L'idiota
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Pubblicato nel 1869, Dostoevskij ha scritto “L'idiota” in un momento molto difficile della sua vita; iniziandone la stesura a Ginevra nel 1867 per terminarla poi, dopo averne distrutto una prima bozza, a Firenze nel 1868.
Tutta l'opera è centrata su tre figure cardine: Rogožin, che rappresenta l'eros, la passione, l'amore violento, il principe Miškin, il protagonista del romanzo, che rappresenta invece l'amore fraterno e disinteressato, l'amore platonico di impossibile realizzazione, e Nastasja, la figura femminile centrale, la quale, in un punto cruciale del romanzo, dice: "nell'amore astratto si finisce quasi sempre per amare sé stessi".
Dostoevskij lascia che l'uomo e la vita stessa si raccontino nella loro enorme complessità e contraddittorietà. “L'uomo è un mistero, un mistero che bisogna risolvere, e se passerai tutta la vita a cercare di risolverlo, non dire che hai perso tempo; io studio questo mistero perché voglio essere un uomo.”
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Anteprima del libro
L'idiota - Fëdor Dostoevskij
Presentazione
Recitar Leggendo Audiolibri è una iniziativa editoriale indipendente nata nel 2004 e curata da Claudio Carini, attore di prosa con oltre quarant’anni di esperienza nel campo della lettura ad alta voce. Da questa vasta esperienza nasce la linea editoriale della Casa Editrice, prevalentemente dedicata ai grandi classici: Ariosto, Dante, Boccaccio, Petrarca, Leopardi, Omero, oltre a quei moderni che sono ormai anch'essi dei grandi classici, come Calvino, Verga, Svevo, Pirandello.
Con lo scopo di diffondere ulteriormente le opere immortali dei grandi classici, e per dare la possibilità di seguire il testo durante l’ascolto del relativo audiolibro, Recitar Leggendo ha avviato una collana di ebook le cui traduzioni sono pensate per la lettura ad alta voce. Tutti i testi della collana ebook, infatti, sono disponibili anche in audiolibro, in formato digitale (scaricabile dai più importanti portali di audiolibri) e, per alcuni titoli, anche in formato CD fisico
(nelle migliori librerie).
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Fëdor Dostoevskij
(Mosca, 11 novembre 1821 - San Pietroburgo, 9 febbraio 1881)
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, rimasto orfano della madre all’età di 16 anni, viene iscritto dal padre alla scuola del genio militare di Pietroburgo. Ma il giovane Fëdor, seguendo le sue attitudini letterarie, una volta ottenuto il diploma, rinuncia alla carriera militare per iniziare il lavoro di scrittore. Da più parti arrivano critiche incoraggianti alla sua prima opera: Povera gente
che vede la luce nel 1846. Già fin da questo primo lavoro, lo scrittore sviluppa uno dei temi principali della successiva produzione: la sofferenza per l'uomo socialmente degradato e incompreso. Il suo secondo romanzo: Il sosia
tratta della storia di uno sdoppiamento psichico che non ottiene però il consenso del primo romanzo. Successivamente pubblica su riviste alcuni racconti e romanzi brevi, tra i quali Le notti bianche
.
Il 23 aprile 1849 viene arrestato per partecipazione a società segreta con scopi sovversivi e imprigionato nella fortezza di Pietro e Paolo. In realtà, Dostoevskij aveva partecipato ad alcune riunioni non come attivista, ma come semplice uditore. Il 16 novembre dello stesso anno, insieme ad altri venti imputati viene condannato alla pena capitale tramite fucilazione, ma incredibilmente il 19 dicembre lo zar Nicola I commuta la condanna a morte in lavori forzati a tempo indeterminato. La revoca della pena capitale viene comunicata allo scrittore quando è già sul patibolo. Questo avvenimento lo segnerà per tutta la vita. Al trauma della mancata fucilazione vanno associate le sue ricorrenti crisi di epilessia.
Verso l’inizio degli anni ‘60 dell’800 Dostoevskij inizia un’attività giornalistica soggetta ad alterne fortune. Proprio in quel periodo la sua vita privata è costellata da ripetute disgrazie; nel 1864 muore la sua prima moglie e, poco dopo il fratello Michail, che gli lascia ingenti debiti da pagare. Nel 1866 scrive il suo capolavoro: Delitto e castigo
, e l’anno successivo sposa la sua stenografa. Nel 1867 compie un lungo viaggio in Europa, a Firenze, dove comincia a scrivere L'idiota
storia della sconfitta di un uomo «assolutamente buono». Tornato in Russia, pubblica nel 1873 'I demoni'. Tra il 1879 e il 1870 scrive 'I fratelli Karamazov', il suo romanzo più imponente e forse più ricco di drammaticità e moralità. Il romanzo ottiene subito un enorme successo. Lo scrittore è ormai famoso quando muore improvvisamente 9 febbraio 1881.
È considerato, insieme a Tolstoj, uno dei più grandi romanzieri e pensatori russi di tutti i tempi. A lui è intitolato il cratere Dostoevskij sulla superficie di Mercurio.
L'idiota
Da tempo mi tormentava un’idea, ma avevo paura di farne un romanzo, perché è un’idea troppo difficile e non ci sono preparato, anche se è estremamente seducente e la amo. Quest’idea è raffigurare un uomo assolutamente buono. Niente, secondo me, può essere più difficile di questo, al giorno d’oggi soprattutto.
Pubblicato nel 1869, Dostoevskij ha scritto L'idiota
in un momento molto difficile della sua vita; iniziandone la stesura a Ginevra nel 1867 per terminarla poi, dopo averne distrutto una prima bozza, a Firenze nel 1868.
Tutta l'opera è centrata su tre figure cardine: Rogožin, che rappresenta l'eros, la passione, l'amore violento, il principe Miškin, il protagonista del romanzo, che rappresenta invece l'amore fraterno e disinteressato, l'amore platonico di impossibile realizzazione, e Nastasja, la figura femminile centrale, la quale, in un punto cruciale del romanzo, dice: nell'amore astratto si finisce quasi sempre per amare sé stessi
.
È difficile definire questo capolavoro della letteratura di tutti i tempi, così come è difficile classificarne l'autore che è considerato, in un certo senso, il padre spirituale della Russia.
Dostoevskij lascia che l'uomo e la vita stessa si raccontino nella loro enorme complessità e contraddittorietà. L'uomo è un mistero, un mistero che bisogna risolvere, e se passerai tutta la vita a cercare di risolverlo, non dire che hai perso tempo; io studio questo mistero perché voglio essere un uomo.
Personaggi principali
Principe Lev Nikolaevič Miškin , protagonista del romanzo. Uomo estremamente ingenuo e intelligente, malato di epilessia, viene definito un idiota
dagli altri personaggi del romanzo.
Parfën Semënovič Rogožin, uomo ricco, violento e senza scrupoli che cerca in ogni modo di conquistare Nastas’ja Filippovna Baraškova della quale è innamorato.
Nastas’ja Filippovna Baraškova, donna bellissima ma tormentata dal proprio passato. È l’oggetto dell’amore di molti personaggi del romanzo, tra cui il principe Miškin e Parfën Semënovič Rogožin.
Famiglia Epančin:
Generale Ivan Fëdorovič Epančin sposato con Lizaveta Prokof’evna Yepančina, hanno tre figlie:
Alexandra, Adelaide e Aglaja, la più giovane e attraente delle tre.
Famiglia Ivolgin: Generale Ardalion Aleksandrovič Ivolgin sposato con Nina Aleksandrovna Ivolgina hanno tre figli: Gavrila detto Ganja , segretario del generale Epančin; Varvara detta Varja e Kolja . La famiglia Ivolgin ospita il Principe Miškin a Pietroburgo.
Lebedev , impiegato e vedovo, padre di numerosi figli, ospita il principe Miškin nella sua dacia a Pavlovsk.
Ippolit Terentjev , amico di Kolja e figlio di Marfa Borisovna, mantenuta dal generale Ivolgin. Il ragazzo, diciasettenne, è gravemente malato di tisi.
Afanàsij Ivànovič Totskij , ricco possidente che ha cresciuto Nastas’ja Filippovna, rimasta orfana molto piccola, nella sua tenuta estiva, facendone, in seguito, la sua amante. All’età di ventun anni la giovane va a Pietroburgo minacciando uno scandalo.
Ptitsyn, un giovane modesto che si è liberato della sua povertà prestando denaro a usura. Si innamora e sposa Varvara, la figlia del generale Ivolgin.
