi un sorriso maligno, marciò nella sua stanza sbattendo la porta. Leggermente inquieta, liberai la tastiera dalla collezione di sacchetti di patatine e involucri di cioccolatini che la ricoprivano e accesi il computer, decidendo tra me che era proprio ora di mettersi a dieta.

    «Buongiorno, Stel». Era Valerie, la produttrice di Vita in campagna. «La nostra adorabile MJ ti ha accolta con la sua solita cordialità». Sorrise.

    «Ciao, Val», le risposi. «Probabilmente invidia le mie curve da favola. Quante storie per cinque minuti di ritardo!».

    «Perché si accorgono solo di quando arrivi tardi, e mai di quando ti fermi oltre l’orario? A che ora te ne sei andata venerdì?»

    «A mezzanotte».

    «Se questa non è dedizione al lavoro!».

    «Non è stata una mia scelta. MJ aveva deciso che, per qualche motivo noto solo a lei, la puntata pilota di Famiglie interrotte doveva essere sul suo tavolo entro oggi. A volte penso che lo faccia solo per rendermi la vita un inferno».

    «Tutti quelli che ci hanno lavorato la trovano fantastica. Non lasciare che quella strega si prenda tutti i meriti».

    «Grazie, Val. Vorrei solo che le riprese fossero un po’ più vicino a casa. Il titolo la dice lunga!».

    Famiglie interrotte era la nuova trasmissione a cui stavo lavorando. Sarebbe andata in onda in fascia pomeridiana e parlava di persone che ritrovavano familiari che non avevano mai conosciuto a causa di adozioni, trasferimenti o divorzi. Una specie di C’è posta per te a basso budget, con in più un tocco di genetica.

    Tirai fuori la cartella del programma, piena di dati, schede e idee per il format, e mi misi al lavoro. Di sicuro MJ aveva già visto la puntata pilota e presto avrei ricevuto il suo feedback. Pur sapendo che era un buon lavoro, il pensiero di cosa avrebbe potuto dire mi fece quasi passare la voglia di fare il mio spuntino. Ma con i cali di pressione non si scherza. Mentre affondavo i denti nel croccante rivestimento di cioccolato del mio Kit Kat, mi domandai per la milionesima volta come una persona potesse avere quell’effetto su di me. Negli anni MJ, che era single e senza figli, aveva maturato un astio particolare contro tutte le madri che si barcamenavano tra gli impegni domestici e la carriera, ma quella che odiava di più ero io.

    Anni prima, in un’altra vita, avevo goduto del favore del proprietario della casa di produzione, Frank Moores, a cui piaceva molto il mio estro creativo e che mi aveva perfino offerto un posto di produttore esecutivo. Ci avevo riflettuto a lungo, ma alla fine avevo rifiutato perché la nuova posizione avrebbe comportato orari ancora più impegnativi, lontano da mia figlia Grace e da mio marito Tom. MJ aveva sempre cercato di scalzarmi ronzando intorno a Frank, arrivando presto, fermandosi al lavoro fino a tardi e dandosi grandi arie di efficienza. Non era stata dunque una sorpresa che, subito dopo il mio rifiuto, il posto venisse offerto a lei. A MJ doveva essere sembrata una specie di vittoria a metà, tanto che da allora cominciò a sentirsi minacciata da me e a non perdere mai l’occasione di attaccarmi e stroncare le mie idee e il mio lavoro. E se le si presentava l’opportunità di farlo davanti a tutti, ci metteva un impegno particolare. All’inizio era solo fastidiosa ma, con il suo avanzare di grado, quell’atteggiamento era diventato un vero problema. Mi pulii le dita appiccicose. Il tempo volava e avevo una montagna di lavoro da sbrigare. Mi ficcai in bocca l’ultimo pezzetto di ciambella (un Kit Kat non bastava), spinsi MJ in un angolo della mia mente e mi misi al lavoro.

