Caduta del fascismo

insieme degli eventi che portarono alla caduta del regime fascista in Italia (25 luglio 1943)
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Disambiguazione – Se stai cercando la caduta definitiva del fascismo nel 1945, vedi Caduta della Repubblica Sociale Italiana.

Con caduta del fascismo (indicata anche come 25 luglio 1943 o semplicemente 25 luglio) ci si riferisce a una serie di avvenimenti che si susseguirono in Italia dalla primavera del 1943, culminando nella riunione del Gran consiglio del fascismo del 24-25 luglio dopo la quale venne decisa la deposizione di Benito Mussolini.

Gli eventi furono il risultato di manovre politiche parallele avviate dal gerarca Dino Grandi e dal re Vittorio Emanuele III, il cui esito finale fu la caduta del governo fascista dopo quasi ventuno anni, l'arresto di Mussolini e la conseguente nomina da parte del re di un nuovo capo del governo, il maresciallo d'Italia Pietro Badoglio.

La riunione del massimo organo collegiale del fascismo iniziò alle 18:15 del 24 luglio. La votazione sull'ordine del giorno presentato da Dino Grandi, che prevedeva la sfiducia a Mussolini, avvenne alle 2:30 del 25 luglio: 19 votarono a favore, 8 furono contrari, 1 si astenne. Gli ordini del giorno erano a firma di (1) Grandi; (2) Farinacci; (3) Scorza; dopo che il primo fu accolto, Mussolini dispose di non mettere ai voti gli altri due.

Contesto storico

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Le prime crisi politico-militari

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Per l'Italia la situazione all'inizio del 1943 appariva del tutto negativa: il collasso del fronte africano il 4 novembre 1942 e la riconquista alleata del Nordafrica la stavano esponendo al rischio dell'invasione da parte delle forze angloamericane.

Il 31 gennaio 1943 fu nominato il nuovo Capo di Stato maggiore, il generale Vittorio Ambrosio, un piemontese devoto al re e ostile ai tedeschi. Ambrosio era persuaso che la guerra fosse perduta, ma non avrebbe mai contemplato di prendere un'iniziativa personale per cambiare la situazione senza prima consultarsi con Vittorio Emanuele[1]. Ambrosio, coadiuvato dal suo braccio destro, Giuseppe Castellano, e da Giacomo Carboni (entrambi avrebbero poi giocato un ruolo chiave nei successivi avvenimenti che avrebbero portato all'armistizio dell'8 settembre 1943), lentamente procedettero a occupare diverse posizioni strategiche nelle forze armate nominando ufficiali fedeli al re. Inoltre, Ambrosio cercò di riportare in Italia quante più truppe possibile tra quelle impegnate all'estero, ma fu difficile farlo senza suscitare il sospetto dei tedeschi[2].

I militari si aspettavano un segnale da Vittorio Emanuele, ma il sentimento che i giorni della monarchia fossero comunque contati, quale che fosse l'esito della guerra, contribuirono all'inazione di quest'ultimo. Di conseguenza, egli si isolò mantenendosi imperscrutabile da quelli che intendevano conoscerne le intenzioni future. Non è escluso che il re conservasse ancora la sua fiducia in Mussolini, fidando che una volta di più il duce avrebbe salvato la situazione, tanto che ancora dopo uno degli ultimi incontri del luglio 1943 si lasciò sfuggire: «Eppure, quell'uomo ha una gran testa»[3].

Il 6 febbraio Mussolini operò il più profondo rimpasto di governo dei suoi 21 anni di potere fascista. Quasi tutti i ministri furono sostituiti: le teste più importanti a cadere furono quelle del suo genero Galeazzo Ciano, Dino Grandi, Giuseppe Bottai, Guido Buffarini Guidi e Alessandro Pavolini.[4].

In aprile, Mussolini prese altre due importanti decisioni: il 14 aprile sostituì il capo della polizia, Carmine Senise, un uomo del re, con Lorenzo Chierici; cinque giorni dopo cambiò il giovane segretario del partito fascista, Aldo Vidussoni, con Carlo Scorza. Tuttavia, i due più importanti obiettivi dell'operazione, placare la rabbia della popolazione e quella di segmenti del partito fascista, non furono raggiunti, dato che la situazione era troppo compromessa[5]. La salute del duce era un altro fattore di incertezza: gastrite e duodenite di origine nervosa, di cui soffriva da anni, non gli davano tregua[6]. A causa dei suoi malesseri, Mussolini fu spesso costretto a restare in casa, perdendo l'effettivo contatto con gli avvenimenti.

In questa situazione, gruppi appartenenti a quattro differenti circoli - la corte reale, i partiti antifascisti, lo stato maggiore delle forze armate, gli stessi fascisti - iniziarono la ricerca di una via d'uscita.

 
Maria José Principessa di Piemonte fotografata durante la seconda guerra mondiale

A corte, la Principessa di Piemonte Maria José del Belgio, moglie dell'erede al trono, aveva sempre sostenuto che l'Italia non avrebbe mai potuto vincere la guerra e che l'unico modo per risparmiare al popolo delle inutili sofferenze era quello di eliminare Mussolini e il fascismo. Nell'ambiente della monarchia ella venne definita da molti l'unico uomo di Casa Savoia[7]. Già a partire dall'estate 1942 stava perseguendo un'azione segreta volta a collegare l'ambiente antifascista direttamente con i Savoia, incontrando personaggi come Luigi Einaudi e lo stesso Pietro Badoglio[8]. In ottobre, stabilì un contatto con monsignor Montini allora sostituto segretario di Stato di papa Pio XII. Di tale incontro informò il ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone, che però le comunicò la contrarietà del re nei confronti di qualsiasi mediazione da parte della Santa Sede[9]. Incurante dei rischi che correva, la Principessa di Piemonte si rivolse all'ambasciatore portoghese presso la Santa Sede per sondare se il primo ministro portoghese António de Oliveira Salazar si prestasse a far da tramite per conoscere le condizioni degli alleati in caso di uscita dell'Italia dal conflitto[9]. Ancora nel marzo 1943, nella Villa Caetani di Ninfa, fece incontrare Badoglio con l'altro maresciallo d'Italia Enrico Caviglia, presente Umberto Zanotti Bianco, liberale fortemente contrario al regime, per sensibilizzarli alla drammaticità del momento. Infine nell'aprile successivo la principessa organizzò un incontro "politico" tra l'esponente democristiano Giuseppe Spataro e lo stesso Badoglio che, però, dichiarò che si sarebbe mosso solo per ordine del re[8]. Mussolini, nonostante fosse al corrente delle azioni della principessa, non fece nulla per impedire il suo operato.

In un memorandum datato 24 aprile 1943 ai membri del governo inglese del ministro degli Esteri, Anthony Eden, era scritto che «la serie di sconfitte dell'Asse in Russia e in Africa settentrionale e la difficile condizione del suo corpo di spedizione in Tunisia spingevano gli Italiani ad auspicare una rapida vittoria degli Alleati per poter uscire dalla guerra»; vi si leggeva anche che Vittorio Emanuele III era «un uomo invecchiato, privo di iniziativa, terrorizzato dall'idea che la fine del fascismo avrebbe aperto un periodo di anarchia incontrollabile», che il suo erede Umberto era incapace di passare all'azione (nonostante le pressioni della consorte, Maria José, che costituiva «l'elemento più energico della coppia reale») e che Casa Savoia avrebbe appoggiato un rovesciamento del regime solo in un secondo momento, quando si fosse verificata una sollevazione dell'esercito provocata da Badoglio e dal vecchio maresciallo Caviglia, o una congiura di palazzo orchestrata da «fascisti opportunisti», come Dino Grandi, da industriali e finanzieri, come il conte Giuseppe Volpi di Misurata, che miravano, comunque, a far sopravvivere un «fascismo senza Mussolini» per salvaguardare i loro personali interessi[10]. Insomma, questi gruppi, indipendentemente uno dall'altro, iniziarono i propri intrighi per stabilire contatti con le autorità alleate, ma nessuno di loro comprendeva che la guerra era diventata anche ideologica dopo la Dichiarazione di Casablanca, che stabiliva che gli Alleati avrebbero accettato solo una resa incondizionata dai nemici. Per giunta, gli anglo-americani si aspettavano di intavolare trattative con personalità come il re, non con la principessa Maria José, o altri gruppi, visti con indifferenza.