Ferdischenko, altro ospite della famiglia Ivolgin a Pietroburgo.
Keller, ex ufficiale ed ex pugile, compagno di bevute di Lebedev.
Antip Burdovskij, presunto figlio di Pavliscev, il ricco signore che ha aiutato il principe Miškin, facendolo ricoverare in una struttura svizzera specializzata nelle malattie nervose.
PRIMA PARTE
I
Alla fine di novembre, durante il disgelo, verso le nove del mattino, il treno proveniente da Varsavia si avvicinava a tutta velocità a Pietroburgo. Il tempo era così umido e nebbioso che a stento si poteva vedere la luce dell’alba; era difficile vedere qualcosa dai finestrini della carrozza a dieci passi di distanza dalla strada ferrata. Alcuni dei passeggeri tornavano dall'estero; gli scompartimenti più affollati erano quelli di terza classe, tutta gente poco importante, commercianti che non venivano da molto lontano. Tutti, naturalmente, erano stanchi, dopo quella nottata in treno, avevano tutti gli occhi gonfi, le membra intirizzite, i volti di un giallo pallido simile a quello della nebbia fuori.
In una delle carrozze di terza classe, fin dall'alba, si trovavano, uno di fronte all'altro, proprio accanto al finestrino, due passeggeri, entrambi giovani, entrambi con poco bagaglio, entrambi non elegantemente vestiti, entrambi con fisionomie poco comuni ed entrambi con una gran voglia di attaccare discorso. Se avessero potuto sapere l'uno dell'altro che cosa in quel momento li rendeva così singolari, certamente si sarebbero stupiti che il caso li avesse messi così stranamente l'uno di fronte all’altro nella carrozza di terza classe del treno San Pietroburgo‒Varsavia. Uno di loro era basso, sui ventisette anni, con i capelli ricci e quasi neri, con occhi grigi piccoli ma ardenti. Il suo naso era largo e schiacciato, gli zigomi sporgenti; le sue labbra sottili si atteggiavano continuamente a una specie di sorriso insolente, beffardo e perfino malvagio; ma la sua fronte alta e ben formata compensava l'ignobile aspetto della parte inferiore del viso. Particolarmente evidente, in questo volto era il suo pallore cadaverico, che dava all'intero volto del giovane un aspetto emaciato, nonostante una corporatura piuttosto robusta, e allo stesso tempo qualcosa di passionale, fino alla sofferenza, non in armonia con il suo sorriso sfrontato e maleducato e quel suo sguardo acuto e presuntuoso.
Indossava una pelliccia nera, grande e pesante, e durante la notte non aveva sofferto il freddo, mentre il suo vicino aveva dovuto sopportare sulla sua schiena fredda tutta la dolcezza dell'umida notte russa di novembre, per la quale, ovviamente, non era preparato. Indossava un mantello piuttosto largo e spesso, senza maniche e con un enorme cappuccio, proprio come si usa spesso per strada, d'inverno, da qualche parte all'estero, in Svizzera o, per esempio, nel Nord Italia, e, ovviamente, non si devono affrontare percorsi tanto lunghi come quello che da Eitunnen porta a San Pietroburgo. Ma ciò che era buono e abbastanza soddisfacente in Italia si è rivelato non del tutto adatto in Russia. Il proprietario del mantello con cappuccio era un giovane, anche lui sui ventisei o ventisette anni, di statura leggermente sopra la media, biondissimo, con i capelli folti, le guance infossate e una barba leggera, a punta, quasi completamente bianca. I suoi occhi erano grandi, blu e intensi; nel loro sguardo c'era qualcosa di quieto, ma pesante, qualcosa che era pieno di quella strana espressione per cui alcuni indovinano a prima vista un malato di epilessia. Il viso del giovane, tuttavia, era piacevole, magro e asciutto, ma incolore, e, in quel momento, persino illividito dal freddo. Dalle sue mani penzolava un fagotto sottile, fatto con un vecchio fazzolettone sbiadito, che sembrava contenere tutto il suo bagaglio. Calzava scarpe a doppia suola, con le ghette, cose che in Russia non si vedono.
L’altro viaggiatore, quello bruno, dalla pelliccia di montone, non avendo forse nient’altro da fare, aveva notato tutti questi particolari del suo compagno di viaggio e si decise a domandargli, con un sorriso poco delicato che tradiva quel piacere noncurante e maligno che certe persone provano per i guai del prossimo:
‒ Freddo?
E si strinse nelle spalle.
‒ Molto, ‒ rispose il vicino con estrema prontezza ‒ e in questo momento non fa poi così freddo! Mi domando come sarei ridotto se fossimo sotto lo zero! Non immaginavo nemmeno che facesse così freddo qui da noi. Ho perso l'abitudine.
‒ Venite dall'estero?
‒ Sì, dalla Svizzera.
‒ Però! Un bel viaggio!
Quello dai capelli neri fischiò e rise.
Cominciarono a parlare. La disponibilità del giovane biondo a rispondere a tutte le domande del suo vicino bruno era sorprendente e perfetta, senza la minima diffidenza, nonostante l’indelicatezza e l’indiscrezione di alcune di quelle domande. Disse, tra le altre cose, che tornava in Russia dopo essere stato lontano quattro anni, e che era stato mandato all’estero a causa di una malattia, una qualche strana malattia nervosa che gli procurava tremiti e convulsioni: una sorta di epilessia o ballo di San Vito, insomma. Ascoltandolo, il bruno rise un paio di volte; rise soprattutto quando, alla domanda: Ebbene, siete stato guarito?
il biondo rispose: no, non sono guarito
.
‒ Eh! Dovete aver buttato via inutilmente un sacco di soldi! E noi qui ci fidiamo di loro! ‒ scherzò il bruno.
‒ È proprio così! ‒ si intromise un uomo, seduto accanto a lui e mal vestito, a giudicare dall’aspetto un impiegato, sulla quarantina, di corporatura robusta, con un naso rosso e la pelle del viso butterata ‒ Avete proprio ragione; non fanno altro che succhiare il sangue russo a tradimento!
‒ Oh, ma per quanto mi riguarda vi sbagliate, ‒ riprese il paziente svizzero con voce tranquilla e conciliante ‒ certo, non posso entrare nei particolari, perché non so tutto, ma il mio medico, non solo mi ha mantenuto a sue spese per due anni, ma mi ha dato anche, di tasca sua, i soldi necessari per arrivare qui.
‒ Forse, non avevate nessuno che potesse pagare per voi? ‒ chiese il bruno.
‒ Proprio così, il signor Pavliscev, che mi manteneva lì, è morto due anni fa; in seguito, scrissi alla moglie del generale Epančin, una mia lontana parente, ma non ricevetti risposta. Ed eccomi qui.
‒ Dove siete diretto?
‒ Cioè, volete dire dove mi fermerò?... Non lo so ancora, davvero...
‒ Non avete ancora deciso?
Ed entrambi gli ascoltatori scoppiarono di nuovo a ridere.
‒ E suppongo che in questo fagottino ci siano tutti i vostri averi, non è così? ‒ chiese il bruno.
‒ Sono pronto a scommettere che è così, ‒ disse l’impiegato dal naso rosso con aria estremamente soddisfatta ‒ e che non ha altri bagagli nella vettura di servizio; ma bisogna anche dire che la povertà non è un vizio, come dice il proverbio.
E infatti era così: il giovane biondo lo ammise subito e con insolita fretta.
‒ Il vostro fagottino, comunque, ha un certo valore. ‒ continuò l’impiegato dopo che tutti ebbero smesso di ridere delle parole del viaggiatore biondo (e bisogna notare che, guardandoli, anche il viaggiatore con il fagottino era scoppiato a ridere, aumentando così l’allegria generale). ‒ E, anche se possiamo scommettere, guardando i copri scarpe che rivestono i vostri stivali, che non si potranno trovare in quel fagottino né napoleoni d’oro, né monete d’oro tedesche o olandesi… se pensiamo al fatto che una vostra parente è la moglie del generale Epančin, ecco che il vostro fagottino assume tutta un’altra importanza… si capisce, solo nel caso in cui la generalessa Epančina sia davvero una vostra parente e che non vi siete sbagliato… cosa che può accadere a un uomo che soffra… come dire… di un eccesso d’immaginazione.
‒ Oh, avete indovinato di nuovo, ‒ disse il giovane biondo ‒ in effetti, mi sbaglio davvero, cioè praticamente la generalessa non è una mia parente, tanto è vero che non mi meravigliai affatto che non rispondessero alla mia lettera.
