Alessandro Amaducci Videoarte

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orizzonti

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici


dell’Università degli Studi di Torino.

© edizioni kaplan 2014


Via Saluzzo, 42 bis – 10125 Torino
Tel. e fax 011-7495609
info@edizionikaplan.com
www.edizionikaplan.com

ISBN 978-88-89908-99-0

Immagine di copertina:
frame dal video Black Data (2012) di Alessandro Amaducci
Alessandro Amaducci

Videoarte
Stor ia , autor i, l i ng u a g g i

k a p l a n
Note sulla reperibilità dei video e film citati

Per comprendere appieno questo testo è necessario visionare i video e i film ci-
tati. Per quanto le descrizioni testuali delle opere possano sostenere e chiarire
le analisi effettuate in questo libro, la visione diretta delle opere arricchisce e
completa la lettura del testo. La reperibilità in dvd delle opere citate è indicata
nelle note. Trattandosi di materiali in cui l’elaborazione delle immagini è una
componente importante, si consiglia di vederli nella migliore qualità possibi-
le, quella del dvd, appunto.
Per quanto riguarda invece la possibilità di visionare questi materiali sul web,
molti degli artisti citati, soprattutto quelli attivi negli ultimi dieci anni, hanno
dei siti o delle pagine YouTube o Vimeo dove i loro materiali sono liberamente
visionabili. Nelle note queste fonti sono citate solo nel caso in cui, soprattutto
per quello che riguarda YouTube e Vimeo, si tratta di pagine ufficiali.
Una fonte utile, soprattutto per le opere del cinema sperimentale, è l’ar-
chivio audiovisivo online fondato dal poeta e artista concettuale Kenneth
Goldsmith: http://ubu.com/
Sui portali video YouTube, Vimeo e Daily Motion la quasi totalità delle opere
di videoarte e di cinema sperimentale citate in questo libro sono visionabili in
pagine non ufficiali di appassionati per cui, per non incorrere in problemi di
violazione di copyright, non sono segnalate nelle note.
Indice

Introduzione 7

Capitolo 1 17
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

Capitolo 2 61
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

Capitolo 3 145
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

Riferimenti bibliografici 195

Indice dei nomi citati 205


Introduzione

Questo libro vuole essere un manuale dedicato a un fenomeno molto com-


plesso definito videoarte, e intende cercare di sistematizzare la storia di una
forma di espressione artistica multiforme che abbraccia negli anni diversi me-
dia, differenti modalità di presentazione delle opere e una varietà di approcci
estetici e stilistici a volte diametralmente opposti.
Sintetizzare significa anche escludere, e il fine di questo libro non è certa-
mente quello di stilare un’enciclopedia, ma di organizzare una conoscenza di
base, a partire da una serie di considerazioni sul termine stesso “videoarte”,
che aiuterà a comprendere la linea prospettica e il punto di vista che guide-
ranno il percorso tracciato, includendo una serie di esperienze, mentre altre
verranno solo accennate o decisamente taciute.
Cerchiamo di dare una definizione del campo trattato: che cos’è la video-
arte? Cominciamo con l’evidenziare una questione tecnologica, a prima vista
banale ma decisamente basilare, insita nel termine stesso che include, appunto,
l’elemento “video”. Per video qui si intende quel vasto panorama tecnologico di
esperienze che usano l’elettronica e il digitale; dall’era delle cosiddette tecnologie
analogiche, per passare al digitale fino a includere l’alta definizione digitale. Ma
il territorio del digitale si estende non solo alla gestione di immagini e suoni in
movimento derivati da riprese effettuate con telecamere o con altri stratagemmi
tecnologici, ma anche in primo luogo a tutto l’audiovisivo che viene costruito
dalla macchina-computer, e quindi all’animazione digitale, definita anche com-
puter grafica.
Per questo motivo le produzioni e gli autori che prediligono il formato
della pellicola non verranno in questa sede considerati dei videoartisti, ma
degli autori di cinema d’artista, ovvero degli artisti che lavorano con un sup-
porto cinematografico. Il cinema d’artista si realizza in pellicola, la videoarte
si pratica col video, nell’accezione ampia definita prima. Questa prima siste-
matizzazione serve a rimarcare il fatto che la videoarte è una forma artistica
che ha l’ambizione di scandagliare le possibilità espressive delle nuove tecno-
logie, rappresenta un ambito curioso, che si rivolge al futuro, pur facendo i

7
Introduzione

conti con tutte le inevitabili contraddizioni che derivano dall’avere un passato


audiovisivo alle spalle, con il quale confrontarsi o scontrarsi, e che per sua
natura si attesta come un’avanguardia delle immagini e dell’immaginario.
Chi scrive è perfettamente consapevole che l’ambito artistico non conosce
regole, e che le ibridazioni, anche tecnologiche, sono all’ordine del giorno in
un ambiente per sua natura mutevole e a volte capriccioso. Esistono, a pieno
diritto, artisti che usano immagini riprese in pellicola e riversate successiva-
mente in video per poterle esporre, allestire o proiettare in ambiti artistici:
ma basta questo per definire quelle opere “videoarte”? Ovvero, basta che il
supporto finale sia un video inserito in un contesto di fruizione non cinema-
tografico? In generale no, mentre in alcuni casi particolari che vedremo sì, ma
a patto che il supporto filmico originario venga ricontestualizzato all’interno
del linguaggio elettronico o digitale.
E quindi la questione non è solo tecnologica, ma estetica: ci deve essere un
discorso coerente di sperimentazione per cui il supporto originale si trasforma
in qualcos’altro, in una ibridazione linguistica che abbia un senso rispetto alla
tecnologia video che viene scelta come supporto di creazione e di presentazio-
ne dell’opera. Così come, al contrario, può succedere che, pur lavorando con
supporti elettronici o digitali, un artista preferisca operare su un’estetica emi-
nentemente fotografica o cinematografica: anche questa, ovviamente, è una
scelta legittima, ma non fa parte dell’alveo della sperimentazione videoarti-
stica, bensì di una sperimentazione dell’estetica cinematografica o fotografica
realizzata con altri supporti.
Il concetto di fondo che il termine videoarte vuole comunicare è quello di
sperimentare il video e le nuove tecnologie, e se si rivolge ad altri supporti più
vecchi lo fa per trasformarli in un processo di metamorfosi in cui il passato e
il futuro convivono. La scelta della tecnologia che si usa deve essere coerente
con un progetto estetico e stilistico, derivato non da una comodità di utilizzo,
da un risparmio di mezzi o da una non ben definita “indifferenza” rispetto al
mezzo che viene utilizzato come strumento della propria pratica artistica. Gli
artisti sanno che la tecnica che adottano per esprimersi è una scelta intrinseca
alla realizzazione delle loro idee, fondamentale per la riuscita dell’opera e per
la “fuori uscita” del loro mondo interiore all’interno dello spazio di visione
dello spettatore. E quindi, se vengono definiti videoartisti, è inevitabile che
la tecnica usata sia quella video, e che l’estetica scandagliata sia quella elettro-
nica e/o digitale.

8
Introduzione

Fin qui per quello che riguarda il termine video: ma perché videoarte? In
che senso il video e l’arte possono collaborare? Se per arte intendiamo, nella
maniera più generica possibile, ogni attività umana che usando in modo spe-
cifico una particolare tecnica riesce a produrre forme creative di espressione
estetica, comunicando allo spettatore temi, emozioni o tracce narrative più
specifiche, allora la videoarte è una forma di espressione estetica che creati-
vamente utilizza la tecnologia video. Scandaglia le sue possibilità linguisti-
che per realizzare una visione che scaturisce dalla fusione fra l’immaginario
dell’artista e le potenzialità delle tecnologie usate, per ipotizzare immaginari a
venire che possono essere in continuità o in discontinuità rispetto al passato,
ma che non prescindono dal fatto che essi scaturiscono da una dimensione
elettronica o digitale, con tutte le conseguenze del caso.
Le estetiche e i linguaggi che la videoarte, coerentemente con le scelte
tecnologiche adottate, ha sviluppato dalle sue origini a oggi rappresentano gli
argomenti principali di questo libro.

Le modalità di fruizione della videoarte

La videoarte ha sviluppato negli anni una serie di modalità differenti di frui-


zione, che cercheremo di elencare, evidenziando anche quali di queste saran-
no trattate in maniera privilegiata rispetto ad altre.

La videoinstallazione

È una struttura dalla complessità variabile realizzata eminentemente con stru-


menti tecnologici atti a riprodurre immagini e suoni in movimento: videopro-
iezioni, televisori analogici, monitor piatti, schermi di computer eccetera. Il
termine deriva dal concetto di “installazione”, che appartiene alla lunga stagio-
ne dell’Arte Concettuale, per intendere un’opera d’arte che rifiuta radicalmente
le idee tradizionali di pittura e di scultura e che viene realizzata tramite una
combinazione di materiali che possono essere i più svariati. Per questo motivo
le videoinstallazioni possono essere anche strutture miste, ovvero assemblag-
gi di oggetti tecnologici e oggetti tradizionali: sculture, oggetti meccanici, o
qualsiasi elemento che il videoartista ritiene necessario per il completamento
dell’opera. Possono essere allestite in spazi interni o esterni: i luoghi privilegiati
di questa forma espressiva sono le gallerie d’arte, i musei, le fondazioni, ma

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Introduzione

anche qualsiasi luogo non strettamente legato al circuito artistico espositivo.


Inutile sottolineare che questa modalità espressiva intraprende con lo spazio
un rapporto privilegiato, e che le videoinstallazioni possono essere spesso site
specific, ovvero pensate appositamente per il luogo in cui verranno esposte; il
legame con l’ambiente può essere così vincolante per l’artista che spesso la stessa
videoinstallazione può cambiare la sua struttura, in maniera più o meno radi-
cale, a seconda dello spazio in cui viene esposta.
Le videoinstallazioni prevedono una modalità di fruizione che lascia media-
mente libero lo spettatore di creare un proprio percorso di visione. Gli spetta-
tori possono anche essere coinvolti in modo tale da diventare parte integrante
dell’opera: una prima modalità, tecnologicamente molto semplice, è quella di
usare delle telecamere che riprendono in tempo reale il pubblico. Più recente-
mente lo sviluppo delle tecnologie dedicate all’interattività ha arricchito radical-
mente le possibilità espressive delle videoinstallazioni rendendole delle strutture
che reagiscono in vario modo a determinati comportamenti dello spettatore, che
può essere indotto a compiere un’azione specifica (toccare una zona dell’instal-
lazione, schiacciare dei tasti eccetera) o che, semplicemente spostandosi nello
spazio, può attivare inconsapevolmente il funzionamento di una parte o di tut-
ta la videoinstallazione. In questi casi la presenza dello spettatore è veramente
necessaria affinché l’opera possa essere messa in atto, quindi in qualche modo
“esistere”.
Le videoinstallazioni non costituiscono l’oggetto privilegiato di analisi di
questo libro, a causa della mancanza, per quello che riguarda soprattutto il pri-
mo decennio della storia della videoarte, di documentazioni efficaci e coerenti
con la natura dell’opera. Gran parte della documentazione “storica” prodotta
in questo campo è costituita da cataloghi di mostre che sono cartacei, quindi
statici; una buona fotografia e una descrizione testuale di una videoinstallazio-
ne non restituiscono in maniera approfondita ciò che più importa: il rapporto
che le immagini e soprattutto i suoni in movimento instaurano con la struttura
dell’installazione, con lo spazio e con il pubblico. Le videoinstallazioni, per
essere studiate a fondo, vanno viste, vissute in prima persona, o consultate at-
traverso documentazioni in movimento (video quindi), e non solo fotografiche.
Fortunatamente, da un certo periodo in poi, molte videoinstallazioni sono state
documentate in video e rese disponibili sul web. Ma purtroppo manca un pez-
zo di storia importante.

