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1. Breve panoramica storico – comparatistica.
L’evoluzione della giurisprudenza
La disciplina sulle unioni civili trova oggi cittadinanza nel nostro Ordinamento giuridico ed è regolata dai commi da 1 a 35 dell’unico articolo della Legge 20 maggio 2016, n.76 recante “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”.1 Questa legge costituisce il frutto di un lungo e travagliato iter di carattere politico-normativo, caratterizzato da un’iniziale reticenza nel riconoscimento giuridico dei nuovi “modelli familiari”. Come noto infatti, non solo il matrimonio è istituto “riservato” alle coppie eterosessuali2, ma anche la convivenza c.d. more uxorio, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza è stata concepita fino a non molto tempo fa solamente tra persone di sesso diverso.3 L’epocale svolta deriva anche da pressioni da parte di organismi internazionali, prima fra tutte la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha condannato l’Italia per la mancante legislazione sulle unioni civili, in violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della C.E.D.U.4 Negli altri paesi europei infatti, trovano da tempo riconoscimento, disciplina e tutela giuridica le convivenze omosessuali, sia attraverso le vere e proprie “nozze gay”, sia anche attraverso le c.d. registered partnerships (ovverossia unioni registrate) produttive dei medesimi effetti del matrimonio5. La prima legge che si è occupata del fenomeno è stata quella danese, nell’ormai lontano 1989, e successivamente il modello è stato seguito da tutti i paesi europei, tra i quali merita accennare all’esperienza di Francia e Gran Bretagna. Nell’Ordinamento giuridico francese è in vigore dal 1999 la legge che ha instaurato il c.d. PACS (cioè il Pacte civil de solidarité ovvero letteralmente il “patto civile di solidarietà”) con il quale diviene convivenza more uxorio anche quella tra persone dello stesso sesso. Tale normativa tra l’altro richiama proprio il Civil Partnership Act britannico, nel quale sono contenute definizioni, condizioni e regole generali della intera materia.6 Anche fuori dai confini europei esistono paesi che hanno optato per la regolamentazione del matrimonio fra persone dello stesso sesso, ed in particolare il riferimento è al Canada (nel 2005), al Sud Africa (nel 2006) e all’Argentina (nel 2010). Anche negli Stati Uniti d’America, dopo una storica pronuncia della Corte Suprema7 che ha reso incostituzionali le leggi statali che vietino le nozze gay, queste sono state di fatto legalizzate in tutto il paese in base al quattordicesimo emendamento della Costituzione U.S.A. che tutela i diritti civili. In Italia l’evoluzione dell’istituto è stata possibile soprattutto grazie alla giurisprudenza, di merito e legittima, che di fatto ha aperto a prospettive di tutela delle convivenze omosessuali ancor prima che entrasse in vigore la legge 76. In particolare però, la tecnica con la quale i Giudici hanno sempre affrontato la delicata materia, è stata quella di operare un rinvio al legislatore: è a quest’ultimo infatti, e non al Giudice, a cui compete modificare l’Ordinamento giuridico italiano per adattarlo ai continui mutamenti sociali.8 La stessa Corte costituzionale, il cui intervento sul punto è stato sollecitato da alcuni Tribunali territoriali9, con una sentenza che costituisce una pietra miliare sul punto, la n. 138 del 15 aprile 2010, dopo aver chiarito al p.to 8 del considerato in diritto che: «L’art. 2 della Costituzione dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», e che: «per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico.», statuisce che: «In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri». Anche per i Giudici della Consulta tuttavia: «[…] spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, restando riservata alla Corte costituzionale la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni […]».10 La Cassazione, richiamando tra l’altro anche la sentenza 138 della Corte costituzionale, è giunta a conclusioni simili con la sentenza del 15 marzo 2012, n. 4184, nella quale pur ritenendo inammissibile il matrimonio omosessuale poiché non riconosciuto dalla nostra Costituzione, tuttavia: « a prescindere dall’intervento del legislatore in materia, quali titolari del diritto alla “vita familiare” e nell’esercizio del diritto inviolabile di vivere liberamente una condizione di coppia e del diritto alla tutela