Lo sbarco in Sicilia e le sue conseguenze

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  Lo stesso argomento in dettaglio: Sbarco in Sicilia.

La caduta di Tunisi, il 13 maggio 1943, cambiò radicalmente la situazione strategica. Ora l'Italia era esposta direttamente all'invasione anglo-americana, e per la Germania divenne imperativo controllare il paese, diventato un bastione esterno del Reich. I tedeschi volevano dislocare più forze di terra in Italia, ma Ambrosio e Mussolini, che volevano preservare l'indipendenza italiana, chiesero solo più aeroplani.

A metà maggio, quindi, il re iniziò a considerare il problema di come uscire dalla guerra: era il pensiero espressogli dal duca Pietro d'Acquarone, ministro della Real Casa, molto preoccupato per il futuro stesso. L'opinione pubblica italiana, che aveva atteso per mesi un segno da parte del re, iniziava a volgersi contro la monarchia. Alla fine di maggio due alte personalità dell'epoca liberale, Ivanoe Bonomi e Marcello Soleri, furono ricevuti da Acquarone e dall'aiutante di campo del re, il generale Puntoni. Entrambi premettero sui consiglieri reali consigliando di far arrestare Mussolini e di nominare un governo militare. Entrambi furono ricevuti dal re, rispettivamente il 2 e l'8 giugno, ma rimasero frustrati per la sua inazione[11].

Il 4 giugno il re concesse un'udienza a Dino Grandi[12], che era ancora il presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, pur essendo stato rimosso dal governo. Fu il loro ultimo incontro prima del 25 luglio. Grandi illustrò al re un proprio ambizioso piano per eliminare Mussolini e difendere l'Italia dai tedeschi. Paragonò Vittorio Emanuele III al suo antenato del XVIII secolo Vittorio Amedeo II, duca di Savoia, che aveva rotto l'alleanza coi francesi passando a quella con gli imperiali, salvando così la dinastia. Il re rispose che si considerava un monarca costituzionale: si sarebbe mosso solo dopo un voto del Parlamento o del Gran consiglio del fascismo per deporre Mussolini[12]. In ogni caso, avrebbe avversato qualsiasi mossa improvvisa che, ai suoi occhi, sarebbe stata considerata come un tradimento. Alla fine dell'udienza, Vittorio Emanuele chiese a Grandi di accelerare la sua azione attivando il Parlamento e il Gran consiglio e concluse con le parole: «Si fidi del suo Re». A Grandi apparve chiara la consapevolezza del Re sulla situazione in atto, anche se permaneva ancora nel sovrano una perniciosa tendenza a procrastinare gli eventi. Grandi tornò quindi nella sua Bologna, attendendo che la situazione evolvesse.

L'11 giugno gli Alleati conquistarono Pantelleria, il primo territorio d'Italia a essere perso. La piccola isola era stata trasformata in presidio ma, dopo una settimana di intensi bombardamenti, ridotta a un cratere fumante, cadde senza quasi opporre resistenza. Dall'interno del fascismo, dopo la caduta di Tunisi e la resa di Pantelleria, fu chiaro a molti che la guerra era ormai perduta.

Contemporaneamente, il 19 giugno 1943, si tenne l'ultima riunione di gabinetto del governo fascista. In quell'occasione, il ministro delle Comunicazioni, senatore Vittorio Cini, uno dei più potenti industriali italiani, attaccò frontalmente Mussolini, dicendogli che era ormai tempo di cercare una via d'uscita alla guerra. Dopo la riunione, Cini si dimise. Era uno dei tanti segni che il carisma del duce era evaporato anche nel suo entourage[13]. Quotidianamente persone devote a Mussolini, agenti dell'OVRA e i tedeschi gli andavano rivelando che diversi intrighi erano in corso per estrometterlo, ma lui non reagì, replicando a ciascuno di loro che leggevano troppi romanzi criminali o che erano affetti da manie di persecuzione.

Il 24 giugno Mussolini tenne l'ultimo importante discorso da primo ministro. Passò alla storia come il "discorso del bagnasciuga", nel quale promise che la sola parte d'Italia che gli anglo-americani sarebbero stati capaci di occupare (ma solo orizzontalmente, cioè come cadaveri) era la battigia, che però definì col termine nautico "bagnasciuga". Per molti italiani, questa confusa, incoerente e pasticciata allocuzione era la prova finale che ormai qualcosa s'era rotto nella lucidità di Mussolini[14].

La notte del 10 luglio 1943 gli Alleati sbarcarono in Sicilia: sebbene ampiamente attesi, dopo un'iniziale resistenza le forze italiane furono travolte e in diversi casi, come ad Augusta - la piazza più fortificata dell'isola - esse si arresero senza nemmeno combattere. Nei primi giorni sembrava che gli italiani potessero difendere l'isola, ma ben presto divenne chiaro che la Sicilia in poche settimane sarebbe stata persa[15]. Il 16 luglio il sottosegretario agli Esteri Giuseppe Bastianini andò a Palazzo Venezia, sede del governo, per mostrare a Mussolini un telegramma da inviare a Hitler, dove si rimproverava i tedeschi di non aver mandato rinforzi. Ricevuta l'approvazione del duce, il sottosegretario chiese l'autorizzazione a stabilire contatti con gli Alleati. Mussolini fu d'accordo, a condizione di non esser personalmente coinvolto[16]. L'emissario segreto era il banchiere romano Giovanni Fummi, che aveva rapporti d'affari sia con la Banca Morgan che con il Vaticano, il quale avrebbe raggiunto Londra via Madrid o Lisbona.[17]. La sera stessa Bastianini oltrepassò il Tevere, incontrando il cardinale Luigi Maglione, Segretario di Stato Vaticano, che ricevette un documento che illustrava la posizione italiana circa una possibile uscita unilaterale dalla guerra mondiale.

L'invasione Alleata in Sicilia e l'assoluta mancanza di resistenza scioccarono i fascisti, che si domandavano perché Mussolini non facesse nulla. Molti di loro guardavano al re, e altri si volgevano a Mussolini. Il grande problema era trovare un'istituzione adatta per l'azione politica. Quattro erano i consessi: il partito, la Camera dei fasci e delle corporazioni, il Senato e il Gran consiglio. Solo gli ultimi due sembravano adatti: il Senato del Regno, perché c'erano ancora membri antifascisti o nominati prima della dittatura; il Gran consiglio, per la presenza di diversi membri ora contrari a Mussolini.

L'iniziativa dei militari e l'incontro di Feltre tra Hitler e Mussolini

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Vittorio Ambrosio
 
Nota ricevuta da Heinrich Himmler, due giorni prima dell'incontro detto "di Feltre" fra Mussolini e Hitler, che lo informava sulle manovre in corso per deporre il Duce e sostituirlo con Pietro Badoglio. Il documento fa ripetuto riferimento al re Vittorio Emanuele III e alla massoneria.

Contemporaneamente, in ambito militare, era sorta un'iniziativa finalizzata principalmente allo sganciamento dell'Italia dall'alleanza con i tedeschi e al suo passaggio in campo alleato[2]. Ne furono protagonisti il Capo di Stato maggiore generale Vittorio Ambrosio, insieme al suo braccio destro, generale Giuseppe Castellano e il generale di corpo d'armata Giacomo Carboni. Tale azione fu autonoma rispetto a quella interna al Partito fascista, guidata da Dino Grandi, che si concretizzò con l'ordine del giorno presentato al Gran consiglio del fascismo e messo ai voti nella notte tra il 24 e il 25 luglio del 1943[18]. Entrambe le iniziative contavano sull'intervento decisivo del sovrano.