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Introduzione

Il video monocanale, o single channel

Si tratta di opere che prevedono l’utilizzo di un solo punto di visione, adot-


tando quindi una modalità di fruizione più tradizionalmente ancorata a quel-
la cinematografica e/o televisiva, e ipotizzando la presenza di un pubblico
fatto da più persone o da un singolo spettatore. Il video monocanale nasce
quindi con un’intenzione estetica svincolata dal supporto finale di fruizione
(deve funzionare “di per sé” come flusso audiovisivo autonomo), e quindi si
rivolge a una modalità di distribuzione più immateriale rispetto al concetto di
allestimento: innanzitutto il medium televisivo, come un programma dedica-
to alla sperimentazione audiovisiva, una monografia di autori, un’antologia di
più autori; ma può anche essere un festival specializzato, una rassegna video o
qualsiasi altra esperienza di visione non legata al concetto di allestimento, ma
connessa a una fruizione che prevede un pubblico seduto in una sala buia con
una videoproiezione di una certa grandezza; infine, può essere un supporto
fisico (dvd) distribuito in vario modo o un link sul web.
Parallelamente i video monocanali possono essere “esibiti” in vario modo
come videoinstallazioni a schermo singolo, per i più svariati scopi: arricchire
con degli elementi in più una mostra di videoinstallazioni, magari la perso-
nale di un artista in modo tale che sia più completa, o accompagnare una
collettiva. In questo caso si può optare tra varie possibilità: un monitor in
una stanza con delle cuffie, un monitor piatto attaccato a parete, una singola
videoproiezione integrata insieme alle altre opere. Insomma, anche in questo
caso si vuole rendere il pubblico libero di scegliere cosa e quanto vedere, esat-
tamente come succede con una videoinstallazione. A volte il videoartista opta
per questa modalità di fruizione, altre invece è il curatore a determinare il
fatto che un video monocanale, originariamente pensato per una visione “da
sala”, venga allestito come una videoinstallazione monocanale.
Al di là della sua variabilità di ricezione, che spesso non dipende dall’auto-
re, il video monocanale prevede un pubblico attento e quindi coinvolto nella
visione e nell’ascolto dell’opera: in questo caso il videoartista non può contare
sul coefficiente di spettacolarità che nelle videoinstallazioni può anche essere
molto elevato, e quindi si concentra sulla ricerca del linguaggio, dell’estetica,
dello sviluppo dei temi o della narrazione, se adottata, che diventano il punto
focale di tutta l’opera. Che sia un pubblico più o meno numeroso o un sin-
golo spettatore, il video monocanale prevede che l’opera venga vista nella sua

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Introduzione

interezza e senza distrazioni. Per questo motivo il video monocanale, data la


complessità dei linguaggi messi in campo, sviluppa una serie di variabilità di
durate che raramente superano i 30’-40’. Esistono esperimenti di durate cine-
matografiche standard (90’ e oltre) ma si tratta di eccezioni o di isolate scelte
estetiche che sperimentano sistematicamente la lunga durata.
Il video monocanale è l’oggetto privilegiato di analisi di questo libro, per
due motivi: il primo è che in esso le intenzioni estetiche e stilistiche dei videoar-
tisti sono più scoperte, e la ricerca sul linguaggio più pregnante; il secondo è che
i video monocanali sono più facilmente reperibili e visionabili, quindi costitu-
iscono un oggetto di studio che può essere approfondito e soprattutto, laddove
sia possibile, condiviso con il lettore al quale si segnalerà di volta in volta dove
può essere visionata l’opera in questione. È anche importante sottolineare che,
nella inevitabilmente sintetica storia tecnologica che sarà tracciata percorrendo
le varie fasi dello sviluppo della videoarte, verrà evidenziato il fatto che alcune
tecnologie, come la computer grafica, sono sperimentate prevalentemente attra-
verso il video monocanale.
Al contrario, opere monocanali pensate appositamente per essere inserite
in un contesto espositivo sono ovviamente realizzate per un pubblico che
“passa e guarda”, libero di soffermarsi o meno davanti a esse, e quindi possono
essere esteticamente, soprattutto per quello che riguarda la loro durata, svin-
colate dal discorso fatto prima. Il concetto di loop, ovvero di un flusso di im-
magini di varia durata che una volta terminato ricomincia automaticamente
dall’inizio in continuità, è tipico della videoinstallazione a schermo singolo.
Come vedremo, il linguaggio della videoarte che si esprime attraverso il
video monocanale intride un vasto panorama audiovisivo, ma è un genere
particolare a essere massicciamente influenzato da questa forma espressiva: il
video musicale, o music video. La questione dell’interattività che riguarda il
settore delle videoinstallazioni coinvolge, soprattutto in questi ultimi anni,
anche il video monocanale ma finora è il settore videomusicale ad adottare
più sistematicamente questa particolare modalità di fruizione.
Il video monocanale negli anni sviluppa anche dei particolari generi che at-
traversano la storia della videoarte e che hanno una vita parallela: uno di questi
è la “videodocumentazione”, riferita a eventi performativi di Body Art per lo
più eseguiti in gallerie d’arte o in luoghi non teatrali, dove l’artista si mette in
scena, e consegna alla ripresa dell’evento la memoria di quello che accade. Que-
sto genere si sviluppa negli anni svincolandosi dall’idea della documentazione

12
Introduzione

per diventare autonomo: la videoperformance infatti è una performance ese-


guita dall’artista (o da più artisti) ideata e realizzata esclusivamente per il video.
In entrambi questi generi la ricerca estetica sull’immagine viene quasi sempre
messa in secondo piano rispetto alla centralità della performance e del ruolo
della presenza dell’artista, per cui si tratta di esperienze più legate allo sviluppo
tecnologico della storia della Body Art che della videoarte.
Un altro genere, anche questo di natura performativa, che si contamina
più volentieri con la ricerca sull’immagine tipica dei videoartisti è la video-
danza. L’appartenenza di questo genere all’ambito della videoarte è testimo-
niata anche dal fatto che molti videoartisti producono opere di videodanza,
considerata la centralità del tema del corpo, di cui ovviamente si parlerà più
avanti. La videodanza rappresenta una delle manifestazioni della sperimen-
tazione videoartistica che, come il videoclip musicale, riesce ad attrarre un
pubblico anche non specializzato e che è in grado di occupare i palinsesti
televisivi, diventando col tempo in alcuni paesi un genere piuttosto popolare
e non rivolto esclusivamente a un pubblico di addetti ai lavori. La presenza
di numerosi festival tematici sulla videodanza testimonia il fatto che questo è
un ambito in continuo fermento, che si è creato un pubblico autonomo anche
rispetto a quello della videoarte in senso stretto.

Videoscenografie per eventi musicali, spettacoli teatrali, spettacoli di danza.


Live video

Un’altra modalità di fruizione nella quale si annida molta ricerca videoarti-


stica è l’utilizzo di immagini in movimento in contesti performativi eseguiti
dal vivo: concerti musicali, spettacoli teatrali o di danza. Spesso si tratta di
scenografie video, ovvero di immagini variamente usate che fungono da sfon-
do all’evento live, e che spesso sono integrate anche con elementi scenografici
fisici. In alcune situazioni, soprattutto musicali, la presenza del musicista può
essere anche quasi annullata da quella delle immagini, trasformando così il
concerto in una sorta di spettacolo audiovisivo dal vivo. Grazie all’avvento
dell’interattività alcuni settori, soprattutto la danza, sperimentano in manie-
ra intensiva le possibilità di collaborazione creativa fra immagini e movimen-
to dei corpi.
La possibilità di gestire le immagini dal vivo, oltre che di usarle in contesti
performativi, genera un’altra modalità di fruizione che si concentra esclusiva-

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mente sul concetto di live, nel senso che trasforma il videoartista in un per-
former di immagini e in alcuni casi anche di suoni. Il vjing è una pratica che
deriva dal termine djing e consiste nell’accompagnare con un flusso di imma-
gini gestito dal vivo la performance musicale di un dj: in questo caso il per-
former video viene definito vj. Il live video rappresenta invece tutta quell’area
espressiva in cui le immagini vengono gestite dal vivo, con il performer video
presente, che si svincola dalle esigenze della dancefloor per produrre spetta-
coli audiovisivi autonomi, eseguiti in luoghi chiusi o aperti, e realizzati con
apparati tecnologici complessi e con punti di visione anche molto numerosi.
Il live video, volendo, è una sorta di trasformazione del concetto di videoin-
stallazione in una performance audiovisiva gestita dal vivo.

Mapping

Con mapping si definisce una vasta area di esperienze che si sta espandendo
molto velocemente nella quale le immagini sono proiettate direttamente su
superfici architettoniche (sia all’esterno sia all’interno) o su oggetti. Il termine
deriva da una nozione tecnica che riguarda la computer grafica, ma in sintesi
sta a significare che le immagini avvolgono l’oggetto sul quale vengono pro-
iettate in modo tale da sembrare una sorta di “seconda pelle”, una guaina fatta
di forme in movimento che aderisce alla superficie di riferimento. Il mapping
può determinare situazioni molto spettacolari, usando come superfici facciate
o interni di castelli, teatri, musei appena restaurati o strutture in disuso; ma
può anche rivolgersi a situazioni più intime, e lavorare su piccoli oggetti.
Dato l’alto tasso potenziale di spettacolarità, e dato che nella maggior
parte dei casi i mapping vengono effettuati su strutture urbane, quindi vissute
da una comunità, queste esperienze si rivolgono a un pubblico generico che
può essere invitato o colto di sorpresa, dal momento che, come la videoin-
stallazione, anche il mapping è una struttura che funziona per un periodo di
tempo variabile, da un giorno ad alcuni mesi, e che può essere pubblicizzata
come un evento con una data precisa o può essere una proiezione automatica
di immagini funzionante in determinate ore della giornata. Sovente le due
possibilità si combinano, nel senso che si comunica al pubblico l’inaugura-
zione del mapping, per poi lasciar funzionare il sistema autonomamente per
un certo periodo di tempo.

