Anastasia Megalotti Tesi Sul Pianoforte
Anastasia Megalotti Tesi Sul Pianoforte
Anastasia Megalotti Tesi Sul Pianoforte
CENNI STORICI
L’interprete è una figura indissolubile dall’essenza della musica stessa, che si è evoluta nella
storia. Il graduale sdoppiarsi della personalità del musicista nelle figure del compositore da
una parte e dell’interprete dall’altra ebbe tuttavia il suo compimento totale non prima
dell’Ottocento avanzato, epoca che vide infatti l’affermazione di un vero e proprio
professionismo esecutivo solistico, unito a forme di virtuosismo esibizionistico analoghe a
quelle che da oltre due secoli si avevano sulla scena operistica, soprattutto italiana. Nella
stessa epoca sale sul podio un nuovo tipo di interprete, il direttore d’orchestra. Prima con
Spontini, Spohr, Weber, Mendelssohn, Wagner, Liszt in Germania; Habeneck e Berlioz in
Francia; più tardi con Mariani e Faccio in Italia; successivamente con la numerosa schiera di
direttori non più compositori (e molti ‘specializzati’ come i direttori wagneriani),
all’interpretazione, fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento, sarà riservata un’importanza
preminente nella vita musicale. Questi cambiamenti sono strettamente collegati con i grandi
accadimenti spirituali e sociali che segnano la storia tra il Settecento e l’Ottocento in Europa.
Fin quasi a tutto il XVIII secolo, la musica, era stata ad appannaggio, quasi esclusivamente,
del ceto aristocratico, oltre che della chiesa e di alcune istituzioni civiche. Fu nel passaggio
dal XVIII al XIX secolo che (grazie alla spinta politica, sociale, estetica, di costume, derivata
dalla rivoluzione francese, dall’esaltazione romantica dell’individualità creatrice, dalla presa
di coscienza nei popoli degli ideali di libertà e di nazione) la musica poté definitivamente
liberarsi dal proprio stato di ‘servizio’, e dilagò entro le vaste sale da concerto aperte a tutti. E’
grazie quindi all’evoluzione della tecnica e dell’arte musicale che si svilupparono le figure
dell’esecutore di professione e di uno specialista in grado di dirigere un’orchestra.
L’ AUFFÜHRUNGSPRAXIS
L’ Aufführungspraxis, o prassi dell’esecuzione musicale, è uno dei rami più importanti della
musicologia germanica. Il suo scopo è quello di fornire gli elementi obiettivi
all’interpretazione L’esecuzione di un’opera musicale è tuttavia sottoposta a variabili, che
mutano nel tempo e nello spazio, così come nel tempo e nello spazio variano appunto i
rapporti tra autore, interprete e pubblico. Se la notazione costituisce quell’insieme di
indicazioni fornite dal compositore per l’esecuzione della propria opera da parte
Per la realizzazione di questo capitolo si è consultato: LA MUSICA ENCICLOPEDIA STORICA sotto la
direzione di Guido M. Gatti a cura di Alberto Basso Unione tipografico – editrice torinese Vol. II
“Interpretazione musicale” di Giorgio Graziosi pagg.767-778
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dell’interprete, occorre tuttavia tener presente che queste informazioni hanno presentato in
passato, e presentano tuttora, gradi diversi e difformi di univocità, completezza, prescrittività,
così come è diverso il numero dei parametri sonori che esse investono. Ciò è dovuto in parte
al trascorrere delle convenzioni, ai mutamenti sociali delle esigenze comunicative, del gusto e
delle possibilità normative della scrittura, e in parte è imputabile a prese di posizioni estetiche
o, alla personalità stessa dei singoli compositori. Le variabili relative alla prassi esecutiva
riguardano essenzialmente questioni di tempo (scelta del tempo metronomico), ritmiche,
dinamico - agogiche, di diteggiatura, melodiche (l’ornamentazione), quando non investono,
come accade quando si vada indietro nel tempo e la notazione appaia ai moderni esecutori
vaga e imprecisa, questioni contrappuntistiche o improvvisative. La prassi esecutiva finisce
con il rappresentare l’elemento caratterizzante di ciò che va sotto il nome di interpretazione
musicale senza però intervenire sulle verità musicali soggettive dell’ interprete e sul suo buon
gusto.
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nelle melodie. Bisognerà attendere un Bulow nell’ambito direttoriale, e un Joachin in quello
solistico e quartettistico, perché si possa considerare stabilmente entrato nella prassi esecutiva
il principio della fedeltà e del rispetto sia alla lettera che allo spirito dell’autore da
interpretare.
Negli ultimi cento anni, con tutti i grandi interpreti che ci sono stati, con tutte le diverse
teorie, le scuole, gli stili interpretativi, l’aspetto che sembra dominare è il divieto di tradire la
partitura, lo spartito, per il quale invece è richiesto il massimo ossequio. Inoltre, nella prima
metà del Novecento, la musicologia, la storiografia hanno cercato di eliminare ogni capriccio
da parte degli esecutori; ed è entrato nella coscienza di ogni interprete (o trascrittore o critico
o musicologo) che una pagina di Stravinskij, così come di Monteverdi o Palestrina, costituisce
un dato obbiettivo di valore assoluto. Nel Novecento l’interprete ha ulteriormente accentuato
le tendenze divistiche e ha mostrato maggior tendenza alla specializzazione, sia con la
rinuncia all’attività compositiva, sia con le scelte di repertorio. Eppure, nonostante ciò, in
questo periodo, la figura dell’interprete è stata messa in discussione, ad esempio, Stravinskij
ha negato l’utilità stessa dell’interprete: basta, a suo giudizio, un esecutore che segua
scrupolosamente le intenzioni dell’autore:«Non desideriamo alcuna cosiddetta interpretazione
della nostra musica; vogliamo solo le note, niente di più e niente di meno». 4 Molti
compositori credevano di poter eliminare il mediatore, l’interprete, scrivendo pezzi per
pianoforte meccanico . L’avvento della musica elettronica avvera questo desiderio. Basta poi
considerare l’arte d’avanguardia, con i suoi mezzi di comunicazione, la sua grafia, i segni
d’espressione vengono sia ridicolizzati (ad esempio Satie segnava ‘corpulento’,
‘cerimonioso’, ‘diventare pallido e via dicendo), sia limitati il più possibile, sia eliminandoli
del tutto (come fanno Poulenc o Stravinskij quando scrivono sans expression).
Hans von Bülow (Dresda 1830 – Il Cairo 1894) direttore d’orchestra e pianista tedesco. Esordì nella direzione
orchestrale nel 1850, affermandosi in seguito come maggiore interprete del suo tempo, particolarmente delle
opere di Wagner (del quale fu strenuo sostenitore) e di altri contemporanei quali Brahms, Strauss e Ciaikovskij.
Diresse le prime rappresentazioni di Tristano e Isotta e dei Maestri cantori a Monaco di Baviera. Allievo per il
pianoforte di F. Liszt.
Curò edizioni critiche delle sonate di Beethoven e degli studi di Cramer e di Chopin.
Joseph Joachim (Kittsee, Btratislava 1831 – Berlino 1907) violinista, direttore d’orchestra e compositore
tedesco. Operò a Weimar e Hannover e dal 1868 a Berlino come direttore della Hochschule für Musik; nel 1869
fondò un quartetto, che acquistò grandissima rinomanza in tutta Europa. Fu amico di Mendelssohn, che ne
riconobbe subito le precoci doti e ne seguì la formazione; di Schumann , di Brahms, e di Liszt, che lo volle come
primo violino a Weimar.
Fu uno dei protagonisti della vita musicale tedesca del XIX secolo per le eccelse qualità di interprete, il
rigoroso rispetto dei testi (tutt’altro che comune tra i virtuosi di violino del suo tempo), le meditate ricerche
culturali e l’attività di didatta. Come compositore, subì l’influenza di Mendelssohn e Schumann, e anche di Liszt;
scrisse ouvertures, musica da camera e diverse pagine per violino e orchestra, tra cui il Concerto ungherese
op.11.
4
Aaron Copland, Come ascoltare la musica, ed. Garzanti 1970, p.168
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CAPITOLO 1.
in suoni mediante un’azione diretta (quella dello strumentista, del cantante) oppure indiretta,
cioè con il concertare e guidare interposti esecutori (tale il direttore d’orchestra, di coro, e via
l’interprete viene a contatto con il testo musicale, decifra i segni, le didascalie e ogni altra
primo, è il momento che può definirsi critico – estetico, perché l’interprete, grazie alle
proprie facoltà intuitive, e aiutato dagli opportuni accertamenti storico – biografici e critico –
stilistici, giunge all’intimo e totale possesso dei valori estetici contenuti nel brano musicale.
Questa è la fase più delicata e più importante del processo interpretativo, attraverso la quale
nazionalità e via dicendo. Da tutto ciò nascono le capacità ‘ricreative’ dell’interprete nei
confronti dell’autore o creatore della musica. Il terzo momento, individuato dal Graziosi, è
quello che conclude tutto il processo interpretativo, ed è il momento dell’ esecuzione vera e
propria, cioè la conversione del testo nella realtà dei suoni. Per ottenere la massima bellezza
«LA MUSICA ENCICLOPEDIA STORICA» sotto la direzione di Guido Gatti a cura di Alberto Basso vol.II
Giorgio Graziosi L’interpretazione musicale
ENCICLOPEDIA DELLA MUSICA (ed. Ricordi) L’interpretazione di Giorgio Graziosi pp. 473 - 474
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combinazione delle attitudini sia naturale che acquisite con l’esercizio, lo studio,
dall’esecutore nei confronti dell’autore e dei suoi intendimenti artistici, di cui egli si fa
dire anche far scaturire dalla partitura significati che non sono direttamente presenti, ma
nascono dal rapporto personale dell’interprete con le intenzioni poetiche dell’autore e con le
attese estetiche del pubblico a cui si rivolge. Ogni opera musicale contiene un messaggio,
renderlo esplicito per poterlo trasmettere agli uditori. Questa operazione, alquanto difficile , è
da sempre fonte di discussioni tra i musicisti, gli storici, i critici, i filosofi, soprattutto perché
ha sempre avuto bisogno di interpreti (o esecutori), si può dire che la coscienza della sua
interpretabilità, pur avendo le sue radici nel secolo XIX, nasca a tutti gli effetti nel secolo XX.
Aaron Copland, Come ascoltare la musica, Garzanti, 1970 pp. 166 - 167
pagina web www.luigiattademo.it/pagine/articolo_interpretazione.html
5
L’origine dell’interpretazione musicale in senso moderno è individuabile storicamente tra il
Settecento e l’Ottocento. E' con la fine della libertà esecutiva dell'epoca Barocca che il testo
musicale è pensato, dal compositore prima che dall'esecutore, come opera d'arte autonoma.
Così l'esecutore, che fino al Barocco ha partecipato attivamente alla realizzazione finale della
partitura con la sua esecuzione, nell'Ottocento si accorge che ogni segno, ogni nota, ogni
indicazione, per precise che siano, gli pongono il problema del loro valore, del significato da
attribuire loro. L'esecuzione ora è come un problema che si rinnova di volta in volta, senza
offrire mai una soluzione definitiva. Nell’Ottocento, infatti, si assiste alla realizzazione di
partiture ricche di indicazioni (ne è un esempio la scrittura di Beethoven). Questo fatto nasce
da due esigenze. La prima di tipo pratico, derivata dalla necessità da parte del compositore di
indicare con precisione le note, dunque di consegnare alle stampe edizioni corrette e
Beethoven - pensa alla sua creazione come ad un evento rivelativo che mette in relazione
l’umano col divino, nasce cioè l’idea che la creazione abbia una relazione con qualcosa di
sacro che non può essere frainteso. Ma l’uso di indicazioni rispetto alle note, non chiarisce le
vere intenzioni dell’autore, aggiunge invece ulteriori elementi da interpretare all’interno della
partitura musicale. Oltre alla struttura musicale implicita nella scrittura, c’è un secondo
livello, quello del carattere, che è indicato attraverso segni e parole che sono decifrabili in
modi differenti. Dunque il compositore non limita i fraintendimenti della sua musica, perché
Nell’Ottocento, l’intervento del compositore sulle musiche da lui scritte, con didascalie e
XIX secolo prende coscienza il fatto che testo scritto e testo interpretato non sono identici e
tale aspetto, che non rappresentava un problema per i musicisti dell’epoca antecedente,
comporta per il musicista dell’età moderna, numerose implicazioni filosofiche, prima tra tutte
6
l’idea che dietro ogni composizione ci sia un messaggio e che l’interprete abbia il compito di
L’epoca in cui l’esecuzione è vissuta come evento di intrattenimento è finita. C’è una
differenza fra testo scritto e interpretato, e ciò comporta la compresenza di due diverse
apertura dell’interpretazione (cioè la possibilità che una musica possa essere interpretata da
più esecutori), ma anche infine la possibilità che un ascoltatore a sua volta la intenda, nel
L’idea che l’interprete sia un autore è una scoperta del Novecento; ripensare il passato
anziché ripeterlo diventa la questione fondamentale su cui si dipana la storia della musica nel
All’inizio del XX secolo diversi critici e musicologi italiani dibatterono su due problemi
sue esecuzioni, e se queste ultime fossero conseguentemente considerabili come opere. Sulla
linea dell’estetica crociana più o meno giustamente trasferita in ambito musicale, alcuni di
essi sostennero che non vi è alcun elemento di originalità nell’opera dell’interprete. L’opera è
come una semplice riproduzione. A questa visione se ne oppose un’altra, che affermò l’aspetto
creativo dell’esecuzione. L’interprete è cioè colui che porta a compimento l’opera attraverso
la sua esecuzione: in tal modo essa diventa parte integrante del processo creativo stesso.
senso), essa appare un oggetto chiuso (compiuto o incompiuto che sia), che potrà incontrare
un elemento esterno, cioè l’interpretazione, nel primo caso negativamente, nel secondo
positivamente.
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L’opera, porta con sé un’infinità di significati e si presta a molteplici interpretazioni, pur
salvaguardando la sua identità. Secondo Luigi Pareyson, «dire che l’opera esige esecuzione
significa affermare che essa vuol essere eseguita ma chiede conto del modo di eseguirla».