    Fui talmente presa da bilanci, bozze di comunicati stampa, calcoli e cifre – nonché da diversi altri spuntini – che il tempo passò senza che me ne accorgessi. All’improvviso guardai l’orologio sul computer: erano le cinque. Era quasi ora di andare via e stranamente MJ non aveva ancora fatto commenti sul programma. Quand’ecco sullo schermo la notifica di una mail.

    Stella,

    devo parlarti. Vieni nel mio ufficio alle 6.

    MJ

    Brutta strega! Alle sei chiudeva il doposcuola pomeridiano, e lei lo sapeva benissimo. Mia figlia di otto anni ci passava già più tempo di quanto avrei voluto, e adesso sarebbe rimasta per l’ennesima volta da sola davanti al cancello ad aspettarmi, dopo che tutti gli altri se ne erano andati. La nausea mi esplose dentro. Se avessi potuto catturare quella sensazione e imbottigliarla, mi sarei arricchita alle spalle di tutte le donne che vogliono dimagrire. Giuro che, se qualcuno mi avesse offerto un Tronky (anche al pistacchio), non sarei riuscita a mangiarlo.

    Tirai fuori il cellulare e chiamai Tom, ma era irraggiungibile. Infastidita, lasciai un messaggio nella casella vocale.

    «Tom, sono io. Ho bisogno che tu vada a prendere Grace, è saltato fuori un impegno improvviso al lavoro. Chiamami», dissi seccata. Chiusi il telefono e guardai l’orologio. Alla riunione con MJ mancavano cinquantacinque minuti: Tom aveva tutto il tempo di andare a prendere Grace, sempre se avesse sentito il messaggio. Perché cavolo aveva spento il telefono?

    Cercai di non preoccuparmi e tirai fuori il materiale per l’incontro con MJ. Mentre passavo in rassegna la documentazione, cominciai a sentirmi più sicura: era un ottimo programma, perfino lei avrebbe dovuto ammetterlo. Immaginai addirittura di ricevere un complimento. Ero piuttosto soddisfatta, ma poi mi resi conto che erano passati quaranta minuti e che Tom non mi aveva ancora richiamato. In quel momento una frettolosa conversazione svoltasi quella mattina emerse in tutto il suo orrore dal mio subconscio. Tom avrebbe lavorato fino a tardi. Faceva il cameraman, e quella sera lui e la sua troupe giravano in esterna. Santo cielo! E Grace?

    Alzai lo sguardo e vidi la sagoma scheletrica di MJ seduta alla scrivania. La sua dura, fredda crudeltà sembrava emanare dal balcone e protendersi verso di me come la mano lunga e ossuta di una strega. Disperata, cominciai a chiamare le mamme delle amiche di Grace.

    «Ciao, Lara, sono Stella Weston, la mamma di Grace. Ci siamo conosciute al mercatino delle pulci della scuola. Mi dispiace tanto dovertelo chiedere, ma…». Le spiegai il mio problema.

    «Oh, Stella, mi dispiace, ma stiamo uscendo, Katy ha la riunione delle Coccinelle. Spero che tu riesca a trovare qualcuno che possa aiutarti!». Mi sentii doppiamente in colpa: andare agli scout era una delle tante cose che Grace non poteva fare perché di pomeriggio era sempre al doposcuola.

    Feci qualche altra febbrile telefonata guardando MJ che sorseggiava Diet Coke, rideva con i colleghi dei piani alti, guardava un po’ di tv e piluccava un minuscolo tramezzino. Se non fossi stata così disperata per mia figlia, mi sarei infuriata. Era chiaro che non aveva nulla da fare e aveva messo la riunione con me a fine giornata solo per scombussolarmi la vita. Tuttavia non volevo cedere e dirle che non potevo andare nel suo ufficio alle sei, perché questo era esattamente ciò che voleva lei. Sarebbe stata la dimostrazione che non ero in grado di gestire la mia vita, e le avrebbe dato un altro pretesto per sparare sulla mia carriera.

