La Filigrana Zen di Henry Miller/Henry Miller e Surrealismo

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Primo piano: Henry Miller, 1940
After everything had quietly sifted through my head a great peace came over me.
Here, where the river gently winds through the girdle of hills, lies a soil so saturated with the past
that however far back the minds roams one can never detach it from its human background.
Christ, before my eyes there shimmered such a golden peace that only a neurotic
could dream of turning his head away. (Tropic of Cancer)

Rifiuto del Messaggio Automatico: Henry Miller e il Surrealismo

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André Breton (1924), poeta e teorico del Surrealismo

Uno dei campi più fruttuosi dello studio di Miller è stato quello di valutare il suo lavoro attraverso i modi in cui è stato influenzato dal Surrealismo. Importanti studi accademici di riferimento hanno incluso Henry Miller and Surrealist Metaphor: Riding the Ovarian Trolley (1996) di Gay Louise Balliet, A Self-Made Surrealist: Ideology and Aesthetics in the Work of Henry Miller (2000) di Caroline Blinder e, più recentemente, Henry Miller and the Surrealist Discourse of Excess (2001) di Paul Jashan. Nell'ultima antologia accademica che offre una rivalutazione del lavoro di Miller, Henry Miller: New Perspectives (2015), il saggio di Sarah Garland "A Surrealist Duet: Word and Image in Into the Night Life with Henry Miller and Bezalel Schatz" continua questa lunga tradizione. Pur riconoscendo quanto possa essere utile leggere Miller tramite il prisma del Surrealismo e quanto siano state importanti queste opere nello stabilire Miller come scrittore meritevole di una ricerca approfondita, direi che forse è più produttivo vedere la relazione di Miller con il Surrealismo come uno di contemplazione, impegno ma, in definitiva, rifiuto. Miller iniziò con una visione romanticizzata del Surrealismo, ebbro del suo senso di liberazione personale e creativa dopo il suo trasferimento a Parigi, percependo il Surrealismo come simbolo di una cultura più aperta e intellettuale; il prodotto di un paese che celebrava e rispettava le arti in diretto contrasto con le esperienze di Miller in America. Possiamo vedere la gioia di Miller per la sua nuova libertà in una lettera che inviò in patria al suo amico Emil Schnellock nel 1930, solo un mese dopo essere venuto a Parigi:

« A bookstore with some of Raoul Dufy's drawings in the window. Drawings of charwomen with rosebushes between their legs. An album of Cocteau's Dessins. Exhibition inside of Kandinsky's latest. A treatise on the philosophy of Jean Miro. Then my eye falls on something of rare interest: a book by a Frenchman, illustrated by himself. It is called A Man Cut in Slices. Each chapter begins “the same in the eyes of his family,” “the same in the eyes of his mistress,” etc. I read a few lines and my heart leaps with joy. It is another piece of Surrealism. I believe in it with all my heart. It is an emancipation from classicism, realism, naturalism, and all the other outmoded isms of past and present. Why must literature lag behind painting and sculpture and music? Why must we consider always the intelligence of the reader? Is it not for the reader to endeavor to understand us? »
(Miller, 1991, p. 28)

Nonostante la barriera linguistica, Miller era determinato a raggiungere e prendere parte al gruppo surrealista, arrivando al punto di scrivere quella che equivaleva a una lettera di apprezzamento a Luis Buñuel dopo la proiezione di Un Chien Andalou. Scrisse anche una serie di articoli su film e artisti surrealisti: The Golden Age su Bunuel e L’Age d'Or di Dalì, Scenario un tentativo di sceneggiatura per un film surrealista basato su House of Incest di Anaïs Nin (1936), The Eye of Paris (1937) sul fotografo Brassai, culminando con "An Open Letter to Surrealists Everywhere" (1939), una critica all'ideologia del movimento stesso. "Scarcely anything has been as stimulating to me as the theories and the products of the Surrealists" (Miller, 1939, p. 188), scrisse Miller nel 1938, vicino alla fine del suo soggiorno a Parigi. La parola chiave qui è "stimulating": Miller usò il Surrealismo come piattaforma intellettuale da cui esplorare particolari interessi che già aveva, in particolare il ruolo dell'Inconscio nella scrittura e quale ruolo politico, se del caso, dovrebbe avere lo scrittore. Come dimostrerò, per quanto Miller ammirasse i surrealisti, il più delle volte non era d'accordo con loro. Per quanto interessanti fossero le idee di Breton sull'Automatismo, Miller alla fine lo respinse quasi del tutto e trovò la posizione politica del surrealista francamente incomprensibile. Ciò che penso che il Surrealismo abbia davvero simboleggiato per Miller è ciò che Rank chiamava "l'ideologia dell'arte" del suo tempo. Come ho già dimostrato nel Capitolo 1, secondo Rank l'artista deve comprendere, partecipare, ma alla fine scartare e superare il movimento artistico prevalente del suo periodo. Piuttosto che essere una grande influenza sulla scrittura di Miller o sulla sua concettualizzazione di se stesso come artista, il Surrealismo è stato un test che Miller ha dovuto completare per passare al livello successivo della sua vita artistica nel modello Rankiano. Parimenti, sosterrò che la resistenza di Miller all'Automatismo è profondamente radicata nel concetto bergsoniano secondo cui lo scrittore deve impegnarsi, rivalutare e partecipare attivamente al processo creativo piuttosto che saltare direttamente allo stato puro di creatività promesso dall'Automatismo. Esaminando la relazione di Miller col Surrealismo attraverso l'ambito di Automatismo/Inconscio e impegno politico, mostrerò come Miller fosse affascinato, ma alla fine respingesse i principi basilari del Surrealismo come falsi.

È importante in primo luogo capire esattamente cosa intendesse André Breton per Automatismo e in secondo luogo perché fosse di tale interesse per Miller.[1] Uno dei principali mezzi di espressione surrealista era la scrittura automatica, come definita da Breton in "The Automatic Message" (1933). L'Automatismo si fondava principalmente sull'affermazione che un flusso di parole non censurato e senza alcun abbellimento cosciente poteva in effetti indicare profonde verità metafisiche e universali. Questo era essenziale per Breton poiché credeva che fosse l'unico modo per trascrivere accuratamente l'Inconscio, credendo che l'Inconscio avesse un linguaggio distintivo, quello che caratterizzava come un "murmure", un mormorio che esiste contemporaneamente nella mente umana, e che in circostanze normali è oscurato dalla nostra razionalità. I nostri impulsi antisociali e sovversivi sono incorporati nel mormorio e devono essere negati e controllati per mantenere un'interazione sociale civile. I surrealisti erano felici di ritrarre l'Automatismo come una prospettiva originale sul rapporto tra creatività e punto di vista irrazionale. Tuttavia, non furono certo i primi a esplorare questo tema e stavano anche attingendo pesantemente alle esperienze di lavoro di Breton negli ospedali psichiatrici militari durante la prima guerra mondiale. Avendo una formazione medica di base, per favorire la propria ipotesi Breton fu in grado di utilizzare precedenti ricerche mediche in manicomi in cui i pazienti erano affetti da follia generante particolari forme di riacutizzazioni isteriche di carattere irrazionale. Max Ernst lo aveva anche introdotto al lavoro di Hans Prinzhorn,[2] il celebre psichiatra e storico dell'arte tedesco che aveva analizzato le opere d'arte dei pazienti mentali riscontrando connessioni tra l'autoespressione e la malattia. Come dimostra Blinder, tale ricerca medica, in combinazione con un'attrazione per lo spiritismo popolare dal diciannovesimo secolo fino a post-prima guerra mondiale, alimentò un interesse generale per il soprannaturale e, per i surrealisti, la nozione di voci ed echi da altre dimensioni. Questo col tempo lasciò il posto a ciò che i surrealisti chiameranno "le merveilleux", il meraviglioso come essenza del sé, spogliata da razionalità e ragione. Chi meglio dell'artista e scrittore per essere la nostra guida in questa nuova terra? Eliminando l'ordine, la struttura e la tecnica, l'artista e lo scrittore potevano scoprire e accedere alla vera creatività del meraviglioso attraverso l'impiego della scrittura e del disegno automatici.