Solo in subordine, almeno inizialmente, i militari miravano alla destituzione di Benito Mussolini, sostituendolo con un elemento di spicco dell'esercito quale Enrico Caviglia o Pietro Badoglio[2]. A favore della candidatura di Caviglia deponevano il suo coraggio, la sua onestà e le posizioni antifasciste, ma il maresciallo era ritenuto troppo anziano per affrontare i nuovi eventi. Badoglio, che aveva rassegnato le proprie dimissioni da Capo di Stato Maggiore dopo la disfatta greca nel 1941, era divenuto un acerrimo nemico di Mussolini. Una collaborazione tra i due marescialli era tuttavia impensabile.

Il tramite del re con i generali Ambrosio, Castellano e Carboni fu il ministro della Real Casa duca Pietro d'Acquarone.[19][20] Acquarone era più favorevole all'idea di costituire un nuovo governo con Badoglio, piuttosto che con Caviglia, quale Presidente del consiglio, essendo stato suo aiutante di campo[8]. Acquarone era in contatto anche con i politici pre-fascisti Marcello Soleri, Vittorio Emanuele Orlando[19] e con Ivanoe Bonomi ma era contrario a un governo politico[21]. Il 5 luglio Ambrosio fu sondato dal re sull'eventualità di nominare Caviglia o Badoglio alla testa di un governo che avrebbe sostituito quello Mussolini.

In ogni caso, il 15 luglio 1943 il re incontrò Badoglio e lo informò che lo avrebbe nominato nuovo capo del governo. Vittorio Emanuele III gli spiegò che era totalmente contrario a un governo politico, e che in questa fase non avrebbe cercato un armistizio. Due giorni dopo, fu Badoglio ad incontrare gli esponenti antifascisti, ritenendosi già capo del governo in pectore, confidando loro, però, l'impossibilità di un governo politico o soltanto "misto" ma lasciando aperta l'opportunità di un governo "tecnico"[21].

Il crollo dell'esercito in Sicilia in pochi giorni e l'incapacità di resistere indussero Mussolini a scrivere a Hitler per chiedergli un incontro dove poter discutere dell'allarmante situazione bellica italiana, ma la lettera non fu mai recapitata. Il Führer, che riceveva quotidianamente dettagliate informazioni e dossier anche dal suo ambasciatore in Vaticano e agente di Himmler, Eugen Dollmann, era preoccupato sia dell'apatia del duce sia della cocente catastrofe militare in Italia, e chiese egli stesso di incontrarlo il prima possibile.[22] L'incontro fra Mussolini e Hitler detto "di Feltre" - ma tenutosi in realtà a San Fermo, frazione di Belluno - si sarebbe svolto nella villa del senatore Achille Gaggia.

Due giorni prima dell'incontro tra i due dittatori, programmato per il 19 luglio, Heinrich Himmler ricevette un'informativa che anticipava le manovre in corso per deporre il Duce e sostituirlo con Pietro Badoglio[23]. Il giorno prima Ambrosio fece un ultimo tentativo di coinvolgere il duce nello sganciamento dell'Italia dalla Germania, tanto da dirgli chiaramente che il suo dovere consisteva nell'uscire dal conflitto nei prossimi 15 giorni. Ciò dimostrerebbe che, ancora nell'imminenza dell'incontro di Feltre, il Capo di Stato maggiore contasse sull'iniziativa di Mussolini.[21]

All'incontro con Hitler, per discutere la situazione e le possibili contromisure, si presentarono Mussolini, Ambrosio e il sottosegretario Bastianini, membro del Gran Consiglio. Oltre a Hitler, la delegazione tedesca era formata dai generali dell'OKW, tra cui Wilhelm Keitel, Enno von Rintelen e Walter Warlimont, ma erano assenti Göring e von Ribbentrop, segno che i tedeschi erano concentrati sugli aspetti militari della situazione in corso. I tedeschi avevano perduto fiducia negli italiani e volevano solamente occupare militarmente il prima possibile l'Italia settentrionale e centrale, lasciando l'esercito italiano solo a difendere il paese dagli Alleati. Per di più, essi proposero che il comando supremo dell'Asse nella penisola fosse preso da un generale tedesco, possibilmente Erwin Rommel, presente all'incontro.[24]

Le prime due ore dell'incontro furono occupate dal consueto monologo di Hitler, che incolpava gli italiani per la loro fiacca performance militare e chiedendo di applicare misure draconiane: Mussolini fu perfino incapace di proferire parola. La riunione fu improvvisamente interrotta, a mezzogiorno, quando il segretario particolare di Mussolini entrò nella sala e consegnò a quest'ultimo un foglio che il duce lesse ad alta voce e tradusse in tedesco, nel quale c'era scritto che «in questo momento il nemico sta violentemente bombardando Roma».[25] Riprendendo il discorso, Hitler comunicò che il Reich si stava dotando di armamenti innovativi che sarebbero stati decisivi per la vittoria finale, in particolare "due nuove armi", sulle quali però non volle fornire dettagli, che i tedeschi avevano intenzione di usare nel successivo inverno contro gli inglesi, contro le quali non ci si poteva difendere.[26]

Durante la pausa per il pranzo, Ambrosio e Bastianini fecero pressione sul duce affinché informasse il Führer che era necessaria una soluzione politico-diplomatica alla guerra. Secondo Bastianini, Ambrosio pose a Mussolini un "ultimatum", intimandogli di uscire dalla guerra in quindici giorni.[27] Al che Mussolini replicò che era da mesi tormentato dai dubbi circa l'abbandono dell'alleanza con la Germania o la continuazione della guerra senza peraltro essere ancora giunto ad una soluzione. Disse loro che un dubbio lo assillava soprattutto: «Quale atteggiamento prenderebbe Hitler? Credete forse che egli ci lascerebbe libertà d'azione?».[28]

Dopo il pranzo, Mussolini lasciò l'incontro, che sarebbe dovuto durare tre giorni, perché non riusciva più a trovare le forze - fisiche e psichiche - per proseguire i colloqui. Le delegazioni tornarono a Belluno in treno e, dopo aver salutato Hitler, Mussolini tornò a Roma nel pomeriggio con il suo aereo personale: dall'alto egli poté vedere i quartieri orientali di Roma che ancora bruciavano.

Nel frattempo, nel giugno 1943 era giunta alla principessa Maria José la risposta positiva del dittatore portoghese Salazar circa la sua disponibilità a fare da intermediario per la conclusione della pace tra gli alleati e l'Italia. Proprio il 19 luglio, quindi, il diplomatico individuato dalla principessa, Alvise Emo Capodilista, poté partire per Lisbona per prendere contatto con gli inglesi ma il succedersi degli avvenimenti resero infruttuoso tale tentativo[9].

Dopo il fallimento dell'incontro di Feltre, l'azione del Capo di Stato Maggiore generale e del suo entourage fu definitivamente indirizzata alla sostituzione del capo del governo. Il 20 luglio, Mussolini incontrò Ambrosio due volte: durante la seconda visita, di sera, il duce gli comunicò che aveva deciso di scrivere a Hitler confessandogli la necessità dell'Italia di abbandonare l'alleanza. Ambrosio, indignato per l'opportunità persa di fare ciò a Feltre, rassegnò le proprie dimissioni, che furono rigettate dal duce. In realtà, tra i due incontri, Ambrosio aveva saputo dal ministro della Real Casa, con il quale manteneva un filo diretto, la decisione del sovrano di procedere alla destituzione di Mussolini e alla sua sostituzione con Badoglio[29].

Fu allora che Ambrosio lasciò mano libera ai suoi collaboratori Castellano e Carboni di elaborare un piano per arrestare Mussolini, una volta destituito. Tuttavia Vittorio Emanuele III avrebbe rotto gli indugi solo una volta approvato dal Gran consiglio del Fascismo l'ordine del giorno Grandi del 25 luglio, che rimetteva nelle sue mani il comando supremo delle forze armate[30].

Il piano di Grandi e il ruolo di Vittorio Emanuele III

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Dino Grandi

Dino Grandi, in quei giorni, fu il solo gerarca che aveva un chiaro piano per uscire dall'impasse. A suo parere bisognava deporre Mussolini, poi lasciare al re il compito di formare un governo senza fascisti e contemporaneamente attaccare l'esercito tedesco in Italia. Solo così si sarebbe potuto sperare di mitigare le dure condizioni decise dagli Alleati alla Conferenza di Casablanca per i paesi nemici[31].