‒ Avete buttato via i soldi del francobollo! Ehm... bisogna ammettere che siete ingenuo e sincero, e questa è una bella cosa! Eh!... In realtà, conosciamo il generale Epančin, signore, perché è un uomo molto conosciuto; ed era conosciuto anche il defunto signor Pavliscev, che vi manteneva in Svizzera, se, però, stiamo parlando di Nikolai Andreevič Pavliscev, perché ci sono due cugini con lo stesso nome. Uno vive ancora in Crimea. Nikolai Andreevič, il defunto, era un uomo rispettabile, e con grandi relazioni, ai suoi tempi possedeva quattromila anime...
‒ Esattamente, si chiamava Nikolaj Andreevič Pavliscev. ‒ e, dopo aver risposto, il giovane scrutò il volto di quel tipo che sembrava sapere tutto.
Questi signori saccenti si incontrano a volte, anche abbastanza spesso, in un certo strato sociale. Sanno tutto, tutta l'inquieta curiosità della loro mente e delle loro capacità corrono incontrollabili in una sola direzione, naturalmente, in mancanza di interessi e punti di vista vitali più importanti, come direbbe un pensatore moderno. Con l’espressione sanno tutto
si dovrebbe intendere, però, un ambito piuttosto limitato: dove va il tale o il tal altro, chi frequenta, a quanto ammonta il suo patrimonio, dove è stato governatore, con chi era sposato, quanto sostanziosa era la dote di sua moglie, chi è suo cugino, chi è cugino di secondo grado, ecc., ecc. Per la maggior parte, questi saccenti vanno in giro con i gomiti sbucciati e ricevono diciassette rubli al mese di stipendio. Le persone di cui conoscono tutti i dettagli, ovviamente, non potrebbero nemmeno immaginare le ragioni che li spingono a questo interessamento, e tuttavia molti di loro si consolano con questa loro facoltà, paragonabile a una scienza, raggiungono l'autostima e persino un appagamento spirituale. E, d’altronde, questa scienza è molto seducente. Ho visto scienziati, scrittori, poeti, politici che hanno trovato nella stessa scienza le loro più grandi soddisfazioni, riuscendo addirittura a far carriera in questo modo.
Durante tutta questa conversazione, il giovane bruno sbadigliò, guardò fuori dalla finestra senza motivo, non vedendo l'ora che arrivasse la fine del viaggio. Era distratto, molto distratto, sembrava quasi preoccupato, tanto che a volte si comportava stranamente: a volte ascoltava senza udire, guardava senza vedere nulla, rideva, e a volte lui stesso non sapeva e non capiva perché ridesse.
‒ Mi scusi, con chi ho l'onore... ‒ chiese improvvisamente al giovane biondo con il fagotto, il signore dal viso butterato.
‒ Principe Lev Nicolaevič Miškin. ‒ rispose questi con premura.
‒ Il principe Miškin? Lev Nicolaevič? Mai sentito. ‒ rispose l’impiegato con aria pensierosa ‒ Cioè, non parlo del nome, è un nome storico e nella Storia dello Stato Russo
di Karamzin ci sarà sicuramente; parlo di voi personalmente: di principi Miškin non se ne incontrano più e non se ne sente neppure parlare, signore.
‒ Oh, certo! ‒ rispose subito il principe ‒ Non ci sono più principi Miškin ora, sono rimasto solo io, probabilmente sono l’ultimo. Quanto ai padri e ai nonni, sono stati uomini di nobile discendenza. Mio padre era, invece, un sottotenente dell'esercito, dei cadetti. Non so in che modo, ma anche la generalessa Epančina fa parte della famiglia Miškin, anche lei l’ultima nel suo genere...
‒ He-he-he! L'ultima nel suo genere! Che bel modo di definire le cose. ‒ ridacchiò l’impiegato.
Rise anche il giovane bruno. Il biondo rimase alquanto sorpreso da quel gioco di parole, piuttosto brutto, che era riuscito a pronunciare.
‒ Credetemi, l’ho detto senza pensarci. ‒ spiegò infine, sorpreso.
‒ Sì, è comprensibile, signore, comprensibile. ‒ il funzionario acconsentì bonariamente.
‒ E ditemi, principe, avete portato avanti i vostri studi mentre eravate lì, dal professore? ‒ chiese improvvisamente il ragazzo bruno.
‒ Sì... ho studiato...
‒ Io, invece, non ho mai studiato nulla.
‒ Beh, anche io ho studiato per modo di dire. ‒ aggiunse il principe, quasi scusandosi. ‒ A causa della mia malattia, non hanno avuto la possibilità di farmi studiare in modo sistematico.
‒ Conoscete i Rogožin? ‒ chiese frettolosamente il bruno.
‒ No, non li conosco affatto. Conosco pochissime persone in Russia. Forse voi siete un Rogožin?
‒ Sì, sono io, Parfën Rogožin.
‒ Parfën? Siete dunque della famiglia di quei Rogožin... ‒ iniziò l’impiegato con aria grave.
‒ Sì, proprio quelli. ‒ interruppe velocemente e con rozza impazienza il bruno, che però non si era rivolto mai, nemmeno una volta, all’impiegato butterato, ma sempre e solo al principe.
‒ Sì... ma come è possibile? ‒ l’impiegato fu sorpreso fino al punto di strabuzzare gli occhi, mentre il suo viso assumeva un’espressione riverente e ossequiosa, persino spaventata ‒ Voi siete figlio di Semën Parfënovic Rogožin, cittadino onorario morto un mese fa lasciando due milioni e mezzo di capitale?
‒ Ma tu come l’hai saputo che ha lasciato due milioni e mezzo di capitale netto? ‒ interruppe il bruno, senza degnarsi neanche questa volta di girare lo sguardo verso l’impiegato ‒ Ma guarda un po’! (ammiccò verso il principe) Chissà che cosa ci guadagna questa gente a impicciarsi degli affari degli altri? Tuttavia, è vero che il mio genitore è morto, e che dopo un mese torno a casa da Pskov quasi senza stivali. Né quel mascalzone di mio fratello né mia madre mi hanno mandato un soldo e neanche la notizia! Come un cane! Sono rimasto a Pskov per un mese, costretto a letto dalla febbre.
‒ E ora, avete da riscuotere almeno un milione di rubli! Mio Dio! ‒ esclamò l’impiegato alzando le mani al cielo.
‒ Beh, ma a te cosa te ne importa! Dimmelo! ‒ domandò di nuovo Rogožin violentemente irritato ‒ Non ti darò una copeca, neanche se ti mettessi a correre davanti a me a testa in giù e piedi in aria.
‒ E lo farò, camminerò coi piedi in aria.
‒ E io non ti darò nulla! Neanche se tu dovessi camminare con i piedi in aria per una settimana!
‒ E allora non darmi niente, è quello che mi merito. Ma io ballerò lo stesso. Abbandonerò moglie e figli e mi metterò a ballare davanti a te. Voglio adularti!
‒ Ma che schifo! ‒ sputò il bruno ‒ Cinque settimane fa, proprio come voi, ‒ si rivolse al principe ‒ sono scappato con un fagotto dai miei genitori, e sono andato da mia zia a Pskov; è stato lì che mi sono ammalato di tifo, mentre mio padre, qui, se ne andava all’altro mondo. Ha tirato le cuoia. Gloria al defunto, che per poco non mi ha ammazzato di botte! Credetemi, principe, ve lo giuro! Se non fossi scappato, mi avrebbe ucciso.
‒ Forse gliene avevate dato motivo? ‒ chiese il principe con una curiosità speciale, esaminando quel milionario che indossava una pelliccia di montone. Ma, sebbene potesse esserci qualcosa di straordinario in quel milionario e in quella eredità, il principe era sorpreso e interessato da qualcos'altro; e lo stesso Rogožin, per qualche ragione, aveva scelto il principe come suo interlocutore, sebbene sembrasse che avesse bisogno di rapporti più meccanicamente che moralmente; in qualche modo, più per distrazione che per innocenza; solo per fare quattro chiacchiere con qualcuno e smorzare così la sua ansia. Sembrava che non fosse ancora guarito dalla febbre. Per quanto riguarda l’impiegato, pendeva dalle labbra di Rogožin, non osava respirare, afferrava e soppesava ogni parola, come se cercasse un diamante.