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Un ringraziamento particolare va a Eleonora Manca che ha curato la stesura
di alcune parti del primo capitolo e che è stata la prima lettrice del libro.
Capitolo 1

Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

Le radici tecnologiche della videoarte

Nascita e sviluppo della televisione e della tecnologia video

La videoarte è figlia della televisione, anzi, in un primo tempo dell’oggetto-


televisore. La tecnologia televisiva comincia a essere sperimentata già alla fine
degli anni Venti, con la prima trasmissione transoceanica da Londra a New
York, grazie a un prototipo inventato da John Logie Baird nel 1928, e diventa
un fenomeno di massa fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Dal punto di vista
tecnologico può essere considerata il naturale sviluppo della radio, poiché
alcune caratteristiche di fruizione sono molto simili. La televisione, come la
radio, nasce come fenomeno di trasmissione di un segnale da un emittente a
una serie di riceventi. Il pubblico non deve più recarsi in un luogo predisposto
a proiettare immagini in movimento, perché queste arrivano direttamente a
casa sua. La prima grande rivoluzione del sistema televisivo nei confronti del
mondo delle immagini in movimento, e quindi del cinema, è il concetto di
diretta, ovvero la possibilità di riprendere con delle telecamere un evento e
poterlo trasmettere in tempo reale a una serie di televisori collegati.
L’introduzione del tempo reale determina una serie di scelte linguistiche tipiche
della televisione degli esordi, ossa la predilezione di codici che sfruttano la perfor-
matività, quindi il teatro, la musica e il gioco. Ma nello stesso tempo il concetto di
diretta conferisce al mezzo televisivo una sensazione di veridicità in più, perché ora
le notizie possono essere date in tempo reale, e sviluppa ulteriormente (esattamente
come la radio, ma con un elemento in più: le immagini) il concetto di connettività:
il mondo ora è più vicino, alla portata di tutti. Nasce il “villaggio globale” descritto
da Marshall McLuhan, un teorico che influenza molti videoartisti.

17
Capitolo 1

Il fenomeno della diretta, che tanto affascina i videoartisti delle origini,


deriva dal fatto che l’immagine elettronica (o “analogica”, per distinguerla da
quella digitale) è composta da una serie di punti luminosi, o pixel, disposti
ordinatamente dentro una griglia di linee orizzontali e verticali: la cosiddetta
“matrice” o “trama”. La definizione dell’immagine, che in questi anni è de-
cisamente scarsa ma sufficiente per la grandezza dei televisori in commercio,
viene calcolata a seconda del numero di linee orizzontali. Il televisore ripro-
duce le immagini attivando un processo di scansione, ovvero posizionando
i punti che costituiscono l’immagine in maniera ordinata: dall’alto verso il
basso e da destra verso sinistra; per questo motivo questo processo viene an-
che definito “lettura dell’immagine”. Il responsabile di questo procedimento
è il tubo catodico che bombarda le informazioni nel “retro” dello schermo
televisivo: questo fatto determina la forma del televisore, che è un cubo, un
oggetto che occupa uno spazio specifico e che illumina con le sue immagini
l’ambiente. Concluso il percorso di lettura, si formano i frame o “quadro”,
che potrebbero essere impropriamente paragonati ai fotogrammi. Per rendere
più veloce il processo di scansione e per ottenere il massimo della fluidità nel
passaggio da un frame e all’altro, viene in seguito introdotto un metodo di
lettura che procede per field o “semiquadro”: il sistema legge prima le righe
dispari, poi quelle pari, e pone in continuità queste porzioni di immagini at-
traverso un processo definito “interlacciamento”. Non si tratta quindi di una
serie di fotogrammi statici messi uno accanto all’altro, come nel cinema, ma
di un complesso sistema di trasmissione di dati in movimento. Nel sistema
europeo l’immagine elettronica procede a 25 frame al secondo (50 field),
mentre in quello americano a 30 frame (60 field). La telecamera trasforma
i punti luminosi della porzione di reale per tradurli in equivalenti segnali
elettronici che vengono poi riconvertiti in segnali luminosi dal televisore: la
diretta esiste perché sia la telecamera (l’emittente) sia il ricevente (il televisore)
condividono, attraverso un processo complesso di sincronizzazione dei vari
sistemi, la stessa identica matrice. Questo processo non avviene fisicamente in
tempo reale, nel senso che fra l’emittente e il ricevente si interpone un ritardo
temporale, ma tutto avviene a una velocità tale che l’occhio umano non se ne
accorge. Quando la sincronizzazione non funziona, si verificano dei disturbi
di segnale definiti “sganciamenti”.
Da qui si può intuire un’altra caratteristica innovativa del mezzo tele-
visivo: l’assenza di supporti stabili di registrazione. La diretta, essendo un

18
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

fenomeno di pura trasmissione, non ha bisogno di essere registrata per essere


visibile: è un processo che, una volta attivato il sistema, di per sé determina la
presenza di immagini in movimento. Anzi, la televisione non ha bisogno di
avere un segnale riconoscibile per poter produrre immagini, perché accenden-
do un apparecchio non sintonizzato su alcun canale si produce già un’imma-
gine in movimento, la cosiddetta “neve” (il corrispettivo del “rumore bianco”
per l’audio, il fruscio), ovvero un pulviscolo caotico di punti luminosi, dove
in maniera più che evidente si può vedere la presenza della matrice. La tele-
visione è per un certo numero di anni una serie di trasmissioni in diretta, e
produce (fin verso la metà degli anni Settanta) immagini in bianco e nero,
trasmesse su apparecchi dalla forma quasi quadrata, in realtà un rettangolo
molto schiacciato, definito con una proporzione di 4:3.
Ma la diretta cambia radicalmente l’idea di durata di un’immagine. Vin-
colata alla capienza della bobina, la tecnica cinematografica si è basata sul
fatto che l’immagine in movimento non può durare a lungo: prima o poi fini-
sce; tutta l’estetica del montaggio cinematografico si basa sulla concertazione
della durata delle immagini. L’immagine elettronica introduce un concetto
nuovo: una volta attivato il sistema l’immagine può, idealmente, durare per
sempre. Si può anche non montare nulla, o si possono addirittura montare in
tempo reale vari flussi di dati provenienti da diverse telecamere.
Per questo vengono ideati i primi mixer video, figli anch’essi della tecnolo-
gia sonora, ovvero dei mixer audio. Potendo gestire più segnali con stacchi o
dissolvenze lanciati in tempo reale, si introduce il concetto di regia televisiva,
che consiste in un montaggio in diretta. E si svela un’altra caratteristica tipica
dell’immagine elettronica: in quanto flusso gestibile in tempo reale, esso può
essere trattato in tempo reale. Le possibilità di montaggio si arricchiscono con
varie modalità: non solo più tagli o dissolvenze, ma tendine, riquadri eccetera.
Con l’avvento del colore l’armamentario per alterare le forme aumenta sem-
pre di più con solarizzazioni, negativi, distorsioni cromatiche. L’immagine
elettronica recupera una serie di possibilità manipolatorie che derivano dalla
tradizione fotografica e cinematografica, rendendole più facilmente applicabi-
li, istantaneamente visibili. Quello che era un effetto, una forzatura del mezzo
per la fotografia e il cinema, qui diventa una delle tante possibilità “normali”
di un’immagine disponibile per sua natura a qualsiasi metamorfosi.
L’avvento del colore attesta anche lo sviluppo di una particolare tecnica: il
chroma key, derivazione del luma key. Il chroma key è quella tecnica che per-

19
Capitolo 1

mette, una volta posizionato un soggetto o un oggetto davanti a un fondale


blu o verde, di poter sostituire lo sfondo con un’altra immagine in movimen-
to. Questo procedimento è definito anche “intarsio”. Il luma key consente
di operare questo stesso processo nelle zone chiare o scure dell’immagine.
Ideato inizialmente per poter arricchire studi piccoli e senza scenografie fi-
siche, diventa col tempo uno strumento prezioso per molti sperimentatori
dell’immagine video.
Il rapido sviluppo e il successo della tecnologia televisiva impongono però an-
che la presenza di un supporto di registrazione: la televisione non può essere solo
fatta da programmi in diretta. Verso la metà degli anni Cinquanta l’azienda ame-
ricana Ampex comincia a produrre costosissimi prototipi di registratori su nastro
magnetico a bobina adatti al video: questa tecnologia si assesta negli anni Settanta,
per poi cambiare radicalmente in poco tempo, passando dalla bobina alla video-
cassetta. Comincia la storia dei vari formati che si succedono da questo momento
fino alla fine degli anni Ottanta, ma inizia anche un’altra storia importante per il
mondo videoartistico: i produttori di tecnologia video non inventano solo formati
per il cosiddetto mercato broadcast (quello dei professionisti della televisione) che
hanno costi molto elevati, ma cominciano a distribuire formati e tecnologie alla
portata di tutti, per un mercato consumer. La tecnologia video si diffonde a tutti i
livelli, tanto che si crea intorno agli anni Ottanta un’altra fascia di mercato: quella
prosumer, costituita da tecnologie e formati che, appunto, garantiscono una certa
qualità d’immagine ed efficienza d’utilizzo.
Di fatto accade che alcune fasce produttive del settore broadcast comin-
ciano a usare tecnologie prosumer, soprattutto quello dei documentari e dei
reportage, determinando un fenomeno di “orizzontalizzazione” del processo
produttivo, per cui formati più agili ed economici reggono il confronto con
gli ingombranti sistemi professionali. Il nastro introduce anche un altro fe-
nomeno: la deperibilità dell’immagine; i riversamenti su nastro determinano,
chiaramente a seconda del formato che si usa, la comparsa del “rumore”, ov-
vero di una sorta di grana dell’immagine che può in alcuni casi compromet-
tere significativamente la nitidezza delle forme. E compare anche un altro
disturbo eventuale derivato da un trascinamento difettoso del nastro: il drop,
una o più linee orizzontali che sporcano l’immagine.
Ma il sommovimento tecnologico in atto non coinvolge solo un pubbli-
co potenzialmente interessato a produrre immagini in movimento, perché
l’avvento del nastro determina la diffusione di un altro oggetto che cambia

20
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

radicalmente, al pari della televisione, le abitudini di visione di un pubblico


sempre più vasto: il videoregistratore home video. Progettati e costruiti intor-
no agli inizi degli anni Settanta, i videoregistratori “domestici” cominciano
a essere massicciamente distribuiti agli inizi degli anni Ottanta. Ora la tele-
visione non è più un fenomeno inafferrabile neanche per il pubblico: ognuno
può registrare qualsiasi cosa provenga dal flusso di informazioni del proprio
televisore. Finisce l’era del tempo reale, pur continuando a esistere la diretta,
perché ora è tutto registrabile, riguardabile. Si estrae il video dal suo territorio
privilegiato: il tempo nel suo scorrere naturale.
Nel momento in cui nasce il nastro, si diffonde anche il montaggio elet-
tronico (o analogico), effettuato tramite centraline di montaggio abbinate al
mixer video. Le centraline di montaggio adottano la logica, in alcuni casi pe-
ricolosa, del riversamento delle immagini da un nastro all’altro. La centralina
comanda a distanza uno o più lettori video, e registra su un videoregistratore
le porzioni di immagini che mano a mano vengono selezionate. Il risultato di
questa operazione, il nastro montato, viene definito master. La centralina di
per sé può montare solo a stacco: il mixer coadiuva questa operazione aggiun-
gendo tutto il resto (dissolvenze, tendine, chroma key eccetera). Date queste
caratteristiche, il montaggio analogico viene anche definito “lineare” perché
le singole immagini selezionate devono essere registrate una dopo l’altra senza
salti, seguendo un andamento cronologico che da zero va alla fine del video.
Per fare un esempio: se una volta realizzato un montaggio di cinque minuti il
montatore deve aggiungere una sequenza al secondo minuto, deve rifare tutto
il montaggio dal secondo minuto in poi, o lavorare su un altro master, river-
sando i pezzi già montati del primo. L’unica eccezione a questa modalità di
montaggio è data dall’eventualità che si stia facendo un lavoro su una traccia
musicale già pronta: a quel punto il montatore potrebbe anche lavorare dalla
fine del video per andare all’inizio, o iniziare a metà, e quindi montare non
linearmente.
La tecnologia televisiva si affina negli anni, elaborando tecnologie più com-
plesse, sviluppando supporti di registrazione più stabili, distribuendo telecame-
re con standard di definizione sempre più alti. Ma la tecnologia di base descritta
prima non subisce particolari scosse fin verso gli anni Novanta, quando comin-
cia a diffondersi sempre più il “video digitale”. Dapprima la tecnologia nume-
rica investe gli strumenti già citati (telecamere, mixer video, videoregistratori)
che diventano digitali pur usando ancora dei nastri come supporto finale, ma