Il 20 luglio Grandi decise di passare all'azione. Con le strade e le ferrovie danneggiate dai bombardamenti, lasciò Bologna portando con sé una prima bozza di ordine del giorno, da presentare al Gran consiglio. Per Grandi l'approvazione dell'ordine del giorno era il grimaldello che il re attendeva per agire. Raggiunse Roma solo il giorno dopo e il mattino del 21 luglio incontrò Carlo Scorza, il nuovo segretario del partito, che gli disse che Mussolini aveva deciso di convocare la seduta del Gran consiglio per la sera di sabato 24. Mussolini aveva sorprendentemente acconsentito a riunire la suprema assemblea del fascismo, che non era più stata convocata dal 1939, a seguito di una richiesta di diversi fascisti guidati da Roberto Farinacci. Costoro, dopo essersi riuniti nei giorni precedenti (13 e 16 luglio) nella sede principale del partito in Piazza Colonna, avevano deciso di andare da Mussolini a Palazzo Venezia per chiedergli di convocare una riunione del Gran consiglio[32]. Grandi illustrò a Scorza il suo ordine del giorno (nel testo non ancora definitivo) e, sorprendentemente, il segretario del Partito disse che l'avrebbe sostenuto. Scorza chiese a Grandi una copia del documento per il duce e la ottenne[33]. Farinacci e Scorza, tuttavia, partivano da premesse opposte rispetto a Grandi. Mentre Grandi propendeva per ricondurre i poteri di guerra al re, Farinacci e Scorza optavano per la soluzione totalitaria al fianco della Germania. Scorza riteneva, come Farinacci, che la soluzione stesse nell'"imbalsamazione" politica di Mussolini e nella guerra totale. Mentre il primo credeva che il potere potesse essere assunto direttamente dal Partito fascista, nonostante fosse stato screditato negli anni precedenti, Farinacci agiva in stretta collaborazione coi tedeschi. Ma nessuno dei gerarchi "moderati" disponeva di sufficiente forza politica per condurre l'operazione in porto e Farinacci era isolato.

Nel pomeriggio, Grandi e Luigi Federzoni, già leader nazionalista e suo stretto alleato, fecero dei sondaggi per scoprire quanti tra i 27 membri del Gran consiglio avrebbero votato il suo documento. Stimarono che quattro erano a favore, sette contrari e sedici indecisi. Il problema di Grandi era che non poteva rivelare agli altri le concrete conseguenze che si attendeva con l'approvazione del suo ordine del giorno: la rimozione di Mussolini, la fine del Partito fascista, e la guerra alla Germania. Solo un paio di gerarchi possedevano l'intelligenza politica per comprenderne la portata. Gli altri ancora speravano che Mussolini, che aveva deciso per loro negli ultimi ventun anni, avrebbe prodotto un miracolo. Di conseguenza, la bozza dell'ordine del giorno Grandi era scritta in termini vaghi, lasciando a ognuno la sua libera interpretazione[34].

Il mattino del 22 luglio ebbe luogo l'incontro tra il re e Mussolini, che voleva riportargli l'esito del vertice di Feltre. Il contenuto della conversazione rimane sconosciuto, ma secondo lo storico Renzo De Felice, è possibile che il duce sia uscito convinto di aver placato le paure del re[35]. Alle 17:30 dello stesso giorno, Grandi andò a Palazzo Venezia; la ragione ufficiale era la presentazione a Mussolini del suo nuovo libro. La durata programmata era di soli 15 minuti, poiché attendeva di essere ricevuto il feldmaresciallo Albert Kesselring. L'incontro invece si protrasse fino alle 18:45. Benché nel 1944, nelle sue Memorie, Mussolini abbia negato che si fosse parlato dell'ordine del giorno Grandi, ciò è inesatto. Il presidente della Camera dei fasci glielo mostrò di propria iniziativa, non volendo che il suo operato apparisse come una congiura alle spalle di Mussolini. Non è escluso che Grandi valutasse la possibilità che il capo del governo rassegnasse le dimissioni per evitare la catastrofe e l'umiliazione, di modo che il Gran consiglio sarebbe stato superfluo[36]. Il duce disse che quell'ordine del giorno era inammissibile e codardo e che le sue conclusioni circa la sconfitta dell'Italia erano errate, avendo la Germania avviato la produzione di armi segrete che avrebbero ribaltato il corso del conflitto[37]. Poi, Mussolini incontrò Kesselring e Chierici, il capo della polizia.

Lo stesso 22 luglio, una mozione di 61 senatori che chiedeva di convocare il Senato fu bloccata da Mussolini: il primo firmatario, senatore Grazioli, insistette invano con il presidente Giacomo Suardo ancora il 23 luglio, quando apparve chiaro che il duce aveva preferito come terreno di scontro il Gran consiglio[38].

Nei giorni successivi, a casa di Federzoni, Grandi contattò gli altri consiglieri chiedendo loro di unirsi nella sua azione. Nel tempo rimasto prima della fatale riunione, da Bottai, il presidente della Camera lesse l'ordine del giorno a Ciano che espresse parere favorevole. Grandi rimaneva riluttante ad associarlo, conoscendo la superficialità e l'incostanza del genero di Mussolini; ma Ciano insistette[39]. Allora Federzoni, De Marsico, uno dei più insigni giuristi d'Italia, Bottai e lo stesso Ciano modificarono la bozza rimuovendo l'introduzione interpretativa che spiegava le funzioni del Gran consiglio. Dai diari di Giuseppe Bottai si ricava anche che fu in questa fase che venne introdotta la parte più incisiva del testo, ovvero l'invocazione dell'articolo 5 dello Statuto Albertino[40].

Dopo ciò, Grandi ricevette nel suo ufficio al Parlamento Farinacci, al quale mostrò il suo ordine del giorno. Il convenuto gli disse che approvava la prima parte del documento, ma non concordava su tutto il resto. Per Farinacci i poteri di guerra avrebbero dovuto essere trasferiti direttamente ai tedeschi, e l'Italia avrebbe dovuto impegnarsi totalmente nella guerra disfacendosi di Mussolini e della vecchia generalità[non chiaro] devota alla monarchia. Alla fine anch'egli, come Scorza, chiese a Grandi una copia del suo ordine del giorno, e pure lui lo utilizzò per redigerne uno proprio[41]. Quest'ultimo era identico a quello di Grandi per quanto riguardava l'appello al re affinché assumesse il comando delle forze armate, ma era imperniato sulla dichiarata volontà di «rimanere fermi all'osservanza delle alleanze concluse» e sul «ripristino integrale» di tutti gli organi dello Stato, compresi il partito e le Corporazioni, che Grandi invece aveva omesso.[42]

Anche Scorza redasse un suo ordine del giorno. Nella sera del 23 luglio, convocò nella sede del partito i suoi quattro vicesegretari e presentò loro il suo testo, nel quale, però, non si faceva cenno alla restituzione dei poteri militari alla Corona.[43]

Eventi del 24-25 luglio 1943

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La notte del Gran consiglio

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Alle 17:00 del 24 luglio 1943 i 28 membri del Gran consiglio del fascismo si incontrarono attorno a un massiccio tavolo a forma di U nella "Stanza del pappagallo" di Palazzo Venezia. I consiglieri erano tutti in uniforme fascista con sahariana nera. Molti temevano che la seduta potesse avere un esito violento e avevano portato delle armi, ben nascoste sotto gli abiti. Grandi ammise in seguito di aver portato con sé due bombe a mano e di averne passata una a De Vecchi sotto il tavolo.[45] Il posto di Mussolini era un'alta sedia, e il suo tavolo era decorato con un drappo rosso coi fasci. Per la prima volta nella storia del Gran consiglio, né le guardie del corpo di Mussolini - i moschettieri del Duce - né un distaccamento dei battaglioni M erano presenti nel massiccio palazzo rinascimentale. Il segretario del Partito Nazionale Fascista Carlo Scorza effettuò l'appello. Grandi richiese a Scorza la presenza di uno stenografo, ma Mussolini si oppose; ufficialmente[46] nessun verbale fu redatto[47].