giurisdizionale di specifiche situazioni, [ le coppie omosessuali ] possono adire i giudici comuni per far valere, in presenza appunto di “specifiche situazioni”, il diritto ad un trattamento omogeneo a quello assicurato dalla legge alla coppia coniugata e, in tale sede, eventualmente sollevare le conferenti eccezioni di illegittimità costituzionale delle disposizioni delle leggi vigenti […] ». In questo modo, come giustamente fu valutato dalla dottrina, è stato dato avvio alla formazione di una giurisprudenza che, per quanto non necessariamente uniforme, avrebbe comportato un progressivo aumento di livello di tutela giuridica delle coppie omosessuali, sopperendo in modo sempre più efficacie all'inerzia del legislatore.11 2. La disciplina legislativa: la legge 20 maggio 2016, n. 76, art. 1 co. 1 - 35 L’auspicato intervento legislativo entrato in vigore il 5 giugno 2016 è stato redatto seguendo una tecnica normativa in voga nei sistemi di common law, cioè quella di un unico articolo composto da una pluralità di commi, nel caso di specie 69.12 Il co. 1 definisce l’unione civile tra persone dello stesso sesso come «specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione», annoverandola in tal modo fra quelle tutelate dalla Repubblica perché in essa vi si svolge la personalità degli individui che la compongono. 2.1. Costituzione Possono costituire un’unione civile due persone maggiorenni dello stesso sesso, mediante dichiarazione dinnanzi ad un ufficiale di stato civile ed alla presenza di (almeno) due testimoni. Questo è quanto disposto dal co. 2 della l. 76, che però va integrato con le disposizioni dettate dal d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 5, recante “Norme di adeguamento delle disposizioni dell’ordinamento dello stato civile in materia di iscrizioni, trascrizioni e annotazioni alla nuova disciplina delle unioni civili”. Detto decreto legislativo ha introdotto gli articoli dal 70 bis al 70 quinquesdecies del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396. La costituzione dell’unione civile avviene mediante l’iscrizione del relativo atto, sottoscritto dalle parti, dai testimoni e dall’ufficiale di stato civile, nel registro delle unioni civili.13 Evidentemente fra le due principali scelte normative cui si è accennato nel paragrafo introduttivo14, il legislatore italiano ha preferito optare per la regolamentazione delle unioni civili, senza perciò impiantare all’interno del nostro Ordinamento giuridico le c.d. “nozze gay”. Ciò è confermato in primis dal mancato richiamo nel comma 1 all’articolo 29 della Costituzione, e in secundis dai commi successivi che dettano le regole per la costituzione e la registrazione delle unioni civili. Con il matrimonio tuttavia, le unioni civili condividono diverse norme, prime fra tutte quelle che dettano le cause impeditive (co.4), quali: a) la sussistenza, per una delle parti, di un vincolo matrimoniale o di un’unione civile; b) l’interdizione per infermità di mente di una delle parti; c) l’esistenza, fra le parti, dei rapporti di parentela o di affinità di cui all’articolo 87 co. 1 del Codice civile15; d) la condanna definitiva di una delle parti per omicidio consumato o tentato nei confronti di chi sia coniugato o unito civilmente con l’altra parte. La sussistenza di anche una sola di queste cause comporta automaticamente la nullità dell’unione civile (co.5), che può essere impugnata da ciascuna delle parti, dai loro ascendenti prossimi, dal P.M. e da chiunque ne abbia interesse legittimo e attuale (co.6). Come il matrimonio, l’unione può altresì essere impugnata non solo quando il consenso sia stato estorto con violenza o timore ingenerato da terzi16, ma anche quando tale consenso sia effetto di errore essenziale su qualità personali dell’altro partner (co.7). Per errore essenziale deve intendersi un fatto decisivo ai fini del consenso, riguardante l’esistenza di una malattia fisica o psichica tale da impedire lo svolgimento della vita comune, ovvero taluna delle circostanze di cui all’articolo 122 comma 3, nn. 2, 3 e 4 del Codice civile, cui lo stesso comma 7 della legge 76 fa rinvio. Manca tuttavia il richiamo al n. 1 del comma 3 dell’articolo 122 del Codice civile, nel quale viene indicato come errore essenziale anche quello che riguardi: «l’esistenza […] di un’anomalia o deviazione sessuale tali da impedire lo svolgimento della vita coniugale». Un’omissione che sembra reggersi su un inaccettabile pregiudizio, ovvero sull’idea che l’orientamento sessuale possa qualificarsi come un’anomalia o una deviazione sessuale con la conseguenza che, potenzialmente, tutte le unioni omosessuali sarebbero impugnabili per errore.17 E’ bene rammentare in ogni caso che, ove la coppia abbia coabitato per un anno dalla cessazione della violenza, o delle cause che hanno determinato il timore, ovvero dalla scoperta dell’errore essenziale, l’azione non può essere più proposta. 