    Alle sei meno cinque, pochi minuti prima che Grace restasse da sola fuori dal cancello della scuola e quando ormai pensavo di saltare in macchina e guidare come Jenson Button attraverso la periferia di Worcester, riuscii a contattare Emma Wilson. Sua figlia Alice era amica di Grace. Doveva avermi dato il suo numero a una festicciola o in qualche altra occasione dimenticata.

    «Emma? Ciao, sono Stella Weston. Mi dispiace tantissimo dovertelo chiedere, ma non so dove sbattere la testa. Grace è al doposcuola e sono bloccata al lavoro. Se riuscissi ad andare a prenderla, mi salveresti la vita». Trattenni il fiato. Non potevo credere a quello che stavo facendo. Non conoscevo quasi quella donna – non avevo mai tempo di fermarmi a chiacchierare con le altre mamme fuori dalla scuola – e le stavo chiedendo di andare a prendere la persona più importante della mia vita.

    «Ah, ciao Stella. Ehm, sì, va bene… abitiamo abbastanza vicino a scuola. La porto da noi, ok?».

    Stavo per scoppiare a piangere. «Emma, sei un angelo! Vengo a prenderla non appena ho finito qui. Non so come ringraziarti». Riattaccai e impiegai qualche secondo per ricompormi.

    Alla scrivania vicina Val si infilò la giacca scuotendo la testa. Aveva sentito le mie telefonate. La guardai con invidia: quella sera sarebbe tornata a casa in tempo per stare con i suoi figli. Era nella mia stessa barca e sapeva bene quanto fosse difficile riorganizzarsi quando saltava fuori una riunione inaspettata a fine giornata. Sarebbe stato più facile pianificare una guerra mondiale o un matrimonio reale con tanto di catering e servizio di sicurezza.

    «In questo lavoro ti fanno sempre sentire in colpa», disse. «Se non puoi andare alle riunioni perché devi andare a prendere i figli, se vai alle riunioni e trascuri i bambini… non se ne esce». Scosse la testa tristemente e afferrò la borsa. «A proposito, devo scappare, la babysitter se ne va tra dieci minuti. A domani!». La seguii con lo sguardo e mi chiesi cosa stessi facendo. Perché ero ancora lì quando avrei dovuto essere a casa con mia figlia?

    Non aveva senso aspettare ancora. Con addosso la stanchezza della giornata e lo stress accumulato nel cercare qualcuno che andasse a prendere Grace, mi avviai per le scale verso il covo della strega. Avevo la bocca secca e riuscivo a malapena a trattenere le lacrime, ma mi sforzai di avere un’aria disinvolta.

    Entrai nella sua stanza, ma MJ finse di non accorgersi della mia presenza. I suoi metodi sarebbero stati perfetti nella Germania nazista. Rimasi impalata davanti alla sua scrivania mentre lei continuava deliberatamente a ignorarmi e fissava un foglio di carta. Un lacchè invisibile le portò un’altra Diet Coke, e all’improvviso qualcosa si mosse sotto il suo caschetto di capelli castani maniacalmente stirati. Mi piazzai davanti a lei, impaziente, ma quel giochino le piaceva così tanto che si girò dall’altra parte e continuò a studiare il foglio di carta. Alla fine alzò lo sguardo e, simulando stupore, mi scrutò da capo a piedi piena di manifesto disprezzo verso di me, la mia passione per il cioccolato e la mia mancanza di controllo.

    «Siediti, Stella». Senza sorridere, mi indicò una sedia bassissima davanti alla scrivania. Non appena fui seduta, con le ginocchia che quasi mi toccavano il mento, prese il dvd del mio programma e lo sbatté sul tavolo, incenerendomi con lo sguardo.

    «Secondo te possiamo mandare in onda una cosa del genere?!».

    Ebbi un tuffo al cuore. Cosa diavolo stava dicendo?

    «Perché non l’hai fatta piangere? Ti avevo detto che volevo lacrime!». Afferrò il dvd e lo agitò in aria con violenza, il volto distorto dalla rabbia. Stava parlando della protagonista del programma, che aveva ritrovato in circostanze drammatiche il figlio dato in adozione quarant’anni prima. In quel momento al timore subentrò la rabbia e mi vennero in mente tutte le cose che avrei dovuto dirle.