Di sicuro, Mussolini iniziò a parlare per primo, riassunse la situazione bellica e poi trasse le sue conclusioni:

«Ora il problema si pone. Guerra o pace? Resa a discrezione o resistenza a oltranza?... Dichiaro nettamente che l'Inghilterra non fa la guerra al fascismo, ma all'Italia. L'Inghilterra vuole un secolo innanzi a sé, per assicurarsi i suoi cinque pasti. Vuole occupare l'Italia, tenerla occupata. E poi noi siamo legati ai patti. Pacta sunt servanda

Poi Grandi illustrò il suo ordine del giorno con il quale chiedeva in sostanza il ripristino "di tutte le funzioni statali" e invitava il duce a restituire il comando delle forze armate al re. Presero la parola alcuni gerarchi, ma non per affrontare gli argomenti degli ordini del giorno, bensì per fare chiarimenti o precisazioni. Si attendeva un intervento incisivo del capo del governo. Mussolini, invece, affermò impassibile di non avere nessuna intenzione di rinunciare al comando militare. Si avviò il dibattito che si protrasse fino alle undici di sera. Grandi diede un saggio delle sue grandi capacità oratorie: dissimulando abilmente lo scopo reale del suo ordine del giorno, si produsse in un elogio sia di Mussolini sia del re.

Anche lo stesso Ciano prese parola per difendere l'ordine del giorno contestando le parole di Mussolini:

«Pacta sunt servanda? Si, certamente: però, quando vi sia un minimo di lealtà anche dall'altra parte. E invece, noi italiani abbiam sempre osservato i patti, i tedeschi mai. Insomma, la nostra lealtà non fu mai contraccambiata. Noi non saremmo, in ogni caso, dei traditori ma dei traditi.»

A questo punto anche Roberto Farinacci presentò il suo ordine del giorno, il quale appoggiava la richiesta di Grandi di «chiedere alla Maestà del Re […] perché voglia assumere l'effettivo comando di tutte le Forze armate».[49] Successivamente Carlo Scorza diede lettura di due missive indirizzate a Mussolini in cui il segretario del partito chiedeva al duce di lasciare la direzione dei tre dicasteri militari (Guerra, Marina e Aeronautica). I presenti rimasero molto colpiti, sia dal contenuto, sia dal fatto stesso che Mussolini avesse autorizzato Scorza a leggerle in quella sede. Quando si era arrivati ben oltre le undici di sera, la seduta venne sospesa momentaneamente e Grandi ne approfittò per raccogliere le firme a favore del proprio ordine del giorno. Alla ripresa anche Bottai si espresse a favore. Quindi prese la parola Scorza, che invece invitò i consiglieri a non votarlo e presentò un proprio ordine del giorno a favore di Mussolini.

Alcuni presenti valutarono nell'ordine del giorno Grandi il fatto che la monarchia venisse chiamata all'azione, "traendola dall'imboscamento" (come avrebbe detto a posteriori Tullio Cianetti) senza rendersi perfettamente conto delle enormi conseguenze sull'assetto del regime che avrebbe avuto un loro eventuale voto favorevole. Alla fine del dibattito, i consiglieri si aspettavano che Mussolini, come di solito, riassumesse la discussione lasciando ai presenti di prendere soltanto atto di quello che aveva detto. In quest'occasione, invece, il capo del governo non espresse alcun parere e, adottando un atteggiamento passivo, decise di passare subito alla votazione degli ordini del giorno iniziando da quello di Grandi.

La votazione

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I 28 componenti del Gran consiglio furono chiamati a votare per appello nominale.

La votazione sull'ordine del giorno Grandi si concluse con:

Dopo l'approvazione dell'ordine del giorno Grandi, Mussolini ritenne inutile porre in votazione le altre mozioni e tolse la seduta. Anche se non esiste il verbale ufficiale dell'assemblea, il testo completo e l'originale dell'ordine del giorno Grandi furono pubblicati nel 1965 dalla rivista «Epoca», grazie al ritrovamento dei documenti conservati da Nicola De Cesare, segretario personale di Mussolini.

Alle 2:40 del 25 luglio i presenti lasciarono la sala.

Il presunto verbale manoscritto della seduta

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Verbale della votazione sull'O.d.G. Grandi.

Nel 2013 è stato rinvenuto dal documentarista storico Fabio Toncelli, nel corso delle riprese per il suo documentario Mussolini 25 luglio 1943: la caduta (trasmesso dalla Rai), un presunto verbale manoscritto della seduta, in cui a margine è riportato che sarebbe stato trascritto in un "registro segreto della Corte dei conti il 4 agosto" successivo, ma non è dato di capire se e chi lo abbia materialmente redatto.

In esso si descrive un "clima incandescente, con aspri scontri verbali": addirittura si riporta di un gerarca che avrebbe estratto la pistola. Di questa descrizione della seduta aveva già ricevuto notizia il De Felice, che l'aveva riportata in una nota del suo volume Mussolini: l'alleato, senza però riuscire a trovare ulteriori documenti a conferma.

Però lo stesso Toncelli, che ha mostrato per la prima volta davanti alle telecamere il documento, a un esame più attento, ha messo in evidenza un dettaglio errato: la data di redazione risulta essere quella del 25 luglio 1943 - XXII, cioè "XXII anno dell'era fascista". Questa, però, decorre dal 28 ottobre di ogni anno, anniversario della marcia su Roma del 1922; ne consegue che il 25 luglio 1943 era ancora parte del XXI anno dell'era fascista, non del XXII. Tale errore rende dubbia l'autenticità del documento, che è tuttora oggetto di valutazione da parte degli storici.[52]

L'arresto di Mussolini

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La Villa Reale a Villa Ada Savoia.
 
Vittorio Emanuele III

Nel prosieguo della nottata, Grandi si recò a Montecitorio, dove l'aspettava il duca D'Acquarone. Gli consegnò una copia dell'ordine del giorno approvato, debitamente firmato dai granconsiglieri ad esso favorevoli e gli fece il resoconto degli esiti della riunione. Suggerì la persona del generale Caviglia alla guida di un nuovo governo tecnico-politico senza la presenza di alcun membro del partito fascista. Intorno alle cinque del mattino, Acquarone relazionò a Vittorio Emanuele III che fece preparare il decreto che conferiva al maresciallo Pietro Badoglio l'incarico di formare il nuovo governo. Il re lo firmò intorno alle ore sette. I generali Ambrosio e Castellano furono incaricati di presentarlo al maresciallo d'Italia che lo accettò nel corso della mattinata, controfirmando l'apposito decreto[53][54].

La mattina di domenica 25 luglio, dopo essersi recato regolarmente nel suo studio di Palazzo Venezia per occuparsi degli affari correnti, Mussolini chiese al sovrano di poter anticipare l'abituale colloquio del lunedì. Il re fece sapere a Mussolini che lo avrebbe ricevuto alle 17:00, a Villa Savoia (all'epoca residenza privata del sovrano), raccomandandolo vivamente di indossare abiti civili[55].

Il piano che condusse all'arresto dell'ex capo del Governo fu elaborato dal generale Giuseppe Castellano insieme al generale Giacomo Carboni e con l'assenso del ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone. Il Capo di Stato maggiore generale Vittorio Ambrosio, che era stato il principale fautore dell'iniziativa dei militari, era stato preventivamente informato sui dettagli dell'operazione e non pose obiezioni[56]. Un'autoambulanza fu introdotta all'interno del grande parco di Villa Savoia, ove erano presenti circa cinquanta carabinieri per l'arresto di Mussolini. Il veicolo era stato scelto per non destare sospetti nell'ormai ex capo del governo e del fascismo sul suo pianificato arresto, ostentando il pretesto di proteggerlo da una reazione popolare che avrebbe potuto porre in pericolo la sua vita.

