2 - Principio Di Legalità @
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LA LEGGE PENALE
IL DIVIETO DI ANALOGIA
L’analogia è quel procedimento interpretativo che, in mancanza di una espressa statuizione legislativa,
deduce la disciplina di un caso non regolato dalla regola dettata per un caso simile (analogia legis) o dai
principi generali dell’ordinamento giuridico (analogia juris). L’analogia costituisce dunque un mezzo di
integrazione dell’ordinamento giuridico, inteso ad assicurarne la completezza e destinato a colmare eventuali
lacune del diritto positivo.
Questo particolare procedimento di produzione normativa non è ammesso nel diritto penale che, in tal
modo, salvaguarda il suo carattere di “frammentarietà”.
Il divieto dell’interpretazione analogica è previsto nell’art. 14 delle Disposizioni sulla legge in
generale, che stabilisce: “Le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si
applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”. Né può esservi dubbio che, attraverso la formula dell’art.
25 co. 2 Cost., il profilo costituzionale del principio di legalità includa anche il divieto di analogia.
È invece pacificamente ammessa l'interpretazione estensiva. Ed invero, se la si intende come
creazione, o posizione, di una nuova norma, essa deve ritenersi egualmente non ammissibile nel diritto penale,
poiché, in realtà, fra interpretazione estensiva ed analogia non può essere affermata alcuna distinzione
qualitativa. Si tratta, infatti, pur sempre di estendere ad un caso non previsto la disciplina prevista per altri
casi e, dunque, si è di fronte ad un procedimento di applicazione analogica.
Tutt’altro discorso, naturalmente, è quello di una interpretazione che si estenda fino al limite delle
ipotesi interpretative consentite dal tenore letterale della norma e rimanga, perciò,
nell’ambito di una ricognizione del suo significato. Ad esempio, l’art. 625 c.p. prevede come ipotesi
aggravata di furto quella del fatto commesso sul bagaglio dei viaggiatori in ogni specie di veicoli, nelle stazioni,
negli scali o banchine. Ebbene appartiene all’ambito dell’interpretazione chiedersi se la qualifica di viaggiatori
competa anche ai componenti del personale di un autoveicolo in servizio di trasposto viaggiatori;
concreterebbe viceversa un procedimento analogico l’estensione dell’aggravante anche agli appartenenti al
personale in servizio presso le stazioni a cui in nessun modo può attribuirsi la qualità di viaggiatori.
Il divieto di analogia in materia penale ha come caratteristico destinatario il giudice; ma giustamente si
ritiene che da esso debba farsi derivare la illegittimità costituzionale di quelle disposizioni in cui il legislatore
si sia servito di enunciazioni di tipo casistico, accompagnandovi clausole “di chiusura” del tipo: “in casi simili”,
“in casi analoghi”, etc., quando dalla norma non sia desumibile il criterio di similitudine, alla cui stregua si
dovrebbero individuare i casi non espressamente menzionati.
Una questione di grande portata concerne, peraltro, la definizione dell’ambito corrispondente alla
nozione di “leggi penali” nell’art. 14 disp. prel. c.c.
È pacifico che il divieto di applicazione analogica concerna non solo le norme penali “incriminatrici”, quelle
cioè che prevedono la figura base del reato, ma anche quelle disposizioni che concorrono, in via generale, a
definire i presupposti della punibilità. Si discute, invece, se il divieto debba altresì ritenersi operante anche per
quanto concerne la c.d. analogia in bonam partem: vale a dire in relazione alle norme che prevedono
cause di non punibilità del fatto previsto come reato, o ipotesi di attenuazione della pena.
L’orientamento largamente prevalente in dottrina è nel senso dell’ammissibilià dell’analogia in bonam
partem in quanto le norme che tolgono “illiceità” al fatto penalmente sanzionato non sono norme penali, bensì
autonome norme non penale, aventi effetto sull’intero ordinamento giuridico; ne segue la loro possibile
estensione analogica, inibita alle sole norme penali in senso stretto, per le peculiari esigenze garantistiche che
ne presidiano l’applicazione.