La difficoltà dell'Automatismo era come inquadrare il suo valore. Come avere una struttura che sostenesse un sistema di scrittura che fondamentalmente non poteva essere predeterminato, ma aveva comunque un significato creativo? Lo stesso Breton lo riconobbe quando scrisse che è praticamente impossibile "grasp involuntary verbal representation and fix it on the page without imposing on it any kind of qualitative judgment" (Breton, 1978, p. 97). Breton capì che uno dei problemi principali dell'Automatismo è che poteva essere visto come una strategia calcolata per conferire alla mente delle capacità che è impossibile classificare. Breton, anticipando tali critiche, si mise subito sulla difensiva:

« I will not hesitate to say that the history of automatic writing in surrealism has been one of continuing misfortune. But the sly protests of the critics ...aggressive on this point will not prevent me from acknowledging that for many years I have counted on the torrent of automatic writing to purge, definitively, the literary stables. »
(Breton, 1978, p. 100)

L'Automatismo doveva offrire qualcosa di nuovo, differenziato dalle categorizzazioni prevalenti della creatività, per fornire sia un quadro di attualità che un obiettivo riconoscibile:

« It remains for us to suppress... both that which oppresses us in the moral order and that which "physically", as they say, deprives us of a clear view. If only, for instance, we could have these celebrated trees cleared out of the way! The secret of surrealism lies in the fact that we are convinced something is hidden behind them. Now one needs but examine the various methods of doing away with trees to perceive that only one of them remains to us, depending in the final analysis, on our power of voluntary hallucination. »
(Breton, 1978, p. 45)

Non è difficile discernere l'influenza delle "allucinazioni volontarie" di Breton su Miller durante il suo soggiorno a Parigi. Alcuni passaggi in Tropic of Cancer giocano con allucinazioni e scrittura in flusso di coscienza:

« Tania, where now is that warm cunt of yours, those fat, heavy garters, those soft, bulging thighs? There is a bone in my prick six inches long. I will ream out every wrinkle in your cunt, Tania, big with seed. I will send you home to your Sylvester with an ache in your belly and your womb turned inside out. Your Sylvester! Yes, he knows how to build a fire, but I know how to inflame a cunt. I shoot hot bolts into you, Tania, I make your ovaries incandescent. [...] After me you can take on stallions, bulls, rams, drakes, St. Bernards. You can stuff toads, bats, lizards up your rectum. You can shit arpeggios if you like, or string a zither across your navel. I am fucking you, Tania, so that you'll stay fucked. And if you are afraid of being fucked publicly I will fuck you privately. I will tear off a few hairs from your cunt and paste them on Boris' chin. I will bite into your clitoris and spit out two franc pieces... »
(Miller, 1934, p. 5)

C'è una qualità allucinatoria nella scrittura di Miller in questo stralcio. Non è un cosiddetto resoconto normale di un sogno sessuale ad occhi aperti nel senso che perde molto rapidamente la percezione di tempo lineare: scrive di ciò che ha fatto e di ciò che farà a Tania, un esempio di compenetrazione bergsoniana. Le immagini sembrano sovrapporsi e c'è un senso di velocità crescente nella prosa, un aumento di tensione, sia sessuale che letteraria. Oltre a questo abbiamo una varietà di immagini che non sembrano appropriate all'argomento; l'immaginario animale può essere appena comprensibile, anche se un po' bizzarro, ma la peculiare inclusione di strumenti musicali e lo sputar fuori "two franc pieces" è un ottimo esempio di scrittura a flusso di coscienza. L'effetto complessivo è di movimento inarrestabile, un impeto di creatività che colloca il non-familiare nell'identificabile; la réverie sessuale riconoscibile è sostituita da episodi surreali di immagine-memoria.

Tutte e tre le opere prodotte da Miller durante quel decennio, Tropic of Cancer, Black Spring (1936) e Tropic of Capricorn (1939) mostrano tracce di Miller alle prese con concetti surrealisti. Le domande che Miller si pone, fortemente influenzato dalle sue letture di Rank e Bergson, sono spesso interpretate attraverso parametri surrealisti. In Black Spring Miller abbraccia l'idea dell'Automatismo e della rottura con la realtà, entrando davvero nella creatività inconscia:

« I am in the hands of unseen powers. I put the typewriter away and I commence to record what is being dictated to me. Pages and pages of notes, and for each incident I am reminded of where to find the context... I am exultant and at the same time I am worried. If it continues at this rate I may have a haemorrhage. About three o’clock I decide to obey no longer. Someone is dictating to me constantly- and with no regard for my health. I tell you, the whole day passes this way, I’ve surrendered long ago. O.K., I say to myself. If it’s ideas today, then it’s ideas. Princesse, a vos ordres. And I slave away, as though it were exactly what I wanted to do myself. After dinner I am quite worn out. The ideas are still inundating me, but I am so exhausted that I can lie back now and let them play over me like an electric message... The pencil is in my hand again, the margin crammed with notes. It is midnight. The dictation has ceased. A free man again. »
(Miller, 1936, pp. 60-61)

All'interno di questo brano possiamo vedere Miller sia abbracciare che rifiutare l'Automatismo e per estensione il Surrealismo stesso. Miller all'inizio si trova "esultante" mentre le parole si riversano da lui, un portale creativo si è aperto, il suo inconscio si scatena, ma ha presto dubbi sulla sua fecondità letteraria. Non ha alcun controllo sulle parole o su come vengono fuori, questo è il punto cruciale dell'Automatismo e Miller ne è spaventato. Miller è intellettualmente passivo, è semplicemente il recipiente attraverso il quale vengono le parole: è davvero diverso dalla macchina da scrivere o da carta e matita? È esausto e incapace di continuare, quando finisce il "dettato" ha perso ore, ma è finalmente "a free man again". Ciò che attrae Miller nell'Automatismo è l'idea di spazzare via i vecchi modi di scrivere convenzionali. Vuole vedere la letteratura rinvigorita, il linguaggio usato per riflettere il presente. L'idea di convenzione letteraria è ripugnante per Miller quanto lo è per i surrealisti; tuttavia, dove differiscono radicalmente è nel ruolo dello scrittore nel plasmare la propria opera. Miller non ha interesse a essere un tramite verso il meraviglioso, vuole plasmare direttamente questo proprio lavoro. Per Breton, la passività o ciò che egli chiama "disattenzione e indifferenza" deve essere praticata in ogni momento:

« ...an inevitable delectation (after the fact) in the very terms of the texts obtained, and in particular in the images and symbolic figurations abounding in them, has had a secondary effect of diverting most of their authors from the inattention and indifference which, at least during the production of such texts, must be maintained. This attitude, instinctive in those who are used to appreciating poetic value, has had the vexing consequence of giving the participant an immediate awareness of each part of the message received. »
(Breton, 1978, p. 107)

Non appena lo scrittore cerca di plasmare la sua opera, l'effetto impreciso della memoria e della personalità diventa evidente. Il disturbo all'Automatismo causato dalla memoria e dalla personalità dello scrittore porta alla contaminazione dello scrittore come trasmettitore del messaggio Automatico. Come hanno notato altri critici, portato alla sua logica conclusione, l'Automatismo trasforma gli scrittori in macchine, i media della creatività piuttosto che gli architetti. Miller non riesce a comprendere l'arte umana priva di memoria e personalità o, del resto, il ruolo attivo dello scrittore nella propria creatività. L'affidamento di Miller alla memoria come forza creativa ci riporta alla definizione di pensiero di Bergson come un processo continuo di divenire e può essere visto come parte integrante della struttura di Miller nella sua ricerca di un percorso individuale verso l'illuminazione:

« In reading my books, which are purely autobiographical, one should bear in mind that... I have frequently discarded the chronological sequence in favour of the spiral or circular form of progression. The time sequence which relates one event to another in linear fashion strikes me as falsely imitative of the true rhythm of life. The facts and events which form the chain of one's life are but the starting points along the path of self-discovery. I have endeavoured to plot the inner pattern, following the potential being who was constantly deflected from his course, who circled around himself, was becalmed for long stretches, sank to the bottom, or vainly essayed to reach the lonely, desolate summits. I have tried to capture the quintessential moments wherein whatever happened produced profound alterations. »
(Miller, 1970, p. 101)

All'interno di "An Open Letter to Surrealist Everywhere" (1939) vediamo Miller affrontare l'essenza stessa dei suoi problemi con il Surrealismo. "An Open Letter to Surrealist Everywhere" è un saggio sconclusionato che affronta una varietà di argomenti, che spesso sembrano andare fuori strada ma alla fine ci fornisce l'interpretazione molto personale di Miller sui punti di forza e di debolezza del movimento. L'area di esame iniziale di Miller è il rapporto tra la politica e l'artista, in particolare il ruolo che l'artista dovrebbe svolgere come arbitro di cambiamento. Il rapporto del Surrealismo con la politica di estrema sinistra,[3] per quanto complesso, lasciava Miller indifferente. Miller poteva forse trovare un terreno comune su concetti come l'Automatismo e godersi il dibattito sulla follia nell'arte, ma non poteva comprendere o accettare le aspirazioni politiche del Surrealismo. Ciò che vediamo è la profonda sfiducia di Miller nei confronti del collettivo e il tributo che questo inevitabilmente esige dall'individuo.