21
Capitolo 1

ben presto tutta la modalità produttiva televisiva e video cambia radicalmente


con la diffusione dei primi sistemi di “montaggio non lineare”, ovvero dei primi
computer in grado di assemblare immagini in movimento.
La diffusione dei software di montaggio avviene nel momento in cui la
capacità di campionamento delle immagini in movimento, ovvero di una
notevole quantità di dati, viene garantita dalla presenza di hard disk parti-
colarmente veloci e da computer che sono in grado di organizzare in tempi
rapidi quantità sempre più grandi di dati. Più tardi anche la tecnologia delle
telecamere si adegua a questo processo e il nastro magnetico perde la sua
funzione di supporto finale: se con il computer le immagini in movimento
possono essere montate come delle catene di file, le telecamere registrano di-
rettamente sui loro hard disk interni o esterni le immagini come insieme di
dati, file da caricare direttamente su computer.
Il montaggio non lineare, o digitale, risolve tutta una serie di limitazio-
ni che il montatore aveva con le tecnologie analogiche: ora si può operare
veramente come si vuole, fare e rifare il montaggio, correggere, aggiungere,
togliere senza dover avere a che fare con i problemi di riversamento da nastro
a nastro tipico dell’elettronica. Ma soprattutto ora il montatore digitale ha
nello stesso ambiente operativo la possibilità di gestire audio e video insieme,
e di poter elaborare l’immagine con una precisione e comodità ben diverse
da prima. Insomma: le ingombranti macchine del passato (lettori, videore-
gistratori, centraline di montaggio, mixer video, mixer audio) scompaiono a
favore di un computer, riducendo spazio e soprattutto i costi; le regie video
possono diventare dei laboratori molto più facilmente gestibili; le telecamere
diventano sempre più maneggevoli pur mantenendo un alto grado di defini-
zione dell’immagine.
Dal momento in cui l’immagine video viene campionata, diventa un flus-
so numerico di dati: ora può essere controllata punto per punto, e non più
solo linea per linea. È un file gestibile come tale: non dovendo più riversare
il segnale su nastro, non ha problemi di deperibilità; l’originale è uguale alla
copia. La capacità di controllo aumenta, e quindi cominciano a diffondersi
non più solo software di montaggio, ma programmi appositi che servono a
correggere, manipolare o migliorare l’immagine. Nasce la cosiddetta “post-
produzione”, una fase che esisteva anche nell’era analogica ma che ora diventa
di uso comune: una volta effettuato il montaggio del video, si procede alla
color correction, ovvero alla ri-colorazione delle singole immagini o di tutto il

22
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

montato, ma si possono anche aggiungere filtri che simulano l’appannamento


dell’obiettivo (il cosiddetto glow), gestire in maniera più precisa il bilancia-
mento fra luminosità e contrasto, applicare sfocature forzate, insomma si ri-
definisce lo stile visivo del video.
A questo si può aggiungere un’altra fase, quella del compositing, ovvero
della combinazione di fonti visive estranee al girato; solitamente il compo-
siting serve a “ricostruire” immagini girate in chroma key per sostituire lo
sfondo verde o blu con altre fonti visive, ma ora il controllo è completo e la
miscelazione fra diverse fonti può essere gestita frame per frame. Si possono
aggiungere ombre, trattare con più facilità fonti anche non derivate da riprese
fatte con telecamere, ma si possono usare foto e, soprattutto, immagini fatte
in computer grafica con una precisione e facilità molto maggiori. La fase di
compositing è una vera e propria fase di “ricombinazione” di varie fonti visi-
ve. Esistono software appositi per la postproduzione e il compositing, mentre
in questi anni si tende a riunire tutte queste fasi in un unico programma, o
per lo meno a fornire i software di montaggio anche di funzioni utili alla
postproduzione e al compositing.
Ma la vera rivoluzione del video digitale sta nel fatto che, contrariamente
alla tecnologia analogica, sostituisce l’idea della fluidità a quella della catena
di immagini singole: il frame digitale è qualcosa di definibile, sul quale si
può effettivamente lavorare come su una foto. Non è un caso che la maggior
parte dei programmi di compositing nascano come evoluzione di software di
fotoritocco o di disegno digitale, e si presentino, per fare un esempio, come
dei “Photoshop del video”. Inevitabile in questo senso il ritorno a una logica
di gestione dell’immagine che si avvicina molto all’idea dell’animazione. In
definitiva, il video digitale fonde in una proficua simbiosi due mondi che
prima erano vicini ma difficilmente integrabili: il video e la computer grafica.
L’immagine video può essere anche ri-disegnata, e non solo postprodotta o
ricompositata: la sintesi fra video e animazione digitale rappresenta uno stra-
ordinario territorio di ibridazioni denso di possibilità sperimentali, e diventa
ben presto il terreno privilegiato per una serie di esperienze videoartistiche
che si sono sganciate sempre di più dall’estetica dell’analogico.
Non volendo anticipare i temi trattati in seguito, segnaliamo alcune ulteriori
innovazione che sono importanti per capire alcuni processi non solo tecnologi-
ci. Innanzitutto, con l’avvento del digitale, cambiano anche gli oggetti della sua
fruizione: i televisori diventano monitor piatti, e, fatto ancora più importante,

23
Capitolo 1

abbandonano il 4:3 per diventare rettangolari, adottando così un formato di


quadro decisamente più cinematografico, che viene definito con un rapporto
di 16:9. Anche la capacità di definizione dell’immagine migliora sempre di più
fino alla diffusione, intorno agli anni 2000, del formato HD: l’alta definizione
digitale. Intorno alla metà degli anni Ottanta la televisione analogica cerca di
lanciare sul mercato dei sistemi in alta definizione con un quadro in 16:9, ma
senza grande successo. La tecnologia digitale semplifica molto alcuni aspetti
tecnici, ma soprattutto incontra un pubblico favorevole al cambiamento.
La risoluzione dell’immagine HD, oltre a essere molto superiore a quella
delle tecnologie analogiche e dei primi sistemi digitali, si sviluppa in modo
tale da poter competere con il formato “più definito” per eccellenza, ovvero
la pellicola, fino a presentarsi come supporto alternativo non più solo per le
produzioni televisive, ma anche e soprattutto per quelle cinematografiche.
Già dagli inizi degli anni 2000 vengono prodotti film girati in HD, cosa che
in questi anni sta diventando oramai prassi comune: così come il digitale ha
eliminato il nastro, l’HD digitale sta eliminando la pellicola, rimettendo in
discussione quindi un fronte produttivo, distributivo e soprattutto estetico e
di linguaggio sempre più ampio, e testimoniando il fatto che, complice an-
che il web, la digitalizzazione del sistema produttivo audiovisivo è veramente
globale.

Nascita e sviluppo della computer grafica e dell’animazione digitale

Parallelamente alla nascita della televisione si sviluppa un’altra tecnologia che


col tempo investe sempre di più il settore audiovisivo: la gestione e creazione
di immagini in movimento tramite il computer. I primi esempi di immagini
generate al computer risalgono agli anni Cinquanta a seguito di una serie
di esperimenti di ingegneri informatici del MIT (Massachusetts Institute of
Technology), ma bisogna aspettare gli anni Ottanta prima che la computer
grafica esca dai laboratori e si diffonda grazie alla commercializzazione dei
primi personal computer e dei videogiochi più o meno evoluti.
Evitando di approfondire tutti i passaggi di metodo che hanno reso pos-
sibile la standardizzazione attuale dei programmi adibiti alla creazione di im-
magini tramite computer, conviene sottolineare in questa sede alcuni aspetti
generali che sono utili a comprendere le scelte estetiche di quei videoartisti
che approfondiscono la ricerca di questo mezzo. Anche per il computer, come

24
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

per la televisione, l’immagine visibile all’utente è costituita da una serie di


punti disposti ordinatamente su una griglia di linee orizzontali e verticali: ciò
che cambia radicalmente è la natura e la sorgente di questi punti, che sono
completamente matematiche. Una serie di algoritmi gestiti da un software
apposito presiedono all’organizzazione dei pixel in modo tale che formino
un’immagine: per questo motivo un’immagine al computer (come per il vi-
deo digitale) è gestibile punto per punto, e non più solo linea per linea.
La gestione di immagini esterne prevede, come per i suoni, un processo
di campionamento dei dati che poi possono essere rielaborati liberamente dal
computer. Il procedimento di creazione di immagini è invece più complesso.
La maggior parte dei programmi di computer grafica adotta un ambiente
operativo standard, nel quale l’utente è in grado di gestire immagini create ex
novo. Questo ambiente è rappresentato da una finestra che mostra uno spazio
prospettico vuoto con un piano già a disposizione. L’ambiente proposto ragio-
na secondo le logiche della prospettiva classica perché si dà per scontato che
l’utente voglia realizzare immagini tridimensionali, perciò si parla di compu-
ter grafica 3D (non di stereoscopia). Inizialmente i software di grafica sono in
grado di gestire solo immagini a due dimensioni. La presenza del piano offre
all’utente la possibilità di porre su di esso degli oggetti, che vanno modellati,
ovvero, semplificando molto, disegnati.
Le immagini usate in questi software si definiscono oggetti perché il loro
ambiente operativo li considera tali: proiettano un’ombra sul piano, sono vi-
sibili da tutti i punti di vista, la loro superficie reagisce realisticamente alla
luce; agli occhi dell’utente si “comportano” come se fossero degli oggetti veri
e propri. Ma in realtà sono degli elementi geometrici, o assemblaggi molto
complessi di forme semplici, sopra i quali è stata posizionata una texture, ov-
vero un’immagine che simula la presenza di un materiale, e intorno ai quali
sono state impostate delle luci. L’ambiente in cui l’utente lavora assomiglia
molto a un luogo reale: luci, ombre, nebbie, e altri elementi si comportano
esattamente come nella realtà. Questo processo viene definito “simulazione”:
il fatto cioè che un sistema d’immagini funziona esattamente come in una
dimensione tangibile. Gli oggetti che vengono man mano posizionati sul pia-
no non sono concreti, ma frutto di complessi calcoli matematici: sono dei “si-
mulacri”, delle riproduzioni artificiali che non provengono da un processo di
rappresentazione. Per questo motivo si parla di “virtualità” in genere e nello
specifico di “realtà virtuale”: perché in questo caso si supera la sensazione di