L’idea di considerare l’opera nella sua inesauribilità di significati può far pensare a una serie
chiarisce la questione:
«[…] è pericolosissimo affermare, ad esempio, che non esiste la Quinta di Beethoven, ma solo di
volta in volta, la Quinta di Toscanini, di Furtwängler, e così via. Espressa così,
quest’affermazione invita al più arbitrario confusionarismo, prepara il riconoscimento
relativistico della molteplicità delle interpretazioni [...] Eppure c’è un senso, uno solo, in cui
quest’affermazione corrisponde alla realtà dei fatti, ed è che l’opera ha il suo vero e naturale
modo di vivere nelle molteplici esecuzioni».
infinita nel senso della sua inesauribilità, infatti essa è dinamica, poiché di fronte a nuove
interpretazioni svela significati nuovi, originali e prima impensabili. Ma non bisogna pensare
che l’opera porta con sé un insieme infinito di significati, preesistenti all’atto creativo
dell’interprete, ai quali egli attinge. Il senso d’infinità dei significati risiede invece nel suo
essere sempre rivelatrice di significati inaspettati che l’interprete svela non attraverso
L’opera è identica a se stessa ma è anche diversa dalle sue interpretazioni: queste due qualità
Luigi Pareyson (1918 – 1991) filosofo italiano. 1940 – 44 insegnò filosofia al Liceo classico di Cuneo. Sempre
a Cuneo formò alcuni futuri esponenti della resistenza italiana. Nel 1942 costituisce il nucleo cuneese del Partito
d’Azione. Nel ’44 fu sospeso dall’insegnamento e arrestato dall’ufficio politico della Federazione fascista;
rilasciato dopo alcuni giorni di prigionia e interrogatori, operò in semiclandestinità fra Torino, Cuneo, Alba e
Piasco, come responsabile dell’ufficio del comando delle formazioni Giustizia e libertà per la provincia di
Cuneo. Insegnò presso l’università di Torino dal ’45 – ’46, dopo un breve periodo a Pavia, dove tenne
l’insegnamento di storia della filosofia nel ’51 – ‘52 , a fine 1952 venne chiamato dalla facoltà torinese alla
cattedra di estetica creata per lui. Dal ’64 all’84 occupò la cattedra di filosofia teoretica. Fondò e diresse a lungo
la Rivista di Estetica e diverse collane filosofiche presso gli editori Mursia, Zanichelli, Bottega d’Erasmo,
coinvolgendo i migliori studiosi italiani e stranieri; dal 1985 pubblicò, presso Mursia, un Annuario Filosofico.Tra
i primi interpreti italiani dell’esistenzialismo (La filosofia dell’esistenza e Karl Jaspers 1940; Studi
sull’esistenzialismo 1943), si impegnò nel rinnovamento dell’interpretazione dell’idealismo tedesco (Fichte
1950; Schelling 1975), quindi nella formulazione di una teoria ermeneutica (Verità e interpretazione 1971):
considerava la rivalutazione esistenzialistica del singolo non solo come libertà, responsabilità e rischio, ma anche
originariamente ‘aperto’ alla verità e ‘situato’ in una data condizione. Di qui l’idea della verità come
‘interpretazione’, la quale, diversamente dall’oggettivismo della scienza, era vista sempre come esercizio
rischioso di libertà che coinvolge la responsabilità dell’interprete.
8
ma è anche quella di Toscanini. Anche Roman Ingarden, nel suo saggio L’opera musicale e la
questione della sua identità, affronta questa delicata questione dell’ammissione, e, tale
proposito, scrive che i giudizi ritenuti giusti se riferiti alla sola composizione, non sono gli
«Ciascuna esecuzione può aver luogo solo una volta, non può durare e non si può ripetere»,
quindi,
perciò, la creazione musicale è diversa rispetto alle sue possibili interpretazioni, non è la
stessa cosa della partitura, infatti non tutti i particolari sono stati indicati dall’autore. Ogni
modo meccanico.
«Vi è un certo modo di scrittura delle proprie idee, da parte del compositore,
intenzionalmente indicata dagli atti creativi e nei quali l’opera stessa risale alle origini della
sua esistenza e delle sue proprietà, che l’esecutore dovrebbe saper trovare nella lettura
dell’idea musicale»8 .
Credo di non aggiungere nulla di nuovo a quanto non sia già stato detto riguardo al modo in
semplicemente come pura tecnica. Questo argomento è stato a lungo oggetto di numerosi
discussioni, Giorgio Graziosi nel suo libro L’interpretazione musicale affronta la questione
Roman Ingarden, L’opera musicale e la questione della sua identità, compreso nel II vol. di R. Ingarden Studi
di estetica, PWM, 1958,cit. in Kazimierz Morski, L’interpretazione pianistica come parte immanente dell’idea
creativa tra arte e didattica Studi in memoria di Alvaro Valentini, a cura di Sandro Baldovicini, Macerata 2000,
pp.375 – 411: 375
7
ibidem, p.376
8
ibidem
9
prendendo, come punto di inizio, due diversi atteggiamenti da parte di due opposti personaggi
«Quel che è umano, è , in misura maggiore o minore, spirituale: la stessa vita dell’uomo è spirito.
non può quindi mettersi in dubbio la spiritualità dell’attività interpretativa.[…] Non può dunque
l’interpretazione non essere creazione, se l’attività spirituale è, per definizione, creativa».
L’interprete crea a sua volta una realtà artistica: «la quale […] è realtà dell’interprete, e non può
essere d’altri; espressione del suo mondo, realizzazione della sua personalità. Nella quale
espressione si sentirà, sì, l’eco della personalità del compositore, ma non quella soltanto».
Anche il musicista Aaron Copland nel suo libro Come ascoltare la musica è dello stesso
«L’interprete è una specie di mediatore; perché noi ascoltiamo non tanto il compositore quanto la
concezione che l’interprete ha di esso. [ed è proprio qui che sorge il problema di come un
interprete capisca e riesca a trasmettere il messaggio contenuto nell’opera di un compositore] Il
contatto fra uno scrittore e il suo lettore è diretto , l’opera del pittore esige solo di essere messa in
luce, ma la musica, e con essa il teatro, deve essere re-interpretata per vivere. Il povero
compositore, finita la composizione, deve affidarla alle cure di un interprete che, non va
dimenticato, ha natura e personalità sue proprie […] l’interprete è al servizio del compositore per
assimilare e ricreare il suo ‘messaggio’.
Di tutt’altro parere è il Parente. Egli è più vicino alle posizioni di Croce riguardo la sua
Per mostrare la validità della sua tesi, il Parente espone vari argomenti, e a questo proposito
Salvatore Pugliatti (1903 – 1976) è una personalità tra le più rappresentative della cultura messinese del secolo
scorso. Giurista di grande fama, oltre che musicologo, letterato, critico d’arte e scrittore. A soli 28 anni vince la
Cattedra di diritto civile all’università di Messine a 31 anni è il preside della facoltà di Giurisprudenza e, negli
anni ’30, dà lustro alla sua facoltà facendola divenire una scuola di diritto di fama assoluta. Si propone ad
iniziative culturali di grande rilievo, tra queste merita menzione quella del Teatro Sperimentale di Messina, che
di fatto inaugura quel rinnovamento dell’arte scenica in Italia proponendo il “Teatro di Regia” Un centro di
attività letteraria fu la libreria dell’Ospe che ospitava la Galleria d’Arte “Il Fondaco” e Pugliatti insieme ad altri
esponenti ne catalizzarono qui l’attività letteraria cittadina, punto di riferimento culturale per almeno un
trentennio. Inoltre egli fu membro di molte istituzioni di prestigio.
10
Alfredo Parente (1905 – 1985) Filosofo e critico musicale. Collaborò alla “Rassegna musicale”, e dal 1950 al
1976 esercitò la critica musicale sul “Mattino” di Napoli. Con La musica e le arti: problemi di estetica (1936) e
con vari saggi (raccolti in parte in Castità della musica 1961) fu tra gli esponenti dell’idealismo crociano nel
campo della critica musicale
Salvatore Pugliatti, L’interpretazione musicale, Messina 1940, in Giorgio Graziosi, L’interpretazione
musicale, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino 1966, pp. 47 - 48
A. Copland, op.cit., p. 167
10
) mentre il musicista (creatore) muove dall’interno, per impulso originario, per una
«illuminazione che è propria del genio creativo», l’interprete muove innanzi tutto dall’esterno,
trovando in una realtà già data l’imprescindibile guida del suo lavoro. Egli non ricrea un’opera
musicale, ma ripristina le condizioni fisiche indispensabili alla sua comunicazione.
) Ne consegue che, mentre il musicista è libero e autonomo, l’interprete è condizionato dai limiti
inerenti alla pagina che egli eseguisce; la sua libertà è solo apparente, tanto che nessun interprete
cosciente apporta ad una musica quelle «modificazioni» (o di tono o di accentuazione o di forma)
che qualche volta il suo ideale di bellezza gli suggerisce. Pertanto al libero impulso del creatore si
sostituisce nell’interprete un «problema di paziente e scrupolosa ricostruzione»: atteggiamento,
dunque, passivo il suo, per quanto attivo invece è l’altro.
) La spirituale, artistica intelligenza dell’opera da parte dell’interprete non può mai prescindere
dal suo compito tecnico, strettamente tecnico, di valutare e considerare la materiale consistenza di
una musica (segni, didascalie, ecc…), attraverso la quale solamente egli può giungere alla
comprensione di essa.
) «L’interprete esegue le musiche più disparate, serbando o cercando di serbare a ciascuna il tono
proprio e confacente»; e, anche se la composizione è lontana o contrastante con la sua personale
sensibilità, egli cerca di attenersi «a un tranquillo senso di obiettività, che è il contrario della
creazione artistica, in cui il musicista vuol valere innanzi tutto come soggetto, e le cose intorno
non riesce in alcun modo a vedere se non come proprie e investite dalla stessa fiamma che
alimenta la sua fantasia».
) La critica d’arte, in ciò implicitamente avvalorando la tesi dell’interpretazione come tecnica ed
escludendo quindi qualsiasi valore estetico autonomo, mentre ricerca nell’opera di un musicista
originalità e bellezza, in quella dell’interprete esige e ricerca esattezza, fedeltà e intelligenza o
spirito di penetrazione.
Dunque, secondo questa ottica, l’interprete svolge solamente una funzione passiva rispetto
«non v’è interprete finito che possa eseguire una pagina di musica e persino una sola frase senza
aggiungervi alcunché della sua personalità. Se ciò non fosse sarebbe un automa. L’esecuzione
avviene inevitabilmente secondo la personalità dell’esecutore. Con ciò egli non falsifica le
intenzioni del compositore; dà loro come in una lettura, le inflessioni della sua voce. Il punto
importante per noi è che per apprezzare un’interpretazione si deve poter valutare l’azione
dell’interprete sulla composizione che egli ricrea. In altre parole si deve diventare più consapevoli
della parte dell’interprete nell’esecuzione che si ascolta. […]».
Nonostante la sua posizione, anche il Parente giunge ad una conclusione simile a quella di
Copland, infatti, anche per lui non si potrà mai avere un interprete passivo e distaccato, a
causa della «insopprimibilità del personale spirito artistico dell’interprete»; infine egli
aggiunge:
« l’obiezione conduce […] al problema centrale dei rapporti tra il passato (l’opera d’arte) e il
presente (interprete). Comunque se è ormai accertato che il passato viva soltanto in funzione di un
soggetto che lo assume e assumendolo lo fa rivivere, ciò non significa che la storia ‘resti
trasfigurata in ogni atto conoscitivo e che la sua fisionomia muti ad ogni istante passando per la
coscienza degli infiniti soggetti’ ; che cioè una pagina di Beethoven, attraverso le infinite
Alfredo Parente, La musica e le arti, Bari 1936 in G. Graziosi, op. cit.,p. 49
A. Copland, cit., pp. 168 - 169
Alfredo Parente, op. cit., in G. Graziosi, cit., p. 50
11
interpretazioni, assuma cangiamenti tali da renderla ogni volta un’altra cosa, una creazione
diversa per quanti sono gli interpreti. Ciò significherebbe il caos e renderebbe illusoria la stessa
coincidenza di volta in volta raggiunta tra l’esecutore e il testo; ed equivarrebbe a negare la
possibilità di intendersi da uomo a uomo e di riconoscersi tra sé e sé nei diversi momenti della
vita. Dunque, l’interpretazione è duro travaglio teso alla più perfetta e limpida adeguazione tra la
spiritualità dell’interprete e quella della musica»
Nel ricreare una composizione, l’interprete deve seguire quanto voluto dall’autore
attraverso le indicazioni contenute nel testo, perciò spesso si ritiene che rispetto al
compositore, l’interprete sia in una posizione inferiore (qualora si voglia procedere ad una
scala gerarchica). Questo perché egli non ‘aggiunge’ nulla di nuovo a ciò che è già scritto,
e perciò si nega quella libertà e quell’originalità che invece si ritrovano nel compositore;
per questo la sua attività è soggetta a delle limitazioni in quanto vincolata alla partitura.
Ancora una volta credo che le parole del Graziosi siano illuminanti al riguardo:
«La negazione all’interprete di ogni creatività proviene, in fondo, da un equivoco. Si dice cioè:
siccome l’esecutore non può apportare alla pagina modificazioni concrete, […] la sua libertà non
esiste che in apparenza, essendo egli costretto negli invalicabili confini delle indicazioni del testo
da cui non deve e non può prescindere se non a costo di commettere veri e propri arbitri. In primo
luogo ci pare che lo stimolo a ‘modificare’, da cui sarebbe costantemente assillato l’interprete,
riguardi più l’eccezione che la regola.qualora l’interprete si ponga problemi riguardanti il senso
estetico, egli in quel momento non è più interprete soltanto, ma anche trascrittore o revisore, o
critico musicale, o compositore senz’altro: esorbita cioè dalle proprie funzioni assumendo
responsabilità […] che vanno esaminate appunto trattando della trascrizione, o dell’elaborazione,
o della critica e simili.