‒ Si è arrabbiato, si è arrabbiato, sì, forse ne aveva anche motivo, ‒ rispose Rogožin ‒ ma è stato soprattutto mio fratello a esasperarmi. Su mia madre c’è poco da dire, è vecchia, legge le Sacre Scritture, si siede con le donne anziane e approva tutto ciò che decide mio fratello Senka. Ma perché mio fratello non mi ha fatto sapere tutto a suo tempo? Sì, va bene, ero a letto, privo di conoscenza. Inoltre, dicono che un telegramma sia stato effettivamente inviato; un telegramma che ha ricevuto mia zia. È vedova da trent’anni e continua a buttare il suo tempo con quei santoni scimuniti. Non è una vera e propria monaca, è anche di più. Si spaventò per quel telegramma e lo portò alla polizia senza aprirlo, sta ancora lì. È stato Konev, Vasily Vasilič a informarmi di tutto. Sembra che mio fratello, di notte, abbia tagliato dalla bara del genitore il broccato dorato che vi era steso sopra e che abbia detto: Questa roba costa troppo.
Basterebbe solo questo per spedirlo in Siberia, se volessi, è un sacrilegio, altroché! Ehi tu, spaventapasseri! ‒ rivolgendosi all’impiegato ‒ Cosa dice la legge, è o no un sacrilegio?
‒ Un sacrilegio! ‒ confermò subito l’impiegato.
‒ E si può finire in Siberia per questo?
‒ In Siberia, in Siberia! Eccome! Immediatamente in Siberia! ‒ Tutti pensano che io sia ancora malato, ‒ continuò Rogožin rivolgendosi al principe ‒ ma io, senza dire niente a nessuno, ancora malato, ho preso il treno ed eccomi qua. Dovrai farmi entrare, fratello Semën Semënovič! Ha parlato male di me al defunto genitore, lo so. Però, è anche vero che ho fatto andare in collera mio padre per via di Nastasja Filippovna. In quel caso è stata tutta colpa mia. Sono stato trascinato nel peccato.
‒ Per via di Nastasja Filippovna? ‒ disse servilmente l’impiegato, come se stesse pensando a qualcosa.
‒ Ma se non la conosci! ‒ gli gridò Rogožin con impazienza.
‒ E invece la conosco! ‒ rispose l’impiegato con aria trionfante.
‒ Ma via! Come se al mondo ci fosse una Nastasja Filippovna soltanto! Sei proprio una bestia sfacciata! Lo sapevo che una qualche bestiaccia del genere mi si sarebbe subito appiccicata addosso! ‒ continuò rivolto al principe.
‒ Eppure, forse la conosco davvero, signore! ‒ disse l’impiegato esitante ‒ Lebedev la conosce! Lebedev conosce tutti! Mi rimprovererete se ne do le prove? Non è forse quella stessa Nastasja Filippovna per la quale vostro padre volle bastonarvi? E questa Nastasja Filippovna non si chiama Baraškova, ed è per così dire una dama di qualità, nel suo genere anche una principessa, ed è forse in buoni rapporti con un certo Totskij, con Afanasij Ivanovič, con lui solo, però, proprietario e gran capitalista, membro di varie compagnie e società, e che proprio per questo è in grande amicizia col generale Epančin?...
‒ Ma guarda un po’! ‒ alla fine, Rogožin fu davvero sorpreso ‒ Al diavolo, la conosce davvero!
‒ Lebedev conosce tutti! Lebedev sa tutto! Io, Vostra Grazia, ho viaggiato con Likhačev Aleksashka per due mesi, e anche dopo la morte di suo padre; posso dire di aver frequentato tutti i luoghi di ritrovo, fino al punto che non faceva un passo senza Lebedev. Ora è in prigione per debiti, ma a quell’epoca ha avuto occasione di conoscere Armance, Coralia, e la principessa Pazkaja e Nastasja Filippovna, e quante cose ha avuto modo di apprendere!
‒ Nastasja Filippovna? C’era forse qualcosa tra lei e Likhačev...? ‒ Rogožin lo guardò con rabbia, anche le sue labbra diventarono pallide e tremavano.
‒ N-niente! N-n-niente! Assolutamente niente! ‒ l’impiegato si riprese in fretta – Cioè, voglio dire che Likhačev non è riuscito a ottenere nulla, nonostante il suo denaro! No, non è come con Armance. Oltre a Totskij, nessuno. Di sera se ne stava sempre nel suo palco a Teatro Grande o al Teatro Francese. Persino gli ufficiali avevano poco da rinfacciarle, loro che di solito ne dicono di tutti i colori. Ecco, dicono, quella è quella certa Nastasja Filippovna. E basta. Non possono aggiungere altro, perché non c’è proprio nulla da aggiungere!
‒ È così, come dice lui, ‒ confermò Rogožin cupo e accigliato ‒ me lo disse anche Zalëžev. Dovete sapere, principe, che quella volta portavo un giaccone di montone di mio padre vecchio di tre anni e, mentre attraversavo la prospettiva Nevski, lei uscì da un negozio e salì su una vettura. In quel momento, il mio cuore rimase folgorato. Incontrai Zalëžev, un tipo che con me non ha niente in comune, vestiva come un fattore appena uscito dal barbiere e portava un monocolo, mentre nostro padre ci passava degli stivali rozzi e una minestra di cavolo senza carne. Mi disse: Quella non è una donna per te, è una principessa, si chiama Nastasja Filippovna e di cognome Barashkov, e vive con Totskij, e Totskij non sa come liberarsene, perché è arrivato all’età di cinquantacinque anni e vuole sposare la ragazza più bella di tutta Pietroburgo.
Mi disse anche che, quella sera stessa, avrei potuto vedere Nastasja Filippovna al balletto al Teatro Bolshoi, nel suo palco. Figuriamoci, mio padre ci avrebbe ammazzati se solo avessimo manifestato il desiderio di andare al balletto. Tuttavia, io riuscii a uscire di casa di nascosto, verso l’una, e rividi Nastasja Filippovna; quella notte non riuscii a chiudere occhio. La mattina dopo, il mio defunto padre mi da due obbligazioni al cinque per cento di 5000 rubli ciascuna, incaricandomi di andarle a vendere e di portare settemilacinquecento rubli nello studio di Andrejev, di saldare tutto e di riportargli il resto dei diecimila senza andare da nessun’altra parte, lui sarebbe rimasto ad aspettarmi. Ho venduto le obbligazioni, ho preso i soldi e non sono andato all'ufficio di Andrejev, ma sono andato, senza guardare da nessuna parte, al negozio inglese, dove ho scelto un paio di orecchini con due brillanti grossi come nocciole, rimanendo anche in debito con loro di quattrocento rubli, ho lasciato il mio nome come garanzia e si sono fidati. Poi, con quei due orecchini, andai da Zalëžev, gli raccontai tutto e gli dissi: andiamo da Nastasja Filippovna. Andammo. Non sentivo la terra sotto i piedi, non avevo una percezione chiara di cosa stessi facendo. Entrammo direttamente nel suo salotto, dove fummo ricevuti da lei. Io non mi presentai, cioè, non le dissi il mio nome. Parlò Zalëžev per me e disse: Parfën Rogožin vi manda questo regalo, supplicandovi di accettarlo in ricordo dell’incontro di ieri
. Lei aprì il pacchetto, guardò, sorrise e disse: Ringrazi il suo amico, il signor Rogožin per la sua gentile attenzione
, si inchinò e se ne andò. Avrei dovuto cadere a terra stecchito proprio in quel momento. In fondo, ero andato lì pensando: tanto non ne esco comunque vivo!
La cosa che mi fece più male fu che quella canaglia di Zalëžev si prese tutto il merito. Io non sono particolarmente alto di statura, sono vestito come un contadino, e me ne stavo lì senza aprire bocca, pieno di vergogna, con gli occhi sbarrati su di lei; lui, invece, era vestito all’ultima moda, tutto pettinato, arricciato, rubicondo, con una cravatta a quadretti e non faceva che salutare, inchinarsi, insomma… era chiaro che lei lo aveva scambiato per me! E allora, dopo essere usciti, gli dissi: Guai a te se ci provi con lei, non ci pensare neanche, capito?
Lui rise e rispose: Vorrei sapere come fai adesso a spiegare tutto questo a Semën Parfënyc?
Per la verità, avrei voluto buttarmi nel fiume, senza tornare a casa, ma poi ho pensato: A che serve? Tanto ormai non posso farci più nulla!