Miller credeva che i surrealisti fossero diventati così politicizzati da essersi ingannati nel pensare che i movimenti artistici avessero il potenziale per una vera rivoluzione politica, quando per Miller l'unica speranza per cambiare la società proveniva dall'autoesame e dalla volontà individuale di auto-progresso. Il profondo scetticismo politico di Miller nasce dalla ferma convinzione che "There is no feasible scheme for universal liberation" (Miller, 1939, p.153) e, come tale, egli è diametralmente opposto alla struttura socialista di Breton per il Surrealismo, come anche ai quadri sfacciatamente ideologici per la letteratura in generale. Per Miller, la ricerca della libertà è vista in termini bergsoniani, rifiuta la razionalizzazione del creativo; il linguaggio e la concettualizzazione dell'artista politico lo confondono:

« Creation is fundamentally personal and religious. It has nothing to do with liberty and justice, which are idle words signifying nobody knows precisely what. It has to do with making poetry, or, if you will, with making life a poem. It has to do with the adoption of a creative attitude towards life. »
(Miller, 1939, p. 152)

"An Open Letter to Surrealists Everywhere" continua attaccando in dettaglio il principale surrealista, Paul Éluard. Miller considerava Éluard un amico personale e ammirava apertamente il suo lavoro, tuttavia per Miller Eluard era colpevole di due grandi peccati, in primo luogo la politicizzazione del suo lavoro e poi l'"abbassamento" del processo creativo per raggiungere il collettivo:

 
Paul Éluard in 1945
« Below the belt all men are brothers. Man has never known soli-tude except in the upper regions where one is either a poet or a madman—or a criminal. “To-day,’ writes Paul Éluard, “the soli-tude of poets is breaking down. They are now men among men, they have brothers.’ It is unfortunately too true, and that is why the poet is becoming more and more rare. I still prefer the anarchic life; unlike Paul Éluard I cannot say that the word “fraternization” exalts me. Nor does it seem to me that this idea of brotherhood arises from a poetic conception of life... The brotherhood of man is a permanent delusion common to idealists everywhere in all epochs: it is the reduction of the principle of individuation to the least common denominator of intelligibility. It is what leads the masses to identify themselves with movie stars and megalomaniacs like Hitler and Mussolini... That Paul Éluard is desperately lonely, that he strives with might and main to establish communication with his fellow-man, I understand and subscribe to with all my heart. But when Paul Éluard goes down into the street and becomes a man he is not making himself un-derstood and liked for what he is—for the poet that he is, I mean. On the contrary, he is establishing communication with his fellow-men by capitulation, by renunciation of his individuality, his high role. If he is accepted it is only because he is willing to surrender those qualities which differentiate him from his fellow-men and make him unsympathetic and unintelligible to them. »
(Miller, 1939, p. 151)

Per Miller l'esperienza creativa è profondamente radicata nell'individuo, prevede un ottundimento di quel processo, e per difetto una mancanza di autenticità, quando è incatenato all'opportunità politica. Il ruolo dell'artista è quello di combinare l'esperienza creativa e quella vissuta per creare la verità — se questo poi porta gli altri a un percorso simile, ben venga. Condurre attivamente le masse a qualsiasi tipo di posizione, tuttavia, è un anatema per Miller. C'è una purezza nell'atto della creazione che è unicamente individuale e per Miller non è, e non può, essere parte di un dibattito politico più ampio. Scritto nel 1938, il saggio è pieno di presagi per ciò che accade a una società quando gli artisti rifiutano la loro posizione tradizionale e discendono alla politica delle masse:

« The Surrealists are trying to open a magic chamber of man’s being through knowledge. That is where the fatal mistake lies. They are looking backwards instead of forwards. To discredit the world of reality, as they suggest, is an act of will, not of fate. What is really discredited is done silently, unostentatiously, and alone. People band together to proclaim an ideal, or a principle, to establish a movement, to organize a cult. But if they believed, each and every one wholeheartedly, they would have no need of numbers, nor of creeds, nor of principles, etc. The fear of standing alone is the evidence that the faith is weak. Man is happier when he is in a crowd; he feels safe and justified in what he is doing. But crowds have never accomplished anything, except destruction. The man who wants to organize a movement is invoking aid to help tear down something which he is powerless to combat singlehanded. When a man is truly creative he works single-handed and he wants no help. A man acting alone, on faith, can accomplish what trained armies are incapable of accomplishing. To believe in one’s self, in one’s own powers, is apparently the most difficult thing in the world. Unfortunately there is nothing, absolutely nothing, more efficacious than believing in one’s self. When a movement dies there is left only the memory of the man who originated the movement, the man who believed in what he was saying, what he was doing. The others are without name; they contributed only their faith in an idea. And that is never enough. »
(Miller, 1939, p. 184)

Miller riconosce la necessità negli esseri umani di riunirsi nella speranza di ottenere un cambiamento politico, ma vede questo come un errore e un'illusione: nulla può essere realizzato dalle masse che non debba essere prima realizzato dall'individuo. Per Miller ciò che il collettivo politico simboleggia non è altro che la mentalità del gregge insita in ognuno di noi, un'incapacità di prevedere un autentico cambiamento individuale — piuttosto è più facile percepire il cambiamento all'interno dei confini accettabili, parametri che sono socialmente accettabili per lo status quo. In termini bergsoniani, il cambiamento politico è diventato così concettualizzato da rendere obsoleta l'idea stessa.

L'artista deve vivere al di sopra delle preoccupazioni politiche del collettivo, quasi su un piano intellettuale più elevato, e quando cerca di entrare nella sfera politica deve rendersi conto della vera natura delle masse. Per Miller le masse erano qualcosa di cui sospettare, e le vedeva come intrinsecamente stupide, avide e facilmente guidate. Proprio per questo usa apertamente i nomi di Hitler e Mussolini per illustrare che le masse desiderano un dittatore, non la libertà. Per quanto nobili possano essere le convinzioni politiche dei surrealisti, Miller ritiene che le masse desiderino essere guidate, a destra o a sinistra, non fa alcuna differenza: l'istituzionalizzazione della politica è determinata in generale da una riduzione: "it is the reduction of the principle of individuation to the least common denominator of intelligibility" (Miller, 1939, p. 152). L'appello della politica richiede la degradazione dell'intelletto per fare appello alle masse idiote. Per Miller, il ruolo dell'artista è quello di "revive the primitive, anarchic instincts which have been sacrificed for the illusion of living in comfort" (Miller, 1939, p. 156). Questo stordimento dell'intelletto per fare appello alle masse ripugnava Miller, sia che provenisse dai dittatori di destra o dagli intellettuali di sinistra. Miller non chiedeva o vedeva la necessità di un leader:

« I am not against leaders per se. On the contrary, I know how necessary they are. They will be necessary as long as men are insufficient unto themselves. As for myself, I need no leader and no god. I am my own leader and my own god. I make my own bibles. I believe in myself — that is my whole credo. »
(Miller, 1939, p. 158)

L'atteggiamento di Miller nei confronti dell'impegno politico durante questo periodo ha ricevuto molta attenzione da parte della critica, soprattutto a causa di "Inside the Whale" di George Orwell (1940), un saggio in tre parti che mescola una revisione superficiale della scrittura di Miller fino a quel momento, insieme a un attacco personale più aneddotico contro la passività politica di Miller, insieme a una panoramica generale della letteratura in quel momento, il tutto attraverso il prisma del racconto biblico di Giona e la Balena. Molti critici hanno visto "Inside the Whale" come un attacco diretto a Miller; tuttavia lo vedo come una continuazione delle lettere che i due scrittori si erano scambiati alcuni anni prima.[4] Orwell ammirava molto Miller e viceversa, tuttavia qui si trovavano due scrittori che gravitavano verso poli opposti in relazione all'azione politica. Mentre Miller si sposta, o più precisamente si allontana, dalla politica e dall'azione collettiva, Orwell è più convinto che mai che questo sia un lusso che il mondo non può permettersi. Il concetto stesso di realtà per Orwell e per Miller è in netto contrasto:

« I liked Tropic of Cancer especially for three things, first of all a peculiar rhythmic quality in your English, secondly the fact that you dealt with facts well known to everybody but never mentioned in print... thirdly the way in which you would wander off into a kind of reverie where the laws of normal reality were slipped just a little but not too much... but I think on the whole in Black Spring you have moved too much from the ordinary world into a sort of Mickey Mouse universe where people and things don’t have to obey the rules of space and time. I dare say I am wrong and have missed your drift altogether, but I have a sort of belly-to-earth attitude and always feel uneasy when I get away from the ordinary world where grass is green and stones are hard etc. »
(Colls, 2013, p. 45)

Mentre Miller inizia a giocare di più con i concetti bergsoniani di tempo e realtà nel suo lavoro e, fino a un certo punto, col Surrealismo (specialmente in Black Spring), Orwell non riesce a fare il salto creativo insieme a lui. Ciò che Orwell fa è mettere Miller in contrasto con altri scrittori, mostrando quanto fosse fuori passo il pacifismo di Miller, ma anche quanto la passività, come la vedeva Orwell, fosse parte di un tutto più grande:

 
George Orwell (1940)
« I first met Miller at the end of 1936, when I was passing through Paris on my way to Spain. What most intrigued me about him was to find that he felt no interest in the Spanish war whatever. He merely told me in forcible terms that to go to Spain at that moment was the act of an idiot. He could understand anyone going there from purely selfish motives, out of curiosity, for instance, but to mix oneself up in such things from a sense obligation was sheer stupidity. In any case my ideas about combating Fascism, defending democracy, etc., etc., were all baloney. Our civilization was destined to be swept away and replaced by something so different that we should scarcely regard it as human — a prospect that did not bother him, he said. And some such outlook is implicit throughout his work. Everywhere there is the sense of the approaching cataclysm, and almost everywhere the implied belief that it doesn't matter. The only political declaration which, so far as I know, he has ever made in print is a purely negative one. A year or so ago an American magazine, the Marxist Quarterly, sent out a questionnaire to various American writers asking them to define their attitude on the subject of war. Miller replied in terms of extreme pacifism, an individual refusal to fight, with no apparent wish to convert others to the same opinion — practically, in fact, a declaration of irresponsibility. »
(Orwell, 1961, p. 149)

Direi che ciò che Miller sta praticando qui è il distattaccamento buddhista. Se qualcuno vuole fare la guerra per l'esperienza che comporta, quella è una sua scelta, ma farlo per un'ingenua convinzione in una causa o per dovere non ha senso. Orwell riconosce che Miller asserisce la sua posizione senza alcun tentativo di convertire gli altri alle sue convinzioni, vedendola attraverso l'incredulità come un'ammissione di irresponsabilità. Penso che questo dimostri ancora una volta quanto siano distanti Miller e Orwell, non solo politicamente, ma anche per quanto riguarda il modo in cui prevedono l'azione politica. Orwell non può concepire che si possa mantenere una credenza profondamente radicata e non cercare di convertire gli altri al proprio modo di pensare, mentre Miller ha una visione molto buddhista dell'azione e capisce che non ha senso se l'individuo non arriva a rendersene conto personalmente. Miller non vede alcuna differenza tra fascismo, comunismo e democrazia, perché sono tutte variazioni su un tema, truccate per costringere l'individuo a entrare nel collettivo, per mantenere lo status quo ottuso:

« I am against revolutions because they always involve a return to status quo. I am against the status quo both before and after revolutions. I don’t want to wear a black shirt or a red shirt. I want to wear the shirt that suits my taste. And I don’t want to salute like an automaton either. I prefer to shake hands when I meet someone I like. The fact is, to put it simply, I am positively against all this crap which is carried on first in the name of this thing, then in the name of that. I believe only in what is active, immediate and personal. »
(Miller, 1961, p. 160)

Miller nega le distinzioni politiche, credendo che una parte non sia migliore o peggiore dell'altra, perché tutti cercano di preservare un modo di vivere collettivo che Miller vede come un rifiuto fondamentale dell'individualità. Rivoluzione è una parola vuota e senza senso all'interno di quella che non è altro che retorica politica. Principalmente, la posizione di Miller è quella di un semplice individualista che non riconosce alcun obbligo a nessun altro, in ogni caso, nessun obbligo verso la società nel suo insieme: un modo espressamente individualistico buddhista di vedere la guerra in arrivo e come funzionare al suo interno. Orwell identifica la completa adesione di Miller alla fede nell'individualismo, ma piuttosto che riconoscere l'importanza delle riserve di Miller riguardo all'estetizzazione della politica all'interno dell'avanguardia, Orwell percepisce l'individualismo di Miller come un atteggiamento passivo. Orwell ha ragione nel percepire la passività di Miller, ma non credo che la capisca per quello che è veramente. Orwell è così intensamente politico che è molto difficile per lui vedere che la posizione di Miller non è quella di negazione o quella di un uomo intrinsecamente egoista incapace di pensare agli altri, ma la posizione di un uomo che ha preso una strada diversa, che rifiuta di partecipare a una situazione che vede come poco più di una pantomima sociale. Le opinioni di Miller sulla guerra furono fortemente ispirate dalla sua lettura dello psicoterapeuta britannico E. Graham Howe. Esaminerò l'influenza di Howe su Miller in modo più dettagliato in relazione al buddhismo nel Capitolo 4, tuttavia, in breve, Howe vedeva la guerra come un gioco controllato di nozioni obsolete del bene contro il male / giusto contro errato, messo in scena e orchestrato dagli arbitri dello status quo politico. Miller e Orwell non sarebbero potuti provenire da posizioni più diametralmente opposte, sinceramente sostenute e inflessibili. Orwell sminuisce Miller, ridicolizzandolo per la sua vita letteraria a Parigi, isolata dalle realtà politiche che lo circondano:

« When Tropic of Cancer was published the Italians were marching into Abyssinia and Hitler's concentration camps were already bulging. The intellectual foci of the world were Rome, Moscow, and Berlin. It did not seem to be a moment at which a novel of outstanding value was likely to be written about American dead-beats cadging drinks in the Latin Quarter. Of course a novelist is not obliged to write directly about contemporary history, but a novelist who simply disregards the major public events of the moment is generally either a footler or a plain idiot. From a mere account of the subject matter of Tropic of Cancer most people would probably assume it to be no more than a bit of naughty-naughty left over from the twenties. »
(Orwell, 1957, p. 10)

I critici hanno osservato che il problema con "An Open Letter to Surrealists Everywhere" è che Miller non si dichiara chiaramente uno scrittore apolitico, mentre denigra coloro che vedono la loro responsabilità di agire e scrivere a sostegno di una credenza sincera. La critica di Miller agli scrittori politici e in particolare ai surrealisti è di nuovo ammantata di ideali rankiani. Lo scrittore deve affrontare la sua vita così com'è e poi farne dell'arte; ricadere sulla politica è negare la vita come opera d'arte in sé:

« In every age, just as in every life worthy of the name, there is the effort to reestablish that equilibrium which is disturbed by the power and tyranny which a few great individuals exercise over us. This struggle is fundamentally personal and religious... One of the most effective ways in which it expresses itself is in killing off the tyrannical influences wielded over us by those who are already dead. It consists not in denying these examplars, but in absorbing them, assimilating them, and eventually surpassing them. Each man has to do this for himself. There is no feasible scheme for universal liberation. »
(Miller, 1939, p. 152)

Il giudizio di Miller sui surrealisti è chiaramente rankiano, nel senso che accusa i surrealisti di non aver vissuto. Hanno permesso che la loro arte si separasse dalla loro vita e il risultato è che hanno smesso di vivere – di conseguenza le loro vite non sono più arte in se stesse e questa disconnessione li ha portati alla sterilità della politica:

« It seems to me that this struggle for liberty and justice is a confession or admission on the part of all those engaging in such a struggle that they have failed to live their own lives. Let us not deceive ourselves about ‘humanitarian impulses’ on the part of the great brotherhood. »
(Miller, 1939, p. 157)

Miller ignora le complessità della politica nel movimento surrealista e anche le divergenze tra i singoli surrealisti e il loro livello di impegno politico. Similmente, non riconosce il baluardo che il Surrealismo offriva all'intellighenzia di sinistra nell'era del realismo socialista sovietico. Miller sarebbe stato ben consapevole di queste distinzioni, ma le avrebbe ritenute irrilevanti rispetto alla sua visione incrollabile del ruolo individuale dell'artista e dell'effetto tossico di artisti e scrittori che si posizionano all'interno della sfera politica — tuttavia a volte ciò porta a un Miller che semplifica eccessivamente la natura politica dei surrealisti e si apre alle accuse di travisamento del gruppo per adattarlo alla sua agenda, certamente non qualcosa di cui Miller non era stato colpevole prima e che non ne sarebbe stato di nuovo dopo il 1939.