25
Capitolo 1

“effetto di realtà” con un sistema che attraverso la simulazione rende le imma-


gini non solo realistiche, ma reali “in potenza”, virtualmente confondibili con
la nostra dimensione. Questo discorso chiaramente vale nella misura in cui si
creano immagini che vogliono in qualche modo sostituirsi alla nostra realtà
perché si presentano particolarmente simili a ciò che vediamo con i nostri
occhi. È la cosiddetta computer grafica “fotorealistica”.
All’interno dell’ambiente operativo descritto prima esiste la possibilità di
decidere un punto di vista: è rappresentato da una camera (in inglese significa
sia cinepresa sia telecamera) che simula l’utilizzo di ottiche di vario tipo e che
può essere mossa o direzionata in tutti i punti possibili dello spazio, libera dai
limiti umani di un operatore vero. Così come anche tutti gli oggetti possono
essere animabili liberamente. Quindi, più che uno spazio reale, l’ambiente
operativo di questi software assomiglia molto a un set “aumentato”, poten-
zialmente infinito dal punto di vista spaziale ma anche temporale.
Queste caratteristiche rendono le immagini “di sintesi”, o più semplice-
mente digitali, molto differenti per natura da quelle analogiche. Qui l’utente
può disegnare direttamente il suo mondo. Immagina un oggetto o un per-
sonaggio, lo disegna, lo anima, lo costruisce, lo fa apparire come realistico e
all’interno dell’ambiente operativo tutto questo, in un qualche modo, “esi-
ste”: in questo sta anche la virtualità delle immagini digitali. Si frantumano
il concetto di fuori campo (perché lo spazio digitale è perennemente ricon-
figurabile); l’unicità del punto di vista (perché gli oggetti sono osservabili
in tempo reale da qualsiasi posizione); il concetto di durata dell’immagine
(perché potenzialmente le forme create al computer possono rimanere all’in-
finito dentro all’ambiente operativo). Insomma, la virtualità significa anche
ipertrofia di possibilità, mancanza di limiti, al di là della più o meno grande
capacità di calcolo dei sistemi che si usano.
Creare un’immagine digitale significa dialogare con un software, quindi
rappresenta un lavoro tutto “interno” alla macchina. Ma per essere distribuite e
visibili all’esterno, le immagini digitali devono in qualche modo uscire dal loro
ambiente operativo, e quindi una volta impostate le singole scene con le relative
animazioni, bisogna procedere alla fase di rendering, un processo grazie al qua-
le tutti i dati del progetto diventano una serie di immagini fisse di vario formato
che a catena creano quella che viene chiamata, come nel cinema, animazione.
Una volta diventate una catena di frame le immagini di sintesi perdono alcune
caratteristiche della loro virtualità perché vengono “fissate” su un supporto di

26
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

dati rappresentato da un file, ma è altrettanto chiaro che il progetto che presie-


de le animazioni è infinitamente modificabile. Quindi nel digitale non esiste
“copia”, e l’originale (inteso come progetto di un’animazione) è una serie di dati
effimeri in potenziale, continuo mutamento.
La computer grafica reintroduce in maniera decisiva il concetto di ani-
mazione, e cioè l’idea che una forma in movimento è il frutto di una serie di
immagini fisse poste le une dopo le altre. E reintroduce l’idea del disegno,
della costruzione da zero delle forme: in questo senso è chiaro il motivo per
cui molti artisti che si avvicinano a questo mezzo spesso provengono dall’ani-
mazione classica o hanno un background – per esempio – da grafici, illustra-
tori, fumettisti.
Per anni la ricerca sulla computer grafica si concentra sul fotorealismo,
complice il fatto che la maggior parte dell’interesse anche economico che
ruota intorno a questa tecnologia proviene dal mercato cinematografico, te-
levisivo e soprattutto videoludico. Il settore dei videogame è quello che più
pretende realismo dalle immagini digitali per un maggior coinvolgimento del
giocatore, mentre il cinema, con la rinascita di alcuni generi come la fanta-
scienza e il fantasy, ha bisogno di intrattenere con immagini credibili il suo
pubblico lavorando sull’effetto della “meraviglia”.
Ma non deve essere così per tutto il settore dell’animazione digitale. Per al-
cuni la computer grafica deve reinterpretare la realtà, o creare universi astrat-
ti, o evitare la logica degli oggetti disegnati per esplorare processi automatici o
casuali di creazione delle immagini, o più semplicemente, esattamente come
i pittori d’avanguardia degli anni Venti che realizzano film, dinamizzare uno
stile già esistente, o ridisegnare il mondo esplicitando vari stili grafici.
Dopo la prima esplosione entusiastica della tendenza fotorealistica, il mer-
cato dell’audiovisivo intercetta un’altra esigenza e cioè quella di sostituire con
tecnologie digitali i processi produttivi lunghi e laboriosi che presiedono la rea-
lizzazione dei cartoon. John Lasseter nel 1995 convince un colosso produttivo
come Walt Disney a compiere il salto verso il digitale realizzando Toy Story
(Toy Story – Il mondo dei giocattoli), inaugurando una lunga serie di produzioni
in cui la computer grafica, anche se 3D, si presenta agli occhi dello spettatore
con uno stile grafico non fotorealistico. Due anni dopo in televisione ha un
grande successo un cartoon inizialmente realizzato con tecniche tradizionali e
in seguito digitali come South Park che propone uno stile grezzo e decisamente
bidimensionale.

27
Capitolo 1

Quasi contemporaneamente alla diffusione della gestione digitale del


video e alla nascita della pratica del compositing e della postproduzione
digitali, la computer grafica riscopre la bidimensionalità che non necessa-
riamente deve avere esiti “cartoonistici”, in aperto contrasto con l’“epica”
del 3D e del fotorealismo. Nasce un’estetica che possiamo definire del
“collage digitale” dove elementi bidimensionali e tridimensionali possono
convivere, e dove si spacca la visione tradizionalmente prospettica della
gestione dello spazio. In questi ultimi anni si è diffuso il termine motion
graphics per indicare quelle produzioni dove le immagini di sintesi pos-
sono avere svariate fonti: foto o grafiche già esistenti e rielaborate, imma-
gini bidimensionali, immagini tridimensionali, scritte, grafiche astratte,
disegni manuali elaborati digitalmente. Come si può intuire molta della
sperimentazione videoartistica digitale si insinua in questo processo, ela-
borando stili e tentativi di “forzare” la macchina e la visione tradizionale
della computer grafica che non solo può simulare universi, ma anche e
soprattutto inventarne di nuovi.

Le radici culturali e artistiche della videoarte

La videoarte è un fenomeno complesso che accoglie dentro di sé molte espe-


rienze da diversi settori: è un crocevia di tensioni sperimentali che col tempo
cerca di conquistare una sua autonomia linguistica. Gli anni Sessanta rap-
presentano una straordinaria esplosione di sperimentazione in tutti i campi
dell’espressione artistica: dalle arti visuali, al teatro, alla danza, alla musica,
alla letteratura. I paragrafi successivi non vogliono certamente essere esaustivi
rispetto ai singoli ambiti affrontati, ma vogliono offrire una guida ai riferi-
menti culturali e artistici dei quali la videoarte, soprattutto delle origini, si
nutre.

Le rivoluzioni dell’arte contemporanea

Gli anni Sessanta e Settanta sono il punto d’arrivo di un’onda lunga che
inizia nel primo Novecento, il periodo delle grandi avanguardie artistiche
storiche: Astrattismo, Cubismo, Futurismo, Dadaismo, Surrealismo e i tanti
altri “ismi” che si sono sviluppati fra la Russia, l’Italia, la Francia, la Svizzera e
la Germania rappresentano la prima sfida linguistica a un’arte avvertita come

28
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

tradizionale e non al passo con la contemporaneità, a favore di un’arte dichia-


rata o urlata come rivoluzionaria (contaminata con le scoperte scientifiche
coeve come la psicoanalisi), che pretende la morte delle singolarità specifiche
a favore della collaborazione fra diverse discipline artistiche, che difende il
nonsense, la negazione pura e il diritto dell’artista di non “dovere dire nulla”,
che vede la realtà fenomenica come una superficie illusoria dentro la quale
scoprire altri mondi o differenti modalità di rappresentazione delle forme, di-
fendendo l’oggettività del punto di vista, sedotta da qualsiasi manifestazione
del suo tempo, dall’industrializzazione alla guerra.
Ma sono proprio la nascita della dittatura nazista e lo scoppio della Seconda
guerra mondiale a trasformare questa imponente massa critica, che spezza la sto-
ria dell’arte, in una diaspora verso una terra che promette libertà, che dagli anni
Trenta, grazie al New Deal, attira sempre di più l’immigrazione, che vive in una
perenne modernità e in cui non c’è la guerra: l’America. In particolare New York,
una città che aveva già ospitato (prima della guerra) artisti delle avanguardie euro-
pee, grazie al fotografo Alfred Stieglitz, alla sua rivista «Camera Work» e alla sua
Galleria 291, e alla fervida attività di Peggy Guggenheim.
Fernand Léger, Man Ray (in realtà per lui è un ritorno a casa), Salvador
Dalí, Hans Richter, Roberto Sebastian Matta, André Breton, Max Ernst, An-
dré Masson, Yves Tanguy, Louise Bourgeois, Piet Mondrian, Arnold Schön-
berg, Hans Hoffmann, Josef Albers, Igor Stravinskij, Marc Chagall, Moïse
Kisling, Kiki de Montparnasse (Alice Prin), Georges Antheil, Georges Balan-
chine, Hanya Holm, Le Corbusier sono solo alcuni degli artisti europei e russi
emigrati negli Stati Uniti, senza dimenticare i movimenti artistici in Messico,
patria anch’esso di immigrati “illustri” come Benjamin Peret e Luis Buñuel, ma
protagonisti anche di una fatale “invasione di campo” nella terra dei “gringos”.
Nel 1932 Diego Rivera viene invitato da Nelson Rockefeller a realizzare un af-
fresco per l’atrio del palazzo della RCA, situato nel neonato Rockefeller Centre,
un complesso di palazzi simbolo del capitalismo aggressivo americano, costru-
ito in un momento di pesante recessione economica, e simbolo soprattutto di
una famiglia di potentissimi petrolieri, responsabili di un strage di minatori
da parte della loro polizia privata. Diego Rivera è pittore, ideologo e punto di
riferimento di un movimento di artisti messicani dichiaratamente rivoluzionari
come David Alfaro Siqueiros, Tina Modotti e Frida Kahlo che si dedicano ai
“murales per il popolo”, alla fotografia sociale e alla riscoperta del Surrealismo.
Al suo arrivo negli Stati Uniti affronta un vero e proprio tour in cui conquista la