In secondo luogo, la funzione categoricamente imperativa della pagina musicale, la
immodificabilità di essa, riguarda esclusivamente la sua struttura materiale: le note, i segni e via
dicendo…Se il musicista ha scritto do, io do devo suonare e non sono certamente libero di fare do
diesis[…] e similmente per tutto quello che nel pentagramma è indicato (coloriti, tempi,
suggerimenti espressivi ecc.). Ma la necessità di suonare quelle note e non altre e di seguire quelle
didascalie e non altre non compromette affatto la libertà ‘creativa’ dell’interprete, proprio perché
questa necessità, questi obblighi valgono in un piano del tutto diverso da quello in cui si svolge la
vera funzione dell’interprete. Il quale non esaurisce né deve esaurire né potrebbe mai esaurire la
propria attività nella meccanica, esatta esecuzione delle note e delle indicazioni ; ma note e
indicazioni investe e trasforma con il proprio sentire, rendendoli veicoli della ‘creazione’ che fa
impeto all’animo e fa luce alla mente. Assoluti dunque gli obblighi ‘materiali’ – quelli, comunque,
da nessuno modificabili -, l’interprete diviene completamente e assolutamente libero di
configurare l’esecuzione meglio rispondente ai suoi principi e sensi estetici, libero di fondare, per
quegli stessi obblighi e in quegli stessi obblighi, il suo regno indipendente».
trasportare nella partitura la propria anima e fonderla con quella dell’interprete, e di riuscire
ibidem
G. Graziosi, op. cit., pp.55 - 56
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CENNI SULLA FILOSOFIA ERMENEUTICA IN RAPPORTO
ALL’INTERPRETAZIONE MUSICALE
Prima di iniziare ad affrontare questo argomento, vorrei sottolineare il fatto che, anche
parlando di filosofia in questo paragrafo, non è di certo mia intenzione ridurre in poche parole
un argomento talmente vasto come lo è quello dell’Ermeneutica. Credo però che fare una
breve panoramica in quest’ambito possa essere d’aiuto nell’affrontare il vero tema di una
filosofica della realtà storica e spirituale che si fonda sull’interpretazione dei significati
impliciti nei testi scritti o nel linguaggio stesso. Più semplicemente si può dire che compito
testo da comprendere. L’umanità, nel corso della storia, si è sempre occupata del problema
contenuto in ogni tipo di ambito culturale, iscrizioni, leggi, testi religiosi e poetici, nonché
della musica. Solo in epoca moderna però si forma una disciplina autonoma, che prende il
nome di Ermeneutica.
pensatore più rappresentativo di questa corrente di pensiero è Hans Georg Gadamer8, egli si
8
Hans Gerorg Gadamer nasce a Marburgo nel 1900. Consegue la libera docenza con Heidegger nel 1929.
Insena a Marburgo, Lipsia, Francoforte e dal 1949 ad Heidelberg. Le opere più importanti di Gadamer sono
Verità e metodo. Lineamenti di un ermeneutica filosofica ( 1960 ) e numerosi saggi confluiti nelle Opere
complete in 10 volumi pubblicati in Germania.
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ponendosi alla ricerca del carattere dell’esperienza ermeneutica e lo individua nell’arte.
L’Ermeneutica prende in considerazione il rapporto che c’è tra colui che interpreta e l’oggetto
che deve essere interpretato, e questo è possibile grazie ad una serie di ‘pre-conoscenze’, di
‘pre – giudizi’ che sono alla base della mente dell’interprete. La mente del soggetto che
interpreta è piena di idee, di schemi con cui si può comprendere ciò che è già compreso
secondo la formula del cosiddetto ‘circolo ermeneutico’ (cioè un continuo andirivieni tra
soggetto e oggetto). La pre – comprensione è una condizione positiva non solo perché non si
può eliminare, ma soprattutto perché con essa mettiamo alla prova i nostri pregiudizi, e di
conseguenza siamo disposti a modificarli. Dallo scontro che si determina tra testo da
tutti i suoi elementi, di conseguenza un pregiudizio può rivelarsi in seguito vero oppure falso.
Gadamer sostiene che la tradizione non deve essere né cancellata, né accettata passivamente,
vissuto dell’interprete; la vicinanza ,al contrario, è dovuta al fatto che entrambi (soggetto e
oggetto) sono frutto dello stesso processo storico. La distanza temporale tra colui che
interpreta e l’oggetto da interpretare viene colmata dalla «storia degli effetti», cioè da tutte le
lavoro dell’ermeneutica si serve della storia delle interpretazioni e degli effetti che queste
14
La comprensione comporta la «fusione di orizzonti», il passato non viene semplicemente
restaurato, ma interpretato a partire dal significato che il soggetto vive nel presente, e il
presente risponde alle sollecitazioni che provengono dal passato. Colui che interpreta un
documento, un testo letterario, un brano musicale e via dicendo, si colloca all’interno della
storia degli effetti, perciò ha a che fare con infiniti significati e interpretazioni.
Anche l’incontro con l’Arte ha a che fare con la verità. Una poesia, un brano musicale, un
quadro aprono un mondo di significati e una pluralità d’orizzonti (per questo motivo
possiamo avere infinite interpretazioni di uno stesso brano musicale, anche contrastanti, e
Da un punto di vista musicale, colui che si pone di fronte ad un’opera musicale, per
comprenderla e poi per proporla ad altri, instaura un rapporta tra sé (interprete) e l’altro da sé
Non bisogna dimenticare che la questione riguardante la fedeltà testuale è recente, infatti, fino
alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento, non si avvertiva l’esigenza di rispettare
alla lettera il testo scritto, e, se risaliamo ancora più indietro nel tempo, notiamo che il testo
aveva solo la funzione di canovaccio, sul quale poi gli interpreti improvvisavano.
Per molti pianisti invece è di vitale importanza, per una corretta esecuzione, rispettare il testo
e le volontà del suo autore. Nel libro Conversazioni con Arrau, il maestro ci mostra quello
che è il suo credo artistico, infatti in due interviste comparse una su «Frente popular» (un
rotocalco di Santiago) nel 1939, e una su «La Razon» (un rotocalco di Bogotá) nel 1941, egli
sostiene che il dovere di un pianista sia soprattutto quello di rispettare al massimo le volontà
del compositore contenute nella partitura. Nel primo articolo, quello del 1939, dice:
15
«sta nascendo in tutti i campi dell’arte un nuovo tipo di interprete, che è la negazione
dell’arbitrarietà, della ricerca del sensazionale, così tipiche del XIX secolo. Credo che questo
fenomeno si possa ascrivere alla ricerca che oggi è in atto di un modo più sincero e corretto di
interpretare. Un’opera d’arte – me lo lasci dire – non dovrebbe essere un pretesto per l’artista di
esternare i propri sentimenti; ma neppure si dovrebbe usare l’opera d’arte per mettersi in mostra.
L’interprete ha in realtà il sacro dovere di porgere intatto il pensiero del compositore»,
nell‘articolo del 1941 conferma quanto già dichiarato due anni prima, infatti dice
«Credo che ci sia una differenza fondamentale tra le esecuzioni di oggi e quelle delle scuole
artistiche precedenti, della generazione venuta prima della nostra. Allora gli interpreti, gli
esecutori, avevano un concetto della loro professione che li induceva a interpretare in modo
arbitrario e spesso falso, e la vanità degli esecutori assumeva un rilievo superiore a quello che si
poteva raggiungere con una interpretazione fedele…Questo mi sembra molto dannoso per
l’arte».19
Un altro grande pianista sostenitore della fedeltà testuale è stato Artur Schnabel e per questo
motivo Arrau lo stima molto, in un’altra intervista del 1952 egli dichiarava:
«Molto tempo prima della guerra Schnabel era già considerato a Berlino la massima autorità
intellettuale per Beethoven, Schumann e Brahms: quindi, era anche giudicato un arido. Il più
giovane Edwin Fischer, d’altra parte, era noto per essere un esecutore vulcanico e passionale di
Beethoven. Ma laddove Fischer nel corso di un’esecuzione diventava spesso selbstherrlich
[ autoritari, tirannico ] e non era alieno dall’introdurre cose che non c’erano in partitura, Schnabel
è stato il primo ad insistere sull’aderenza fedele alla pagina scritta. In questo campo egli è stato il
primo interprete di nome a sostenere il concetto, alquanto insolito e nuovo in quei tempi, che
l’esecutore deve servire la musica piuttosto che sfruttarla». 20
Arrau rispetta ogni minima indicazione del compositore contenuta nella partitura riguardo alla
dinamica, al fraseggio, e via dicendo. Egli ha cercato sempre di controllarsi, ma questa fedeltà
al testo non ha certo causato esecuzio0ni ‘fredde’ e meccaniche, infatti ogni sua
interpretazione è permeata di forte soggettivismo, ma sempre nel segno di forte rispetto alle
Nell’intervista con Horowitz, alla domanda «Come descriverebbe la relazione che c’è tra
«Alcuni ritengono che chi è fedele al testo è arido. […] In realtà non c’è nessun conflitto. Bisogna
partire col rispettare alla lettera il testo, così come è scritto. Se Beethoven ha segnato ‘ piano ’ e si
suona ‘ forte ’ è decisamente sbagliato! Ma questa è solo la base per muoversi entro quelle vie che
portano sempre al rispetto del testo. L’interpretazione è una sintesi tra mondo del compositore e
mondo dell’interprete»21.
19
Joseph Horowitz, Conversazioni con Arrau, Oscar Mondatori, Milano 1990 entrambe le interviste sono state
riportate a p. 113
20
ivi. p. 114
21
ivi. p. 121
16
Ma in che cosa consiste in realtà la ‘fedeltà testuale’ ? Essa dipende dal grado di importanza
Per quanto riguarda la grafia musicale, si sono avute opinioni diverse. 22 Alfredo Parente, ad
esempio, sostiene che il testo scritto sia solo un punto di partenza; il Gatti invece considera la
scrittura come una «imperfetta comunicazione del pensiero del compositore», e ritiene che sta
all’interprete il dovere di fare quelle «interpolazioni che varranno a farcela apparire perfetta»;
ci sono stati anche vari interpreti che hanno visto in diversa prospettiva la questione del testo
scritto, che l’hanno ritenuto come qualcosa di incompleto, considerando lecite le libertà
«Due tendenze hanno fortuna, la teoria della ‘rappresentazione fedele alle note ’ e quella della
‘riproduzione creativa ’. ‘ La rappresentazione fedele alle note ’, con tutti i suoi concetti relativi,
cioè la fedeltà all’opera, la posposizione della persona dell’interprete al creatore, eccetera, è ovvia.
Considerata come scopo precipuo, la ‘ rappresentazione fedele ’ risulta più meschina; come ideale,
poi, sarebbe, nel migliore dei casi, quello di un fanatico o di un pedante nato…»; 23
Pablo Casals, ad esempio, giudicava ogni interpretazione come una nuova creazione.
Toscanini, invece, seguiva la convinzione che l’interprete abbia il solo compito di riprodurre
l’opera. Il Graziosi prima di spigarci la sua tesi riguardo al testo scritto, immagina di parlare
con un interprete ideale riguardo alla sua interpretazione di un Preludio di Debussy, Voiles.
L’interprete dice che ogni aspetto della sua esecuzione (tempo metronomico, dinamica, e via
«E allora, concludendo, se sono io interprete a dare il tempo alla musica, io a imprimerle il ritmo
base, e a condurre questo ritmo attraverso tutte le sfumature agoniche che mi piacciono, io che,
nell’ambito delle sommarie e approssimative indicazioni, trovo la sonorità, e questa sonorità
alleggerisco e appesantisco strada facendo, dove (si ricordi il mio rinforzando alla settima battuta)
e nella misura che credo meglio, se son io, infine a portare a voi l’azzurro e il bianco e la salsedine
e l’ondeggiare di queste vele e del loro mare, creando a ogni passo respiri, indugi, dolcezze di
moti […] se sono io a ‘inventare’ tutto questo mondo di cui spesso la scrittura non offre nemmeno
l’accenno, chi altri crea la musica effettiva, reale, quella che si ascolta e che commuove se non io?
Io creo partendo da quella pagina schematica, sommaria, approssimativa, imperfetta, morta che mi
serve solo da avvio, da occasione al pieno svolgersi del mio genio creativo!» 24
22
Alfredo Parente,op. cit., e Guido Gatti, Dell’interpretazione musicale, relazione al I congresso internazionale
di musica (1933), Firenze in G. Graziosi, op. cit., pp. 25 - 27
23
Wilhelm Furtwängler, Interpretation, eine musikalische Schicksalsfrage, in Atlantis Buch der Musik (Zürich
1934), in G. Graziosi, op. cit., p.27
24
G. Graziosi, op. cit., pp. 33 - 34
17
Questo interprete sostiene che è lui a definire ogni elemento dell’interpretazione e che la
scrittura è solo ‘un’occasione per crearvi quello che non c’è’. Ora, se è vero che
assolutamente vero che egli ‘crea quello che non c’è’, infatti come potrebbe esserci una forma
senza contenuto?
«Non c’è !? Tutto c’è caro interprete: tutto quello che credevi portavi è implicito. La musica,
quella musica è ricca all’infinito [ ecco perché a distanza di anni e dopo infinite interpretazioni
ogni vera opera d’arte non cessa mai di stupirci ] , tanto che tu nell’ eseguirla non hai che il poco
merito di aver trovato, tra i tanti significati ritmici, dinamici, timbrici e lirici che essa contiene,
quello o quelli ( due, tre o quattro ) che la tua perspicacia ti ha permesso […]. Il piano, molto
dolce, di quell’inizio di Voiles non è, non vuole, non può, non deve essere che un colore, un
colore che ammette e contiene tante sfumature diverse, che Debussy per primo non ha definito e
non avrebbe definito nemmeno se ne avesse avuto i mezzi 25 […] Per ora puoi dunque convenire
con me che il tuo disco può anche essere una perfetta grafia di Voiles, ma non la perfetta, sol che
tu tenga presente che esistono tanti altri ottimi pianisti. C’è di più: probabilmente tra un anno o
dieci, o anche ora, il tuo disco nuovo di zecca già potresti rinnegarlo. 26 […] E’ insomma la musica
scritta, quella che porta e genera dal suo vasto mare di virtualità sonore le molteplici e varie
combinazioni di colori, di intensità, di ritmi. L’interprete non ha concepito questi colori e questi
ritmi. Tu li vedi semplicemente, e li puoi vedere perché sono scritti e inscritti nelle note, con le
note, oltre i segni delle note, e allora porti alla luce un effetto di pedale tra gli altri dieci possibili
perché quello più ti piace, e un piano lo eseguisci con una certa intensità perché sono le tue stesse
mani che ti ci portano o perché gli altri venti o cento modi di fare uscire un piano dai tasti ti
sembrano meno adatti al tuo tocco o meno confacenti alla configurazione fonica ed espressiva che
vuoi dare al pezzo; e sottolinei un disegno ascendente con un piccolo innalzamento di sonorità
perché è la musica scritta e poi suonata che ti ci porta, che te lo suggerisce…[…] Tutto il tanto
che puoi dire è già detto. Nel pentagramma. Anzi: tu lo dici in un modo, attraverso un sentimento,
con una fantasia, e secondo la tecnica delle tue possibilità esecutive; là, nella pagina, c’è posto per
mille modi, attraverso mille sentimenti, con mille fantasie e secondo la tecnica possibilità
esecutive dei mille pianisti vissuti e venturi. Il poeta è un cosmo che tu riduci ad un
microcosmo».27
Ora, se mi riferisco a quanto già detto riguardo all’interpretazione come creazione, è vero che
l’esecutore non crea nulla di nuovo rispetto all’autore dell’opera, ma ogni interpretazione è
frutto di scelte accurate da parte dell’interprete, in questo egli ‘crea’, o meglio, ricrea l’opera
d’arte.