Ciò non di meno si pongono limiti per l’ammissibilità della c.d. analogia in bonam partem. La norma di
favore sarà infatti suscettibile di estensione analogica se e in quanto sia espressione di un principio generale
dell’ordinamento o di una norma giuridica, ovunque localizzata nell’ordinamento, che si ponga anche in
contrasto con un comando o divieto penale, paralizzandone l’efficacia.
Non a caso, il divieto di analogia si ripropone immediatamente quando si tratti non di una norma
appartenente all’ordinamento giuridico generale, ma che sia espressione, invece, di uno specifico limite
interno allo stesso diritto penale. Si pensi alle cause di estinzione del reato o alle cause di esclusione della
punibilità.
Quanto alle circostanze attenuanti non vi è dubbio che, essendo le norme che le prevedono di esclusiva e
caratteristica pertinenza dell’ordinamento penale, si debba escludere la loro estensione analogica
Va, infine, precisato che il divieto di analogia non riguarda le norme del diritto processuale penale.
Ai fini della determinazione dei limiti di applicabilità della legge penale nello spazio, si fa riferimento, altre
al principio di territorialità, al principio di difesa, diretto a rendere applicabile la legge dello Stato a cui
appartengono i beni aggrediti o il soggetto passivo del reato, il principio di universalità, diretto ad applicare la
legge nazionale a qualsiasi delitto, dovunque e da chiunque commesso e il principio di personalità, alla stregua
del quale si applicherebbe sempre la legge dello Stato di appartenenza del reo.
L’art. 3 c.p. stabilisce: “La legge italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel
territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale. La
legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano all’estero, ma
limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale”.
Questa disposizione sembra dunque designare come criterio fondante per la determinazione dei limiti di
obbligatorietà della legge penale, il principio di territorialità, pur prevedendo la possibilità di deroghe più o
meno ampie. In particolare, l’art. 3 co. 1 c.p. definisce l’ambito di validità spaziale della legge penale,
identificandolo nel “territorio dello Stato”, alludendo però all’ammissibilità di “eccezioni”, che sostanzialmente
corrispondo alle ipotesi di immunità personali. L’art. 3 co. 2 c.p., dal suo canto, sembra dare un certo spazio al
c.d. principio di “universalità” della legge penale nazionale, poiché ne estende l’ambito di validità, oltre i
confini del territorio nazionale, limitatamente, ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto
internazionale”.
L’art. 4 co. 1 c.p. fornisce la nozione di cittadino italiano, ai fini della obbligatorietà della legge penale,
ricomprendendovi “gli appartenenti per origine o per elezione ai luoghi soggetti alla sovranità dello Stato e
gli apolidi residenti nel territorio dello Stato”. Quanto alla nozione di “territorio dello Stato”, ai sensi dell’art.
4, comma 2°, agli effetti penali è tale “il territorio della Repubblica e ogni altro luogo soggetto alla sovranità
dello Stato”
L’art. 6 c.p., dopo aver stabilito, al co. 1, che è punito secondo la legge italiana chiunque commette un
reato nel territorio dello Stato, precisa, al co. 2: “Il reato si considera commesso nel territorio dello Stato,
quando l’azione o l’omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto o in parte, ovvero si è ivi verificato
l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione”.
L’art. 3 c.p. nello stabilire l’obbligatorietà della legge penale per tutti coloro che, cittadini o stranieri, si
trovino nel territorio dello Stato, fa espressamente salve “le eccezioni stabilite dal diritto interno o dal diritto
internazionale” definite immunità penale.
Le immunità penali derivanti dal diritto pubblico interno concernono: il Presidente della Repubblica; il
Presidente del Senato; i membri del Parlamento e quelli dei Consigli regionali, i giudici della Corte
costituzionale; i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura.
Il Presidente della Repubblica, a norma dell’art. 90 Cost., non è responsabile penalmente degli atti
compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o attentato alla Costituzione. È
controverso in dottrina se per la definizione di alto tradimento e attentato alla Costituzione si debba fare
senz’altro riferimento alle corrispondenti fattispecie dei c.p.m. (art. 77 c.p.m.p., artt. 48-58 c.p.m.g.) e dell’art.
283 c.p. o se occorra, invece, una legge penale di attuazione che delinei apposite fattispecie criminose.