L'antipatia di Miller per gli artisti che si impegnavano politicamente fu una posizione a cui arrivò abbastanza facilmente e sarebbe stato impossibile fargliela cambiare. L'altra domanda principale che affrontò in "An Open Letter to Surrealists Everywhere", tuttavia, non ebbe una risposta così facile. Nell'esaminare le opinioni di Miller sull'Automatismo, ho acennato alla divergenza tra le opinioni di Miller e quelle dei surrealisti sulla natura della creatività e su come tale creatività viene espressa. I surrealisti basavano gran parte del loro concetto sul ruolo dell'Inconscio nella creatività. Anche se non rientra nello scopo di questo Capitolo fornire un'analisi approfondita dell'influenza di Freud sui surrealisti, userò la teoria freudiana dell'Inconscio utilizzata da Breton.[5] Miller collegò il bisogno di azione politica dei surrealisti a un più ampio malessere sociale, l'incapacità di credere nel potenziale dell'individuo e la conseguente propensione a guardare verso l'Inconscio per una risoluzione:

« Our world is suffering from mental disorders—from the insanities and neuroses of one form and another. Just as literature swings at times from the poetic to the prosodic, so nowadays we have the swing from the physical disorders to the mental, with the inevitable emergence of new types of genius cropping out among the mental healers. All that the creative personality demands is a new field for the exercise of its powers; out of the dark, inchoate forces, these personalities will, by the exercise of their creative faculties, impose upon the world a new ideology, a new and vital set of symbols. What the collective mass desires is the concrete, visible, tangible substance... This they can pore over, chew, masticate, tear to pieces or prostrate themselves before. Tyranny always works best under the guise of liberating ideas. The tyranny of ideas is merely another way of saying the tyranny of a few great personalities. »
(Miller, 1939, p. 157)

Ovviamente qui sono in gioco questioni molto più ampie, ma Miller è direttamente interessato a ciò che vede come "The exploration of the Unconscious which is now under way is a confession of the bankruptcy of the spirit" (Miller, 1939, p. 170) o, come dice Breton in "The Automatic Message", "the determination of the precise constitution of the subliminal" (Breton, 1934, p. 100). Entrambi arrivano al ruolo dell'Inconscio da punti molto diversi: quello di Miller è il sospetto, quello di Breton è la rivelazione. Miller non nega l'influenza che l'Inconscio ha sulla creatività, tuttavia più Breton tenta di determinarne i termini precisi, più Miller prova disagio, iniziando a vedere il processo creativo come castrato da esso piuttosto che rinvigorito. A questa preoccupazione si aggiunge il fatto che a Miller sembra che i surrealisti non pensino che l'Inconscio richieda un ulteriore esame in sé stesso come concetto:

« The stress on the Unconscious forces of man does not necessarily imply the elimination of consciousness. On the contrary, it implies the expansion of consciousness. There can be no return to an instinctive life, and in fact, even among primitive men I see no evidence of purely instinctive life. »
(Miller, 1939, p. 189)

Miller inizia a capire quale sia il suo vero problema con il Surrealismo e ci riporterà di nuovo al suo concetto di artista influenzato dalle sue letture di Bergson e Rank. Il rapporto tra il primitivo e l'istinto è alla radice della creatività sia per Miller che per i surrealisti. In parole povere, i surrealisti definiscono l'Inconscio nei termini di una potenza istintiva e comprensiva all'interno dell'umanità, suggerendo di conseguenza che un ritorno al primitivo libererà l'umanità dalla contaminazione soffocante della razionalità. Per Miller l'Inconscio non è visto in questi termini, non è il mezzo o la destinazione della vera creatività. Piuttosto, in termini rankiani, è l'incapacità di impegnarsi con l'attrito della vita. L'attrito tra l'Inconscio e il Conscio è essenziale per la visione della creatività di Miller; i surrealisti cercano l'assimilazione nell'Inconscio, mentre Miller richiede dissidenza e discordia. Sia Miller che i surrealisti usano la parola "primitive" nel senso positivo di una rottura libera dalle convenzioni, ciò su cui non sono d'accordo è come avviene tale rottura. È chiaro che i surrealisti hanno modificato la teoria dell'Inconscio di Freud per adattarla al loro argomento più ampio, e allo stesso modo la critica di Miller si basa sulla sua valutazione piuttosto antagonistica del freudismo, tuttavia ciò che le loro opinioni opposte sull'Inconscio fanno è di riportarci nuovamente all'Automatismo e all'individualità dell'artista.

La romanticizzazione surrealista del primitivo come terra promessa creativa a cui si accede attraverso l'Inconscio è profondamente sospetta per Miller, in quanto nega il razionale come parte integrante del processo creativo, ma anche che, giunto alla sua naturale conclusione, confuta il posto legittimo dell'artista equiparando l'istinto artistico a qualcosa che può essere curato. Poiché il surrealista abbraccia l'idea del disturbo mentale come un aspetto chiave dell'Inconscio, Miller lo vede come dannoso per la ricerca dell'artista di comunicare con la società. L'artista richiede rispetto per il suo medium se vuole essere in grado di collegarsi con il suo piccolo gruppo di individui che la pensano allo stesso modo — una designazione di follia, indossata come segno di orgoglio o meno, lo rende impossibile. L'Automatismo basato com'è sulle emanazioni dell'Inconscio, diventa il grande agente democratizzante del processo creativo. In teoria ognuno può incanalare il proprio Inconscio nell'invenzione così la posizione formalmente elitaria dell'artista diventa obsoleta o quantomeno ridotta. Caroline Blinder mostra che la comprensione di Breton delle radici dell'Automatismo nel linguaggio porterebbe a mettere da parte lo scrittore dal suo stesso lavoro:

« Breton classifies as visual images that are liable to be actions or pictures of an external reality which by nature are already laden with significance, and which we as a result have a propensity to sentimentalise or understand according to our own psychological make-up. In Breton's rationale, Automatism's deference to words in themselves must be seen in the light of a complete stress on the impersonality of the manifestations. Breton, by concentrating exclusively on the legitimacy of the words rather than the artist from whom they come, looks to de-sentimentalise and depersonalise language. In order for Breton to do this he has to de-emphasise the writer's capacity to reason. Reason, as Breton understands it, is instrumental in "subjecting the works of the spirit to its irrevocable dogmas" and thus deprives us "of the mode of expression which harms us the least". »

Breton collega la Coscienza e le inibizioni con la ragione, ribadendo la tesi dello scrittore che cede il controllo all'Inconscio, per liberarsi da un'altra forma di oppressione. Come dimostra Blinder, "If the instinctual and desire-driven in Freudian terms negatively impacts our potential as social beings, it confirms for the Surrealists that it is in actuality a radical way of subverting conventional social structures" (Blinder, 1999, p. 24). L'approccio più visionario di Miller è in qualche modo in contrasto con Breton poiché vede il convenzionale e il familiare come strano e spettacolare in sé e per sé e quindi giustifica la sua attenzione nel raccontare l'ordinario come straordinario. Ad esempio in Black Spring combina ininterrottamente per quasi tre pagine i nomi di personaggi famosi, persone comuni, oggetti e aziende, assorbendo la quotidianità nel romanzo attraverso elenchi. Eccone un breve estratto:

« ...And then suddenly, like Jacob when he mounted the golden ladder, suddenly all the voices of heaven break loose. Like a geyser spurting forth from the bare earth the whole American scene gushes up — American Can, American Tel&Tel, Atlantic and Pacific, Standard Oil, United Cigars, Father John, Sacco&Vazetti, Uneeds Biscuit, Seaboard Air Line, Sapolio, Nick Carter, Trixie Friganza, Foxy Grandpa... »
(Miller, 1936, p. 203)