Ecco perché, riprendendo le parole di H. Neuhaus, non è possibile stabilire un unico modo
«Ogni grande pianista possiede una sua individuale tavolozza sonora.[…] Non esiste il suono
‘assoluto’, come non c’è interpretazione ‘assoluta’, espressività ‘assoluta’, niente ‘assoluto’. A
25
ivi., p. 35
26
ivi., p. 37
27
ivi., p. 40
18
questo proposito rimando alle bellissime pagine di Stanislavskij, in cui parla dell’espressività ‘in
assoluto’ come di una grande disgrazia».28
fatto interpretativo. Nel primo , definibile come il momento filologico, l’interprete prende
contatto con il testo musicale, decifrando i segni , le didascalie e ogni altra indicazione per
inscindibilmente legato al primo, è quello che può definirsi critico – estetico perché
l’interprete (grazie al proprio intelletto, alle fonti storico – biografiche e critico – stilistiche)
giunge alla comprensione dei valori estetici contenuti nel brano musicale. E’ la fase più
delicata del processo interpretativo; attraverso la quale passano anche il critico e lo storico; in
essa entrano in gioco vari elementi della personalità dell’interprete (sensibilità, gusto, cultura,
interpretativo: l’esecuzione vera e propria, la conversione del testo nella realtà dei suoni.
«Essa non può dare una trascrizione esatta del pensiero del compositore, che è così indeterminato;
trascura troppe cose che sono oggetto di gusto e di scelta individuale. L’interprete è perciò sempre
posto di fronte al problema di come comportarsi con la lettura della pagina stampata. Di più il
compositore può notare inesattamente e possono sfuggirgli omissioni importanti; può aver
cambiato opinione circa le indicazioni di movimento e di dinamiche».30
Non bisogna dimenticare, infatti, che l’opera musicale non è la stessa cosa della partitura; il
compositore potrebbe aver tralasciato dei particolari, o rispetto al testo stampato, potrebbe
aver improvvisato durante l’esecuzione, seguendo l’estro del momento. Un caso esemplare
«ugualmente i manoscritti come le prime edizioni basate su di essi, contengono sovente differenti
versioni. Talvolta esse sono solo correzioni e miglioramenti al testo, spesso sono versioni parallele
che possono essere ritenute varianti. Sappiamo anche che Chopin introdusse consapevolmente
delle modifiche, il più spesso negli esemplari degli allievi durante le lezioni». 31
28
Heinrich Neuhaus, L’arte del pianoforte, Rusconi, Milano 1992, pp. 105 - 106
2
G. Graziosi (voce) L’interpretazione, ENCICLOPEDIA DELLA MUSICA, ed. Ricordi
30
A. Copland, op. cit., pp.167 - 168
31
Kazimierz Morski, L’interpretazione pianistica come parte immanente dell’idea creativa tra arte e didattica,in
Studi in memoria di Alvaro Valentini, a cura di Sandro Balconcini, Macerata 2000, pp.376- 411: 381
19
Poiché il punto di partenza per ogni interpretazione è proprio il testo musicale, occorre che
l’esecutore (o il critico, lo storico e così via) adotti un’edizione il più fedele possibile alle vere
intenzioni del compositore, poggiando su varie fonti, come può esserlo un’edizione Urtext.
Quindi sono da escludere quelle edizioni che aggiungano qualcosa in più, rispetto a quanto
Sono spesso da prendere in considerazione, con prudenza, anche le revisioni, cioè quelle
edizioni, curate da altri musicisti, che introducono nella partitura elementi atti a suggerire
Ma anche studiando su un’ottima edizione, sta poi alle capacità, all’intelligenza, alla
sensibilità, al gusto dell’interprete riuscire ad eseguire nel migliore dei modi un’opera
musicale.
20
CAPITOLO 2.
L’INTERPRETAZIONE PIANISTICA
«Noi potremmo sostenere che non v’è altra arte che, più di quella dell’interpretazione
musicale, presupponga il trattamento delicato, la comprensione raffinata di ogni specie di
emozione e di sensazioni che, attraverso la magia delle sonorità, si vogliono trasmettere allo
spirito dell’uditore. […] Il compositore che ci trasmette il riflesso delle sue impressioni,
conta sull’interprete per risvegliare, negli uditori, delle emozioni simili a quelle da lui
provate».
l’esecuzione è vista come un’arte; niente di più esatto, e non a caso, il libro di H. Neuhaus ha
come titolo L’arte del pianoforte. Nel primo capitolo mi ero già soffermata sul dibattito
creazione; non c’è dubbio alcuno che questa attività sia un’arte tra le più alte e nobili. Il
compositore attraverso la sua opera ci comunica se stesso, la sua anima, l’interprete quindi
contenuto nelle note, o, per dirla con le parole di quel grande pianista e didatta quale fu H.
«[…] questo ‘specifico artistico’ dell’opera musicale è la musica stessa, viva materia sonora,
discorso musicale con le sue regole e i suoi elementi, chiamati melodia, armonia, polifonia,
ed altro, che hanno una determinata struttura formale, un contenuto emozionale e poetico.
[…]». «Quanto più grande è il musicista, quanto più la musica è per lui un libro aperto tanto
minore diventa il problema del lavoro sullo ‘specifico’ fino a ridurlo quasi a zero. […]»
«Insisto sulla triade dialettica: la tesi è la musica, l’antitesi è lo strumento, la sintesi è
l’esecuzione. La musica vive dentro di noi, nel nostro cervello, nella nostra coscienza,
sentimento, immaginazione, il suo ‘domicilo’ si può fissare con esattezza: è il nostro udito; lo
strumento esiste al di fuori di noi, appartiene al mondo esterno oggettivo, che occorre
conoscere e possedere, per sottometterlo al nostro mondo interiore, alla nostra volontà
creativa.[…]».
Nel far questo, l’interprete deve compiere studi approfonditi sull’opera e sul compositore che
l’ha creata, conoscere la biografia del compositore, il periodo storico in cui visse, il suo stile,
e ogni altro aspetto che occorre per capire la creazione di un grande artista.
21
«E’ bene conoscere tutti gli aneddoti che circolano in merito alla persona di un autore, alla
concezione della sua opera e alla maniera come essa venne alla luce. Alcuni di questi
aneddoti sono autentici, altri non sono che leggende nate ad opera compiuta. Non di meno se
queste rispondono al sentimento della composizione e sono di natura tale da stimolare la
nostra fantasia, avremo torto a rigettarle. […]».5
Ad esempio, in Conversazioni con Arrau, nel capitolo dedicato a Franz Liszt, 6 il maestro
spiega il modo in cui interpreta la Ballata e la Sonata, entrambe in si minore. Nel primo caso
Arrau associa quest’opera al mito di Ero e Leandro, nel secondo caso, invece, anche se non è
una novità, associa la Sonata al mito di Faust. Infatti, sia nella Sonata che nella Ballata, ad
Spesso si ritiene che suonare il pianoforte sia soltanto, o comunque soprattutto un fatto
tecnico. Molti insegnanti sostengono che per eseguire un brano musicale occorre innanzi tutto
studiarlo tecnicamente, e dopo, in una seconda fase, si può pensare allo ‘specifico artistico’.
Forse da una parte questo è giusto, perché in alcune composizioni ci sono dei passaggi che
doverle studiare e ripeterle, per ottenere la pulizia dell’esecuzione. Però è anche vero che
comprendere e dare un senso a quello che si sta studiando, facilita il compito. In questo
«Qualche parola sulla tecnica. Quanto è più chiaro lo scopo che ci si prefigge (contenuto,
musica, perfezione dell’esecuzione) tanto più chiari appaiono i mezzi adatti a tale scopo.[…]
Il cosa determina il come; ma in ultima analisi il come determina il cosa (legge dialettica)»,
e ancora
«L’obiettivo stesso indica già i mezzi per essere raggiunto. Questa è la chiave della tecnica
nei pianisti realmente grandi: essi incarnano le parole di Michelangelo: ‘La man che
ubbidisce all’intelletto’. Ecco perché io insisto sul fatto che lo sviluppo musicale preceda
quello tecnico o, almeno, che vadano di pari passo, mano nella mano. Non è possibile dare
vita alla tecnica su un vuoto, come non può essere creata una forma, priva di qualsiasi
contenuto».8
«Ritengo che il solo mezzo rapido e sicuro, ad un tempo, per perfezionare la tecnica
strumentale, sia l’assoggettarla strettamente al compito dell’interpretazione poetica. Così essa
impara a differenziarsi, si affina e dà all’esecuzione quelle tinte variate che, sole, rendono
5
A. Cortot, op. cit., p.11
6
J. Horowitz, op. cit., – Liszt – pag.129
H. Neuhaus, op. cit., p.26
8
ivi, p.124
22
comprensibili e vive le opere musicali, a qualsiasi genere esse appartengano. Ora ci viene
fatto di domandare se l’insegnamento attuale della musica cerchi abbastanza di penetrare
nella natura di quell’arte che pretende di spiegare, se si sforzi abbastanza di scoprire i
fluttuanti segreti dell’ispirazione del compositore, e si dedichi troppo, invece, all’abilità
strumentale, a detrimento dell’intelligenza e del sentimento.
La correttezza esteriore del suonare, la perfezione meccanica, non rappresentano nulla se
esse non servono a porre meglio in luce i principi generatori dell’opera d’arte. Pertanto,
quest’arte le cui radici giungono fino al profondo del nostro cuore, quest’arte che è la
confessione universale dei dolori, delle speranze, delle passioni, delle gioie, in ciò che hanno
di più spontaneo, di più acuto, di più amaro, ci consente appena di indurre gli allievi a
sporgersi sugli abissi dell’anima umana che essa svela».
Vorrei chiudere questo punto con le parole di un altro grande interprete, direttore d’orchestra,
Wilhelm Furtwängler (naturalmente gli esempi da citare sono innumerevoli) . Nel suo libro
Dialoghi sulla musica, egli parla proprio della questione della tecnica fine a se stessa e scrive:
«al momento stesso in cui l’attenzione si rivolge agli elementi tecnici a sé stanti vien distrutta
l’unità spirituale dell’insieme. L’elemento tecnico non deve mai staccarsi, neanche per un
istante, dalla realizzazione ‘ spirituale ’; nemmeno in vista di un certo effetto. Un effetto così
ottenuto ( ammesso che possa essere un effetto ) sarà sempre falso, poiché estraneo
all’essenza dell’opera d’arte. Di tutto questo si rende conto chi già conosce l’opera musicale
attraverso un’interpretazione fedele e adeguata. Per questa ragione sono tanto pericolose le
esecuzioni delle grandi e vive opere del passato che si basano su elementi tecnici e di
virtuosismo; esse guastano effettivamente il gusto».
Non esistono studi tecnici specifici per ottenere una tecnica perfetta; bisogna ricordare che
ognuno di noi è un mondo a parte, con una psicologia ed una conformazione fisica diversa;
ciò significa che non esiste un metodo universale, valido per tutti. Determinati esercizi
possono risultare utili per qualcuno, ma deleteri per qualcun’ altro. Ogni pianista deve
conoscere e saper sfruttare tutte le possibilità naturali, anatomiche, motorie che possiede a
partire dal movimento del dito, della mano, dell'avambraccio, del braccio fino alla
partecipazione della spalla, della schiena e di tutto il busto. Comunque la cosa più importante
che un pianista dovrebbe sempre ricordare è che la tecnica fine a se stessa non ha alcun senso.
La MUSICA è il fine a cui far riferimento durante le nostre ore di studio. La tecnica è solo un
mezzo con cui poter raggiungere i livelli più alti dell'espressione musicale. La sicura
artistico’. Di conseguenza, se è vero che al primo posto c’è la musica, è anche vero che non si
deve tralasciare lo studio della tecnica, poiché perfezionare la propria tecnica equivale a
A. Cortot, op. cit., p.9
W. Furtwängler , Dialoghi sulla musica, ed. Curci - Milano 1950, p.63
23
perfezionare la propria arte. Le due cose camminano di pari passo. Non possiamo esprimere il
sarà stata quella di eseguire i passaggi alla massima velocità e potenza avendo come unico
fine, quello di dimostrare tutta la nostra bravura. Lo studio della tecnica è uno studio attento,
razionale, ma finalizzato alla realizzazione di uno scopo artistico, creativo. Il pianista è colui
che ‘educa’ le proprie dita, la mano, il braccio e tutto l'apparato a compiere gesti precisi.