Il capitano dei carabinieri Paolo Vigneri venne convocato telefonicamente intorno alle ore 14:00 del 25 luglio dal tenente colonnello Giovanni Frignani e fu incaricato di eseguire l'arresto insieme al collega capitano Raffaele Aversa. Vigneri ricevette termini drastici per la consegna a ogni costo del catturando e, per portare a termine la missione, oltre che di Aversa, si avvalse di tre sottufficiali dei carabinieri (Bertuzzi, Gianfriglia e Zenon), i quali in caso di necessità erano autorizzati a usare le armi. I cinque carabinieri si recarono presso la villa e rimasero in attesa, fuori dall'edificio.

Alle ore 17:00 in punto, Mussolini si recò a Villa Savoia per il colloquio con il re, accompagnato dal segretario Nicola De Cesare, con sotto braccio una cartella che conteneva l'ordine del giorno Grandi, varie carte e la legge di istituzione del Gran consiglio, secondo cui l'organismo aveva solo carattere consultivo.[57] Il colloquio tra i due durò circa venti minuti. Il re comunicò a Mussolini la sua sostituzione da capo del governo con il maresciallo d'Italia Pietro Badoglio; poi lo accompagnò all'uscita della residenza reale, essendo stato messo a conoscenza del piano dei militari nei confronti dell'ormai ex-duce e avendone dato l'approvazione.

Verso le 17:20 Mussolini uscì dalla villa e fu affrontato da Vigneri, che in nome del re gli chiese di seguirlo per «sottrarlo ad eventuali violenze della folla». Ricevuto un diniego, Vigneri prese per un braccio Mussolini ed eseguì l'arresto caricandolo sull'ambulanza militare che era già sul luogo. Mussolini, accompagnato da De Cesare, fu quindi condotto prima nella Caserma Podgora di Trastevere e dopo alcune ore tradotto nella caserma della Scuola allievi carabinieri a Prati, in via Legnano.[58]

Questa la versione di Benito Mussolini, pubblicata postuma sul Meridiano d'Italia il 6 aprile 1947:

«Del re ero sicuro: non avevo motivo di dubitare di lui. Il colloquio, a Villa Savoia, durò circa venti minuti. Si iniziò con una mia succinta relazione sulla situazione politico-militare e sull'incontro a Feltre. Vittorio Emanuele, dimostrando vivo interessamento a quanto gli andavo esponendo, domandò precisazioni e fece qualche obiezione. Gli parlai, poi, della situazione in Sicilia, della minaccia diretta contro l'Italia meridionale, della seduta del Gran Consiglio, facendogli presente la necessità di agire energicamente per stroncare l'offensiva dei nemici esterni ed interni. Fu allora che il re, infiorando come sua consuetudine le frasi con qualche parola piemontese, mi disse che era inutile far progetti per l'avvenire, perché la guerra era ormai da considerarsi irrimediabilmente perduta, che «il popolo non la sentiva, che l'Esercito non voleva battersi». «Specialmente gli alpini non vogliono più battersi per voi - disse acre, levandosi in piedi. «Si batteranno per voi, Maestà!» - ribattei. Fu in quel momento che mi accorsi di trovarmi di fronte un uomo col quale ogni ragione era impossibile. «Tutto è inutile ormai» - soggiunse il re - «l'avvenire della Nazione è ora affidato alla Corona. Le mie decisioni sono già state prese. Nuovo Capo del Governo è il Maresciallo Badoglio e virtualmente è già entrato in funzione. Sarà bene che vi mettiate a sua disposizione». Era nel suo pieno diritto licenziare il suo Primo Ministro, ma ciò nonostante ero e rimanevo il capo del Fascismo. Questo gli dissi e mi avviai per uscire. Il re mi trattenne: «Cercate di starvene tranquillo - soggiunse. - Sul vostro nome sarà meglio che non si faccia dello scalpore». «Se ne è già fatto abbastanza» - risposi. Discendendo la scalinata di Villa Savoia, fui sorpreso di non trovare la mia macchina ad attendermi. Con il pretesto che l'udienza si sarebbe protratta a lungo e che occorreva lasciare libero il piazzale, essa era stata avviata in un viale adiacente. Mi arrestai a metà dello scalone e chiesi al maggiordomo di Casa reale di far avanzare la mia vettura. Nello stesso istante sopraggiungeva una autoambulanza della Croce Rossa. Un colonnello dei Carabinieri, staccandosi da un plotone formato da ufficiali e da militi, mi si avvicinò: «Eccellenza - mi disse - vi prego di salire nell'autoambulanza». Sorpreso, protestai. Il colonnello rispose che quello era l'ordine. «Devo proteggere la vostra vita, eccellenza - soggiunse, manifestamente astenendosi di usare il termine duce. - Quindi intendo eseguire l'ordine ricevuto». Compresi di essere caduto in una trappola. Ma non c'era nulla da fare. Bisognava inchinarsi davanti alla forza. Salii dunque sull'autoambulanza: lercia, ve lo assicuro. Non vi nascondo che in quel momento malignamente pensai che i traditori intendessero in tal modo offendermi, adeguando secondo loro il contenente al contenuto. Con me salirono il colonnello, due carabinieri in borghese e due in divisa. Tutti armati di fucile mitragliatore. L'autoambulanza partì a strappo e attraversò i quartieri di Roma a tale andatura, che ad un certo momento pregai l'ufficiale di dar l'ordine di moderare la corsa. «Qui finiremo con l'investire qualche disgraziato e con lo sfasciarci contro un muro - dissi. Ci arrestammo nel cortile della caserma Podgora, dei Carabinieri, in via Quintino Sella. Fui fatto scendere e sostare per circa un'ora, strettamente sorvegliato, nella stanza attigua al corpo di guardia. Alla mia richiesta di spiegazioni, l'ufficiale che mi aveva accompagnato rispose: - È stato necessario prendere delle misure per proteggervi dal furore popolare. Bisognerà far perdere le vostre tracce.»

 
Festeggiamenti a Milano, il 26 luglio 1943, per la caduta di Mussolini e proclamazione del governo Badoglio
 
Una targa degli anni trenta in cui sono stati cancellati i simboli e i riferimenti al fascismo (Vinci)

La regina Elena ha raccontato in un'intervista del marzo 1950, pubblicata ne La storia illustrata del luglio 1983, i venti minuti in cui si consumò l'incontro tra Vittorio Emanuele III e Benito Mussolini, nonché la destituzione e l'arresto di quest'ultimo:

«Eravamo in giardino. A me non aveva ancora detto nulla. Quando un emozionato Acquarone ci raggiunse, e disse a mio marito: «Il generale dei carabinieri desidera, prima dell'arresto di Mussolini, l'autorizzazione di Vostra Maestà» - Io restai di sasso. Mi venne poi da tremare quando sentii mio marito rispondere: «Va bene. Qualcuno deve prendersi la responsabilità. Me l'assumo io». Poi salì la scalinata con il generale. Attraversavo l'atrio quando Mussolini arrivò. Andò incontro a mio marito. E mio marito gli disse «Caro Duce, l'Italia va in tocchi…». Non lo aveva mai chiamato così, ma sempre "eccellenza". Io nel frattempo salii al piano superiore, mentre la mia dama di compagnia, la Jaccarino, attardandosi nella saletta era rimasta giù e ormai non poteva più muoversi. Più tardi mi riferì tutto. Mi narrò che mio marito aveva perso le staffe e si era messo a urlare contro Mussolini, infine gli comunicò che lo destituiva e che a suo posto metteva Pietro Badoglio. Quando poi la Jaccarino mi raggiunse, dalla finestra di una sala, vedemmo mio marito tranquillo e sereno, che accompagnava sulla scalinata della villa Mussolini. Il colloquio era durato meno di venti minuti. Mussolini appariva invecchiato di vent'anni. Mio marito gli strinse la mano. L'altro mosse qualche passo nel giardino, ma fu fermato da un ufficiale dei carabinieri seguito da soldati armati. Il dramma si era compiuto. Mi sentivo ribollire. Per poco non sbattei contro mio marito, che rientrava. «È fatta» disse piano, lui. «Se dovevate farlo arrestare» gli gridai a piena voce, indignata «...questo doveva avvenire fuori casa nostra. Quel che avete fatto non è un gesto da sovrano…». Lui ripeté «Ormai è fatta» e cercò di prendermi sotto braccio, ma io mi allontanai di scatto da lui: «Non posso accettare un fatto del genere» dissi «mio padre non lo avrebbe mai fatto» poi andai a rinchiudermi nella mia camera.»