    Potevo farla piangere, MJ. Potevo dirle che era una cattiva madre e che aveva rovinato la vita di suo figlio; probabilmente se l’avessi fatto avrebbe pianto davanti alla telecamera. Tu hai detto che volevi ‘gente vera, con sentimenti veri’. Non sono scimmie ammaestrate, e noi produttori siamo responsabili delle persone che riprendiamo. Certo, tu non puoi saperlo, perché sei solo una prepotente inesperta e senza alcun talento!.

    Invece, come al solito, non fiatai. Sotto lo sguardo crudele di MJ, sentii la mia sicurezza vacillare e feci un inutile tentativo di difendere il mio lavoro.

    «MJ, quella povera donna era fuori di sé. Chiunque può intuire l’inferno che ha vissuto per quarant’anni. Ha dovuto dare via il suo bambino; la sua vita è stata distrutta».

    Come se non avessi aperto bocca, MJ continuò in tono inflessibile: «Il programma non è abbastanza buono. Non permetterò che venga trasmesso».

    All’improvviso mi sentii schiacciare da un peso enorme. Tutte quelle ore, tutto il lavoro di squadra, per non parlare del tempo trascorso lontano da Tom e Grace… non era servito a niente. Sapevo che aveva torto: era un ottimo programma.

    «Stella, dovrò chiedere a qualcuno di salvare il salvabile, qualcuno che sappia quello che fa».

    Cominciò a tremarmi il labbro inferiore. Mi bruciavano gli occhi e non riuscivo a parlare.

    «In ogni caso, ti ho convocata per un altro motivo», annunciò in tono trionfante. «Sto facendo delle modifiche nello staff del mio reparto. Visto che evidentemente non sei adatta a lavorare nella sezione Documentari, ho disposto il tuo trasferimento».

    Le guardai le labbra sottili: aveva quasi la bava alla bocca.

    «Pare che la produttrice di I giardini della preghiera, prossimo alla messa in onda, abbia avuto un crollo nervoso. La sostituirai tu. Presentati da Peter Willis domani mattina». Si leccò le labbra color mandarino, incapace di nascondere il piacere che provava, e mi guardò dritto in faccia con un ghigno beffardo. «Giardinaggio e religione: l’accoppiata perfetta per te, Stella».

    Ero senza parole. Alla Media World la sezione Giardinaggio era considerata una specie di casa di riposo per quelli che ormai avevano fatto il loro tempo. Era lì che le invisibili produttrici incontinenti e deboli di salute andavano a concludere la loro parabola. Per anni avevo cercato di sottrarmi a quel destino indossando orecchini a pendente e chiamando tutti tesoro. Per un periodo avevo perfino rinunciato ai dolci in modo da riuscire a infilarmi in una quarantaquattro, avevo un Blackberry e partecipavo con passione ai brainstorming per i reality più abietti. E anche se dietro la maschera c’era solo una donna di mezza età che tentava disperatamente di dare la scalata alla carriera, non ero pronta ad andarmene. Sapevo di avere davanti ancora molti anni di creatività, e la prospettiva di essere risucchiata nell’abisso di programmi come Mondo giardino e Orticultori in erba mi dava i brividi.

    «La cosa non mi fa affatto piacere», protestai debolmente, cercando di assumere una posizione più dignitosa nonostante la poltrona rasoterra.

    «Allora prova a parlarne con i piani alti». MJ sorrise compiaciuta. «Anche se Frank è assolutamente d’accordo… ne abbiamo discusso ieri sera, a cena».

    Cosa potevo fare? Nessuno mi avrebbe aiutato. MJ era culo e camicia con il grande capo. La mia carriera era ufficialmente finita. Aprii la bocca, ma non ne uscì alcun suono, gli occhi mi si riempirono di lacrime. Se fossi rimasta ancora lì non sarei più stata in grado di trattenermi. Non le avrei dato la soddisfazione di vedermi piangere. Mi alzai goffamente dalla sedia e raccolsi le mie carte con mani tremanti.