Attraverso il dominio della tecnica e l’automatismo acquisiti, il pianista si ritrova nella libertà
sono diversi modi per raggiungere la sicurezza tecnica necessaria a far sì che le nostre
capacità interpretative possano esprimersi liberamente. Una modo sicuro ed efficace può
essere quello di studiare lentamente. Suonare in modo concentrato, con sicurezza, ma sempre
Grazie a questo studio si può arrivare alla piena assimilazione di ogni movimento e alla
padronanza dei propri mezzi. Ciò che all'inizio appare razionale e scientifico, diventa poi
Ovviamente, non si può parlare di tecnica se non si considera un altro fondamentale elemento
dell’interpretazione musicale, vale a dire il suono. «La musica è l’arte dei suoni» dice
Neuhaus:
«Non ci dà immagini visibili, non si esprime con parole e concetti. Parla solamente attraverso
i suoni. Ma si esprime pur sempre chiaramente e comprensibilmente , come le parole, i
concetti e le immagini visive. La sua struttura è soggetta a regole, come la struttura di un
discorso verbale artistico, come la composizione di un quadro, di una costruzione
architettonica. La teoria della musica, lo studio dell’armonia, del contrappunto e l’analisi
delle forme si occupano di chiarire queste regole, create dai grandi compositori in accordo
con la natura, la storia e con lo sviluppo dell’umanità».11
Ecco, quindi, che il primo e principale obiettivo di un pianista è quello di ottenere un bel
suono. Quest’ultimo si può raggiungere solo grazie ad un buon possesso tecnico (tecnica non
11
H. Neuhaus, op. cit., p.89
24
significa solo agilità). Sempre secondo Neuhaus, i pianisti possono commettere due diversi
«Il primo errore è il più diffuso. Chi suona non si sofferma abbastanza sulla straordinaria
ricchezza dinamica e sulla varietà sonora del pianoforte. La sua attenzione è rivolta
soprattutto alla “tecnica” in senso stretto, […]: agilità, uniformità, ‘bravura’, brillantezza ed
effetto esteriore; il suo orecchio non è abbastanza sviluppato, non gli basta l’immaginazione,
non è capace di ascoltarsi, e, naturalmente, neanche di ascoltare la musica. In genere è homo
faber più che homo sapiens, mentre un artista deve essere questo e quello (con una certa
prevalenza dell’ultimo) ».12
«che appare in quelli che ammirano troppo il suono, lo gustano troppo, che nella musica
ascoltano soprattutto una bellezza sonora sostale, o piuttosto il suo ‘ essere attraente ’, e non
la afferrano in blocco: in una parola, coloro che oltre gli alberi non vedono il bosco. A
pianisti simili […] bisogna dire così: la ‘ bellezza del suono ’non è un’entità statica e
sensuale, ma dialettica; il suono migliore, di conseguenza il più ‘ bello ’, è quello che
esprime nel modo migliore un determinato contenuto. Può succedere che un suono o una
serie di suoni al di fuori di un contesto, come dire, staccati dal contenuto, possano apparire
suoni ‘ brutti ’, addirittura ‘sgradevoli ’.[…] Ma se un compositore adotta simili suoni con
uno scopo determinato, […] in quel contesto saranno quelli proprio i suoni necessari, i più
utili ed espressivi. Non a caso Rimskij – Korsakov affermava che tutti i suoni dell’orchestra
sono belli e buoni, bisogna solo saperli usare e combinare». 13 «[…] Il lavoro sul suono è il
lavoro più difficile, visto che è strettamente legato alle qualità dell’orecchio e, diciamolo
pure francamente, alle qualità spirituali dell’allievo. Quanto più rozzo è l’orecchio, tanto più
ottuso sarà il suono. Sviluppando l’orecchio (e per far questo, si sa, ci sono tanti modi),
agiremo direttamente sul suono; lavorando sul suono allo strumento, mirando
instancabilmente al suo perfezionamento, noi agiamo sull’orecchio e lo perfezioniamo.[…]
La padronanza del suono è il primo e più importante obiettivo fra tutti gli obiettivi tecnici,
cui un pianista deve mirare, poiché il suono è la materia stessa della musica; nobilitandolo e
perfezionandolo innalzeremo la musica stessa a una grande altezza.
Nelle mie lezioni, lo dico senza esagerazione, per tre quarti il lavoro è dedicato al suono. […]
Prima viene lo ‘ specifico artistico ’, cioè il senso, il contenuto, l’espressione, l’argomento ‘
di cui si parla ’ ; in secondo luogo viene il suono nel tempo, cioè la definizione, la
materializzazione di uno ‘specifico’ e, infine, in terzo luogo, viene la tecnica nel suo
complesso come totalità di mezzi necessari alla soluzione di un obiettivo artistico, il suono al
pianoforte ‘ come tale ’, cioè la padronanza del proprio apparato motorio – muscolare e del
meccanismo dello strumento».14
Non esiste il suono bello in assoluto, esiste invece il ‘suono bello’, che è quello in stile con la
composizione che si sta eseguendo. Ciò che è accettabile e ‘bello’ in Prokofiev può non
esserlo, per esempio, in Chopin. Ogni autore esige dall’interprete un determinato suono, e
quindi il lavoro su di esso, deve essere fatto tenendo in considerazione qualsiasi periodo
storico nel rispetto dello stile sia compositivo che sonoro. Avere la padronanza della materia
sonora è dunque fondamentale e deve essere finalizzata sempre e solo al contesto espressivo
del compositore, ecco cosa significa lavorare sul suono. Si può lavorare realmente sul suono
12
ivi p.90
13
ivi p. 91 - 92
14
ivi p. 93
25
solo lavorando sulla composizione, sulla musica e i suoi elementi, avendo sempre chiaro in
mente l'obiettivo finale. Questo lavoro, a sua volta, è impensabile senza il lavoro sulla tecnica
in generale.
Per concludere questa panoramica sull’interpretazione pianistica, vorrei ricorrere alle parole
di Cortot:
«Se lo desiderate, dichiareremo guerra ‘all’arte per dilettare’alla perfezione merlettata delle
esecuzioni ove l’anima è assente. Insorgeremo contro quelle sfumature tradizionali che non
hanno a loro sostegno che la deplorevole, ma inappellabile giustificazione di ‘fare effetto’.
La musica deve essere contagiosa; pericolosamente, sublimemente contagiosa. Essa
presuppone che voi l’amate tanto da consacrarle la vostra vita, non vi unirete a lei con un
matrimonio di convenienza, frutto di mediocri considerazioni, ma le porterete senza tregua e
senza riposo un’anima ardente e le risorse di tutta la vostra fantasia e del vostro amore.
Da questa comprensione, che diventa ogni giorno più intima, del mistero profondo dell’arte,
nascerà, forse, in un dato momento sacro dei vostri studi, quel brivido interiore che fa
presagire l’approssimarsi della verità artistica. Quel giorno la vostra tecnica avrà progredito
con maggiore efficacia che non dopo mesi di scale senza meta e di esercizi di sterile
virtuosismo. Allora voi affiderete alle vostre dita il compito di trasmettere i vostri pensieri.
Così diverrete un’ interprete e non un esecutore».15
INTERPRETI
Nel suo libro L’interpretazione musicale, il Graziosi sostiene che l’interprete è traduttore,
«se attore è colui che riproduce e comunica un’opera d’arte, se attore è colui che parla a un
pubblico e lo vuol ‘persuadere’, se all’attore sono essenziali qualità critiche e retoriche, nel
senso che egli, delineata la fisionomia estetica e i motivi lirici e il carattere umano del
dramma e del personaggio, deve fare intendere agli altri questa propria visione, trasmetterla
con tutti i mezzi, ‘rappresentarla’, non si vede perché non sia da concedersi all’interprete
15
A. Cortot, op. cit., p.10
26
musicale, e non soltanto al cantante d’opera ma al direttore e allo strumentista, identità
estetica con l’attore».6
Naturalmente questo argomento può essere esso stesso l’argomento di un’intera trattazione, in
questa sede desidero solo confrontare e mostrare le similitudini che intercorrono tra due
diversi interpreti, che in comune hanno lo stesso obiettivo, ossia ri – creare, re – interpretare,
un testo (musicale o teatrale). Entrambi hanno bisogno di un pubblico, suonano e recitano per
solista per eccellenza, poiché rappresenta più affinità con l’attore. Essi devono far rivivere
«il contatto fra uno scrittore e il suo lettore è diretto , l’opera del pittore esige solo di essere
messa in luce, ma la musica, e con essa il teatro, deve essere re-interpretata per vivere […]
l’interprete è al servizio del compositore [e del drammaturgo aggiungo io] per assimilare e
ricreare il suo ‘messaggio’».
Il lavoro che un pianista compie nell’affrontare lo studio di un brano musicale, dunque è per
molti aspetti simile a quello che compie un attore nello studio di un personaggio.
Nell’affrontare questo argomento, non si può non parlare di uno dei maggiori maestri del
Stanislavskij nacque a Mosca nel 1863 da una famiglia facente parte di industriali, mecenati
delle arti. Egli ebbe una precoce educazione teatrale e musicale. Molto giovane fu fra i
fondatori di una nuova compagnia teatrale ed iniziò la sua ricerca sull’attività dell’attore e sul
A fine secolo, dall’incontro a Mosca con lo scrittore e uomo di teatro Vladimir Nemirovič-
Dancenko nacque una nuova collaborazione fra il regista ed il suo drammaturgo. Vennero così
6
G. Graziosi, op. cit., p.99 - 100
A. Copland, op. cit., p.167
Stanislavskij: il sistema della verità e della finzione di Barbara Failla [consultato sul sito
http://www.girodivite.it/antenati/xx2sec/stanislavskij/_stani02.htm]
27
Insieme a Dancenko egli fonda nel 1898 il Teatro d'Arte di Mosca e durante gli anni della sua
carriera intervenne attivamente in dibattiti sul teatro e scrisse numerosi commenti ai lavori
messi in scena.
interiore del personaggio e quello dell'attore. I risultati dei suoi studi furono raccolti in
volumi. Nel 1938 pubblicò Il lavoro dell'attore su se stesso e nel 1957 uscì postumo Il lavoro
Il lavoro dell'attore su se stesso viene scritto sotto forma di diario di un immaginario attore,
Kostantin Nasvanov, che frequenta la scuola di teatro del regista Arkadij Nicolaevič Torcov
dove egli apprende, durante i due anni di corso, le varie fasi del metodo. Il libro si divide in
due parti; nella prima parte spiega il metodo per attuare i sentimenti e nella seconda il metodo
per creare i personaggi. Nella prima parte l’autore spiega che è fondamentale rivivere la
esternamente quello che è interiore, con l’aiuto della voce e del corpo che devono comunicare
con precisione le sensazioni interiori. L’aspetto esteriore (trucco, costumi…) certo è molto
importante affinché avvenga tutto questo, ma non è sufficiente. Mentre si recita, l’azione per
Uno dei primi concetti che Stanislavskij propone è il ‘se’ che insieme alle ‘ circostanze date ’
sono la chiave per un’azione scenica vera. L’attore deve domandarsi: ‘ se io fossi in questa
pianista, non solo per creare, ma anche per rinnovare ciò che è già stato creato. Lo scopo è
quello di diventare protagonisti di questa vita immaginaria; ‘io sono’ non vedendomi più in
me stesso ma agendo in base ad essa. Stanislavskij parla del ‘processo della riviviscenza’ e del
‘processo della personificazione’. Con l’aiuto dei tre elementi fondamentali della vita
consultato il libro di Fausto Malcovati, Stanislavskij vita, opere e metodo, ed.Universali La Terza, Bari 1984
pp.130190
28
psichica, l’intelletto, la volontà e il sentimento, si percorrono il ‘testo’ e la ‘parte’, dando così
vita al processo creativo che mano a mano che si sviluppa. La nostra parte interiore con tutte
le sue qualità, le sue facoltà e possibilità, le sue doti naturali, le sue abilità artistiche e le sue
doti acquisite, filtra gli elementi spirituali del personaggio e genera le linee di tendenza
definitive, formate dalla fusione di questi elementi interni ed esterni. Queste andranno infine a
confluire e ad annodarsi nella sensibilità scenica generale e nella ‘linea d’azione’ della parte
«Secondo Stanislavskij l’attore non è più solo colui (o colei) che su un palcoscenico
interpreta un personaggio. Egli è un professionista della recitazione, e salire sul
palcoscenico è il passo finale di un percorso di appropriazione della parte. Ciò non consiste
solo nell'imparare a memoria le battute e le azioni da compiere, ma soprattutto in un lavoro
di composizione del personaggio. L'attore non deve semplicemente riprodurre delle
‘maschere’, ma deve ‘comporre’ un personaggio in tutto il suo spessore, psicologico e
fisico.»
L'attore, prima di andare sul palcoscenico e recitare, deve ricreare in se stesso il personaggio
Questo è un elemento di forte affinità con il pianista, se per l’attore è indispensabile rivivere
che hanno portato il creatore a comporre l’opera, scovarne il significato recondito. Anche
l’interprete può ricorrere al ‘se’, nel momento di eseguire un’opera musicale egli dovrà
B. Failla, op. cit.,
21
Gioacchino Palombo, Pionieri del teatro del Novecento : Stanislavskij, Mejerchol'd, Artaud, Grotowski:
Edizioni Mercurio, Catania 1997, p.8
29
«Il metodo delle mie lezioni, in breve, fa sì che l’esecutore abbia chiaro al più presto (dopo
una conoscenza preliminare della composizione e la sua assimilazione anche per sommi
capi) ciò che chiamiamo lo ‘specifico artistico’, cioè il contenuto, il significato, l’essenza
poetica della musica: in questo modo lo studente è in grado di farsi un’idea precisa di quello
che ha davanti (dare un nome, spiegare), partendo da posizioni musicali teoriche. Una volta
compreso con chiarezza questo obiettivo, chi suona ha la possibilità di tendere ad esso, di
raggiungerlo, di attuarlo nell’esecuzione: sono proprio questi i problemi ‘tecnici’ da
risolvere. [il contenuto è il principio gerarchico fondamentale nell’esecuzione]. 22
Stanislavskij è contro ogni cristallizzazione, ogni irrigidimento teorico, per lui sono proprio i
‘luoghi comuni’, a costituire uno dei maggiori pericoli per il teatro. Il suo metodo ebbe
enorme fortuna proprio per il superamento di ciò che si presentava come ‘tradizione’. Per
Stanislavskij il metodo, le tecniche della recitazione fanno parte di una strategia che mira alla
«Le strade che portano alla verità sono tante», dice Stanislavskij, «e non sono mai definitive.
Occorre allora avere la capacità di percorrere se necessario strade diverse, mantenendo intatta
la tensione alla verità, mai adagiarsi nella maniera, nella ripetizione, nel ‘luogo comune’. E'
qui che l'attore, il regista, chi ‘fa teatro’, tradisce il teatro stesso».
Anche in questo il pianista e l’attore sono simili; anche il pianista, nella propria esecuzione
mira al ‘vero’, cercando in tutti i modi di rispettare quanto voluto dall’autore della
«Il compositore che ci trasmette il riflesso delle sue impressioni, conta sull’interprete per
risvegliare, negli uditori, delle emozioni simili a quelle da lui provate. […] La musica
agisce fisicamente sull’organismo, e noi assimiliamo a traverso questa sollecitazione fisica,
delle emozioni più o meno raffinate che sono in rapporto col nostro patrimonio, più o meno
grande, di idee e di sentimenti. […] esiste sempre alla base dell’ispirazione del compositore
un sentimento che l’interprete ha il dovere di scoprire per trasmetterlo all’uditore. […] la
potenza ideale della musica […] si rivela nel far rivivere le emozioni umane, le sensazioni a
noi familiari che essa contiene, magnificate nell’insieme del rivestimento artistico».