29
Capitolo 1

simpatia dell’establishment alto-borghese statunitense, nonostante la sua aperta


propensione alla propaganda del comunismo, guadagnando committenze in
varie parti del paese. Ma quando Rivera si rifiuta di cancellare il viso di Lenin
dal murale che sta realizzando al Rockefeller Center, e di fatto viene espulso dal
paese per la subitanea scomparsa di qualsiasi committenza, inconsapevolmente
spacca in due la storia dell’arte contemporanea americana.
Grazie a Peggy Guggenheim, nel secondo dopoguerra è un artista ben
diverso a diventare il punto di riferimento delle nuove avanguardie degli
Stati Uniti: Marcel Duchamp, artista e giocatore di scacchi, vera anima del
movimento dadaista, scardinatore beffardo e contemporaneamente lucido di
quell’arte tradizionale tanto odiata. Dai baffi messi alla Gioconda di Leo-
nardo, all’orinatoio esposto in galleria, Duchamp, una mossa dopo l’altra,
impone al concetto di arte un diverso statuto: quello di spaccare i linguaggi
consolidati. Si affida al caso (la teoria dell’alea), al gesto spontaneo, si spinge
a sostenere che l’opera è un puro processo, esibendo oggetti di uso comune in
luoghi che negano la loro funzione (lo sradicamento).
Il suo arrivo negli Stati Uniti permea in modo invasivo nel tempo tut-
ta l’arte americana: Jackson Pollock è affascinato dall’idea della casualità e
della gestualità e affina alcune tecniche (l’action painting e il dripping) che
scardinano radicalmente il concetto di pittura. Il gruppo degli “Irascibili”,
o “Scuola di New York” o dell’“Espressionismo Astratto”, attivo negli anni
Cinquanta (fra gli altri, Jackson Pollock, Willem De Kooning, Mark Rothko,
William Congdon), diventa la prima vera avanguardia artistica americana
del dopoguerra, nonostante abbia radici in molte esperienze europee: Peggy
Guggenheim e altre realtà più piccole si stanno impegnando fra gli anni Cin-
quanta e Sessanta a promuovere un’arte contemporanea “autoctona” che si
allontani dai movimenti artistici neorivoluzionari (il ricordo della vicenda di
Diego Rivera è ancora piuttosto vivo). L’astrattismo diventa il punto di riferi-
mento estetico per la pittura e si diffonde un atteggiamento intimistico, meno
legato alle ideologie e più connesso all’interiorità dell’artista, al gesto puro che
si trasforma in segno e più adatto a un mercato dell’arte che sta diventando
sempre più diffuso.
Ma il mondo dell’arte in questi anni non conosce pause. Già nei primi
anni Cinquanta nasce in Inghilterra, per coinvolgere in seguito molti altri
paesi europei e il Giappone, un movimento di pittori insofferente alle scelte
astratte e soprattutto all’apparente mancanza di una vera e propria tecnica

30
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

pittorica nell’Espressionismo Astratto. Nel 1952, infatti, nasce a Londra sotto


l’etichetta di Indipendent Group un’associazione di artisti che recupera la tec-
nica del collage e dell’“oggetto trovato” tipico del Dadaismo e che rivendica,
sull’onda delle provocazioni di Duchamp, per qualsiasi tipo di espressione
popolare, anche la più kitsch, la dignità di opera d’arte. Nel 1954 l’artista e
sociologo scozzese John McHale usa per la prima volta il termine Pop Art:
l’arte della derisione e della parodia, ma al contempo della glorificazione con-
sapevole dell’immaginario della cultura popolare (pubblicità, fumetti, riviste
di consumo e in generale tutta la sfera visiva legata alla circolazione della
cultura di massa, soprattutto americana).
Inevitabilmente questo movimento investe il terreno fertile degli Stati
Uniti, provocando un’altra esplosione creativa oltre a quella dell’Espressio-
nismo Astratto. Jasper Johns, Claes Oldenburg, Roy Lichtenstein e Robert
Rauschenberg diventano i rappresentanti della Pop Art statunitense: fra pit-
tura di marca tipicamente neodadaista, collage, opere realizzate con la tecnica
“mista” (mixed media) attraverso la quale si utilizzano indifferentemente og-
getti, ritagli di giornali e interventi manuali, la cultura pop americana diventa
arte e la produzione di immagini di massa diventa il soggetto principale delle
opere di questi artisti.
All’interno di questo magma in fermento emerge un artista che forse me-
glio di ogni altro può incarnare lo spirito di questo movimento, affascinato
dall’industrializzazione dell’immaginario: ex disegnatore di pubblicità di
scarpe di successo e quindi conoscitore delle regole del marketing della moda
e delle strategie di cattura del consenso, Andy Warhol comincia a essere un
artista di successo grazie a un gallerista altrettanto abile nell’individuare ta-
lenti da coltivare, Leo Castelli. Le gallerie d’arte sono il luogo cruciale dello
sviluppo del mercato dell’arte, che sta diventando sempre più “di massa” e
affollato di collezionisti attenti all’investimento culturale.
Andy Warhol si identifica totalmente con l’idea della rivalutazione del
pop. La cultura popolare non è più solamente l’icona privilegiata della sua
opera: col tempo diventa egli stesso icona pop, ingranaggio di un’industria
culturale che ha bisogno di trend e di prodotti da vendere. Quando fonda a
New York nel 1962 la famosa Factory, la fabbrica appunto, dove confezionare
dei prodotti artistici seriali, con tanto di assistenti addetti alla realizzazione
delle opere che Warhol considera dei progetti che possono non essere realiz-
zati personalmente, qualcosa muta radicalmente nel mondo dell’arte contem-

31
Capitolo 1

poranea. L’opera d’arte non tratta più come oggetto privilegiato d’indagine
l’industrializzazione dell’immaginario, ma diventa essa stessa il prodotto di
una piccola industria. Warhol non dichiara di essere un’artista, ma una “mac-
china”, attratto dalle fotocopie, dalla serialità, dalla mancanza di originali.
L’arte è pura superficie, è una copia, è il risultato di un processo tecnologico:
si affida al caso o agli errori della macchina stessa.
Detto in questo modo la Factory potrebbe apparire un luogo poco affa-
scinante e un terreno poco fertile per creare un trend, ma siamo negli anni
Sessanta, e New York sta diventando la comunità degli artisti e degli eccessi,
tanto che si trasforma in una sorta di luogo aperto dove può succedere di tut-
to: feste principalmente, ma anche riparo per personalità eccentriche, dedite
alla sperimentazione delle droghe o della propria sessualità, e soprattutto asilo
per artisti alternativi o appartenenti allo show business, in una parola per
celebrità. Da Bob Dylan ad Allen Ginsberg, da Mick Jagger a Jim Morrison,
da Truman Capote a Salvador Dalí, da John Lennon a Yoko Ono, chiunque
abbia dedicato volontariamente o meno la propria vita al successo e all’eccesso
si ritrova a frequentare più o meno assiduamente la Factory.
Al di là delle produzioni seriali ben note anche a un pubblico non specia-
lizzato (Campbell Soup Can, o i ritratti postumi a icone celebri come Marilyn
Monroe o Elvis Presley), Warhol è attratto dal mondo musicale e viceversa: Da-
vid Bowie gli dedica una canzone e all’interno del grande calderone di incontri
della Factory nascono i Velvet Underground (la copertina del loro primo disco
è un’immagine di Warhol). Il suo look eccentrico, presente a più riprese nei
talk-show televisivi, e quello della gente che frequenta la Factory diventano il
simbolo di un’epoca, quindi comincia a essere esso stesso prodotto di massa. In
breve tempo la Factory comincia a “produrre” le sue personali star, come Edie
Sedgwick. Coerentemente Warhol intuisce che non è più necessario fabbricare
oggetti ma che quello che succede nella Factory può diventare di per sé un trend
commerciabile, e quindi trasformabile in una piccola Hollywood, dichiarando
di voler smettere di dipingere per realizzare solo film. Come si può intuire,
nel momento in cui si salda in maniera inscindibile la figura dell’artista con il
concetto di celebrità, la biografia diventa un elemento essenziale, tanto più se si
tinge di cronaca nera: al di là dei singoli destini (per lo più tragici) che molte su-
perstar della Factory subiscono, il tentato omicidio al quale Warhol sopravvive
miracolosamente nel 1968, da parte dell’attivista femminista Valerie Solanas,
accresce mediaticamente la fama dell’artista di origine slovacca, tingendo di

32
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

scuro il suo personaggio, e trasformandolo a tutti gli effetti in un rinnovato


modello di “artista maledetto”.
L’ombra di Duchamp si estende anche alle scelte estetiche di Warhol, e
sempre più chiaramente negli Stati Uniti degli anni Sessanta si diffonde un
atteggiamento neodadaista che spinge gli artisti a prediligere il valore del
processo di creazione dell’opera a scapito dell’opera stessa. Sopravvivono an-
cora dei movimenti che difendono l’atto del dipingere, come il Minimalismo,
capitanato da artisti come Sol LeWitt, Ad Reinardt, Frank Stella, Robert
Morris e Yves Klein che riprendono l’estetica rigorosa di Kazimir Malevič
per proporre un astrattismo radicale grazie al quale si presentano opere to-
talmente monocromatiche, o sculture dalle forme primarie, come semplici
parallelepipedi.
Ma di fatto cresce la voglia di andare al di là della pittura, del concetto di
quadro, di esposizione e soprattutto del mercato dell’arte, per cercare di radi-
calizzare il più possibile l’idea di arte: la nascita e lo sviluppo del gruppo neo-
Dada dal nome Fluxus e la diffusione di un nuovo modello artistico definito
Arte Concettuale, diventano gli ambiti culturali in cui si effettua la rottura
più definitiva con i canoni, pur d’avanguardia, dati dagli esiti precedenti, e
insieme costituiscono la culla artistica dentro la quale origina la videoarte.
Il movimento Fluxus nasce dalla fusione di due “visioni”: quella di Marcel
Duchamp e di John Cage, un musicista sperimentale di cui si parlerà nell’ap-
posito paragrafo. George Maciunas, fondatore del movimento e fervente am-
miratore del Dadaismo, è allievo di alcuni corsi di John Cage e usa nel 1962 il
termine Fluxus grazie al suggerimento di Raoul Hausmann, “storico” dadaista
che gli sconsiglia di usare il termine neodada, a favore di qualcosa di più mo-
derno. Il movimento, grazie all’infaticabile attività di Maciunas, nasce come
gruppo essenzialmente musicale, anche se già da subito si aggregano alcuni
artisti del calibro di Joseph Beuys e Wolf Vostell, e si muove in un contesto in-
ternazionale, fra gli Stati Uniti, la Germania e il Giappone, proponendo degli
eventi in cui gli strumenti vengono usati in modo non convenzionale, e dove
l’atto performativo comincia a diventare il fulcro delle proposte artistiche.
In questi eventi vengono presentati brani di musicisti contemporanei come
György Ligeti, Krzysztov Penderecki, ovviamente John Cage, Terry Riley, La
Monte Young, ma sempre più spesso vengono eseguite delle performance su
strumenti classici; soprattutto il pianoforte il quale viene anche violentemente
trattato: segato in due, suonato collettivamente in maniera casuale, preso a