2.2 Rapporti personali Per quel che concerne i rapporti personali tra gli uniti civilmente, il comma 11 ricalca quasi fedelmente il disposto di cui all’articolo 143 del Codice civile, recante “Diritti e doveri reciproci dei coniugi”. Se da un lato infatti con l’unione civile sorgono obblighi reciproci all’assistenza morale e materiale, alla coabitazione nonché alla contribuzione ai bisogni comuni in relazione alle proprie sostanze, dall’altro lato manca del tutto il riferimento all’obbligo di fedeltà da un lato, e di collaborazione nell’interesse della famiglia dall’altro. L’assenza di un così importante obbligo coniugale quale quello della fedeltà, nell’ambito di un nuovo istituto che è stato modellato proprio sulla base del matrimonio, qual è appunto l’unione civile, verrebbe giustificato in dottrina ed in giurisprudenza, poiché riconducibile al più ampio vincolo di reciproca assistenza morale e, in generale, dal complesso dei doveri personali nascenti con l’unione.18 E’ stato anche sostenuto in dottrina che strettamente collegata al dovere di fedeltà è la presunzione di paternità.19 Sulla base di tale assunto, se dunque la fedeltà è prescritta al fine di evitare la c.d. turbatio sanguinis, risulta superfluo imporla ad una coppia omosessuale, incapace per natura alla procreazione. Ciò per cui invece non si comprendono le ragioni, è l’assenza dell’obbligo alla collaborazione nell’interesse della famiglia anche per gli uniti civilmente. Se infatti per “famiglia” deve intendersi “qualunque formazione sociale ove si svolga la personalità degli individui che la compongono”, si può forse negare che gli uniti civilmente creino “famiglie” separate e distinte rispetto a quelle di origine? Ad ogni modo, nonostante l’assenza di detti obblighi tipicamente coniugali, non è esclusa una forma di tutela in termini di risarcimento del danno derivante dalla loro violazione.20
2.3. Rapporti patrimoniali
Per quanto riguarda i rapporti patrimoniali fra gli uniti civilmente, la disciplina dettata dal comma 13, dopo aver imposto il regime patrimoniale legale (ossia quello della comunione), effettua un mero rinvio alla disciplina codicistica. Così, anche per gli uniti civilmente si applicano le norme in materia di convenzioni matrimoniali21; le norme in materia di comunione legale, comunione convenzionale e separazione dei beni; le norme in materia di fondo patrimoniale, con il quale gli uniti civilmente possono destinare determinati beni, con tutti i limiti e le regole di cui agli articoli 167 e ss. del Codice civile, a far fronte ai bisogni dell’unione; nonché le norme in materia di impresa familiare. Dispone inoltre lo stesso comma 13, che: «[…] Le parti non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto dell’unione civile […]», in perfetta coerenza con quanto disposto dall’articolo 160 del Codice civile per gli sposi. Seguono una serie di diposizioni sconnesse fra di loro, sintomo di una redazione disomogenea e frettolosa, che regolano diversi aspetti della materia sempre con la tecnica del rinvio, la quale consente di affermare che la stragrande maggioranza della disciplina sulle unioni civili è ricalcata sulla disciplina del matrimonio. Si passa così dall’applicabilità alle unioni civile degli ordini di protezione di cui all’articolo 342 ter del Codice civile, al rilievo della violenza come causa di annullabilità dell’unione, ai sensi e per gli effetti dell’articolo 1436 del Codice civile22; dal diritto alla corresponsione delle indennità previste dagli articoli 2118 e 2120 del Codice civile in favore dell’unito superstite, alle disposizioni in materia di alimenti (articoli 433 e ss. del Codice civile). In materia di amministrazione di sostegno che abbia quale beneficiario una parte di un’unione civile, il comma 15 prevede espressamente che il giudice tutelare, nella scelta dell’amministratore, debba preferire, ove possibile, l’altra parte. Si applicano inoltre, ai sensi del comma 19, gli articoli 116 co.1, 146, 2647, 2653 co.1 n.4 e 2659 del Codice civile.