    «A proposito, per tua informazione, la prima diretta di I giardini della preghiera andrà in onda tra due settimane, quindi dovrai andare dritta a Rochdale e restarci per l’intera durata del programma», concluse con un sogghigno.

    Rimasi impietrita. «No, MJ, sai quanto sono stata via per l’ultimo progetto! Ho promesso a mio marito e a mia figlia che avrei passato un po’ di tempo con loro. Non posso già ripartire».

    «Mi dispiace, Stella. È deciso. Rochdale ti aspetta. Divertiti!», gridò mentre fuggivo verso le scale stringendo al petto i miei appunti. Mi voltai e lei mi lanciò un’occhiata di fuoco, poi afferrò la lattina di Diet Coke e se la portò con foga alle labbra.

    Tornata alla relativa pace della mia scrivania, mi avvolse un senso ovattato di irrealtà. Mentre da dietro il computer guardavo quella bocca sottile avventarsi contro l’innocente lattina di coca, il mio indice indugiò su un grilletto immaginario. Mi guardai intorno e puntai verso il balcone. Le avrei sparato come si spara a un bersaglio al luna park: pesca la paperella, colpisci il barattolo e vinci un orsacchiotto. E mentre le si gonfiavano le vene del collo e le sue malefiche labbra arancioni trangugiavano la bevanda ipocalorica, presi con cura la mira e feci saltare la testa di Mary-Jane Robinson.

    2

    Ciambelle e gay pride

    Ricacciando indietro lacrime di rabbia, mi incamminai verso un vicino caffè. Ma quando entrai nell’ambiente illuminato e profumato di paste calde non potei più trattenermi e scoppiai in un pianto dirotto. Mandai un sms d’emergenza ai miei due migliori amici.

    Sono giù al caffè. Ho bisogno di caffeina e di sfogarmi con qualcuno.

    Dopo pochi minuti, Lizzie mi raggiunse con due grosse ciambelle coperte di zucchero e due cappuccini grandi, che posò sull’appiccicoso tavolino in formica dove sedevo come inebetita. Anche lei faceva la produttrice alla Media World; in quel periodo lavorava a un programma dal titolo Case da sogno, in cui delle catapecchie venivano trasformate in dimore principesche. Siccome suo figlio era già adulto, MJ non aveva su di lei lo stesso potere che aveva su di me, ma Lizzie sapeva bene quanto poteva essere crudele. Mi guardò preoccupata, mi piazzò davanti caffè e ciambelle e venne dritta al punto.

    «Ho saputo cos’è successo. Su, Giardinaggio non è poi così male! Non significa per forza la fine…», disse sforzandosi di assumere un tono allegro e porgendomi un fazzoletto di carta (avevo ricominciato a frignare).

    «Non è così male? Lizzie, è la fine. MJ è una stronza. Sa benissimo quello che fa. È come se mi avesse detto: Sei troppo vecchia, vattene».

    «Ma no, Stel, sei tu che la vedi così. Non essere così negativa, non è da te». Si tolse la giacca e cominciò a sventagliarsi con il menu.

    «Odio il giardinaggio, è così noioso e prevedibile. In autunno si piantano i bulbi. Si vanga e si aspetta. In estate è tutto rose e mostre floreali, poi si vanga e si aspetta. Dopo l’inverno viene la primavera, e ci si prepara per un’altra maledettissima estate. È sempre uguale, anno dopo anno. Bulbi e bulbi e ancora bulbi!». Lizzie aveva atteso che finissi di sfogarmi, masticando in silenzio la sua ciambella.

    «Certo, per sua natura il giardinaggio è ciclico», disse, «ma sotto sotto è sesso allo stato puro… tutto si può spiegare con i fiori, le api…». Era un buon tentativo, ma io ero già ripartita a briglia sciolta.