Miller usa le liste[6] come una forma di Automatismo per stabilire un senso del luogo, del tempo o dell'umore. Lo aveva anche usato con grande efficacia in Tropic of Cancer:

« Tania is a fever, too — les voies urinaires, Café de la Liberte, Place des Vosges, bright neckties on the Boulevard Montparnasse, dark bathrooms, Porto Sec, Abdullah cigarettes, the adagio sonata Pathetique, aural amplifications, anecdotal séances, burnt sienna breasts, heavy garters, what time is it, golden pheasants stuffed with chestnuts, taffeta fingers, vaporish twilights turning to ilex, acromegaly, cancer and delirium, warm veils, poker chips, carpets of blood and soft thighs. »
(Miller, 1934, p. 5)

Per Miller, la facoltà visionaria dello scrittore funziona per portare una nuova visione del mondo immediato, qualcosa che gli oggetti in sé, per quanto peculiari e insoliti possano sembrare, non possono fornire:

« The Surrealists themselves have demonstrated the possibilities of the marvelous which lie concealed in the commonplace. They have done it by juxtaposition. But the effect of these strange transpositions and juxtapositions of the most unlike things has been to freshen the vision... The vision precedes the arrangement, or rearrangement. The world doesn’t grow stale. Every great artist by his work re-affirms this fact. The artist is the opposite of the politically-minded individual, the opposite of die reformer, the opposite of the ideal-fat. The artist does not tinker with the universe: he recreates it out of his own experience and understanding of life. He knows that the transformation must proceed from within outward, not vice Versa. The world problem becomes the problem of the Self. The World problem is the projection of die inner problem. It is a process of expropriating the world, of becoming God. The striving toward this limit, the expansion of the Self, in other words, is what truly brings about the condition of the marvelous. Knowledge is not involved, nor power. But vision. »
(Miller, 1939, p. 157)

Miller riconosce il concetto surrealista del meraviglioso, ma sente che hanno dimenticato la sua importanza nella loro ricerca del politico e la loro dipendenza dall'Inconscio per spiegare tutto. Miller ribadisce ancora una volta che non può esserci creatività autentica che non abbia origine dal . È qui che Miller fa una differenziazione che nella sua mente invalida ciò che i surrealisti stanno cercando di fare rispetto a ciò che vede se stesso fare. Entrambi sono interessati al meraviglioso, ma per Miller i surrealisti stanno reagendo "against the crippling, dwarfing harmony imposed by French culture" (Miller, 1939, p. 194), mentre la sua interazione con il meraviglioso è direttamente legata alla sua creatività. Miller sottolinea che la ricreazione dell'esperienza individuale non consente la retorica o l'azione politica se lo scopo è creare comunicazione, quindi tale comunicazione deve essere istintiva e individuale, ed è proprio questo bisogno di comunicare che è il segno del vero artista. L'indipendenza artistica dell'individuo non è la priorità assoluta dell'Automatismo, mentre per Miller si potrebbe quasi dire l'esatto contrario:

« Will analysis, or revolution, or anything else dissolve this picture? Is understanding a goal in itself, or is understanding a by-product? Do we want a closer rapport between artist and collectivity, or do we want an increasing tension? Do we want art to become more communicative, or do we want it to be more fecundating? Do we want every man to become an artist and thus eliminate art? »
(Miller, 1939, p. 158)

Miller chiude il cerchio nella sua critica dei surrealisti: per Miller il ruolo dell'artista è quello di creare e vivere autenticamente, poiché l'uno non è possibile senza l'altro — l'artista non è un membro normale della società. Non è possibile per tutti diventare artisti: per Miller artista è una designazione acquisita attraverso la sofferenza e l'allontanamento dalle comodità e dalle sicurezze della vita quotidiana. Non esiste un modo rapido per attingere alla propria creatività, nessuna botola speciale nella mente che può essere aperta su richiesta.

In A Self-Made Surrealist: Ideology and Aesthetics in the works of Henry Miller, Caroline Blinder esplora uno dei racconti inediti di Miller "Last Will and Testament" scritto negli anni ’30, come esempio di una pastiche milleriana. Utilizza i tropi surrealisti della strutturazione casuale delle frasi giustapposti con l'erotico non convenzionale per prendere in giro quanto seriamente i surrealisti si prendessero:

« The thing to know is if you are crazy or only making literature. To know si l'affaire est dans le sac! That when you turn around there is no shadow behind you or if you're asked for your carte d'identité you don't have to take off your gloves first. When I open the door I see a pair of socks lying on the floor of the closet; not to bend down and touch them with your hands but to quickly kick them about three inches to the left and rear. The post man wakes up at five thirty punkt; to know when to write without disturbing him. Everybody is alone, and it is worse to be alone when you are with people. If you lived on the same street all your life and there was no time, except at the end, several years later, when it is too late. Because it snows does not prove that time elapses. »
(Blinder, 1999, p.26)

Blinder paragona la pastiche di Miller a The Immaculate Conception (L'Immaculée Conception) (1930) di Breton, fornendo un altro esempio della declinante pazienza di Miller con i surrealisti. Breton era ben consapevole dell'incredulità con cui venivano accolte alcune delle sue affermazioni. Nella sua introduzione a The Immaculate Conception, potrebbe rivolgersi direttamente a Miller, anche se ovviamente non è così:

« Finally, it must be pointed out that numerous pastiches have been recently put into circulation, texts not always easy to distinguish from authentic ones, since all criteria of origin are objectively absent. These few obscurities, these failures, these flounderings, these imitations, now more than ever require, in the interest of the activity we wish to conduct, a complete return to principles. »
(Breton, 1930, p. 92)
 
Yvan Goll, Surréalisme, Manifeste du surréalisme, Volume 1, Numero 1, 1° ottobre 1924, copertina di Robert Delaunay

Se l'Automatismo è un tentativo genuino di creare una letteratura che di fatto si sottrae alle parabole convenzionali in modo non razionale e de-intellettualizzato, allora il fondamento stesso di The Immaculate Conception, con la sua struttura e il simbolismo apertamente religioso, deve essere visto come una complicata istanza di "puro" Automatismo. Breton non sa come affrontare la probabilità che l'ampiezza intellettuale e l'attenta strutturazione del processo Automatico in sé stesso ne interroghino la chiarezza in termini di processo inconscio. Quello che Miller vedeva come un evidente paradosso era l'impiego di un discorso estremamente sofisticato per caratterizzare qualcosa di universale oltre che anti-razionale. È evidente che Miller non si occupa di questo problema così francamente come fece qualche tempo dopo nella sua Open Letter to Surrealists Everywhere, ma mentre l'approccio di Miller è intenzionalmente vago in "Last Will and Testament", poiché non vi è alcun argomento rilevabile nel testo stesso, deve tuttavia essere inteso in relazione a ciò che imita, in particolare il capitolo "The Original Judgement". Uno dei modi principali in cui non sono d'accordo con Blinder è come vede ciò che Miller sta cercando di fare con "Last Will and Testament" — lo vede come un esempio di Miller che sperimenta con l'Automatismo, pastiche sì, ma con sincerità. Non sapremo mai il mese e l'anno esatti in cui Miller lo scrisse, ciononostante, come ho affermato, il tono scherzoso è nel migliore dei casi beffardo e nel peggiore dei casi sprezzante. Nell'esaminare i modi in cui entrambi i testi si relazionano e tuttavia differiscono, penso che mostri il crescente senso di Miller dei limiti che il Surrealismo gli presentava.