2.4. Rapporti successori
Dal punto di vista successorio, la disciplina di cui al comma 21 rinvia alle norme del Codice civile per quel che concerne: l’indegnità (articoli da 463 a 466 del Codice civile), la tutela dei legittimari (articoli da 536 a 564 del Codice civile), la disciplina sulle successioni legittime (articoli da 565 a 586 del Codice civile), la collazione (articoli da 737 a 751 del Codice civile) e il patto di famiglia (articoli da 768 bis a 768 octies del Codice civile). Ai sensi del co. 25, restano altresì fermi i diritti dell’ex unito civilmente superstite, previsti dagli articoli 9 co.2 e 9 bis della l. 1° dicembre 1970, n.898, relativi all’assegno divorzile e alla pensione di reversibilità, ove ne ricorrano i presupposti. E’ importante notare che tali rinvii sono operati esclusivamente per le coppie unite civilmente, non anche per i conviventi, per i quali poco è cambiato dopo l’entrata in vigore della legger 76. Il comma 20 viene definito “clausola di salvaguardia”, nella misura in cui prescrive l’automatica applicabilità delle disposizioni di legge23 che si riferiscano al matrimonio o che contengano le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, al fine di garantire l’effettiva tutela dei diritti e il pieno adempimento degli obblighi che sorgono dall’unione civile.24 Disposizione, questa, che tuttavia non si applica alla legge 4 maggio 1983, n. 184 recante la disciplina sulle adozioni, per le quali pertanto «resta fermo quanto previsto e consentito dalle norme vigenti».
2.5. La stepchild adoption
Originariamente il disegno di legge S. 14 – 17° Legislatura sulle unioni civili prevedeva la possibilità per un partner di adottare il figlio minore dell’altro partner. Per ragioni di carattere etico, ma soprattutto politico, tale norma è stata tolta per consentire la approvazione della legge. Come accennato, l’adozione è consentita solo ed esclusivamente con le forme ed entro i limiti stabiliti dalle norme vigenti. De iure condendo è stata prospettata in dottrina la necessità di una riforma della legge 184, in considerazione soprattutto del fatto che negli ultimi anni s’è assistito ad una notevole evoluzione giurisprudenziale nel senso di reputare ininfluente l’orientamento sessuale in relazione al rapporto genitoriale.25 Più semplicemente è intervenuta la Corte di cassazione con Sentenza n. 12962 pubblicata il 22 giugno 2016, con la quale ha consentito ad una coppia omosessuale unita civilmente di ricorrere alla c.d. stepchild adoption ai sensi dell’articolo 44 lett. b) della l. n. 184 del 4 maggio 1983. Nello specifico i Giudici della suprema Corte hanno stabilito che: «[…] non determina in astratto un conflitto di interessi tra il genitore biologico e il minore adottando, ma richiede che l'eventuale conflitto sia accertato in concreto dal giudice […]». Secondo la Cassazione, inoltre, questa adozione «[…] prescinde da un preesistente stato di abbandono del minore e può essere ammessa sempreché, alla luce di una rigorosa indagine di fatto svolta dal giudice, realizzi effettivamente il preminente interesse del minore […]». Si tratta di una forzatura (o – se si preferisce – di un’evoluzione) del testo di legge, che in effetti nel fare riferimento alle leggi vigenti non richiama l’orientamento giurisprudenziale sopra ricordato, ma che in effetti può giustificarsi, secondo alcune recenti sentenze26, quando sussista il c.d. best interest, ovverossia “l’interesse migliore” del minore a vedersi riconosciuta una relazione già consolidatasi in fatto con il “genitore sociale”.27 Sostanzialmente dunque, ciò che emerge in maniera lampante all’esito della recente evoluzione giurisprudenziale è che viene spostata l’attenzione dal diritto alla genitorialità (della coppia) all’interesse alla genitorialità (del minore).28