    «Evitare le gelate precoci, le gelate tardive, le gelate impreviste, le grandi gelate, le piccole gelate, tutte le gelate del cazzo! Bulbi dentro, bulbi fuori, e avanti così, a seconda della stagione!».

    Lizzie alzò entrambe le mani ed esclamò: «Basta, calmati!».

    «Come posso stare calma? Gli ultimi anni della mia carriera li passerò a fare una serie di insulse inquadrature di api che svolazzano sui fiori e primi piani di mani callose che comprimono la terra! Se mai sopravvivrò alla prima serie…».

    «Senti, Stel, non voglio sminuire il tuo problema, ma con la crisi che c’è… be’, almeno tu hai un lavoro».

    Non ero convinta. «Dio solo sa quanti anni di potature, pacciamature e innesti dovrò sopportare», piagnucolai tra un boccone e l’altro. La ciambella stava cominciando a sortire il suo effetto calmante.

    «Prova a vederla da un altro punto di vista». Lizzie si sistemò l’ampia scollatura e si ravviò i capelli biondo rame. «Se c’è qualcuno in grado di trasformare il programma in un successo, quella sei tu. Pensa a Uccelli di rovo, pensa a Richard Chamberlain. Ammettilo, certi preti sono dei fighi strepitosi!».

    In un altro momento la sua battuta mi avrebbe fatto ridere, invece la incenerii con lo sguardo. Richard Chamberlain non mi sarebbe stato di alcun aiuto, né quel giorno, né mai.

    «Lizzie, non mi importa se il parroco è Brad Pitt. Non ce la posso fare».

    Intuii che stava esaurendo gli argomenti positivi dall’impegno con cui prese a mescolare il suo caffè. «La verità è che MJ mi ha comprato un biglietto di sola andata per il prepensionamento!», gemetti pronta al secondo round. «E non bastava il giardinaggio, ci voleva la religione, Cristo santo! Non sono una tipa spirituale, non posso mettermi a viaggiare per la nazione rinunciando a serate e weekend con la mia famiglia per cercare la Valle dell’Eden. Se esiste un Dio, è chiaro che mi odia!».

    «Va’ subito a lavarti con il sapone quella bocca blasfema!», strillò una voce dalla porta. Era Al, venuto a consolarmi con altri dolciumi.

    Mi abbracciò e posò sul tavolo un enorme muffin al doppio cioccolato, che mi fece tornare la voglia di piangere.

    «Mi dispiace, tesoro, quella strega si è messa in testa di distruggerti! E alla tua età non troverai mai un altro lavoro!».

    «Grazie, Al». Il tatto non era mai stato il suo forte.

    «Ho appena incontrato François del reparto Moda, che sa tutto di tutti, e si dice che da quelle parti le cose vadano davvero a catafascio. L’ultima produttrice del programma è stata trovata alle quattro del mattino che correva intorno al set con le mutande in testa! Ma dài, giardinaggio e cristianesimo nella stessa trasmissione… Ma siamo pazzi?».

    Cominciavo a spaventarmi. Mentre mi stringeva il braccio e mi guardava negli occhi con sincera preoccupazione (un po’ teatrale, certo, ma autentica), vidi un mezzo sorriso aleggiare sulle sue labbra. Forse gli era venuto in mente qualcosa di positivo. Mi leccai lo zucchero dalle labbra e attaccai il muffin.

    «Il vantaggio, Stella, è che certi preti sono dei veri e propri figaccioni», sussurrò, fissandomi nella vana attesa di una reazione. Lizzie lo zittì con la mano.

    «Ho già tentato quella strada, Al», disse leccando la schiuma del cappuccino.

    Al finse di togliersi una pellicina dalle mani perfettamente curate.

    «Be’, in ogni caso non si interesserebbero certo a te, mia cara».

    «Grazie, Al. Mi ci voleva proprio», bofonchiai con la bocca piena di muffin. «Dici così perché sono sovrappeso, over quaranta o solo brutta da far paura?»