Per Stanislavskij, il lavoro che l’attore compie su di sé comporta disciplina e capacità di saper
«Se durante il lavoro siete presi dal pensiero dell'ambizione personale, non approfondirete
mai uno dei segreti più profondi dell'arte creativa: vedere e capire il cuore dell'uomo che vi
è dato nella parte. Non diventerete mai l'uomo della vostra parte se il vostro cuore e i vostri
22
H. Neuhaus, op. cit., p.26
A. Cortot, op. cit., pp. 7 - 8
30
pensieri, oltre che con i compiti dell'arte, sono occupati con altre cose personali: il desiderio
di mettersi in primo piano, il diventare eccezionale ecc.».
Si potrebbe fare questo rimprovero a tutti quei pianisti che fanno dell’esecuzione pianistica un
saggio di bravura, una mostra delle proprie abilità virtuosistiche, e nel dare questo sfoggio di
«la parola ‘tecnica’ deriva dalla parola greca techné, e techné significava arte. Qualsiasi
perfezionamento della tecnica è perfezionamento dell’arte stessa vale a dire, contribuisce
alla rivelazione del contenuto, del ‘significato recondito’, in altre parole è la materia,
l’incarnazione reale dell’arte. Il guaio è che parecchi pianisti con la parola ‘tecnica’
sottintendono soltanto agilità, velocità, uniformità, bravura, a volte soprattutto ‘fuoco e
fiamme’; ma questi sono singoli elementi della tecnica, e non la tecnica nella sua interezza,
come la intendevano i greci e come la intende un vero artista. La tecnica – techné – è
qualcosa di assai più complesso e difficile. Il possesso di qualità come l’agilità, la pulizia e,
persino, un’esecuzione musicale corretta, ecc…, di per sé non garantiscono ancora
un’esecuzione artistica; ad essa conduce esclusivamente un lavoro serio, approfondito,
ispirato. Ecco perché per le persone molto dotate è così difficile segnare un limite preciso
fra il lavoro tecnico e il lavoro musicale»,
e ancora
«Per parlare e avere il diritto di essere ascoltati, è necessario non solo saper parlare, ma
innanzi tutto avere qualcosa da dire. […] centinaia, migliaia di esecutori violano questa
regola».
Molti grandi pianisti, sia del passato che del presente, sono avversi all’esibizionismo, ad
tecnico, se lo considerasse un «mezzo legittimo per tenere desto il pubblico», egli rispose
«Legittimo in un certo periodo del XIX secolo, quando il pianista si è affermato come
solista e c’è stato questo culto della personalità. Gran parte delle composizioni eseguite
valevano ben poco. Erano dei pretesti per stupire. E questo allora lo si accettava» . 26
Horowitz prosegue la sua intervista chiedendo al maestro «Per un certo tipo di musica questo
rimane un approccio valido anche oggi, per esempio il Mephisto Walzer?» ed egli risponde
«Credo che nel Mephisto ogni nota abbia un valore talmente espressivo che nessuno
dovrebbe fare niente per la sola bravura.[…] Quando avevo vent’anni la gente si lamentava
perché suonavo troppo veloce. E si è lamentata per anni. E’ probabile che in molti casi
suonassi proprio così, perché ero innamorato del pianoforte e delle mie dita. Forse andavo
alla ricerca di una manciata di applausi in più. Ma non l’ho fatto coscientemente da
Kostantin Stanislavskij, L’attore creativo, a cura di Fabrizio Cruciali e Clelia Faletti, La casa Usher, Firenze
1980, p.135
H. Neuhaus, op. cit., pp. 27- 28
26
J. Horowits, op. cit., p.124
31
moltissimo tempo. Sono diventato, in un certo senso, indifferente al fatto di piacere o meno
a una platea. Preoccuparsi del pubblico, questo sì può uccidere un’interpretazione».
Anche nella musica si può sperare di ottenere un’esecuzione perfetta solo attraverso la
concentrazione e la calma, solo così si può giungere allo stato più intimo di una
Secondo quanto scritto da Barbara Failla nel saggio Stanislavskij: il sistema della verità e
della finzione, « l'obiettivo è sempre quello di giungere alla verità dell'interpretazione, base
fondamentale per la veridicità di ciò che si rappresenta e per i processi di identificazione degli
spettatori. Nel gesto e nella serie di gesti dell'attore autenticamente vissuti c'è una verità che
personaggio: ‘io sono’ il personaggio. La reviviscenza è messa in moto dal gesto giusto, e una
volta che la si attua ne consegue anche la linea d'azione del personaggio - non è possibile
‘agire’ all'unisono con il personaggio e ‘sentire’ in dissonanza con esso. Solo quando si
raggiunge questa sensazione di ‘essere’ nel personaggio si può affrontare lo studio più
Anche nella musica ogni gesto deve essere fortemente sentito dal pianista; infatti anche nella
musica occorre interpretare con tutto il corpo (e non solo con le dieci dita!), con l’espressione
del viso, con i respiri e con ogni altro gesto necessario per una buona interpretazione. Se
questi non fossero effettivamente sentiti come parte integrante dell’esecuzione musicale, si
ibidem
K. Stanislavskij, op. cit., p.86
32
otterrebbe solo l’effetto di qualcosa di finto, innaturale. Parafrasando quello che ha scritto
Stanislavkij «solo quando si raggiunge questa sensazione di essere nel ‘brano musicale’ (il
conseguenza riuscire a trasmettere l’essenza più vera del brano musicale ad un pubblico.
«Campo specifico di creazione dell'attore è quello che Stanislavskij chiama, in alcuni scritti,
il ‘sotto-testo’. Il drammaturgo è l'autore del testo, l'attore è l'autore del sottotesto, ovvero
dell'insieme di elementi espressivi e pre-espressivi, di intenti e di azioni, che formano la
presenza scenica dell'attore. L'attore diventa co-autore del personaggio.»
Anche il pianista compie un lavoro simile, infatti molto spesso, per interpretare si ricorre ad
immagini extra – testuali per rendere al meglio l’esecuzione, per ricreare un determinato
suono, per entrare meglio nel significato del brano musicale. Ad esempio, Cortot
«ricorda agli artisti il dovere che loro incombe di fare indagini su tutto ciò che li può
illuminare sulle intenzioni dell’autore, con lo scopo di ridurre al minimo possibile eventuali
errori, e che per obbligare i suoi discepoli a fare queste indagini, esige da ciascuno di essi,
sotto pena di rifiutarsi di sentirli, delle cognizioni la cui natura sia tale da impedire che il
lavoro meccanico si sostituisca a quello cosciente e fecondo di quei risultati che egli
preconizza.[…] »;
inoltre
«ciò che interessa maggiormente Cortot è il sapere se l’esecutore abbia una comprensione
poetica dell’opera che esegue.[…] Egli detesta le fredde sensazioni anatomiche che non
delucidano affatto il significato poetico. Non si conquista il suo favore presentandogli
quella che si chiama un’analisi chimica nella quale ci si è occupati di elencare: Tema A,
ponte, Tema B, sviluppo etc. Per quanto ami che il musicista si muova agevolmente fra le
architetture musicali,[…] tuttavia egli si compiace ancora più nel vedere applicare a
qualche tema un epiteto che ne determini il carattere. Egli desidera che all’indicazione di
una modulazione, alla numerazione dell’armonia, si aggiunga qualche parola che ne mostri
la tendenza espressiva, e provi che l’esecutore si è sforzato di comprenderla.[…]».
Nel testo di Cortot, quando il maestro parla delle varie forme musicali come la sonata, il
preludio, i concerti, spesso ricorre a riferimenti extra musicali, per spiegare le diverse opere,
mi limiterò solo a citarne una. Quando Cortot commenta il Preludio n° 15 op. 28 di Chopin
dice:
«Nel 15° Preludio è indispensabile stabilire una differenza nell’espressione e nella qualità
della sonorità, fra la sonorità di re bemolle maggiore e quello di do diesis minore. La parte
in re bemolle senza rispecchiare uno stato d’animo felice, deve avere un carattere tenero e
cullante. Poi comincia la visione fantastica. Un fantasma, nel do diesis minore, apre la
porta, viene verso di voi e s’impadronisce della vostra personalità. Sulle prime non ci si
G. Palombo,op. cit., p.14
A. Cortot, op. cit., p.13
ivi, p.14
33
rende conto ma, a poco a poco l’incubo prende corpo, vi assale con le sue minacce e col suo
aspetto terrificante. Vi è una progressione in questo terrore che si accentua nel la maggiore.
Per raggiungere l’intensità in questa parte centrale, non c’è bisogno di un aumento di una
sonorità a sbalzi, ma di una continuità assoluta nel crescendo. Ciò che vien dopo sono dei
sospiri, qualche cosa che esprime il ritorno alla coscienza, la sensazione che si prova
quando si vuol cancellare dalla memoria un’impressione penosa».32
«Ci si può sottomettere ai desideri altrui, agli ordini del regista o dell'autore, ma li si
eseguirà in modo meccanico, inerte: si possono rivivere solo i propri personali stimoli e
desideri, creati e rielaborati dall'attore stesso, dalla propria volontà e non da quella altrui».
Il pianista, nell’eseguire un brano musicale, deve attenersi a quanto voluto dall’autore, ma non
proprio modo di intendere quella data composizione, affinché essa non risulti solo come una
sequenza di note. Ecco quindi che sia nel teatro sia nella musica, non si potrà mai avere un’
Per Stanislavskij la ritrazione dell'io dell'attore permette all'attore di ri-nascere come nuovo
io:
«Da questo momento in poi, la persona dell'attore - la sua personalità privata - si ritira sullo
sfondo. E' come se fosse dimenticato. Emergono momenti del tutto differenti, da cui nasce
un nuovo 'io'. Questo uomo nuovo è per me, in questo momento, il più caro, quello a cui la
mia esistenza ha ceduto il primo posto. In quanto a me, mi sono ritirato sullo sfondo per
servirlo con tutta la mia energia e con tutta la mia gioia, cioè: per vivere al suo posto».
Credo che questa affermazione non si possa applicare al pianista. E’ vero che l’interprete
dovrebbe entrare nei panni di un’altra persona (il compositore), però non è possibile che
avvenga l’annullamento della personalità del pianista. Infatti una perfetta interpretazione
nasce dalla fusione della personalità dell’interprete con quella dell’autore. Mi sovvengono
«Il sistema di Stanislavskij è indubbiamente un passo avanti - scrive Brecht - se non altro
perché è un sistema”, ma tuttavia alcuni elementi sono per Brecht inaccettabili. Innanzitutto
l'immedesimazione dell'attore con il personaggio: per Brecht l'attore deve essere capace di
distanziarsene e giudicarlo. L'attore deve intervenire con il suo giudizio, per rilevare tutte le
contraddizioni del personaggio (e dell'opera), per questo non è possibile l' ‘azione
32
ivi, pp. 41 - 42
Cit. da Malcovati p.178
K. Stanislavskij, op. cit., p.136
34
ininterrotta del personaggio’ così come insegnava Stanislavskij: l'azione viene interrotta
proprio dall'intervento del nostro giudizio e della nostra critica degli eventi e dei
personaggi»
Brecht riprende il metodo Stanislavskij per quanto riguarda la verità del personaggio,
Stanislavskij, ma lo ingloba e lo finalizza in maniera diversa. Ciò che chiede Brecht non è
solo di rappresentare il personaggio, ma esige una presa di coscienza. L'attore deve recitare
ma deve essere anche in grado di dare un giudizio di valore sul personaggio, ed essere
cosciente.’
LE COSTANTI VARIABILI
Molto spesso si sente dire che quel dato pianista sia il migliore esecutore di un compositore.
In base a quanto finora esposto in questa mia trattazione, non so se questa affermazione sia
sempre giusta. Ritengo che il migliore esecutore sia il pianista che riesce trasmettere il
messaggio contenuto nella composizione e l’espressione più alta contenuta nella musica.
Se è vero, dunque, che non esiste un unico modo di interpretare un determinato brano
musicale, affermare che quel pianista sia il migliore interprete di quel dato compositore
l’esecuzione che dà di quel brano musicale sia l’unica secondo un certo canone estetico -
ogni interprete che riesca a raggiungere questo scopo è da considerarsi il migliore esecutore di
Cap. intitolato Stanislavskij e Brecht, contenuto nell’ Introduzione di Gerardo Guerrieri all’edizione italiana
del 1975 de il lavoro dell’attore si Stanislavskij, edito La Terza
35
quel determinato autore. Tuttavia, ci sono pianisti che si sono specializzati in un determinato
interpretazioni di alcuni artisti sia riferita a un autore che a determinate opere, sono rimaste
Questo perché esiste pur sempre una corrispondenza tra una ‘costante’ espressiva insita
Arrau, ad esempio, nonostante l’ampiezza del repertorio, è passato alla storia soprattutto per
1
Kazimierz Morski,
Cfr. The Oxford history of music, ed. Garzanti, Milano: L’età di Beethoven (1790 – 1830), cap.VIII pp. 370 -
371
36
Molto importante è il fatto che in questa Sonata l’accordo di settima diminuita appare tre
volte, e ogni volta con un significato diverso. Lo troviamo alla fine dello sviluppo nel primo
movimento, ed è sentito come il punto culminante di tutta questa sezione; compare
improvviso, come un colpo secco alla fine dell’Andante che introduce il finale ed infine si
presenta alla fine dello sviluppo come unico momento di riflessione di questo terzo tempo
così irrequieto.
37
A. Cortot, nel libro Corso d’interpretazione, curato da Jean Thieffry, analizza varie forme
musicali, quali il preludio (da Bach fino a Debussy), la suite, il concerto, la variazione. Nel
capitolo dedicato alla forma sonata, tra i vari esempi, affronta anche alcune Sonate di
Beethoven. Nelle indicazioni e nei suggerimenti per l’esecuzione dell’Appassionata, egli si
riferisce alla diteggiatura, alla dinamica, nel proposito di chiarire il contenuto stesso di
quest’opera. E’importante riportare qui quanto scrive:
«Non fu Beethoven a dare alla Sonata op.57 il titolo di Appassionata, ma giacché questo le è stato
applicato vivente l’autore, che non protestò, possiamo accettarlo anche noi. E’ probabilissimo che
la dedica al fratello di Teresa von Brunswick, la quale era, a quanto si dice l’immortale amata, fu
un mezzo per votare a lei, in via indiretta, i sentimenti ardenti di cui la sonata trabocca. Ma anche
senza questa supposizione, resta il fatto che l’anima di Beethoven era colma, e senza tregua, di
sentimenti ardenti che egli esprimeva in musica anche quando non pensava ad un essere
particolare, fosse questo il più caro.