E sono tornato a casa come un maledetto.
‒ Ah! Uh! ‒ esclamò l’impiegato percorso da un brivido alla schiena ‒ E pensare che il vostro defunto padre era capace di spedire qualcuno all’altro mondo non per diecimila, ma anche per dieci rubli soltanto. ‒ fece un cenno al principe, il quale stava osservando con curiosità Rogožin, che in quel momento sembrava ancora più pallido.
‒ Capace di spedire al Creatore
! ‒ disse Rogožin ‒ Ma cosa ne sai tu? ‒ poi, rivolgendosi di nuovo al principe: ‒ Scoprì tutto immediatamente, anche perché Zalëžev andava in giro a spifferarlo a tutti. Mio padre mi prese, mi chiuse a chiave in una stanza di sopra e per un’ora mi fece la sua lezioncina con il bastone dicendomi alla fine: Questo è solo un assaggio, poi passo a darti la buona notte come si deve!
Cosa credete? Il vecchio andò dritto da Nastasja Filippovna, si inchinò fino a terra davanti a lei, implorò e pianse. Alla fine, lei gli ha portato la scatoletta e gliel’ha buttata addosso, gridandogli: Tieniti i tuoi orecchini, vecchio bavoso! Ora per me questi gioielli valgono dieci volte di più, se Parfën Semënovic ha dovuto rischiare tanto per averli!
Nel frattempo, io, con la benedizione di mia madre, mi procurai venti rubli da Seryozha Protùshin e andai a Pskov in treno, ma sono arrivato con la febbre; le donne anziane hanno cominciato a recitarmi le Sacre Scritture, ma io ero ormai ubriaco e me andai a spendere i miei ultimi soldi nelle bettole e, alla fine, ho passato la notte steso a terra quasi privo di sensi. La mattina dopo avevo il delirio, ero stato morso anche dai cani. Non so proprio come ho fatto a salvarmi!
‒ Bene, bene, bene, ora Nastasja Filippovna canterà vittoria! ‒ ridacchiò l’impiegato sfregandosi le mani ‒ Ora, signore, altro che orecchini! Ora la ricompenseremo con ben altro...
‒ Se osi dire ancora una parola su Nastasja Filippovna, giuro che ti frusterò, anche se sei andato con Likhačev! ‒ gridò Rogožin, afferrandogli forte un braccio.
‒ E se mi frusterai vuol dire che non mi scaccerai! Ebbene, fammi frustare, così me ne darai la prova… Ma ecco, siamo arrivati!
In effetti, stavano entrando in stazione. Sebbene Rogožin non avesse comunicato a nessuno del suo arrivo, molte persone lo stavano già aspettando. Gridavano e agitavano i cappelli.
‒ Guarda, c’è anche Zalëžev! ‒ mormorò Rogožin, guardandoli con un sorriso trionfante e persino, per così dire, malvagio, e improvvisamente si voltò verso il principe.
‒ Principe, non so perché mi sono affezionato a te. Forse perché ti ho incontrato in un momento simile, anche se ho incontrato pure lui ‒ indicando Lebedev ‒ ma a lui non mi sono affezionato affatto. Vieni a trovarmi, principe. Butteremo via queste tue brutte scarpe e ti regalerò una bella pelliccia di martora; ti farò fare un vestito buono, con un panciotto bianco o del colore che preferisci, ti riempirò le tasche di soldi e… andremo a far visita a Nastasja Filippovna! Verrai o no?
‒ Ascoltatelo bene, principe Lev Nicolaevič! ‒ Lebedev si intromise con fare solenne ‒ Non fatevelo scappare! Non fatevelo scappare!
Il principe Miškin si alzò, tese cortesemente la mano a Rogožin e gli disse gentilmente:
‒ Verrò con grandissimo piacere e vi ringrazio molto per avermi preso a ben volere. Forse verrò anche oggi se avrò tempo. Perché, ve lo dico francamente, anche voi mi siete piaciuto molto, soprattutto quando avete parlato degli orecchini con i diamanti. Anche prima che parlaste degli orecchini mi siete piaciuto, anche se avevate un’aria alquanto cupa. Vi ringrazio anche per la promessa dei vestiti e della pelliccia, perché, in effetti, presto avrò bisogno di vestiti. Anche per quanto riguarda i soldi, vi confesso che sono rimasto senza una copeca.
‒ Ci saranno soldi, entro stasera, vieni!
‒ I soldi ci saranno, ‒ si intromise l’impiegato ‒ entro sera, prima dell'alba, ci saranno!
‒ Principe, dimmi con franchezza, sei un cacciatore di donne, tu?
‒ Io, n‒n‒no! Io... voi, non potete saperlo, il fatto è che, a causa della mia malattia, io le donne non le conosco affatto.
‒ Ebbene, se è così, ‒ esclamò Rogožin ‒ tu, principe, sei una specie di asceta! Dio ama quelli come te.
‒ Dio ama quelli così! ‒ disse l’impiegato.
‒ E tu seguimi, scribacchino! ‒ disse Rogožin a Lebedev, e tutti scesero dalla vettura.
Lebedev aveva raggiunto il suo scopo. Presto, quel rumoroso gruppo si mosse in direzione della prospettiva Vosniesenka. Il principe dovette girare verso via Liteinaya. Il tempo era umido e le strade erano bagnate. Il principe chiese la strada a dei passanti: per arrivare alla sua destinazione mancavano ancora tre verste e decise di prendere una vettura.
II
Il generale Epančin viveva nella sua casa, un po' lontano dalla Liteinaya, verso la Chiesa della Trasfigurazione. Oltre a questa bellissima casa, di cui cinque sesti erano affittati, il generale Epančin aveva anche un'enorme casa a Sadovaya, che gli fruttava una rendita straordinaria. Oltre a queste due case, aveva una tenuta molto redditizia appena fuori Pietroburgo; c'era anche una specie di fabbrica nel quartiere di Pietroburgo. Ai vecchi tempi, il generale Epančin, come tutti sapevano, aveva avuto una partecipazione in alcuni appalti molto importanti. Attualmente, aveva anche delle partecipazioni in alcune grandi società per azioni. Era noto come una persona piuttosto ricca, con grandi occupazioni e con importanti relazioni. Aveva saputo rendersi indispensabile in parecchi ambienti, tra l’altro anche dove prestava servizio. Eppure, era anche noto che Ivan Fëdorovič Epančin era un uomo senza istruzione, figlio di un soldato di origini contadine, cosa che, senza dubbio, avrebbe potuto tornare in suo onore, ma il generale, sebbene fosse un uomo intelligente, non era privo di piccole debolezze scusabili e non amava certe allusioni. Ma era senza dubbio un uomo intelligente e abile. Aveva, ad esempio, un suo metodo per non oltrepassare certi limiti e rimanere nell’ombra, quando era necessario, e molti lo apprezzavano proprio per la sua semplicità, per il suo tatto e perché sapeva sempre rimanere al suo posto. Eppure, se solo questi giudici avessero immaginato che cosa accadeva a volte nell'anima di Ivan Fëdorovič, che sapeva stare così bene al suo posto! Sebbene avesse davvero dimestichezza ed esperienza delle cose della vita e avesse alcune notevolissime capacità, tuttavia, preferiva apparire come l’esecutore di idee altrui, piuttosto che come un uomo con idee proprie. Ci teneva ad apparire come un uomo fidato ma non adulatore
, a essere un autentico russo, di quelli con il cuore in mano. A questo proposito, gli erano capitate anche situazioni piuttosto buffe, ma non si era mai perso d’animo. Era, inoltre, alquanto fortunato, anche a carte, e qualche volta giocava forte, ma non solo non nascondeva questa sua debolezza, dalla quale più di una volta aveva tratto profitto, ma la confessava apertamente. Frequentava una società mista, ma, ovviamente, si trattava sempre di gente importante. Aveva il futuro dalla sua parte, per così dire, tutto sarebbe arrivato col tempo e al momento opportuno. Aveva cinquantasei anni, in un certo senso era nel pieno delle sue energie, comunque, in quell’età fiorente in cui comincia la vera vita . La salute, il colorito del viso, i denti forti anche se anneriti, la corporatura tarchiata e robusta, l'espressione indaffarata al mattino, in servizio, e allegra la sera, quando giocava a carte, o in casa di Sua Signoria, tutto contribuiva ai suoi successi presenti e futuri e cospargeva di rose l’esistenza di Sua Eccellenza.