    «Tesoro, tu sei assolutamente incantevole, ma devi sapere che quelli sono tutti gay», annunciò scuotendo la frangetta e lanciandosi in uno dei suoi coloriti aneddoti di folklore omosessuale.

    «C’era un parroco che veniva allo Swimming out», (la squadra di nuoto gay di Al). «Era alto, moro e stupendo! A ogni modo, un pomeriggio, dopo una vigorosa nuotata di gruppo, ci ha invitati tutti in canonica per il tè. Non ce lo siamo fatti ripetere due volte e ci siamo pigiati in macchina per andare da lui. Il poveraccio non se l’aspettava di vederci comparire così numerosi, e nessuno dei parrocchiani conosceva ancora il suo orientamento sessuale. Potete immaginarvi la scena: una carovana di checche urlanti che piombano in canonica in pantaloncini da bagno rosa! Quei timorati di Dio sono praticamente svenuti. Avreste dovuto vedere le loro facce… e la sua! Ragazzi, che coming-out!». Scosse la testa, ridacchiando tra sé al ricordo. «I preti sono così, tesoro. Tutti gay».

    Sorseggiando con grazia il suo espresso, continuò a dilettarci con altri aneddoti a conferma della sua teoria che tutti gli ecclesiastici fossero dediti a incontri sessuali nei vespasiani. Si era completamente scordato del mio problema. Al era uno di quegli omosessuali convinti che sotto sotto tutti gli uomini siano gay e passino gran parte della vita a nasconderlo al mondo, e soprattutto a mogli e fidanzate. «Tutte quelle mogli di calciatori fighette non hanno idea di cosa succeda veramente negli spogliatoi», ripeteva sempre. Secondo lui, tutti i giocatori della nazionale di calcio inglese avrebbero presto dichiarato di essere omosessuali e cominciato ad allenarsi sulle note di Vogue di Madonna.

    Non mi andava che Al trasformasse l’occasione in una sorta di chiassoso Gay Pride, quindi ricominciai a lamentarmi.

    «Tutto questo mi causerà una bella depressione, e per di più distruggerà anche il mio matrimonio. Ho un disperato bisogno di passare un po’ di tempo a casa, e adesso mi toccherà ripartire!», piagnucolai. In quel momento, il cellulare di Al squillò.

    «Senti», disse Lizzie, «l’unico aspetto positivo è che MJ non sarà più il tuo capo. È riuscita a farti trasferire, ma nella sezione Giardinaggio non ha più alcuna autorità su di te».

    «Mmm, è già qualcosa», ammisi a denti stretti.

    Tutt’a un tratto mi accorsi di uno strano silenzio e vidi che Al fissava il cellulare, inorridito.

    «Cosa c’è, Al?», domandai preoccupata.

    «Ma è terribile! Tesoro, sono stato trasferito anch’io! A quanto pare sarò al tuo fianco in quell’inferno di bulbi». Gli sfuggì un gemito.

    «Allora saremo in due a inseguire Dio in un giardino!».

    Lizzie si raddrizzò sulla sedia. «Mica male come idea per il titolo: Dio in giardino». Deformazione professionale di chi lavora in tv.

    Uscita dal caffè, recuperai un’immusonita Grace da Emma Wilson e, mentre guidavo, cercai di farmi raccontare com’era andata la giornata. Tra la pioggia e il traffico ci vollero tre quarti d’ora per arrivare a casa, ma lei non disse una parola per tutto il tragitto. L’avevo di nuovo delusa.

    «Allora, tesoro, con chi hai giocato oggi?», cinguettai entrando in cucina e cominciando a tirare fuori gli ingredienti per una torta. Con il passare degli anni avevo imparato che immaginare di uccidere i colleghi era eccessivo, nonché un filino pericoloso. E anche se mi dava un temporaneo sollievo, nel complesso non era una reazione sana. MJ non era la prima che mi aveva ridotto in quello stato. Una volta, una collega mi aveva rubato un’idea per un programma spacciandola spudoratamente per sua. Ci ero rimasta malissimo perché mi ero fidata di lei, ma mi ero consolata immaginando un’anonima mano guantata (come in una vecchia puntata del tenente Colombo) che versava una bustina di veleno nel suo caffè.