Quello che sappiamo con certezza di questa Sonata, è che essa fu composta all’inverso, cioè
cominciando dal Finale. […] Desidererei darvi di questa Sonata una visione più romantica di
quella che ordinariamente si ha. Sappiamo che Beethoven scriveva per liberarsi da una
sofferenza, e che diceva anche: ‘Se sapessero a che cosa penso, quando scrivo, ne sarebbero
spaventati’ Interrogato sul senso dell’Appassionata egli rispondeva: ‘Leggete la Tempesta’. [ nota
dell’autore: La Tempesta di Shakespeare ]
In questo caso, dunque, noi sappiamo ciò che Beethoven ha voluto dirci, ma se in altri casi
ignoriamo la sua intenzione, ciò non autorizza a dire: ‘Non ha voluto dir niente’ perché un simile
pensiero sarebbe da pigri e da indifferenti. Eleviamoci, invece, verso il Maestro e cerchiamo di
comprenderlo.
L’inizio del 1° tempo, per ritmico che sia, è anche fantomatico. Pare che un’apparizione prenda
corpo. Vi è del mistero nella grandiosa maestosità del primo tema che non è interrotto., ma invece
prolungato dagli accordi che evocano un immenso ‘fortissimo’ orchestrale. Le tre ultime crome
della 13ª misura devono essere molto sostenute e senza precipitazione. Il tempo non riprende del
tutto se non nelle semicrome che seguono. Tutto l’inizio non è che una grande preparazione. E’
dopo il passaggio di semicrome che comincia realmente la Sonata o, per lo meno, il suo sviluppo
drammatico. Il pianissimo indicato a questo punto, è un cattivo colorito e non si può attribuirlo ad
altro che alla sordità che trascinava Beethoven e degli errori di valori sonori. Esso va trasformato
in un mezzo piano che prepara il fortissimo.
38
La 2ª idea, presentata in la bemolle maggiore, non è che il rivolto della prima. Nobile, accogliente,
generosa, essa invita a pensare al Prospero della Tempesta. Per conto, vediamo Caliban, o più
generalmente l’incarnazione delle forze malvagie, nel passaggio in la bemolle minore che segue i
trilli in richiami ed il lamento discendente che lo prolunga. Cupo, ostile, questo brano in la
bemolle minore deve avere un ritmo inesorabile e una potenza estrema.
Alla 11ª misura, dopo i 4 bequadri, la sola diteggiatura che permetta di rendere l’effetto vigoroso
dei gruppi di semicrome, alla mano sinistra, consiste nel battere col pollice della destra la prima
nota di ogni gruppo. La stessa diteggiatura verrà per i gruppi seguenti, qualunque sia la posizione
sui tasti. Intanto, la mano che suona il motivo tematico deve cercare di trovare una sonorità
audace, un effetto di lampi guizzanti. Alla 9ª misura dei quattro bemolli, in seguito, le terze della
mano destra devono risonare come delle grida. Alla 16ª misura dello stesso passaggio i la bemolle
sostenuti del basso sono importantissimi. Mettere dell’eloquenza nel disegno delle terzine. Non è
la grazia che adesso è richiesta, ma una patetica nobiltà. In seguito, il piano deve succedere
immediatamente al forte. La mano sinistra, nei suoi accordi, sembra rimuovere un fondo torbido,
mentre la mano destra si fa commovente e decisa. Nel passaggio che precede la riesposizione, i re
bemolle ripetuti fortissimo dalla mano sinistra, devono scoppiare terribili. La migliore diteggiatura
consisterà nell’attaccarli col 2° e 3° dito accoppiati. Prima della riesposizione, le ripetizioni del do
grave, al basso, devono farsi in una sonorità sorda, lontana, minacciosa e ritmica. Il ‘crescendo’
dovrà essere sviluppato a poco a poco, ma irresistibilmente. I due accordi forte prima della
corona, saranno strappati, e l’accordo piano della corona risonerà in seguito in un timbro debole,
ma metallico. Dopo i quattro accordi adagio, precedenti il più allegro, bisogna attendere ma non
separare, con un respiro, l’accordo coronato da ciò che segue. Fate sommergere tutta la fine; fatela
rassomigliare a un dramma del mare in cui l’abisso si chiude su un grido disperato.
È ancora Prospero che ha la chiave del segreto dell’Adagio; ma qui tutte le passioni sono
dominate. Il sentimento è religioso, o per lo meno filosofico. Non c’è che un passaggio, verso la
fine, in cui il sentimento possa farsi personale e commovente. Fin là tutto è gravità, solennità.
Pensate ad un corteo di filosofi. Del resto, il carattere di marcia emerge evidentemente nella prima
variazione. È da essa che appare più chiaramente che mai il ‘tempo’ vero del pezzo. Prendetela
come modello per determinare l’andamento quando incomincerete. Questo andamento non è lento
perché si tratta di un andante con moto in 2 movimenti, e non in 4. È la scomposizione in crome
che induce spesso in errore. Serbate al ritmo la sua dignità. La sua placidezza. Se talvolta i
contorni melodici si fanno più espressivi, è necessario tuttavia che il ritmo essenziale li regga
sempre. Queste variazioni sono già nel carattere misterioso delle variazioni dell’ultima maniera, e
fanno pensare a quelle dell’op. 109 e dell’op. 111. la cura di mettere costantemente il tema in
rilievo, nuocerebbe all’espansione generale. Il tema emana dalla musica stessa; deve fluttuare
nell’aria. Dei sottolineamenti troppo apparenti gli toglierebbero il suo mistero. Osservate che son
tre le ragioni nelle quali esso si muove: grave, media, acuta. Queste rappresentano tre registri di
sentimenti nei quali, ogni volta, esso prende una tinta particolare. Le variazioni terminano col
passaggio di biscrome. In seguito, non vi sono più che delle armonie, e un basso che si muove.
Separate un po’ da ciò che li precede i due accordi che servono di transizione tra l’Andante e il
Finale. Bisogna avere la sensazione di non sapere ciò che dopo questi accordi sta per
sopraggiungere. Per la diteggiatura nell’ultimo accordo, ecco ciò che vi raccomando: quattro note
con la mano sinistra, quattro con la destra, e la nota superiore, con la sinistra, incrociando.
L’atmosfera del finale è elettrica. Ritenete un po’ i primi accordi, poi affrettate il movimento a
poco a poco, rendendo questi accordi sempre più sferzanti nei ritmi in diminuzione della 3ª e 4ª
misura. In seguito, le semicrome si precipitano verso il forte col rombo di un tuono, in onde
vorticose che mischiandosi ed avvolgendosi paiono scagliarsi all’assalto del cielo. Questa è
l’evocazione di una vera tempesta, in bàlia della quale dei lembi di melodia se ne vanno al vento
come delle cose lacerate dall’uragano che le porta via. Qui il carattere patetico degli elementi
scatenati che va reso con tutte le possibilità. Nel tema propriamente detto, cioè alla 20ª misura del
finale, e nelle seguenti, i pollici saranno piazzati sulla nota che segue la pausa di semicroma
(mano destra) e sulle prime note dei movimenti seguenti. Come pure si farà così in ciascuno dei
gruppi di due misure di cui il tema è formato, sia che le note suddette si trovino su tasti neri o su
tasti bianchi. Alla 64ª misura, la mano sinistra deve formare un vortice come un ciclone. Cinque
misure prima della doppia sbarra, il sol bemolle acuto sarà più brillante se si lancerà con la mano
sinistra. All’8ª misura della seconda ripresa (sviluppo), le crome della mano destra devono essere
ben pronunziate, con intenzione ed espressione. Alla 25ª misura dello sviluppo il carattere è
lamentevole, alla 29ª misura in aumento di potenza, ma con un’espressione straziante; alla 33ª
misura, di nuovo lamentevole e più dolce. Fate attenzione a non cambiar tempo nelle misure
precedenti alla riesposizione in cui i valori si rallentano. Alla 15ª misura della riesposizione, il
ritardando serve enormemente al dinamismo del passaggio. Le formule trillate che precedono il
39
presto, devono diventare sataniche. Se invece di atterrirci con l’orrore di questo riso demoniaco,
voi sonate soltanto un semplice trillo, tutto è perduto… Il Presto è una specie di vortice delle
Baccanti. Affinché questo Baccanale furioso abbia tutto il suo accento, è necessario ritenere un po’
i due primi accordi, ma naturalmente, e come se il loro terribile peso li incatenasse al suolo. Le
7
crome che seguono siano trepidanti, forsennate…».
7
A. Cortot, op. cit., pp. 97 - 102
J. Horowitz op. cit., pp.193 - 201
40
Sono quasi sei minuti di differenza. Ma bisogna precisare che nel terzo movimento Backhaus,
a differenza di Arrau, non fa il ritornello di tutta la seconda parte (bb. 118 – 303). Ma a parte
questo particolare, le maggiori diversità esecutive si riscontrano nel primo e nel secondo
movimento. Analizziamo ora ciascun movimento, prendendo in considerazione le indicazioni
metronomiche che segna Schnabel e mettendole poi a confronto con i tempi indicati nella
Peters. In tutta la Sonata, Arrau fa un largo impiego di ‘ritenendo’ e ‘rallentando’ non indicati
da Beethoven. Egli si servì di questi mezzi per evidenziare al massimo, oltre agli aspetti
emotivi, gli aspetti strutturali dell’opera. Ma non si tratta di libertà interpretativa presa Arrau,
quanto da una prassi storica: infatti, Carl Czerny, che era stato allievo di Beethoven proprio al
tempo della composizione dell’ Appassionata, nel terzo capitolo della terza parte del Metodo
op. 500, pubblicato nel 1839, indica undici casi in cui «suol ritardarsi» senza che il ritardando
sia scritto. L’analisi dell’esecuzione di Arrau ci mostra che tutti i ‘ritardando’ introdotti
dall’interprete, rientrano nella casistica di Czerny. Non dimentichiamo che Arrau fu uno dei
più grandi sostenitori della fedeltà testuale, quindi è impensabile che egli introduca, per
semplice gusto personale, elementi che non rientrino nel carattere dell’opera. Probabilmente
Arrau ha consultato il testo di Czerny, in quanto nell’Appendice contenuta nell’edizione
Peters, oltre ad esserci le indicazioni metronomiche aggiunte da Arrau, ci sono anche quelle
indicate da Czerny.
Nel corso di questo movimento, come ho già specificato sopra, Schnabel segna varie
indicazioni metronomiche (che invece non ritroviamo nel testo originale contenuto
nell’edizione Urtext). Sia Arrau che Backhaus durante la loro esecuzione cambiano spesso
tempo. In alcuni casi presentano similitudini tra di loro e con quanto ha scritto Schnabel. Le
lettere segnate in grassetto, tra parentesi indicano tutti gli esempi contenuti nell’Appendice.
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Per tutta la prima parte [A], dalla b.1 alla b.16 (che potrebbe benissimo essere vista come
un’introduzione), Schnabel indica = 120, Backhaus segue lo stesso criterio, mentre Arrau fa
104 - 108, così come viene anche indicato nell’Appendice della Peters. Credo che questa
differenza sia dovuta al fatto che Arrau volesse sottolineare maggiormente il carattere
minaccioso di questo primo movimento, creando un’attesa per qualcosa che sta per accadere.
Ma dalla b.16 alla b.23 [B] adotta lo stesso tempo di Schnabel e Backhaus.
Alla b.24 [C] Schnabel indica un tempo pari a126, anche se sembra invece che entrambi
eseguano il tutto leggermente più veloce, iniziando poi un ampio rallentando prima del
secondo tema. [D].
Sia Arrau che Backhaus eseguono quest’ultimo allo stesso tempo in cui lo indica Schnabel,
cioè 112. Alla fine della scala discendente di terzine (b.50 [E]), Arrau fa un ampio ritardando,
in modo che l’entrata della parte conclusiva dell’esposizione appaia improvvisa. Backhaus
invece è più diretto. Entrambi, per questa coda adottano un tempo pari a 120 ed eseguono un
leggero rallentando nelle ultime quattro battute prima della fine dell’esposizione. A questo
punto [F], Arrau inizia questa sezione con lo stesso tempo iniziale, cioè 108, mentre Backhaus
esegue queste prime battute a 120, come segna anche Schnabel. Dalla b.79 alla b.92 [G], tutti
e tre i pianisti adottano lo stesso tempo, cioè 138, poi, come nell’esposizione, Backhaus e
Arrau, attaccano la parte con le note ribattute in terzina (b.93 [H]) leggermente in un tempo
più veloce rispetto a quello indicato da Schnabel, per poi fare un piccolo rallentando prima del
secondo tema (b.109 [I]); esso [L] inizia ad un tempo di 126, quindi più veloce rispetto
all’esposizione. Anche in questo punto tutti e tre i pianisti sono d’accordo Dopo le prime
quattro battute il secondo tema è ripetuto due volte, ed ogni volta sempre più veloce fino a
b.122 [M], il punto dove inizia tutta la parte basata sull’accordo di settima diminuita alla
quale ci si è riferiti. Qui Backhaus e Arrau procedono in maniera diversa. Il primo continua in
come unità di tempo viene indicata la semiminima col punto. Quindi ogni volta che parlo di tempo, bisogna
tenere in considerazione questa indicazione.
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riprendere poi lo stesso tempo di Backhaus; entrambi sembrano seguire lo stesso tempo scritto
anche da Schnabel, cioè 144, fino alla b.129. Nelle quattro battute successive, Backhaus
sembra diminuire di pochissimo il tempo (forse per sottolineare e per marcare meglio le note
del basso). Dalla b.134 [N], fino alla fine dello sviluppo (b.150) , troviamo nuovamente
La ripresa è in forma abbreviata, infatti manca tutta la parte dell’ ‘introduzione’ (bb.1 – 16).
Fino all’apparizione del secondo tema, valgono le stesse cose già esposte per l’esposizione.
Per il secondo tema [O], troviamo invece un’altra importante differenza tra Arrau e Backhaus.