Il generale aveva una famiglia fiorente. È vero che qui non erano tutte rose e fiori, ma c'erano anche molte cose su cui le principali speranze e gli obiettivi di Sua Eccellenza avevano cominciato da tempo a concentrarsi seriamente e con tutto il cuore. E cosa, quale scopo nella vita è più importante e più santo degli obiettivi dei genitori? A cosa ci si può affezionare se non a una famiglia? La famiglia del generale era composta da una moglie e tre figlie adulte. Il generale si era sposato da molto tempo, quando aveva ancora il grado di tenente, con una sua coetanea, che non possedeva né bellezza né educazione, e che non gli aveva portato in dote che una cinquantina di anime, dote che, però, servì da base alla sua futura fortuna. Ma il generale non si era mai pentito di essersi sposato così giovane, non aveva mai considerato il suo matrimonio come la follia di un giovane sconsiderato e aveva una tale stima, e un tale timore della moglie che a volte persino l'amava. La moglie del generale era della famiglia principesca dei Miškin, un clan, sebbene non brillante, che era però molto antico, e per le sue origini era molto rispettato. Una delle persone allora influenti, uno di quei mecenati ai quali il mecenatismo, però, non costa nulla, accettò di occuparsi del matrimonio della giovane principessa. Aveva aperto il cancello al giovane ufficiale e gli aveva dato una spintarella, anzi, non c’era stato nemmeno bisogno della spintarella, gli era bastato uno sguardo. Tranne poche eccezioni, i due coniugi avevano percorso in buona armonia i lunghi anni della loro unione. Quando era ancora molto giovane, la moglie, grazie alla sua casata, e in qualità di ultima rappresentante di una famiglia principesca, o forse grazie alle sue doti personali, era riuscita a guadagnarsi la simpatia di alcuni elementi dell’alta società. In seguito, la ricchezza e la prestigiosa posizione del marito le avevano persino permesso di guadagnarsi una posizione tra le alte sfere. In questi ultimi anni, tutte e tre le figlie del generale ‒ Alexandra, Adelaide e Aglaja ‒ erano cresciute e maturate. È vero che quelle tre ragazze erano soltanto delle signorine Epančin, ma per parte di madre discendevano da una stirpe principesca, potevano vantare una dote di tutto rispetto e un padre che, in seguito, avrebbe potuto arrivare a una posizione molto elevata e, cosa di non secondaria importanza, erano tutte e tre molto belle, compresa la maggiore, Alexandra che aveva ormai superato i venticinque anni. La mediana aveva ventitré anni e la più giovane, Aglaja, aveva appena compiuto vent'anni. Anche la più giovane era molto bella e stava iniziando ad attirare molta attenzione in società. Ma non era tutto: tutte e tre si distinguevano per educazione, intelligenza e talento. Si sapeva che si volevano un gran bene e si sostenevano a vicenda. Si mormorava persino che le due maggiori avessero fatto alcune rinunce a vantaggio della sorella minore, che era considerata l’idolo di casa. In società, non solo non amavano esporsi troppo, ma, forse, erano fin troppo riservate. Nessuno poteva rimproverar loro di essere superbe o arroganti, eppure, tutti sapevano che le tre sorelle erano coscienti e orgogliose dei loro meriti e del loro valore. La maggiore era una musicista, quella di mezzo era una meravigliosa pittrice, anche se nessuno, per lungo tempo, l’aveva mai saputo; la cosa si era risaputa soltanto negli ultimi tempi, e per puro caso. Insomma, quelle tre ragazze erano molto ammirate. Per la verità, c’erano anche delle voci malevole. Si parlava con un certo spavento del fatto che avevano letto tanti libri.
Non avevano fretta di sposarsi; erano molto apprezzate nella cerchia dell’alta società, ma non in modo particolare, e questo era sorprendente perché tutti conoscevano le idee, il carattere, le mire e i desideri dei loro genitori.
Erano già circa le undici quando il principe suonò all’appartamento del generale. Il generale abitava al secondo piano e occupava una stanza dall’aspetto relativamente modesto, sebbene rispondente alla sua condizione sociale. Un cameriere in livrea aprì la porta al principe, il quale impiegò molto tempo a spiegarsi con quest'uomo, che fin dall'inizio guardò sospettoso lui e il suo fagotto. Infine, dopo una ripetuta e precisa dichiarazione che era davvero il principe Miškin e che aveva bisogno di vedere il generale per un affare importante, l'uomo perplesso lo scortò in un piccolo corridoio, di fronte alla sala d’aspetto, vicino all'ufficio, e lo consegnò a un altro cameriere che di mattina stazionava proprio in quell’anticamera, per ricevere i visitatori e annunciarli al generale. Questo secondo cameriere indossava una marsina; avrà avuto una quarantina d’anni e aveva un aspetto serio e dei modi molto cerimoniosi. Evidentemente, era molto preso dal suo ruolo di addetto al gabinetto di Sua Eccellenza il generale.
‒ Aspettate in sala d’attesa e lasciate qui il vostro fagotto. ‒ disse lentamente e con voce grave, tornando poi a sedersi nella sua poltrona e osservando con aria severa e un po’ sorpresa il principe, che si era seduto su una sedia accanto a lui.
‒ Se permettete, ‒ disse il principe ‒ preferirei aspettare qui con voi, invece che in sala da solo.
‒ Non potete restare qui perché siete un visitatore o un ospite. Dovete parlare con il generale in persona?
Il cameriere, a quanto pare, non riusciva a riconciliarsi con l'idea di far entrare un simile visitatore, e ancora una volta decise di chiederglielo.
‒ Sì, ho degli affari... ‒ esordì il principe.
‒ Non vi sto chiedendo quale affare vi abbia condotto qui, il mio compito è solo quello di annunciarvi. Tuttavia, come già vi ho detto, non lo farò prima che arrivi il segretario.
Il sospetto dell'uomo sembrava aumentare sempre più; il principe non rientrava nella categoria dei visitatori quotidiani, e, sebbene il generale quasi tutti i giorni, a una certa ora, avesse l’abitudine di ricevere visitatori di ogni tipo, il cameriere mostrava un atteggiamento sempre più sospettoso. Malgrado la sua esperienza e l’elasticità delle istruzioni ricevute dal generale, il cameriere era molto dubbioso; era indispensabile l'intervento del segretario per annunciare il principe.
‒ Siete sicuro che venite dall’estero? ‒ domandò alla fine quasi involontariamente, e probabilmente si era confuso, perché avrebbe voluto domandargli: Ma siete davvero il principe Miškin?
‒ Sì, sono arrivato proprio ora con il treno. Ma forse voi volevate domandarmi se sono davvero il principe Miškin e non l’avete fatto solo per delicatezza.
‒ Uhm... ‒ mormorò il cameriere sorpreso.
‒ Vi assicuro che non ho mentito, e non sarete rimproverato per avermi fatto entrare. Inoltre, non dovete meravigliarvi per questi miei poveri abiti e per questo fagotto che mi porto dietro perché, in questo momento, vedete, le circostanze non mi sono molto favorevoli.
‒ Uhm… Non ho paura di questo, vedete. Sono obbligato a fare rapporto e il segretario verrà a parlarvi, a meno che voi… Permettetemi di farvi una domanda: venite forse dal generale per chiedere denaro?
‒ Oh, no, ve lo posso assicurare. Sono qui per tutt’altri motivi.
‒ Dovete scusarmi se vi ho giudicato dall’aspetto. Attendete che venga il segretario. Il generale adesso è occupato con il colonnello, poi verrà il segretario… una brava persona, vedrete.
‒ Mi pare di capire che dovrò aspettare a lungo. In questo caso vorrei domandarvi se posso fumare, qui, da qualche parte. Ho con me la pipa e il tabacco.
‒ Fu-ma-re? ‒ con sprezzante sconcerto, il cameriere alzò gli occhi su di lui, come se ancora non credesse alle sue orecchie ‒ Fumare? No, qui non è permesso fumare, e dovreste vergognarvi, anzi, di aver avuto una simile idea! Roba da matti!
‒ Oh, ma io non intendevo fumare qui, in questa stanza, ci mancherebbe; io immaginavo che mi avreste indicato un posto dove avrei potuto fumare. Sapete, sono abituato a fumare e sono tre ore che non metto la pipa in bocca. Comunque, come preferite e, come dice anche il proverbio, nel monastero altrui non si porta la propria regola…
‒ Ma come faccio, io, ad annunciare uno come voi? ‒ borbottò il cameriere quasi involontariamente ‒ Per prima cosa, voi qui non ci dovreste stare proprio, ma dovreste stare in sala d’aspetto, perché siete qui in qualità di visitatore, o di ospite, e il responsabile sono io… Non avrete per caso l’intenzione di stabilirvi qui, vero? ‒ aggiunse sbirciando di nuovo il fagotto del principe, che, evidentemente, lo impensieriva molto.