33
Capitolo 1

martellate eccetera. Protagonisti di queste performance sono Georges Brecht,


Dick Higgins, Maciunas stesso, Jackson Mac Low e Nam June Paik.
Maciunas organizza concerti per strada, in stazioni ferroviarie, case pri-
vate e apre una serie di piccoli Fluxshop, negozi in cui si possono acquistare
non opere originali ma gadget ispirati alla filosofia di Fluxus a New York,
Amsterdam, in California, a Milano, in Francia, creando un vero e proprio
network che comincia a fare breccia nell’ambiente artistico internazionale, e
che attira artisti da tutto il mondo come Shigeko Kubota, Yoko Ono, Robert
Filliou, Christo & Jeanne-Claude. Convinto di dover operare in un contesto
più politicizzato, Maciunas organizza la creazione di una serie di comuni di
artisti Fluxus sparse per il mondo che hanno breve vita, ma che contribuisco-
no ulteriormente a creare molto rumore intorno a questo movimento.
Per Fluxus l’arte è spontaneità, è un gesto provocatorio che non lascia
tracce di sé se non nel tempo della sua esecuzione, rifiuta il commercio e i
luoghi istituzionali dell’arte: Fluxus è anti-arte, l’antitesi di tutto ciò che nor-
malmente, anche in ambito sperimentale, si definisce arte, promuove l’idea
del “fai-da-te” contro tutti i tecnicismi. L’idea dell’evento che rimane nella
memoria del pubblico e che non produce nessun oggetto vendibile per la
logica del mercato dell’arte, sta alla base della filosofia Fluxus: in questo senso
i Fluxshop sono delle autentiche provocazioni. Si insiste sulla semplicità delle
proposte (eventi brevi, sintetici, diretti), sull’approccio collaborativo e soprat-
tutto sul fatto che Fluxus è una “attitudine”. Quindi anche in questo caso si
sottolinea l’importanza della processualità dell’opera artistica.
L’Arte Concettuale può essere definita una sorta di compimento di tutte le
istanze sperimentali fin qui brevemente riassunte, anche perché è un termine
che non corrisponde alla presenza di un movimento dichiarato, ma a una
tendenza estetica dentro la quale vengono inseriti alcuni degli artisti citati
prima e che saranno affrontati più avanti. Henry Flynt, artista Fluxus, parla
di Concept Art già nel 1963, prima che compaia il termine Conceptual Art
adottato più che altro da teorici e critici d’arte contemporanea. L’Arte Con-
cettuale indica un atteggiamento fortemente anti-pittorico e contro il sistema
delle gallerie e del mercato dell’arte, enfatizzando la posizione, mutuata an-
cora una volta da Marcel Duchamp, che la concezione dell’opera è già di per
sé un’opera d’arte, e che l’idea (il concetto appunto) che presiede la creazione
dell’opera, al di là del modo in cui viene realizzata o presentata, è l’oggetto
privilegiato attorno al quale ruota l’esistenza dell’opera stessa.

34
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

L’Arte Concettuale si nutre di riferimenti alla semiotica di Roland Barthes,


alla filosofia del linguaggio di Ludwig Wittgenstein, alla teoria critica di Herbert
Marcuse, e ad altri contributi filosofici, di teorie della percezione e del linguag-
gio. E la presenza del testo scritto associato a foto o a oggetti, del linguaggio
che si concreta oggettivamente nella sua forma pura, è una delle prime istanze
tipiche di artisti concettuali come Joseph Kosuth e John Baldessari. Con l’Ar-
te Concettuale la fotografia conquista un ruolo privilegiato all’interno dell’arte
contemporanea. La parola diventa il segno privilegiato e la Poesia Visiva, il Libro
d’Artista diventano una delle tante aree di ricerca dell’Arte Concettuale: cer-
tamente il riferimento è al Futurismo e al Dadaismo, ma in questo caso non si
tratta solamente di scardinare anche graficamente il testo classico, ma di indivi-
duare una formula con la quale lo spettatore possa ragionare sulla funzione del
linguaggio, interrogarsi sul senso stesso della comunicazione.
La radicale insofferenza nei confronti dell’establishment dell’arte contem-
poranea crea una serie di “sottoinsiemi” interni al grande ambito dell’Arte
Concettuale, definiti con termini che associano in maniera provocatoria pa-
role di uso comune con la fatidica parola “arte”. Per esempio la Mail Art, rap-
presentata fra gli altri da Ray Johnson, artista di orbita Fluxus, diventa una
forma di poesia visiva che usa come mezzo privilegiato di diffusione la posta
e non certo la galleria d’arte: vari artisti si spediscono opere incomplete che
vengono ridefinite collettivamente e a distanza, una sorta di reinterpretazione
del gioco del Cadavre exquis caro ai surrealisti.
La Land Art è l’azione di un artista effettuata direttamente su un paesag-
gio naturale o su una struttura architettonica, rappresentata da artisti come
Richard Long che opera interventi minimali, utilizzando materiali natura-
li come pietre o rami, per testimoniare il suo passaggio in un ambiente, o
da Robert Smithson che attua dei cambiamenti permanenti in alcune zone
naturali trasformandole con un atteggiamento quasi monumentale, o James
Turrell che lavora quasi esclusivamente con la luce.
La Body Art utilizza il corpo dell’artista come strumento principale e
come opera d’arte in sé. L’azione performativa del corpo, o le tracce tempo-
ranee che esso lascia sono le uniche testimonianze visibili concesse agli occhi
dello spettatore. Fra tutte le scelte di cui abbiamo parlato finora, la Body Art è
la forma di esperienza artistica più effimera in assoluto, e più bisognosa ovvia-
mente di un pubblico reale, di una audience più o meno ricettiva o coinvolta
nell’azione stessa. Per questo motivo molti artisti che adottano questa scelta

35
Capitolo 1

affidano alla ripresa video di documentazione una “possibilità di memoria”


in più rispetto alla semplice esecuzione della performance. Vito Acconci può
essere considerato l’artista di riferimento di questa scelta, tanto che alcune
delle sue performance vengono pensate esclusivamente per il video, facendo
nascere la cosiddetta videoperformance.
Ma sono per lo più artiste donne che sperimentano assiduamente la Body
Art: Carolee Schneemann che rivela un approccio più teatrale, o Ana Men-
dieta e Gina Pane che svolgono delle azioni a volte anche violente nei confron-
ti del proprio corpo e utilizzano il sangue e la nudità come elementi simbolici
primitivi, quasi totemici e contemporaneamente provocatori nei confronti di
una serie di tabù. Hermann Nitsch fa del sangue una sorta di elemento ricor-
rente delle sue azioni. Marina Abramović e il suo compagno dell’epoca Ulay
realizzano una serie di performance “relazioniali” che diventano col tempo
un punto di riferimento per molti artisti che si avvicinano a questa particolare
forma di espressione artistica.
È in questo contesto che si diffonde un altro termine: Television Art e in
seguito Video Art.

La Beat Generation e la poesia sperimentale americana

Non sono solo i fermenti artistici a trasformare gli Stati Uniti del dopoguerra
e in particolare New York in punti di riferimento per tutto il mondo della
cultura visuale, ma anche e soprattutto un movimento letterario chiamato
Beat Generation, un mix di sperimentazione linguistica applicata a racconti
spesso autobiografici di vite spericolate e al limite, esperienze all’insegna della
droga, della libertà sessuale, di scelte esistenziali alternative, di curiosità verso
le filosofie orientali, tutto modulato sui ritmi del jazz e del bebop: veloci,
sfrenati, senza controllo. Il romanzo di Jack Kerouac On the Road (1951) e il
componimento di Allen Ginsberg Howl (1956) diventano dei cult generazio-
nali. Il gruppo dei Beat è ricco di esperienze e di personaggi che diventeranno
icone, come quella dello sperimentatore di “paradisi artificiali” per eccellenza:
William Burroughs, autore di Naked Lunch (1959) e promotore della tecnica
del Cut-up, un sistema di scrittura casuale riferito al metodo dadaista che
gli viene suggerito dal poeta e pittore Brion Gysin, e che insieme applicano
anche in alcuni esperimenti cinematografici definiti Cut-up Movies. Gregory
Corso, Neal Cassidy, Loris Ferlinghetti e altri formano un gruppo che fra

36
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

poesia e narrazione cambia la storia della letteratura anche grazie al fatto che
molti sono performer, si esibiscono in serate in cui leggono le proprie opere: i
cosiddetti reading. Il movimento della Beat Generation è protagonista di un
film sperimentale di Robert Frank e Alfred Leslie, Pull My Daisy del 1959.
L’unione fra letteratura ed evento performativo, approfondita soprattutto
da Allen Ginsberg che diventa un personaggio noto al pubblico, quasi un’ico-
na per le sue esibizioni e per il suo look eccentrico, fa parte anche dell’estetica
di un poeta sperimentale slegato dal gruppo Beat, John Giorno, che entra nel
mondo dell’arte contemporanea grazie a una serie di collaborazioni con artisti
visuali e con musicisti, fino alla formulazione del Giorno Poetry System, che
consiste in una serie di manifestazioni dove si cerca di attirare un’audience
meno legata al mondo letterario, come il Dial-a-Poem, un sistema attraver-
so il quale alcune poesie sono disponibili telefonicamente, o eventi musicali
in collaborazione con Robert Moog, l’inventore dell’omonimo sintetizzatore
elettronico. John Giorno è il protagonista di uno dei primi film di Andy
Warhol, Sleep (1963), dimostrando il fatto che sempre più le varie discipline
si incontrano grazie al desiderio di una serie artisti di vivere dentro una vera
e propria comunità allargata, andando al di là della logica dei gruppi e dei
manifesti delle avanguardie storiche.