Quest’ultimo sembra rispettare lo stesso tempo indicato da Schnabel (112), e nella seconda
parte di questo tema, fa un leggero accelerando.Invece Arrau adotta un tempo inferiore, cioè
104, e c’è una ragione particolare per questo. Secondo le regole dell’armonia classica, per
quanto riguarda l’esposizione, il secondo tema deve essere alla dominante della tonalità
d’impianto se il primo tema è in maggiore, alla relativa maggiore se il primo tema è in minore
(e in questo Beethoven rispetta la ‘regola’), nella ripresa, invece, entrambi i temi devono
essere nella stessa tonalità d’impianto. Quindi, in questa Sonata, nell’esposizione il primo
secondo tema in Fa maggiore, anziché in Fa minore. Credo dunque che, per sottolineare
questo bellissimo cambio di modo, e per creare maggiore contrasto, Arrau adotti un tempo
inferiore.
Dalla bb.180 fino alla b.202, valgono le stesse considerazioni fatte per l’esposizione. Dopo le
quattro battute in cui si presenta il primo tema al basso [P], compare nuovamente il secondo
tema. Anche qui Arrau è più lento rispetto a quanto voluto da Schnabel (138 per le prime
quattro battute, e 144 da b.214 in poi), e rispetto a quello che fa Backhaus. Tutta la parte del
‘rallentando’, segnata da Beethoven (bb.235 – 238 [Q]) Arrau la esegue decisamente molto
più lenta rispetto a Backhaus. A questo punto inizia il ‘Più allegro’ [R]. Arrau interpreta i tre
accordi iniziali più lenti rispetto a Backhaus che invece li esegue nel tempo segnato da
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Schnabel, dopodiché adottano lo stesso tempo, 160, fino alla b.254, in cui entrambi i pianisti
Anche in questo movimento, come nel primo, ci sono molti cambi di tempo, e anche questo
come in quello presenta alcune difficoltà nel capire i tempi metronomici adottati da entrambi,
visto che, anche nel rispetto delle indicazioni testuali, sia l’uno che l’altro, si prendono
Arrau e Backhaus iniziano questo movimento in un tempo più lento, = 84(e in questo Arrau
non rispetta quello indicato nella Peters), rispetto a quello segnato da Schnabel 92. La
differenza tra i due interpreti sta nei tempi adottati nella serie delle variazioni. Infatti
Backhaus, nella prima variazione (bb.17 - 32 [A]), esegue 104, mentre Arrau 92. Nella
seconda (bb.33 – 48 [B]), Backhaus segue lo stesso tempo di Schnabel, ossia 108, mentre
Arrau è decisamente più lento, 88. Nell’ultima variazione [C] Backhaus usa ancora in tempo
più veloce rispetto ad Arrau (120 il primo e 104 il secondo), essendo sicuramente più vicino a
Schnabel. Nella ripresa del tema iniziale (b.81 [D]), Backhaus e Arrau adottano lo stesso
tempo dell’inizio, 84 la croma, quindi molto più lenti di quello che indica Schnabel, prima
Forse proprio perché l’elemento ritmico principale è formato dalle quartine di semicrome,
Come ho già anticipato sopra, Backhaus, in questa registrazione, non rispetta il ritornello
segnato da Beethoven, per questo tutta l’ampia parte che va dalla b.118 alla b.303, non viene
come unità di tempo viene indicata la croma. Quindi ogni volta che parlo di tempo, bisogna tenere in
considerazione questa indicazione.
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ripetuta. Per quanto riguarda le indicazioni di tempo, Backhaus segue = 144, invece Arrau
138, proprio come indicato nell’Appendice della Peters, entrambi dunque staccano un tempo
inferiore rispetto a quello stabilito da Schanbel ( = 152). Anche nel Presto ci sono delle
differenze, infatti Arrau rispetta il tempo che ha indicato nell’edizione da lui curata, ossia =
92; Backhaus da parte sua è di poco più veloce, adottando un tempo pari a 96 circa, mentre
Schnabel è molto più veloce, 104. Durante tutto il movimento, anche se mantiene una ritmica
costante, Arrau spesso fa moltissimi ‘ritenendo’, per creare una maggiore espressività.
In tutta la Sonata, Arrau si serve moltissimo dei due pedali (quello di risonanza e quello a
sinistra,a una corda); questo lo si può notare, oltre che dall’ascolto del cd, anche guardando
l’edizione da lui curata, in cui il pianista segna tra parentesi l’uso dei due pedali, dal canto
suo, Backhaus invece fa un uso più moderato del pedale. Infine, per quanto riguarda le
Non si può dire che Backhaus renda ‘di più’ il contenuto espresso da Beethoven in questa
Sonata, così come è difficile stabilire il contrario. Ognuno dei due artisti, a suo modo, ha reso
quelle pianistiche.
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APPENDICE Primo movimento
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Secondo e terzo movimento
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Capitolo 3.
2007)
Arrivati a questo punto della tesi, ho ritenuto che per me sarebbe stato interessante avere delle
pensato al maestro Sergio Perticaroli, uno dei nostri più grandi pianisti e didatta.
Il maestro è stato molto gentile a concedermi il tempo per questa conversazione riguardo
l’aspetto interpretativo, inoltre ha chiesto anche ad alcuni dei suoi allievi di partecipare e loro
La nostra discussione ha toccato vari punti dell’esecuzione musicale, dal rapporto tra
Durante questa conversazione, ho trovato riscontro di quanto già avevo discusso in questa mia
trattazione, molti aspetti da me già precedentemente toccati hanno trovato ulteriore conferma
Il maestro Sergio Perticaroli si è diplomato nel 1952 al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma e, nello stesso
anno, ancora giovanissimo, ha vinto il primo premio alla competizione internazionale di piano Busoni, un
premio che ha segnato l’inizio di una brillante carriera che ha portato il giovane pianista nei concerti di tutto il
mondo. Uno dei momenti migliori della sua carriera è stato l’incontro, nel 1959, in Egitto con il compositore
russo Aram Khatchaturlan che, dopo averlo sentito suonare, lo nominò miglior interprete del suo Mano Concerto
e lo invitò in un tour come suo rappresentante nelle maggiori capitali europee. Un altro invito importante arrivò
da John Barbirolli che, seguendo un concerto con Perticaroli a Roma, organizzò per lui un tour in Inghilterra
come solista con l’orchestra Hallé.
Perticaroli ha suonato in tutti i continenti per le massime istituzioni musicali esibendosi nelle più
importanti Sale, dalla Scala di Milano alla Carnegie Hall di New York, dalla Sala Glinka di Leningrado alla
Symphony Hall di Melbourne, dal Teatro Colon di Buenos Aires alla Symphony Hall di Kyoto, con le più
rinomate orchestre, quali la Filarmonica di Berlino, la London Symphony, l’Orchestra di Radio Mosca e
l’Orchestra di Santa Cecilia) e con i più famosi direttori (Maazel, Celibidache, Giulini, Abbado, Barbirolli,
Khacaturjan, Sawallisch, Kondrasin, ecc.).
É oggi artista affermato in campo internazionale e riconosciuto dalla stampa italiana ed estera; le sue
tournées lo hanno portato oltre che in Europa, in URSS, USA, Australia e Giappone. Accanto alla concertistica
svolge una intensa attività didattica sia in Italia, dove è titolare della cattedra di perfezionamento di pianoforte
all'Accademia di Santa Cecilia di Roma e di cui è stato il Direttore Artistico. Inoltre, è invitato nelle Giurie dei
più importanti Concorsi come il Busoni, il Casadesus, lo Chopin e lo Schubert.
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Magalotti: Bene, visto che dobbiamo parlare di interpretazione, possiamo iniziare pren-
secondo lei, quanto conta la tecnica per ottenere una buona interpretazione?
M° Perticaroli: Credo che la cosa più importante sia avere la tecnica per interpretare.
esecuzione.
M.: Secondo lei è vero che oggi giorno si tende a sottovalutare il contenuto, o, per
ca?
M° P. : Si certo, ma bisogna anche pensare che ci sono diversi autori per i quali la
Allievo : Si potrebbe fare il paragone con gli attori. Infatti possono esserci attori molto
bravi a livello interpretativo ma magari non hanno una dizione perfetta o vice-
M° P. : Certo, è necessario avere una buona tecnica per avere una buona interpreta-
M.: D’altra parte, essere molto dotati dal punto di vista dell’espressività e non avere
un buon possesso tecnico può risultare, oltre che dannoso, pericoloso in un’
esecuzione.
M° P. : Certo!
M.: Continuando a parlare di tecnica, lei nelle sue esecuzioni, o nel lavoro con i suoi
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M° P. : Per me la musica è fatta di suoni. Il pianista, come qualsiasi altro esecutore, si
in cui si ‘pesta’, che io chiamo gli schiacciasassi, e altre invece che mirano ad
M.: Come imposta lo studio di in brano musicale? Si tratta di un lavoro che avviene a
priori? Mi spiego meglio: secondo lei un esecutore dovrebbe avere una conoscen-
to, il significato, l’essenza della musica che ha di fronte e poi accingersi allo stu-
Allieva : Io penso che sia più giusto capire prima quello che è il carattere di un brano,
poiché nel momento in cui già sai cosa vuoi ottenere, allora risulta più facile
tempo inutilmente, visto che poi bisogna correggere di continuo quello che
abbiamo studiato.
M° P. : Giusto. C’è poi un altro aspetto da considerare. Oggi giorno chi studia conosce
già questi pezzi, un tempo non c’era la discografia, quindi in questo senso i
pianisti sono più agevolati rispetto al passato Bisogna però stare attenti affinché
momento successivo, magari per fare dei confronti senza ovviamente copiare
nessuno.
M.: Certo, ascoltare delle buone incisioni dovrebbe servire solamente per farsi un’idea
M° P. : Esattamente.
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Allievo :(in tono scherzoso) c’è poi anche da dire che noi studiamo ore e ore al nostro
pianoforte per ottenere quel suono particolare, poi a lezione il maestro fa dei
concetto di vibrazioni, di bellezza, che io ho più avanzato, per questo sono qua,
molte cose, così come la composizione. Non bastano solo le note per avere
Io stesso dico sempre ai miei allievi che l’uomo è fatto carne e ossa, il suonare
M.: Come descriverebbe la relazione che c’è tra interpretazione e fedeltà testuale?
brano musicale?
M° P. : In realtà noi non possiamo sapere con esattezza com’è veramente il modo giusto
per eseguire un brano musicale. Nel testo c’è scritto Allegro, ma di allegri non
ce n’è uno solo, così come per lo sforzato possiamo avere diversi tipi di sfor-
zato. Pensiamo poi alla musica barocca, nelle composizioni di questo periodo,
all’originale. In un brano musicale ci sono alcuni aspetti che vanno seguiti alla
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M.: Che rilievo ha l’indicazione metronomica nell’interpretazione? Spesso le indi-
giamo immediatamente che Backhaus adotta dei tempi molto più veloci rispetto
ad Arrau.
M° P. : Si, è vero, ma Arrau esegue sempre tutto più lento, Backhaus correva, io lo ri-
ci sono pianisti che eseguono i brani secondo le indicazioni di tempo volute dal-
bisogna essere sempre attenti a che questo non diventi un eccesso. Se nel testo il
M.: Ci sono stati dei brani per i quali lei ha avuto delle intuizioni nuove dopo molti
M° P. : Si, certo. C’è sempre una continua evoluzione. Spesso, quando si mette a ripo-
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sfera, siano diverse, rispetto ad un’esecuzione pubblica, che peso hanno sull’inter-
pretazione?
pubblico si è abituato a sentire tutte le note, per noi poveri pianisti è diventato
questo perché la registrazione veniva fatta dal vivo, e dal vivo c’è l’umanità.
mandato in onda una o due ore dopo). E questo proprio per pulire, eliminare
allora che è cambiata la vita anche per i poveri pianisti, visto che il pubblico si è
abituato a sentire una certa esecuzione, pulita da ogni minimo errore. Per ciò
imperfezioni del suo concerto, era molto divertente. C’era tutto questo. Oggi
giorno, invece, ai concerti c’è tutto un “cerimoniale” che non si rompe mai.
adeguarci ad essa.
musicale?
cista ha. “Io sono venuto qui per suonare, al pubblico non deve interessare
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quello che ho.Credo poi che con la concentrazione si possa superare tutto, la
da quello che gli è accaduto (naturalmente dipende dalla gravità della cosa).
Oggi ci sono pianisti che non suonano se non hanno un buon pianoforte.
Rubinstein diceva che esistono cattivi pianisti, non cattivi pianoforti. Questa
M° P. : Certo, la paura c’è sempre, tutti hanno quel senso di dubbio. Ci sono poi
persone che compiono atti scaramantici, c’è chi pensa che alcune persone
‘portino bene’, chi ha amuleti, ci sono gli amici e via dicendo, cioè
M.: Come si spiega il fatto che un pianista esegua un’opera in un certo modo,
circostanze?
M.: Bene maestro, siamo arrivati alla fine di questa chiacchierata. Come ultima
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domanda, vorrei sapere come si è evolutoli suo panismo nel corso degli anni.
M° P. : Io ho studiato malissimo, per cui non avevo nessuna idea, suonavo senza
un insegnante molto bravo che in seguito mi ha fatto capire che potevo avere
Penso davvero che il pianoforte sia uno strumento così ricco da raccogliere
in sé tutti gli altri strumenti, ecco perché il pianoforte può imitare un’ intera
orchestra.
M.: Maestro la ringrazio per avermi concesso del tempo per fare questa intervista, e
M° P. : Bene, sono contento anche io e le faccio gli auguri per la sua tesi.
Ringrazio ancora il maestro Sergio Perticaroli per il tempo da lui concessomi per questa
intervista, per me è stata un’interessante occasione di toccare con mano quanto già avevo
Bibliografia
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Charles Rosen, Le forme – sonata, Feltrinelli biblioteca di musica, Milano 1986 p.131,
pp.192-195, p. 322
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pp.139-190
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233
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Vol. VIII L’età di Beethoven – La musica per Pianoforte di Philip Radcliffe (pp. 363 – 379)
pp.370 - 371
ENCICLOPEDIA DELLA MUSICA ed. Ricordi Biblioteca di Santa Cecilia G. Cons 3B2
Partiture:
BEETHOVEN Sonaten II Klavier / Piano, Herausgegeben von Claudio Arrau, ed. Peters,
Frankfurt/M. - Leipzig - London - New York 1978
68
Beethoven Sonata per pianoforte Op. 57 in Fa min. (Appassionata), edizione tecnico –
interpretativa di Artur Schnabel, ed. Curci – Milano 1978Discografia
Discografia
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