‒ No, non credo proprio. Anche se mi inviteranno, non resterò. Sono solo venuto a presentarmi.
‒ Come? A presentarvi? ‒ chiese il cameriere sorpreso e ancora più sospettoso ‒ Ma non avevate detto che eravate venuto per affari?
‒ Oh, non si può neanche dire che sia un vero e proprio affare. Cioè, per la verità, dovrei soltanto chiedere un consiglio; ma, soprattutto sono venuto a presentarmi, in quanto sono il principe Miškin e la moglie del generale Epančin è una principessa della famiglia Miškin; oltre noi due non ci sono più Miškin al mondo.
‒ Quindi. Siete un parente? ‒ il cameriere ebbe un sussulto, sembrava quasi spaventato.
‒ Per la verità non è del tutto esatto. Ecco, teoricamente siamo parenti, ma di grado così lontano, che, per la verità, questa parentela non dovrebbe essere neanche presa in considerazione. Una volta, quando ero all’estero, ho spedito una lettera alla generalessa, ma non ho avuto risposta. Tuttavia, una volta arrivato qui, ho ritenuto necessario presentarmi. Ve lo dico perché vedo che continuate a essere inquieto: annunciate il principe Miškin e vedrete che il generale, solo a sentire questo nome, comprenderà il motivo della mia visita. Se si degnerà di ricevermi, ne sarò molto felice, in caso contrario, andrà benissimo lo stesso. Ma non possono non ricevermi: la signora vorrà certamente vedere l’unico e ultimo rappresentante della sua stirpe, perché ho sentito dire che lei ha molto a cuore le proprie origini.
Il discorso del principe sembrava semplicissimo, ma proprio quella semplicità, in quella circostanza, appariva insensata; infatti, l’esperto cameriere non poteva non avvertire che ciò che poteva essere adeguato tra due persone qualsiasi, diventava del tutto fuori luogo tra un signore e un domestico. Considerando poi che i servitori sono, di solito, molto più intelligenti di quanto pensino i loro padroni, il cameriere pensò che le possibilità fossero due: o il principe era uno scroccone qualunque, venuto a chiedere soldi, oppure questo principe era semplicemente un mezzo scemo senza ambizioni; perché, infatti, un principe intelligente con qualche ambizione non se ne sarebbe rimasto nell’anticamera a parlare dei suoi fatti privati con un cameriere e quindi, in un caso o nell’altro, temeva che la responsabilità di averlo fatto entrare sarebbe ricaduta su di lui.
‒ Vi pregherei, comunque, di attendere nella sala d'attesa. ‒ insistette il cameriere.
‒ Ma se avessi aspettato nella sala d’attesa non avrei potuto spiegarvi tutto, ‒ rispose il principe con una risata allegra ‒ e voi sareste ancora preoccupato fissando il mio mantello e il fagottino. Mentre invece, ora forse, non c’è più bisogno di aspettare il segretario, e potreste andare ad annunciarmi voi stesso.
‒ Non posso annunciare un visitatore come voi senza segretario, e inoltre, Sua Eccellenza mi ha ripetuto anche oggi che non vuole essere disturbato, finché si trova in compagnia del colonnello. Soltanto Gavrila Ardalionovič è autorizzato a entrare senza essere annunciato.
‒ È un funzionario statale?
‒ Chi, Gavrila Ardalionovič? No, è un impiegato della società. Ma almeno posate qui questo vostro fagotto.
‒ Proprio quello che pensavo anche io, visto che me lo permettete… Sapete che vi dico, mi tolgo anche il soprabito.
‒ Ma certo! Non vorrete mica entrare da lui con il soprabito, spero!
Il principe si alzò e si tolse frettolosamente il soprabito restando con una giacca appena decente e di buon taglio, anche se ormai molto consunta. Sul panciotto si intravedeva una catenella d’acciaio, alla quale era attaccato un orologio svizzero d’argento.
Sebbene il cameriere avesse ormai deciso che il principe era un povero scemo, si convinse che era una cosa assolutamente disdicevole che il cameriere di un generale continuasse a parlare con un visitatore, sebbene, chissà perché, provasse una certa simpatia per quel principe. Eppure, da un altro punto di vista, il principe suscitava in lui un deciso senso di disapprovazione.
‒ E la generalessa quando riceve? ‒ chiese il principe, sedendosi di nuovo nello stesso posto.
‒ Questa è una cosa che non mi riguarda. Riceve in diversi orari, a seconda di chi viene a farle visita. La modista può passare da lei anche alle undici. Gavrila Ardalionovič può arrivare anche all’ora della prima colazione.
‒ In inverno, nelle vostre stanze, qui fa più caldo che all'estero, ‒ osservò il principe ‒ mentre da loro fa più caldo fuori. Un russo che non ci sia abituato, non potrebbe mai vivere in quelle case così fredde.
‒ Non riscaldano?
‒ Sì, sì, ma le case sono costruite in un altro modo, cioè le stufe e le finestre.
‒ Uhm, avete viaggiato molto?
‒ Quattro anni. Ma sono rimasto quasi sempre nello stesso posto, in campagna.
‒ Avete perso le nostre abitudini, non è così?
‒ Anche questo è vero. Non ci crederete, ma mi meraviglio di me stesso per non aver dimenticato la nostra lingua. Mentre parlo con voi, in questo momento, penso: però, parlo ancora bene il russo!
Forse è per questo che parlo così tanto, davvero, è da ieri che ho sempre una gran voglia di parlare russo.
‒ Uhm! Ah! Avete già vissuto a Pietroburgo prima? (Nonostante tutto il cameriere non se la sentiva di lasciar morire una conversazione così cordiale).
‒ A Pietroburgo? Quasi per niente, solo di passaggio. Anche prima non sapevo niente qui, ma ora sento tante di quelle cose nuove che, come si dice, bisogna imparare di nuovo tutto daccapo. Adesso qui si parla molto dei tribunali.
‒ Uhm!... Tribunali. I tribunali, sì, è vero che ci sono i tribunali, adesso. Ditemi, come sono i tribunali all’estero? C’è più giustizia che da noi?
‒ Non lo so. Ma ho sentito parlare molto bene dei nostri. E poi, qui da noi non c’è la pena di morte.
‒ Perché, lì invece ce l’hanno?
‒ Sì, ho assistito a una esecuzione in Francia, a Lione. Mi aveva accompagnato Schneider.
‒ Impiccagione?
‒ No, in Francia tagliano la testa.
‒ E i condannati gridano?
‒ Ma no! Succede tutto in un attimo. Sistemano il condannato e viene giù una lama larga così, è una macchina, si chiama ghigliottina, è pesante, cade con forza. La testa salta via in un attimo. I preparativi sono particolarmente penosi. Quando viene letta la sentenza è un momento terribile, quando prendono il condannato e lo vestono, lo legano e lo fanno salire sul patibolo. La gente accorre numerosa, anche le donne, anche se là non amano che le donne stiano a guardare.
‒ Beh, certo, non è uno spettacolo adatto alle donne.
‒ Si capisce, assistere a un simile supplizio! Il colpevole era un tipo intelligente, di mezza età, coraggioso, forte, si chiamava Legros. Non mi crederete, mentre saliva sul patibolo piangeva come un bambino ed era pallido come uno straccio. Sembra impossibile, vero? È un vero orrore! Piangere di paura. Non avrei mai pensato che potesse scoppiare in lacrime qualcuno che non fosse un bambino, addirittura uno che non aveva mai pianto prima, uno sulla quarantina. Chissà che cosa succede in quel momento nell’animo di una persona costretta a quegli spasimi? È un oltraggio all’anima umana! È stato detto: Non uccidere!
e poi, siccome quello ha ucciso qualcuno, allora uccidono lui? No, questo non va bene. È passato ormai un mese da quando ho assistito a quell’esecuzione e ce l’ho ancora davanti agli occhi. L’ho sognato cinque volte.
Parlando, il principe si era animato, si era fatto rosso in volto, sebbene parlasse in modo tranquillo, come prima. Il cameriere lo ascoltava con un tale interesse che sembrava non voler distogliere più lo sguardo da lui; evidentemente, era un uomo dotato di una certa immaginazione e si sforzava di pensare.