Per tutta la giornata del 25 luglio venne mantenuto uno strettissimo riserbo su quanto accaduto; solo alle 22:45 fu data la notizia della sostituzione del capo del governo. La radio interruppe le trasmissioni per diffondere il seguente comunicato:[59]

«Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo Primo Ministro Segretario di Stato di Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini, ed ha nominato Capo del Governo Primo Ministro Segretario di Stato, sua Eccellenza il Cavaliere, Maresciallo d'Italia, Pietro Badoglio.»

Al comunicato il popolo di Roma si riversò nelle piazze e per le strade invocando libertà e pace. Seguì la lettura di due proclami da parte del re e di Badoglio: quest'ultimo, per non destare sospetti nei confronti dei tedeschi, finiva con queste parole:[60]

«[…] La guerra continua. L'Italia duramente colpita nelle sue Provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni […]»

Conseguenze

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Pietro Badoglio (1871-1956)

L'indomani (lunedì 26 luglio) le prime pagine dei quotidiani pubblicarono con caratteri cubitali la notizia della nomina a nuovo capo del governo del maresciallo Badoglio. Solo la mattina del 27, martedì, la stampa diede notizia che il Gran consiglio, nella notte tra il 24 e il 25, aveva votato l'ordine del giorno di Dino Grandi con la conseguente assunzione dei poteri da parte del re.

Badoglio, nel corso della giornata del 26, compose la compagine di governo dopo aver sottoposto le sue scelte all'approvazione del re, che respinse ogni nominativo che non fosse strettamente tecnico o militare[61]. Per la carica di ministro dell'Interno fu scelto Bruno Fornaciari, che già il 9 agosto fu sostituito da Umberto Ricci, entrambi prefetti. Al Ministero della guerra fu nominato il generale Antonio Sorice e agli Esteri l'ambasciatore Raffaele Guariglia. Quest'ultimo, peraltro, si trovava in servizio nella sua sede di Ankara e, pertanto, non poté assumere il nuovo incarico prima del 30 luglio.

Il primo obiettivo del nuovo capo del governo fu il mantenimento dell'ordine pubblico[62]. Dietro ordine dello stesso Badoglio, il 26 luglio il Capo di stato maggiore dell'Esercito, gen. Mario Roatta, diramò una circolare telegrafica alle forze dell'ordine e ai distaccamenti militari la quale disponeva che chiunque, anche isolatamente, avesse compiuto atti di violenza o ribellione contro le forze armate o di polizia, o avesse proferito insulti contro le stesse e le istituzioni, sarebbe stato passato immediatamente per le armi. La circolare prescriveva inoltre che ogni militare impiegato in servizio di ordine pubblico che avesse compiuto il minimo gesto di solidarietà con i perturbatori dell'ordine, o avesse disobbedito agli ordini, o avesse anche minimamente vilipeso i superiori o le istituzioni, sarebbe stato immediatamente fucilato. Gli assembramenti di più di tre persone andavano parimenti dispersi, facendo ricorso alle armi e senza intimazioni preventive o preavvisi di alcun genere. Il 28 luglio, a Reggio Emilia, i soldati spararono sugli operai delle Officine Reggiane, facendo nove morti. Nello stesso giorno a Bari si contarono nove morti e 40 feriti. In totale, nei soli cinque giorni seguenti al 25 luglio, i morti in seguito a interventi di polizia ed esercito furono 83, i feriti 308, gli arrestati 1 500[63].

Mussolini avrebbe voluto andare agli arresti domiciliari nella sua residenza estiva alla Rocca delle Caminate vicino a Forlì; invece il 27 luglio fu portato al carcere dell'isola di Ponza. Poi fu trasferito, sempre in stato di detenzione, prima a La Maddalena e infine a Campo Imperatore, sul Gran Sasso.

Badoglio sottopose al re il provvedimento di soppressione del Partito Nazionale Fascista e di conseguenza del Gran consiglio stesso, con i due RDL 2 agosto 1943, nº 704 e 706. Con RDL nº 705 di pari data, inoltre, veniva sciolta la Camera dei fasci e delle corporazioni, stabilendo che entro quattro mesi dalla fine della guerra si sarebbero dovute svolgere le elezioni per la nuova Camera dei deputati. Venne dichiarato decaduto il Tribunale speciale e l'Istituto per la cultura fascista, abolite le leggi sul celibato, il saluto romano nelle forze armate e, in tutte le divise, i fasci littori furono sostituiti dalle stellette. La denominazione "fascista" venne rimossa dai nomi degli enti pubblici e il fascio littorio fu eliminato dai biglietti di banca[64].

Nei giorni seguenti il nuovo esecutivo iniziò a prendere contatti con gli alleati per trattare la resa. Poche settimane dopo, il 3 settembre, il governo Badoglio firmò con gli Alleati l'armistizio di Cassibile, che venne reso noto l'8 settembre dallo stesso Badoglio.

