I volontari dell’alfabeto
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Anteprima del libro
I volontari dell’alfabeto - Eliana Tribalto
Prologo
Lestra Cocuzza, agosto 2017
Fa caldo, la Litoranea scorre tranquilla verso Sabaudia. È mezza mattina, le macchine sono poche, l’aria immobile. Io e la mia amica andiamo piano, l’indicazione è seminascosta dagli arbusti, ci sono solo delle fascette di legno su due paletti bassi: Centro di documentazione sull’istruzione scolastica e l’opera sanitaria nelle Paludi Pontine. Le frecce indicano vagamente qualcosa all’interno del parco, non c’è una segnalazione chiara, nemmeno un abbozzo di piazzola per fermarsi e posteggiare. Solo alberi, cespugli e la strada grande davanti a noi. Di fronte il piazzale di cemento di un bar ristorante, vuoto di avventori, che sembra stare nel mezzo di niente.
Sabaudia metafisica
penso. Chiediamo il permesso di lasciare la macchina nel grande cortile dietro al ristorante. Per attraversare, anche se è una strada di scorrimento, non c’è semaforo né strisce, per fortuna passano pochissime auto. Ci addentriamo nel parco attraverso il sentiero di terra battuta: grandi alberi, che in alto si curvano un po’, eredi della foresta pre bonifica, rametti e sassolini, qualche insetto estivo. C’è un gran silenzio e radi cartelli didattici con illustrazioni grandi, da libro per bambini.
Poi il sentiero si apre in una radura e l’atmosfera è diversa, l’erba è morbida, di un verde brillante, c’è abbondanza di fiori e gli spruzzi lenti degli irrigatori rinfrescano l’aria di goccioline. Di fronte si staglia l’edificio bianco, semplicissimo, della scuola, che ora è un piccolo museo nel parco del Circeo. Linee squadrate, solo una scaletta bassa, arrotondata, di fronte alle due porte. Una parte era occupata dalla scuola festiva e serale, l’altra dall’infermeria dove si distribuiva il chinino. L’edificio è del 1927, prima si faceva scuola in una capanna, una lestra
di legno, arbusti e paglia, con un buco per porta. Tutta la storia di quegli anni è appesa alle pareti e il guardiano, unica presenza nella radura, la illustra partecipe. Le scuole nella selva e nelle paludi, i maestri che arrivavano a cavallo o sui carretti sfidando per chilometri e chilometri le terre malariche, lo sparuto gruppetto di intellettuali, comprese le due giovani donne che credevano nel riscatto dell’istruzione, il pittore famoso che illustrava i libri di testo e decorava le scuole. Ritratti, fotografie, relazioni e diari ci restituiscono anni di entusiasmo condiviso dalle pareti delle due stanzette.
Al momento di andar via, il guardiano ci offre l’acqua là fuori, di fronte alla scuola, e ci dice che non vuole troppa pubblicità per quel posto. I gruppi sono rumorosi, spezzano i gambi dei fiori. Mi guardo intorno nell’aria immobile della mattina estiva e penso che sì, lo spirito del luogo è troppo profondo per ricevere offese.
1
Torno a casa accompagnata da quelle immagini, da quelle storie. Ho il desiderio di raccontare la loro vicenda, di parlare di un gruppo di persone che si è incontrato in un sogno: dare le scuole ai lavoratori dispersi e sfruttati delle campagne intorno a Roma, offrire loro un mezzo di riscatto, creare comunità là dove c’era solo dispersione e solitudine, rendere più efficace la lotta contro la malaria che devastava quelle terre. Un impegno vissuto con intensità e passione anche da quelli che poi se ne sono allontanati per seguire diversi destini.
L’impresa delle scuole è partita da Anna Fraentzel, una donna dal carattere complesso e a volte difficile. È stata lei a dare impulso al progetto. Poi se ne è bruscamente allontanata e ha lasciato l’iniziativa ad altri. La sua vita è stata affollata di volti e di eventi, di lotte ed entusiasmi, di successi e di aspri contrasti. Adesso è sola, chiusa nel silenzio di una casa di riposo. Ha appena superato gli ottanta anni, ma dentro di lei è vivo lo spirito della giovane donna che è arrivata a Roma piena di determinazione e di sogni.
Roma, settembre 1958
Anna Fraentzel guarda le foto del marito Angelo. Le ha appese al muro nella sua stanza nel pensionato delle diaconesse tedesche. Le fanno compagnia nelle lunghe giornate vuote.
«Sei proprio un bell’uomo» dice rivolgendosi a lui con l’affetto di sempre. La foto ritrae un tipico gentiluomo di primo Novecento un po’ stempiato, aspetto severo e distinto, fronte alta e arcuata, orecchie grandi, una barba scura a pizzetto e occhi penetranti.