    La terapia della mano guantata funzionò per un po’, ma poi con il tempo imparai a incanalare gli impulsi omicidi nel mio hobby preferito: preparare dolci. Nei momenti più bui una soffice torta margherita, un pandolce alle banane o dei graziosi muffin erano in grado di farmi tornare il buonumore. C’è qualcosa di confortante nei dolci. Le uova, la farina e lo zucchero non possono deluderti come le persone. E così, senza nemmeno togliermi il cappotto, cominciai a pesare e misurare gli ingredienti. Grace non mi aveva ancora risposto.

    Poi il cellulare suonò. Era Tom. «Stella, cos’è successo? Ho appena ricevuto il tuo messaggio. Sei andata a prendere Grace?». Sembrava preoccupato.

    «Ho mandato una persona. Quanto torni a casa?»

    «Mi dispiace, non vengo. Le riprese sono durate più del previsto, dovrò fermarmi in un hotel».

    «Ah», mormorai, dispiaciuta di non vederlo e consapevole che non sarebbe stato affatto contento delle novità. Inspirai profondamente.

    «Tom, devo dirti una cosa. Non è affatto piacevole, ma non ho scelta. Devo andare a Rochdale per un paio di settimane per salvare un programma di giardinaggio».

    «Ma come! È da sei mesi che non ci sei quasi mai. Avevi promesso che saresti stata di più a casa!».

    «Lo so, ma cosa posso fare? Se non ci vado perderò il lavoro. Tom, è stata una giornata terribile. Ho bisogno di supporto e comprensione », dissi in tono quasi implorante.

    «Ne abbiamo bisogno tutti», ribatté con amarezza. «Senti, devo tornare alle riprese, ne parliamo quando torno».

    «Non c’è nulla di cui parlare, Tom, devo andarci per forza…». Mi resi conto che aveva riattaccato e sbattei esasperata il cellulare sul tavolo.

    Presi la terrina più grande che avevo e, in silenzio, ci buttai dentro gli ingredienti. La farina non setacciata fu presto ricoperta dallo zucchero di canna. Pugnalai con violenza il burro appena uscito dal frigo con un cucchiaio di legno per romperlo in pezzi, lo misi nella terrina e cominciai a impastare il tutto. Avrei potuto usare il mixer, ma avere le braccia e i polsi indolenziti dalla fatica alleviava in qualche modo la mia frustrazione. Scagliai nella terrina della cannella profumata, una generosa dose di vanillina e qualche manciata di frutta secca e, posato il cucchiaio, mi rimboccai le maniche e tuffai le mani nel miscuglio appiccicoso e non ancora amalgamato. Grace si era tolta la giacca e mi osservava in piedi vicino al tavolo della cucina.

    «La mamma sta preparando un pandolce alla frutta, tesoro», dissi mescolando con impeto, quindi rovesciai la terrina sul tagliere di legno. All’improvviso il volto di MJ si materializzò nell’impasto. Lo colpii forte, ripetutamente, pensando: Eccoti servita, strega!. Poi l’amalgama si deformò e apparve Tom, che mi guardava severo con occhi d’uva passa. Spinsi le nocche nell’impasto con tale forza che cominciai a sudare, ma sulla massa profumata di cannella apparve di nuovo la faccia di MJ che mi sorrideva beffarda con la sua bocca arancione. Allora la schiacciai con tutto il peso, picchiandola e premendola contro il tagliere fino a far sparire l’immagine.

    «Mamma, cosa stai facendo?», chiese Grace, meno imbronciata. «Fai a botte con la torta?»

    «Sì, ed è una sensazione stupenda. Vuoi provare?».

    Mi sorrise. «Sì, mamma».

    «Forza, allora, sfogati un po’ anche tu». Si leccò le labbra, si arrotolò le maniche e, dopo aver preso la rincorsa, si gettò sul pandolce con tale impeto

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