The Immaculate Conception è un'opera sperimentale che cerca di riprodurre disturbi mentali mimeticamente assortiti, al fine di rivelare l'assurdità nella formazione delle barriere sociali tra il normale e l'anormale, un tema ricorrente nell'opera surrealista Nadja[7] (1928) di Breton: Nadia, la donna la cui follia è poeticizzata, viene ricoverata di forza. La concentrazione surrealista sulla follia è evidente anche in una serie di fotografie di donne isteriche in gran parte prese da riviste mediche. In queste fotografie i soggetti isterici erano caratterizzati come sull'orlo dell'orgasmo, ponendo l'accento sul ruolo erotico e sovversivo che i surrealisti cercavano di collegare all'isteria. Ciò è significativo, in quanto illustra come i surrealisti evitino intenzionalmente le caratteristiche sgradevoli e angosciose dell'essere in preda all'isteria. Così facendo il soggetto isterico, di solito una donna, si spersonalizzava al punto che i suoi sintomi diventavano anche la sua funzione. In altre parole, il soggetto isterico e instabile era visto prima di tutto nei termini di una nuova icona surreale — rappresentativa dell'associazione desiderata tra l'irrazionale, l'erotico e il folle, come attestano le fotografie che raramente nominano i soggetti stessi, centrandosi così sul significato tematico dell'isteria. L'uso dell'isteria come mezzo per significare gli aspetti estatici oltre che erotici del surreale si manifesta in The Immaculate Conception attraverso ripetuti tentativi di combinare lo scientifico, la simulazione di un disturbo clinico, con la finzione, la tecnica poetica di Éluard e Breton. Allo stesso tempo, i surrealisti erano pienamente consapevoli delle tradizionali connessioni tra le manifestazioni religiose di completa devozione e quelle che potevano essere viste come forme isteriche di rappresentazione. In questo senso, The Immaculate Conception si distingue anche come parabola religiosa del processo creativo stesso. L'esplicito contesto allegorico e la strutturazione del testo si aggiunge alla difficoltà di determinare quanto eccelle come rappresentazione di un testo Automatico o meno. Prevedibilmente, Breton cerca di alleviare la potenziale confusione situando il lavoro in modo sicuro all'interno del campo sperimentale dell'Automatismo:

« The authors particularly wish to stress the sincerity of the present undertaking which consists of submitting the five essays that follow to the consideration of both laymen and specialists. The slightest suggestion of any borrowing from clinical texts or of pastiche, skilful or otherwise, of such texts, would of course be enough to make these pieces both pointless and wholly ineffective. »
(Breton, 1930, p. 47)

Ciò che è soprattutto peculiare inş questa introduzione alla seconda parte del libro "The Possessions", è che Breton lascia aperta la possibilità a quali laici e specialisti si riferisca esattamente. Intende dire che il testo può resistere ad un attento esame da parte di esperti di malattie mentali o intende di esperti di Automatismo? Evidentemente Breton ed Éluard vogliono rappresentare i testi come propri, e certamente sembrano pensare che l'efficacia dei testi risieda nella loro autenticità. Il dilemma è che qualsiasi indagine sull'autenticità di per sé è impegnativa se non irrealizzabile per quanto riguarda l'Automatismo.

Il titolo The Immaculate Conception può essere visto da un lato come un segno della nascita del Surrealismo come evento sacro e dall'altro come un segnale di una nuova era della creatività. In questo senso, come ha lungamente sottolineato Caroline Blinder, il quadro semantico per la deificazione del processo creativo può essere letto contemporaneamente come religioso e antireligioso; una vaghezza su cui Éluard e Breton giocano con calcolo per tutto il testo. Scritto in una certa misura in difesa del disordine e dell'anarchia insiti nelle menti di persone presumibilmente disturbate, il testo funziona comunque in modo rituale, con i vari capitoli come ricreazioni del caos e stazioni sulla strada della salvezza. La difficoltà di The Immaculate Conception risiedeva quindi sia nella sua costruzione che nel modo in cui il suo programma si manifesta nella terminologia religiosa per tutto il libro.

La prima parte di The Immaculate Conception intitolata "Man" comprende cinque testi che registrano lo sviluppo dal concepimento e nascita alla morte. Ciò che è manifesto, tuttavia, è il modo in cui tre dei cinque testi trattano le fasi prenatali; "Conception", "Intra-Uterine life" e "Birth" riguardano tutte la realizzazione della libido nell'utero, e le sezioni successive "Life" e "Death" dimostrano l'attesa nostalgia per questo svanito armonioso stato prenatale. Nella seconda sezione: "The Possessions", le febbri psicotiche sono annotate da Breton ed Éluard in uno stato Automatico. La parola "Possessions" suggerisce anche la demonologia che in questo caso è secolarizzata in quanto gli autori si lasciano possedere da deliri di natura psicotica piuttosto che religiosa.

Più di numerosi altri testi cosiddetti Automatici, The Immaculate Conception incarna l'infattibilità di far dettare Automatismo puro dall'inconscio. La breve panoramica fornita sopra mostra l'enorme pianificazione, sia strutturale che tematica, che deve essere stata posta nella realizzazione di The Immaculate Conception. Ancora una volta, il titolo stesso aggiunge una svolta ironica al concetto di puro Automatismo, poiché il testo può essere visto come il prodotto dello sforzo collaborativo di Breton ed Éluard, piuttosto che di un'illuminazione paradisiaca. In questo senso Blinder suggerisce che l'interpretazione stessa da parte di Miller di segmenti di The Immaculate Conception potrebbe, in teoria, essere vista, non come una sovversione dell'Automatismo, ma solo come una versione alternativa, proprio come The Immaculate Conception può essere intesa quale versione surrealista della nascita del cristianesimo con un tocco laico.

Per quanto riguarda l'Automatismo, "Last Will and Testament" di Miller riesce comunque a eludere i chiari vincoli dei significanti religiosi e mentali, così evidenti nel titolo e nei sottotitoli dei capitoli nel piece di Breton ed Éluard. Nonostante i chiari riferimenti religiosi in The Immaculate Conception, Breton sostenne che fosse stato scritto mediante l'Automatismo. Spiegò che i movimenti considerevoli della prosa continua erano stati scritti in istanti disinibiti di Automatismo e poi assemblati in capitoli in un secondo tempo.

Resta quindi il soggetto di come creare e rappresentare l'arbitrarietà e l'autenticità del processo Automatico all'interno di qualcosa che in definitiva punta a una sfera predeterminata. "Last Will and Testament" di Miller segna sotto molti aspetti una delle sue più lucide rivalutazioni del principio surrealista dell'Automatismo. Ciò che Miller fa è aprire il carattere ciclico bloccato dell'argomento surrealista, poiché mette in dubbio la capacità surrealista di imitare veramente la follia che è una parte così fondamentale dell'estetica surrealista. Come Miller riassume succintamente a metà strada in "Last Will and Testament": "None of this is sufficiently crazy" (Blinder, 1999, p. 30). È possibile che Miller stia parlando a se stesso e alla sua incapacità di entrare in uno stato di delirio, ma se si considera la prima riga di "Last Will and Testament", "The thing to know is if you are crazy or only making literature" (Blinder, 1999, p. 30), sembrerebbe che Miller ritenga la follia una parte cruciale di ogni processo creativo in sé. In questo senso, la follia di Miller, piuttosto che uno stato delirante di natura completamente diversa, è una condizione accettata in cui l'autore si ritrova. Mentre sia Miller che i surrealisti tentano di scrivere frasi che potrebbero mettere in parallelo le discontinuità, l'osservazione di Miller sottolinea tuttavia la necessità per lo scrittore di sapere fin dall'inizio quale sia la sua strategia. Ciò che Miller commenta, è da un lato il progetto surrealista in The Immaculate Conception, fondato com'è sullo sforzo di imitare i processi di pensiero dei folli, e contemporaneamente l'intrinseca irrealizzabilità di farlo in modo convincente attraverso un pezzo di letteratura. Ciò che Miller sembra sottolineare è che qualsiasi tentativo di replicare la follia attraverso l'Automatismo può essere solo un esercizio di simulazione intellettuale e qui sta il problema per Miller. L'Automatismo diventa nient'altro che un'indulgenza intellettuale una volta che, secondo Miller, rifiuta di riconoscere i suoi limiti. C'è qualcosa di pateticamente comico nell'affermazione di Breton che The Immaculate Conception sia nato dall'Automatismo, perfettamente redatto e in forma di capitoli. Alla fine, per quanto Miller ammiri Breton e condivida alcune delle posizioni surrealiste, la sospensione dell'incredulità richiesta è solo un passo troppo esagerato per Miller.