‒ Almeno soffrono poco quando la testa salta via! ‒ osservò.
‒ Sapete una cosa? ‒ continuò il principe con ardore ‒ L’osservazione che avete fatto adesso la fanno tutti, è proprio questa la ragione per cui hanno inventato la ghigliottina. Ma quand’ero lì ho pensato: e se invece la ghigliottina fosse anche peggio? Vi sembrerà una stupidaggine, una follia, ma basta avere un po’ di immaginazione per farsi venire questa idea. Pensateci, prendiamo la tortura; il dolore, le ferite, le sofferenze del corpo distraggono il condannato dal dolore interiore, in modo che soffre solo per il dolore fisico, finché muore. Ma la sofferenza più importante, quella più intensa, forse non è quella delle ferite, ma è quella della consapevolezza che, fra un’ora, poi fra dieci minuti, e poi fra un minuto, adesso, ora, l’anima abbandonerà il corpo e non sarai più un essere umano, e questo è inevitabile e lo sai con assoluta certezza. La cosa più importante, ecco, è proprio la certezza. Ecco, tu sai che appena metti la testa sotto la lama, ecco, questa frazione di secondo è la più terribile. Non ci crederete, ma non è una cosa che ho immaginato io solo, me lo hanno detto in molti. Vi dico francamente che questa è la mia opinione. Uccidere chi ha ucciso qualcuno è una punizione assolutamente sproporzionata rispetto al delitto. L’omicidio in seguito a una sentenza è incomparabilmente più orribile del delitto stesso. L’individuo che viene ucciso dai briganti, di notte, in un bosco, o da qualsiasi parte, fino all’ultimo momento conserva sempre la speranza di salvarsi la pelle. Ci sono stati casi in cui con la gola già tagliata quello ancora sperava, scappava, supplicava. Qui, invece, questa ultima speranza che rende la morte dieci volte più accettabile, te la tolgono con certezza; si tratta di una pena aggiuntiva insopportabile: la certezza di non poter sfuggire, ecco, questa è la pena più tremenda e spaventosa che ci possa essere. Se portate un soldato in piena battaglia fino proprio davanti alla bocca di un cannone, ebbene, egli spererà fino all’ultimo momento, fino a quando gli spareranno addosso. Se, invece, a quello stesso soldato leggerete una sentenza che lo condanna a morte sicura, allora vedrete che quel soldato impazzirà o scoppierà a piangere. Chi l’ha detto che la natura umana può sopportare una cosa del genere senza impazzire? A cosa serve questo scempio mostruoso e inutile? Forse esiste qualcuno a cui hanno appena letto una sentenza di condanna a morte e al quale, dopo averlo fatto soffrire è stato detto: Va’, sei stato perdonato!
Ecco, un uomo così potrebbe raccontare molte cose. Di questa pena, di questo orrore ha parlato anche Gesù Cristo. No, non è lecito agire così nei confronti di un essere umano!
Il cameriere, sebbene non sarebbe stato in grado di esprimersi come il principe, aveva però probabilmente compreso almeno l’essenza di tutto questo discorso, cosa che si poteva intuire anche dall’espressione commossa del suo viso.
‒ Se proprio volete fumare, ‒ disse ‒ forse si può trovare un modo, purché facciate presto. Potrebbero domandare di voi mentre siete via. Vedete quella porticina sotto le scale? Apritela ed entrate, a destra c’è un ripostiglio dove potrete fumare. Ma ricordatevi di aprire la finestrella perché è contro tutte le regole!
Ma il principe non ebbe il tempo di andare a fumare: un giovane uomo entrò improvvisamente nella sala con le carte in mano. Il cameriere lo aiutò a togliersi la pelliccia. Il giovane guardò il principe. ‒ Il signore, Gavrila Ardalionovič, ‒ iniziò confidenzialmente e quasi familiarmente il cameriere, ‒ dichiara di essere il principe Miškin, un parente della signora, arrivato con un treno dall'estero e un fagotto in mano, solo...
Il principe non udì il resto perché il cameriere cominciò a sussurrare. Gavrila Ardalionovič ascoltò attentamente e guardò il principe con grande curiosità, finalmente smise di ascoltare e gli si avvicinò con impazienza.
‒ Voi siete il principe Miškin? ‒ chiese con fare straordinariamente cortese. Era un giovane molto bello, di circa ventotto anni, biondo, slanciato, con una piccola barbetta allo stile di Napoleone e con un viso intelligente. Il sorriso però, sebbene cortese, appariva eccessivamente manierato, mettendo in mostra denti perlacei fin troppo regolari; il suo sguardo, pur vivace e bonario, appariva troppo fisso e indagatore.
Quando è solo deve avere uno sguardo completamente diverso, forse non ride mai.
pensò il principe.
Il principe gli spiegò in breve, quasi con le stesse parole che aveva usato con il cameriere e prima ancora con Rogožin, chi fosse e perché si trovava lì. Gavrila Ardalionovič, nel frattempo, sembrava ricordare qualcosa, poi chiese:
‒ Non siete voi che un anno fa, forse meno, spediste una lettera, mi pare dalla Svizzera, a Lizaveta Prokofievna?
‒ Esattamente.
‒ Ma, allora, qui vi conoscono e si ricorderanno certamente di voi. Siete qui per vedere Sua Eccellenza? Vi annuncio subito io… prego, accomodatevi in sala d’aspetto… Come mai il principe aspettava qui? ‒ chiese con aria severa al cameriere.
‒ Vi ho già detto che il signore non ha voluto…
Improvvisamente, si aprì la porta dello studio e ne uscì, parlando a voce alta e salutando, un ufficiale con una cartella in mano.
‒ Sei qui, Ganja? ‒ gridò una voce dall'ufficio ‒ Vieni qua!
Gavrila Ardalionovič fece un cenno col capo al principe e si affrettò a entrare nello studio. Circa due minuti dopo, la porta si riaprì e si udì la voce chiara e affabile di Gavrila Ardalionovič:
‒ Principe, accomodatevi!
III
Il generale, Ivan Fëdorovič Epančin, si trovava nel mezzo del suo ufficio e guardò con estrema curiosità il principe che stava entrando, facendo anche due passi verso di lui. Il principe si avvicinò e si presentò. ‒ Allora, signore, ‒ rispose il generale ‒ in cosa vi posso servire?
‒ Non ho affari urgenti; il mio obiettivo era semplicemente di fare la vostra conoscenza. Non vorrei disturbarvi, dato che non conosco né il giorno in cui vi degnate di ricevere, né i vostri ordini... sono venuto qui direttamente dalla stazione… vengo dalla Svizzera…
Il generale stava quasi per sorridere, ma poi ci pensò e si trattenne; poi pensò ancora, si accigliò un poco, esaminò il visitatore dalla testa ai piedi e gli indicò, con un gesto rapido, una sedia, si sedette anche lui un po’ di traverso e si voltò verso il principe, non nascondendo un atteggiamento di impaziente attesa. Ganja era in piedi in un angolo dell'ufficio, e stava esaminando alcuni incartamenti.
‒ Di solito, non ho molto tempo per fare nuove conoscenze ‒ disse il generale ‒ ma poiché voi siete venuto sicuramente per qualche motivo, allora...
‒ Immaginavo ‒ lo interruppe il principe ‒ che voi avreste sospettato nella mia visita un qualche scopo speciale, ma vi giuro che non ho nessuno scopo speciale, se non il piacere di fare la vostra conoscenza.
‒ Anche per me è un grandissimo piacere fare la vostra conoscenza, ma non esiste solo il piacere, sapete, a volte gli affari premono… Per di più, non sono ancora riuscito a capire che cosa ci sia in comune tra noi… il motivo, per così dire…
‒ Ovviamente, non c’è nessuna ragione e non abbiamo quasi nulla in comune. Perché, se io sono il principe Miškin e la vostra signora appartiene allo stesso casato, ebbene, questo non può essere considerato come un motivo. Me ne rendo conto benissimo. Tuttavia, il motivo che mi ha spinto a farvi visita è proprio questo… Sono stato per più di quattro anni fuori dalla Russia; inoltre, alla mia partenza, ero quasi fuori di me. Allora già non sapevo nulla, ma ora è anche peggio. Ho bisogno di conoscere brave persone, gente buona, e poi ho anche una questione da risolvere e non so proprio a chi