Il Presidente del Senato, che esercita, in via di supplenza, nei casi di assenza o impedimento, la funzione
del Presidente della Repubblica, gode, per il periodo di supplenza, della stessa immunità.
I membri del Parlamento, a norma dell’art. 68 co. 1 Cost., non possono essere perseguiti per le opinioni
espresse e per i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Sussistono, tuttavia, alcune divergenze circa la
portata del concetto di “esercizio delle funzioni”: ci si chiede, ad esempio, se vi rientrino discorsi
pubblicamente fatti dal parlamentare al di fuori della Camera di appartenenza. Sulla questione si è a più
riprese pronunziata la Corte costituzionale che ha circoscritto la portata della prerogativa prevista dall’art. 68
co. 1 Cost., ritenendo applicabile l’immunità oltre che agli atti tipici del mandato parlamentare alle sole forme
di manifestazione del pensiero che presentino un nesso funzionale con l’attività parlamentare, nel senso che
nell’opinione espressa sia possibile riscontrare una “corrispondenza sostanziale di contenuti con l’atto
parlamentare, non essendo sufficiente tal riguardo la mera comunanza di tematiche” (sent. 11/2000); si pensi,
ad esempio, ad una conferenza stampa nel corso della quale si illustrino i contenuti di determinate iniziative
parlamentari.
Di una analoga immunità godono i consiglieri regionali (art. 122 co. 4 Cost.), i giudici della Corte
costituzionale (art. 3 l.cost. 1/1948) e i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura.
Quanto alle immunità che derivano dal diritto internazionale – fondate, cioè, su una consuetudine
internazionale riconosciuta dal diritto interno, ovvero su convenzioni internazionali – vanno ricordate:
a) l’immunità riconosciuta dal Trattato del Laterano al Sommo Pontefice, la cui persona è definita “sacra e
inviolabile”; trattasi di immunità assoluta che concerne il Pontefice non solo nella sua veste di Capo dello Stato
estero, ma anche nella sua posizione di Capo della cristianità;
b) l’immunità totale, derivante dal diritto internazionale generale, di cui godono altresì i Capi di Stati esteri
e i Reggenti, che si trovino in tempo di pace nel territorio italiano; l’immunità si estende ai familiari che li
accompagnano e al seguito;
c) l’immunità accordata agli organi di Stati esteri per i fatti commessi nell’esercizio delle funzioni (Conv.
Vienna 1961 e 1963);
d) l’immunità assoluta, comprendente l’esenzione da qualsiasi forma di arresto e detenzione, accordata agli
agenti diplomatici accreditati presso il nostro Stato (Conv. Vienna 1961), di cui beneficiano anche i familiari
con essi conviventi; forme di immunità funzionale sono riconosciute anche al personale amministrativo e
tecnico delle missioni e loro famiglie conviventi; il Trattato del Laterano attribuisce agli agenti diplomatici e
agli inviati dei Governi presso la Santa sede le stesse prerogative e immunità riconosciute agli agenti
diplomatici presso lo stato italiano;
e) l’immunità spettante ai consoli e agli agenti diplomatici, quando essa è stabilita dalle relative
convenzioni; da atti internazionali deriva anche l’immunità funzionale riconosciuta ai membri delle istituzioni
specializzate dell’ONU e ai rappresentanti delle Nazioni Unite;
f) l’immunità accordata ai giudici della Corte dell’Aja dall’art. 19 dello Statuto della Corte e quella, più
circoscritta, riconosciuta a favore dei giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo;
g) le immunità, analoghe a quelle riconosciute nei paesi di appartenenza, spettanti ai membri del
Parlamento europeo (Prot. Bruxelles 1965);
h) l’immunità di cui godono gli appartenenti a corpi e reparti di truppe straniere, che si trovano nel
territorio dello Stato, previa autorizzazione; nonché i membri e le persone al seguito delle forze armate della
NATO di stanza nel territorio italiano.
Sarà il caso di precisare che le prerogative e immunità sopraelencate non escludono che le persone a cui
favore esse sono riconosciute possano rispondere penalmente dei loro atti e comportamenti di fronte alle leggi
dello Stato di provenienza.