Nella cultura di massa

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  1. ^ Indro Montanelli, Mario Cervi, L'Italia della disfatta, Rizzoli, Milano, 1983, pp. 268-270.
  2. ^ a b c Renzo De Felice, Introduzione, in: Dino Grandi, 1983, pp. 46-51.
  3. ^ Indro Montanelli, Mario Cervi, cit., p. 308.
  4. ^ Indro Montanelli, Mario Cervi, cit., pp. 270-272.
  5. ^ Indro Montanelli, Mario Cervi, cit., pp. 273-275.
  6. ^ Pierluigi Baima Bollone, Le ultime ore di Mussolini, Milano, Rusconi, 2021, ISBN 978-88-18-03683-1.
  7. ^ Silvio Bertoldi. L'ultimo re l'ultima regina. Milano, Rizzoli, 1992. ISBN 88-17-84197-8
  8. ^ a b c Renzo De Felice, Introduzione, in: Dino Grandi, 1983, p. 33.
  9. ^ a b c Renzo De Felice, Introduzione, in: Dino Grandi, 1983, p. 36.
  10. ^ Internal Situation in Italy. Memorandum by the Secretary of State for Foreign Affairs, NAK, CAB/66/36/26
  11. ^ Renzo De Felice, Introduzione, in: Dino Grandi, 1983, p. 41.
  12. ^ a b Renzo De Felice, Mussolini l'alleato, vol. I, tomo II, Einaudi, 1990, p. 1236.
  13. ^ Renzo De Felice, Introduzione, in: Dino Grandi, 1983, pp. 68-69.
  14. ^ Gianfranco Bianchi, 25 luglio: crollo di un regime, Mursia, Milano, 1963, p. 417.
  15. ^ Indro Montanelli, Mario Cervi, cit., pp. 291-293.
  16. ^ Renzo De Felice, Introduzione, in: Dino Grandi, 1983, pp. 70-73.
  17. ^ La missione di Fummi si interruppe il 25 luglio, quando si trovava ancora a Lisbona in attesa del visto inglese. Giuseppe Bastianini, Uomini, cose, fatti. Memorie di un ambasciatore, Milano, Vitagliano, 1959, pp. 114-115, 117.
  18. ^ Renzo De Felice, Introduzione, in: Dino Grandi, 1983, p. 21.
  19. ^ a b Claudio Pavone, Acquarone, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 1, Treccani, Roma, 1960. URL consultato l'8 maggio 2021.
  20. ^ Marzio Mezzetti, Recensioni – Il 25 luglio nei libri: le memorie di quanti votarono “contro”, in review, Osservatorio La Rocca (Circolo La Rocca), 29 settembre 2013. URL consultato il 9 maggio 2021.
  21. ^ a b c Renzo De Felice, Introduzione, in: Dino Grandi, 1983, p. 42.
  22. ^ Frederick William Deakin, La brutale amicizia. Mussolini, Hitler e la caduta del fascismo italiano, Torino, Einaudi, 1990, p. 538, ISBN 88-06-11786-6.
  23. ^ Mimmo Franzinelli, Guerra di spie. I servizi segreti fascisti, nazisti e alleati, 1939-1943, Milano, Mondadori, 2004, p. 293, ISBN 88-04-55973-X.
  24. ^ Frederick William Deakin, cit., p. 554.
  25. ^ Frederick William Deakin, cit., p. 544.
  26. ^ Frederick William Deakin, cit., p. 545.
  27. ^ Giuseppe Bastianini, cit., p. 120.
  28. ^ Frederick William Deakin, cit., p. 549.
  29. ^ Renzo De Felice, Introduzione, in: Dino Grandi, 1983, p. 53.
  30. ^ Renzo De Felice, Introduzione, in: Dino Grandi, 1983, pp. 84-87.
  31. ^ Dino Grandi, 25 luglio. Quarant'anni dopo (a cura di Renzo De Felice), con introd. di R. De Felice, Bologna, Il Mulino, 1983, ISBN 978-88-150-0331-7
  32. ^ Mussolini disse: «Ebbene, convocherò il Gran consiglio. Si dirà in campo nemico che si è radunato per discutere la capitolazione. Ma l'adunerò».
  33. ^ Carlo Scorza, Mussolini tradito, Roma, 1982, p. 193.
  34. ^ Dino Grandi, cit., pp. 233-234.
  35. ^ Renzo De Felice, Introduzione, in: Dino Grandi, 1983, pag. 21.
  36. ^ Renzo De Felice, Introduzione, in: Dino Grandi, 1983, p. 112.
  37. ^ Dino Grandi, cit., pp. 240-242.
  38. ^ Il crollo del regime fascista e una vertenza cavalleresca, MemoriaWeb - Trimestrale dell'Archivio storico del Senato della Repubblica - n. 23 (Nuova Serie), settembre 2018, p. 28: Grazioli invoca la convocazione di palazzo Madama non fosse altro per parità di trattamento col Gran consiglio del fascismo, non potendo ammettersi che sia utile in questo momento sentire il parere del Gran consiglio e ritenere inutile ogni collaborazione dal Senato.
  39. ^ Dino Grandi, cit., pp. 243-245.
  40. ^ Emilio Gentile, 25 Luglio 1943, Bari-Roma, Laterza, 2018.
  41. ^ Dino Grandi, cit., pp. 242-243.
  42. ^ Frederick William Deakin, cit., p. 577.
  43. ^ Frederick William Deakin, cit., pp. 580-581, 610-611.
  44. ^ Paolo Nello, 1993. Un fedele disubbidiente : Dino Grandi da Palazzo Chigi al 25 luglio , Il Mulino, 1993.
  45. ^ Frederick William Deakin, cit., p. 591.
  46. ^ Le citazioni che seguono provengono da un resoconto che venne scritto il mattino seguente a casa di Federzoni dallo stesso Federzoni insieme a Bottai, Bastianini e Bignardi, i quali si basarono sulle note prese durante la seduta. Cfr. Dino Grandi, Il 25 Luglio 40 anni dopo, Il Mulino, Bologna, 1983, p. 249.
  47. ^ Così sostiene Dino Grandi, Il 25 Luglio 40 anni dopo, Il Mulino, Bologna, 1983, p. 249.
  48. ^ Frederick William Deakin, cit., p. 597.
  49. ^ Frederick William Deakin, cit., pp. 597, 610.
  50. ^ Il giorno dopo scrisse a Mussolini ritrattando il suo voto.
  51. ^ a b Entrambi i ministeri erano in quel momento retti da Mussolini, come i tre dicasteri militari.
  52. ^ RAI, La Grande Storia, puntata del 19 luglio 2013 - "Il fascismo: le rovine e la caduta", di Fabio Toncelli, prodotto dalla SD Cinematografica.
  53. ^ Indro Montanelli, Mario Cervi, cit., p. 329.
  54. ^ Non furono esatte le dichiarazioni che Badoglio rese il 25 ottobre 1943 al Times: «Fui chiamato dal re alle ore 17 del 25 luglio e nominato capo del nuovo governo: Io non so quello che accadde tra il momento del voto in Gran consiglio e l'invito fattomi dal re» (Cfr. Times, 25 ottobre 1943).
  55. ^ Indro Montanelli, Mario Cervi, cit., p. 330.
  56. ^ Archivi Nazionali degli Stati Uniti d'America (College Park, Maryland), Diario del Generale Giuseppe Castellano. 25 luglio 1943, Coll. RG 226 (casellario OSS), numero 33854, serie 92, busta 621, fascicolo 5.
  57. ^ Benito Mussolini, Opera omnia, Vol. XXXIV, Firenze, La Fenice, 1951, p. 275.
  58. ^ Dal 25 aprile 1983 via Carlo Alberto Dalla Chiesa.
  59. ^ Bianchi, cit., p. 704.
  60. ^ Bianchi cit., p. 705.
  61. ^ Indro Montanelli, Mario Cervi, cit., p. 336.
  62. ^ Ruggero Zangrandi, 1943: 25 luglio-8 settembre, Feltrinelli, Milano, 1964, p. 184 e ss.
  63. ^ Gianni Palitta, Cronologia Universale, Ed. Gulliver, 1996, p. 731.
  64. ^ Ruggero Zangrandi, cit., p. 182.

Bibliografia

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  • Paolo Monelli, Roma 1943, Roma, Migliaresi Editore, I ed. 1945. - II ed. riveduta e accresciuta 1945; III ed. riveduta 1946; IV-V ed. riveduta, 1946; Milano, Mondadori, 1948; Collana Il mondo nuovo n.66, Longanesi, Milano, 1963; introduzione di Luigi Barzini, Collana Oscar n.971, Milano, Mondadori, I ed. 1979; prefazione di Lucio Villari, Collana Einaudi Tascabili. Saggi n.159, Einaudi, Torino, 1993; nuova prefazione di Lucio Villari, Collana ET Saggi, Einaudi, Torino, 2012, ISBN 978-88-06-21150-9.
  • Eugen Dollmann, Roma nazista, traduzione di I. Zingarelli, Milano, Longanesi, 1949-1951. - prefazione di Silvio Bertoldi, Collana SuperBur Saggi, Milano, BUR, 2002.
  • Eugen Dollmann, La calda estate del 1943, Collana Il salotto di Clio, Firenze, Le Lettere, 2012, ISBN 978-88-6087-369-9.
  • Frederick William Deakin, Storia della repubblica di Salò (The Brutal Friendship), Biblioteca di cultura storica n.76, Torino, Einaudi, 1963-1968, p. 826. . 2 voll., Collana Gli struzzi n.10, Einaudi, Torino, 1970; riedito col titolo originale, La brutale amicizia. Mussolini, Hitler e la caduta del fascismo, Collana Einaudi Tascabili n.26, Einaudi, Torino, 1990, ISBN 978-88-06-11786-3.
  • Gianfranco Bianchi, 25 Luglio: crollo di un regime, Milano, Mursia, 1963.
  • Giorgio Bocca, Storia d'Italia nella guerra fascista 1940-1943, Bari, Laterza, 1969.
  • Dino Grandi, 25 luglio. Quarant'anni dopo, a cura di Renzo De Felice, introd. di R. De Felice, Bologna, Il Mulino, 1983, ISBN 978-88-150-0331-7. - Premessa di Giuseppe Parlato, Collana Storia/Memoria, Il Mulino, 2003, ISBN 978-88-150-9392-9.
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  • R. Zangrandi, 1943: 25 luglio-8 settembre, Milano, 1964.
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  • Carlo Scorza, La notte del Gran Consiglio, Milano, 1968
  • Giuseppe Bottai, Diario 1935-1944, a cura di G. B. Guerri, Milano, 1982
  • Carlo Scorza, Mussolini tradito. Dall'archivio segretissimo e inedito dell'ultimo segretario del PNF dal 14 aprile alla notte del 25 luglio 1943, Roma, 1982
  • Tullio Cianetti, Memorie dal carcere di Verona, a cura di R. De Felice, Milano 1983, ad Indicem; Dino Grandi, 25 luglio. Quarant'anni dopo, a cura di Renzo De Felice, Bologna, 1983

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