Direi che il rapporto di Miller con i surrealisti è chiaramente influenzato dalle sue letture di Rank e Bergson. Miller partecipa pienamente al concetto di "artideology" di Rank in quanto è attratto dal movimento artistico prevalente del suo tempo, artisticamente, intellettualmente e politicamente. Nella teoria rankiana è essenziale che Miller incorpori i surrealisti nel suo pensiero e nella sua scrittura: per passare a un'arte pienamente realizzata basata sulla vita, Miller non deve isolarsi nella speranza di mantenere pura la sua arte, ma deve abbracciare il crogiolo attraverso il quale la sua arte autentica sarà prodotta. Il surrealismo è una barriera attraverso la quale Miller deve passare. Miller utilizza i tropi surrealisti per esplorare e perfezionare la propria visione, ma alla fine si spinge oltre, arrivando a considerarli restrittivi e intransigenti:

« When I was living in Paris... we used to say, "let's take the lead." That meant going off the deep end, diving into the unconscious, just obeying your instincts, following your impulses, of the heart, or the guts, or whatever you want to call it. But that's my way of putting it, that isn't really surrealist doctrine; that wouldn't hold water, I'm afraid, with an Andre Breton. However the French standpoint, the doctrinaire standpoint, didn't mean too much to me. All I cared about was that I found in it another means of expression, an added one, a heightened one, but one to be used very judiciously... »
(Brooks, 1963, p. 148)

Nei suoi usi dell'Automatismo, Miller utilizza costantemente una prospettiva bergsoniana, incentrata sull'idea di creatività come qualcosa che scaturisce dalla capacità dello scrittore di vedere la natura interrelata delle proprie esperienze di vita in relazione al tempo. Per Bergson non esiste una pura sorgente di creatività situata nell'Inconscio, ma piuttosto un complesso palinsesto di esperienze nonché l'atemporalità della comprensione, che lo scrittore deve accettare e abbracciare per essere veramente creativo. Miller può usare l'Automatismo come tecnica letteraria, ma rimane fedele ai principi bergsoniani; ipotizza l'idea dell'artista e del suo universo in termini bergsoniani, l'artista non ha bisogno di "rearrange the objects and conditions of this world" (Miller, 1962, p. 157) perché non sono altro che concettualizzazioni, basate su un modello razionale e scientifico che l'artista ha già confutato. Parimenti, Miller vede il ruolo del meraviglioso attraverso Rank in quanto l'artista deve progredire oltre il mondo politico, pur riconoscendolo, verso un senso più profondo di sé: interiorizzare i problemi collettivi e distillarli nella purezza della consapevolezza interiore, individuale. Penso che Miller stia anche dimostrando una comprensione buddhista della sua creatività, combinando le due principali influenze filosofiche della sua vita, usandole come strumento per interagire con il principale movimento artistico e ideologico del suo tempo, ma alla fine arrivando ad una conclusione che è intrinsecamente buddhista.

"BrainChain", di Willem den Broeder (2001)
  1. Miller e Breton non furono amici durante il periodo di Miller a Parigi, tuttavia si scrissero spesso negli anni successivi, si veda: Branko, A. (2008) "The Unpublished Correspondence of Henry Miller and Andre Breton, the Steady Rock 1947-1950". Nexus: The International Henry Miller Journal, 5, pp. 150-174. Breton partecipò alla difesa di Miller durante la lotta per la pubblicazione dei suoi libri senza la minaccia di procedimenti giudiziari in Francia nel 1946. Un comite de defence d'Henry Miller includeva Breton, Bataille, Satre, Camus e Gide più altri noti scrittori francesi, che pubblicarono oltre 200 articoli a sostegno dell'opera di Miller: si veda il capitolo 6 di Ladenson, E. (2012) Dirt for Art’s Sake: Books on Trial from Madame Bovery to Lolita. Cornell University Press, Ithaca.
  2. Hans Prinzhorn nacque a Hemer, Westfalia nel 1886. Conseguì il dottorato presso l'Università di Vienna in Storia dell'Arte e Filosofia nel 1908. In seguito si specializzò in medicina e psichiatria, prestando servizio come chirurgo dell'esercito durante la prima guerra mondiale. Nel 1919 lavorò presso l'Università di Heidelberg, principalmente ampliando la collezione d'arte esistente, prodotta da pazienti mentali, iniziata da Emil Kraepelin. Continuò a lavorare in questo campo anche dopo aver lasciato la sua posizione, e nel 1922 completò Artistry of the Mentally Ill (1972) Springer Publishing, New York, uno dei primi studi accademici sull'arte come mezzo per comprendere la malattia mentale. Il suo lavoro non fu preso sul serio all'interno dei circoli accademici e non riuscì a trovare un'altra posizione universitaria. Morì di tifo nel 1933. La sua ricerca fu, purtroppo, utilizzata dai nazisti nella loro mostra di Arte Degenerata del 1937. Per un esame dell'importanza della collezione si veda: Bussine, L. (1998) Beyond Reason: Art and Psychosis – Works from the Prinzhorn Collection. University of California Press, Oakland.
  3. La politica del Surrealismo può essere caratterizzata come estrema sinistra, poiché comunismo, anarchismo e trotskismo furono tutti seguiti da diversi membri del gruppo in tempi diversi, si veda: Spiteri, R. e Lacoss, D. (2003) Surrealism, Politics and Culture. Ashgate Publishing, Surrey, per un'analisi di come i surrealisti concettualizzavano l'arte come mezzo politico, il ruolo delle mostre come luoghi di lotta politica e l'influenza a lungo termine di questo sull'intellighenzia francese. Non sorprende che, considerando quanto fosse fratturata l'estrema sinistra durante questo periodo, i surrealisti riflettono le divisioni interne che erano evidenti nella politica di sinistra più ampia. Breton e i suoi compagni sostennero Leon Trotsky e la sua Opposizione Internazionale di Sinistra per un po', sebbene Breton divenne più esplicitamente anarchico dopo la seconda guerra mondiale nel suo sostegno alla Federazione Anarchica. Louis Aragon lasciò effettivamente il gruppo nel 1932 per impegnarsi a tempo pieno nel Partito Comunista; similmente, Benjamin Péret, Mary Low e Juan Breá, si schierarono con i comunisti, ma in seguito si unirono al POUM durante la guerra civile spagnola, si veda: Greeley, R.A. (2006) Surrealism and the Spanish Civil War. Yale University Press, New Haven, per un esame dell'effetto profondo della guerra sull'arte surrealista ma anche della scissione tra surrealisti spagnoli e francesi. Wolfgang Paalen credeva in una completa scissione tra il gruppo e la politica. Dalí sostenne il sistema capitalista e la dittatura fascista di Franco in Spagna, tuttavia era abbastanza solo in questo e fu considerato un traditore da Breton.
  4. Per un approccio più sfumato alla relazione tra Orwell e Miller, si veda: Colls, R. (2013) George Orwell: English Rebel. Oxford University Press, Oxford.
  5. L'influenza di Freud sui surrealisti è ricca, complessa e varia. Per un'analisi di come i surrealisti avessero assorbito queste idee sia nella loro arte, ma anche nel loro concetto fondamentale di sé, vedere: Lomas, D. (2000) The Haunted Self: Surrealism, Psychoanalysis, Subjectivity.Yale University Press, New Haven. Per una discussione su come i concetti freudiani abbiano influenzato le donne surrealiste, ma anche su come le loro controparti maschili abbiano riprodotto alcune ambiguità innate nell'opera di Freud relativa al genere, si veda: Lusty, N. (2007) Surrealism, Feminism, Psychoanalysis. Ashgate Publishing, Surrey.
  6. Sull'uso di elenchi e liste come modalità espressiva nella letteratura e nell'arte, si veda Umberto Eco, Vertigine della lista, Milano, Bompiani, 2009.
  7. Le somiglianze tra l'eroina di Breton, Nadja (1928) e la rappresentazione di June Mansfield da parte di Miller in Tropic of Cancer sono evidenti. Il protagonista Andre incontra per caso Nadja per strada e se ne innamora perdutamente. Nadja è disinibita e unica; sembra essere la musa intellettuale di Andre. Mentre Nadja rivela di più sulla sua vita passata, diventa subito evidente che è pazza e quando viene rivelata la sua realtà, Andre sente la sua attrazione svanire. L'assenza di Nadja dalla sua vita gli permette di sceglierla come sua musa perpetua; lei è ancora una volta misteriosa e avvincente, sempre disponibile nei suoi ricordi. Miller citò Nadja come uno dei libri più influenti della sua vita e le somiglianze tra June e Nadja sono evidenti. Per i paralleli tra le rappresentazioni delle donne in Nadja e Quiet Days in Clichy, si veda Sazama-Moreau, S.T. (1999) Women and Paris in Andre Breton’s Nadja and Henry Miller’s Quiet Days in Clichy. University of Maryland Press, Bethesda.