«Mi sei mancato così tanto» continua Anna. «Ho sbagliato tante cose, lo sai, da quando non ci sei più. Mi sono scontrata con troppe persone, ho abbandonato le nostre scuole. Tu sei stato il mio equilibrio, la mia bilancia. È stato bello lavorare insieme. Io ormai non ho più forza, posso solo starmene qui a ricordare.»
Lui la guarda amabile dalla parete, un po’ marito, un po’ amico, un po’ padre benevolo.
«Tu dicevi che ero come la freccia di un arco» continua Anna, «tesa sempre verso qualcosa, troppo centrata sugli obiettivi. Eri tu il professore, lo scienziato, eppure tu sì che sapevi goderti i fiori, gli alberi, il sole in autunno. E anche gli amici e il buon cibo. Molto più di me. Adesso mi dispiace sai, di essere stata troppo seria. Avevi ragione Angelo, come sempre. Se si potesse ricominciare! Rifarei tutto, ma con maggiore leggerezza. Potremmo anche avere più momenti per noi.»
Anna parla con lui tutti i giorni, continua il loro dialogo ininterrotto di quando lavoravano insieme al laboratorio dell’ospedale Santo Spirito per le ricerche sulla malaria, quando facevano interminabili camminate di lavoro nella campagna romana o quando la sera, nella tranquilla terrazza della loro villa a Frascati, commentavano la giornata e progettavano nuove iniziative.
Le suore scivolano via per le loro faccende negli ampi corridoi. Lei lancia un’ultima occhiata affettuosa alle foto, poi si allontana, si lascia cadere sulla poltroncina. Guarda dalla finestra i grandi alberi di via Farnese, assapora la dolcezza dell’autunno romano e lascia che i ricordi la sommergano a ondate successive, mescolandosi e confondendosi fra di loro. Respira la frescura ombrosa dei grandi parchi di Berlino, la terra della sua infanzia. Sente il calore dorato di Roma come appariva ai suoi occhi dopo il grigiore di Amburgo, si immerge ancora una volta nella tristezza e nella solitudine delle terre malariche delle campagne romane, rivive la pace di villa Rasponi con i fiori colorati e le siepi di ribes, fragole e lamponi coltivate in ricordo della sua terra d’origine.
Tante esperienze, tanta vita passata. È il momento di dare ordine ai ricordi. Prende in mano il quadernetto che le ha portato la nipote Lotte per esortarla a scrivere e comincia a narrare la sua storia.
Sono stata una ragazza fortunata: benestante, ottima famiglia. Avevamo una bella casa a Berlino, grande e sempre piena di ospiti. Mia madre e le mie sorelle maggiori erano perfettamente a loro agio in quella esistenza. Io no. La vita di società non mi interessava, io volevo fare il medico come mio padre e mio nonno. Ero orgogliosa del rispetto da cui erano circondati malgrado la loro origine ebraica. Anche allora, a fine Ottocento, essere ebrei poteva creare dei problemi. C’erano stati episodi di antisemitismo a Berlino. Ma questo non li riguardava, erano troppo affermati, mio padre curava persino la famiglia imperiale. Io volevo essere come loro, guarire i malati, essere utile. Pensavo già che mi sarebbe piaciuto occuparmi delle donne. Ma a quel tempo sembrava che l’unico scopo per noi ragazze di buona famiglia fosse quello di trovare un marito ricco e continuare a fare la stessa vita.
Rimane sospesa con la penna in mano e pensa che per lei non è stato proprio così. Rivolge lo sguardo alle foto, in una c’è la prima capanna-scuola. Intorno il gran silenzio della sera e dentro, allineati sulle panche di legno, i guitti, i lavoratori stagionali dei campi. Li rivede curvi sui loro quaderni alla luce debole delle lampade ad acetilene, infagottati negli abiti pesanti per sfuggire al freddo pungente, stanchi di una giornata di lavoro, ma concentrati nella lotta per il riscatto che combattevano insieme. Ricorda come le loro mani indurite dal lavoro dei campi si stringevano a fatica intorno alla penna e il sorriso incerto che illuminava i loro lineamenti quando riuscivano a compitare una parola.
«La gente pensava che eravamo degli illusi, dei dilettanti, ma intanto facevamo scuola, offrivamo un’opportunità. Ci chiamavano I garibaldini dell’alfabeto.»
Il pensiero la fa sorridere, risveglia tempi lontani. Si raddrizza sulla poltroncina, lancia un altro sguardo alla finestra e invece della dolcezza del pomeriggio romano rievoca i rigidi inverni