La rinascita del cinema sperimentale e del cinema d’animazione sperimentale

Il cinema sperimentale è una delle tante rivoluzioni linguistiche derivate


dall’onda lunga del fermento artistico delle Avanguardie Storiche e della pri-
ma stagione di ricerca linguistica della storia del cinema. La “settima arte”
diventa il fulcro di interesse di molti artisti d’avanguardia europei, preva-
lentemente pittori, che vedono in questa tecnologia un mezzo formidabile di
espansione delle tensioni estetiche che si agitano in tutti gli anni Venti. La
prima corrente che si sviluppa proviene dalla Germania e si definisce Absolut
Film: un cinema che nega in modo intransigente la referenzialità dell’imma-
gine e la vocazione narrativa della macchina cinematografica. Pionieri come
Viking Eggeling con Diagonale Symphonie (1923-24), Hans Richter con i suoi
vari Rhytmus, Walter Ruttmann con i suoi Opus e Oskar Fischinger con la
sua sterminata filmografia sono i protagonisti della nascita e dello svilup-
po del cinema astratto: film realizzati in gran parte con tecniche artigianali
d’animazione, che scoprono la meraviglia del movimento applicato alle figure

37
Capitolo 1

astratte. Oskar Fischinger, che vive il trapasso dal cinema muto a quello so-
noro, lega in un binomio inscindibile immagini astratte alla musica creando
un genere, il film astratto musicale, che avrà molta fortuna negli anni a venire
e che sopravvive, con altre tecnologie, ancora adesso.
Il pittore cubista Fernand Léger, in collaborazione con l’operatore america-
no Dudley Murphy, firma Ballet Mécanique (1924), con la musica di Georges
Antheil, sinfonia visiva in cui elementi metallici quotidiani ripresi nelle più sva-
riate maniere danzano insieme a frammenti del viso di Kiki de Montparnasse,
cantante, musa e modella di Man Ray e scandalosa “diva” della vita notturna
parigina di quegli anni. Capolavoro di montaggio, questo film, miscelando
immagini in cui si mostra l’antropomorfia di elementi industriali meccanici
associata a movimenti robotici del viso di Kiki, scandaglia il rapporto fra il
corpo e la macchina ipotizzando una sorta di nuovo Eros del futuro dominato
da meccanismi del desiderio in cui organico e inorganico trovano una sintesi
spiazzante. L’Eros è protagonista anche di due film intimamente surrealisti,
frutto della collaborazione fra Salvador Dalí e Luis Buñuel: Un chien andalou
(1927) e L’age d’or (1930). Sono opere in cui la narrazione cinematografica si
distorce a favore di una logica assurda, ricca di nonsense e di livelli simbolici,
debitrice della fascinazione nei confronti della psicoanalisi, in grado di pro-
durre immagini che rimangono indelebili per tutta la storia del cinema, come
la celebre sequenza d’apertura di Un chien andalou, il taglio dell’occhio che
violentemente invita il pubblico ad aprire la propria percezione alla visione e
non più solo alla superficie della realtà. Luis Buñuel continua a sperimentare
le possibili contaminazioni fra surrealismo e narrazione durante il suo periodo
“messicano”, per ritrovare una formidabile sintesi fra denuncia delle ipocrisie
della società e sperimentazione dei linguaggi nella trilogia che chiude la sua
filmografia: Le charme discret de la bourgeoisie (Il fascino discreto della borghesia,
1972), Le fantôme de la liberté (Il fantasma della libertà, 1974) e Cet obscur objet
du désir (Quell’oscuro oggetto del desiderio, 1977), film che rappresentano punti
di riferimento per molti artisti degli anni Settanta.
Man Ray produce una serie di film più intimi e personali, dove alcune delle
sue tecniche fotografiche (come le cosiddette rayographe, l’impressione dell’om-
bra degli oggetti direttamente sulla pellicola) vengono usate e riarticolate in
un immaginario che oscilla fra astrazione e referenzialità. Marcel Duchamp
produce un cortometraggio, Anémic Cinéma nel 1926, dinamizzando spirali in
bianco e nero alternate a scritte nonsense. Insomma, l’Astrattismo sperimenta il

38
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

movimento, mentre il Surrealismo e il Dadaismo inseriscono a pieno diritto il


cinema nella logica multidisciplinare tipica della loro estetica.
Jean Cocteau con Le Sang d’un poète (1930) e Jean Genet con Un chant
d’amour (1950), in epoche diverse e con differenti approcci stilistici, il primo
più estetizzante mentre il secondo più lirico e misurato, introducono tema-
tiche omosessuali che diventano importanti per alcune esperienze cinemato-
grafiche sperimentali a seguire, e rappresentano la seconda ondata di cinema
d’avanguardia europeo, sempre più contaminata da esigenze di narrazione e
dalla voglia di “fare cinema”: a parte il caso isolato di Genet, Jean Cocteau,
come Buñuel, continua a sperimentare il mezzo filmico confrontandosi con il
lungometraggio e con le esigenze della distribuzione “da sala”.
Hans Richter, uno dei protagonisti (tutti rifugiati a Zurigo a causa della
Prima guerra mondiale) della nascita del movimento Dada, pittore, autore di
cortometraggi astratti, ma anche di opere dallo spirito più dadaista, emigra, a
causa della Seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti nel 1940. Qui insegna
presso l’Institute of Film Techniques del City College di New York e realizza
una serie di cortometraggi sperimentali insieme a molti artisti europei scappati
dalla guerra e già citati prima: Max Ernst, Jean Cocteau, Paul Bowles, Fernand
Léger, Marcel Duchamp, Hans Arp, Raoul Hausmann, Richard Huelsenbeck,
Kurt Schwitters. Fra questi film, Dreams That Money Can Buy (1947) raggiunge
negli anni un certo successo anche perché a New York, proprio in quell’anno,
nasce una piccola sala cinematografica dedicata alla sperimentazione: Cinema
16 fondata da Amos Vogel.
È in questa sala che viene organizzata una mostra di film di colei che
è considerata la “madre” dell’avanguardia cinematografica americana: Maya
Deren. Ed è sempre in questo cinema, e nei corsi tenuti da Hans Richter, che
si forma il fondatore del primo movimento d’avanguardia cinematografico
americano: Jonas Mekas.
Maya Deren (Eleanora Derenkowskaia)1 è una danzatrice, coreografa, fo-
tografa e scrittrice di origini ucraine trasferitasi a Hollywood con il secondo
marito di origine ceca, che lavora come operatore cinematografico, Alexandr
Hackenschmied (più tardi Hammid). Partecipa dell’interesse di alcuni film-
maker americani al cinema surrealista europeo, e fra gli anni Quaranta e
1
Un dvd antologico dal titolo Maya Deren Experimental Films è stato distribuito prima
da Mystic Fire Video e in seguito da Microcinema. Purtroppo entrambe queste case di
distribuzione non esistono più.

39
Capitolo 1

Cinquanta produce una serie di cortometraggi in cui Surrealismo, danza e


simbolismo visivo di matrice esoterica si intrecciano intimamente. Meshes of
the Afternoon (1943) costituisce una sorta di caposaldo dell’avanguardia ci-
nematografica americana: Maya Deren si mette in scena come figura agente,
corpo-simbolo che si aggira fra mondi fatti di specchi, a metà fra il sogno e
la realtà (si sdoppia, attraversa in continuità spazi diversi, squaderna un co-
smo interiore rarefatto, magico, popolato da figure femminili enigmatiche).
La produzione di Maya Deren si sposta negli anni dal Surrealismo a una
forma estetica più originale, dove l’elemento della danza diventa sempre più
centrale, fulcro intorno al quale la cineasta americana costruisce enigmatici
labirinti pseudo-narrativi (Ritual in Transfigured Time, 1946), o puri studi sul
movimento filmato (Meditation on Violence, 1948). Gli attori dei suoi film,
oltre a danzatori professionisti e se stessa, sono persone appartenenti alla sua
vita quotidiana, come il marito, ma anche e soprattutto i suoi amici artisti
come Marcel Duchamp o John Cage.
Intorno a Maya Deren si forma un nucleo di cineasti anche radicalmente
diversi dalle scelte estetiche della filmmaker-danzatrice, e che col tempo si
agglomera in un gruppo definito The New American Cinema Group, coa-
gulato intorno alla rivista «Film Culture» fondata nel 1958, e connesso a una
piccola realtà di distribuzione nata nel 1962 chiamata The Film-Makers’ Co-
operative. Il fondatore di questo movimento è Jonas Mekas2, filosofo, poeta e
filmmaker di origine lituana, allievo di Hans Richter, assiduo frequentatore
del Cinema 16 e ammiratore della filmografia di Maya Deren. Per Jonas Me-
kas il desiderio di fare cinema nasce da un’unica necessità: l’urgenza di espri-
mersi; il film è la più diretta estroflessione del proprio io, del proprio mondo
interiore, al di là dei risultati stilistici o tecnici e dell’adesione a un linguag-
gio formalmente corretto. Nel 1962 Mekas, che è affascinato dai movimenti
d’avanguardia cinematografici europei degli anni Venti e condizionato dalle
varie Nouvelle Vague cinematografiche europee, pubblica su «Film Culture»
un manifesto, The First Statement of the New American Cinema Group, in cui
afferma che il cinema è una forma di pura espressione individuale che rifiuta
2
Il sito dell’artista è: http://jonasmekas.com/diary/. Le case di distribuzione RE:VOIR-
Potemkine-Agnès B DVD hanno editato sei dvd antologici: http://revoirvideo.blogspot.
it/2012/10/jonas-mekas-major-works.html. Mekas ha anche un canale Vimeo dove sono
presenti soprattutto le opere più recenti e quindi non inserite nei dvd: https://vimeo.com/
jonasmekas

40
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

le interfacce della troupe, del set, dei produttori e dei distributori; che non
vuole creare una scuola ma un luogo in cui si possono ritrovare tutti coloro
che vogliono distruggere le regole del passato, che vogliono sfidare la censura,
che vogliono, in una parola, sperimentare un’idea intima, ma al contempo
rivoluzionaria di cinema.
La filmografia di Mekas oscilla fra la documentazione creativa, l’autobio-
grafia filmata e dei ritratti (o “schizzi antropologici” come li definisce lui) di
personaggi, soprattutto artisti come Andy Warhol, George Maciunas o Allen
Ginsberg, che sono fondamentalmente amici, ma anche piccole star del proprio
firmamento intimo, compagni di viaggio di un’avventura esistenziale e artisti-
ca. La documentazione del filmmaker lituano si rivolge essenzialmente a eventi
artistici importanti per la sua formazione, come lo spettacolo del Living Theater
The Brig, filmato nell’omonimo cortometraggio nel 1964 come se l’osservatore
fosse una sorta di visitatore, astante privilegiato della messa in scena, o il primo
concerto dei Velvet Underground inserito in Scenes from the Life of Andy Warhol
(rieditato nel 1990 da materiali degli anni Sessanta). Il tema fondamentale della
filmografia di Jonas Mekas è la memoria, o meglio la reminiscenza, come recita
il titolo di una sua opera, Reminiscences of a Journey to Lithuania (1971-72), testi-
monianza filmata del suo viaggio in Lituania per andare a trovare la madre. Si
tratta di una memoria di immagini interiori, che scardina il linguaggio cinema-
tografico producendo opere in cui la cinepresa è un vero prolungamento delle
emozioni dell’autore: in continuo movimento, istintiva, ignara della sedicente
correttezza della grammatica visiva. Anche il montaggio si articola attraverso
continui salti temporali, assolvendo più a una funzione ritmica che narrativa: i
flash bianchi della fine della bobina, che normalmente vengono cancellati, di-
ventano una cifra stilistica ripresa e copiata da molti, a significare che anche il
difetto, la sgranatura, l’imperfezione, tutto quello che potrebbe sembrare “ama-
toriale” celebra la presenza di un osservatore, del suo mondo interiore, della sua
irrefrenabile voglia di esprimersi.
Jonas Mekas è anche un infaticabile organizzatore: nel 1970 fonda l’Antho-
logy Film Archives, un archivio, ma soprattutto una sala di proiezioni, punto
di riferimento per molti artisti. È anche promotore di una serie di incontri fuori
dagli Stati Uniti in cui presenta materiale del New American Cinema, prin-
cipalmente in Italia (come il ciclo di proiezioni alla Galleria d’Arte Moderna
e all’Unione Culturale di Torino nel 1968 organizzate da Edoardo Fadini),
stabilendo una connessione molto forte fra questi due paesi, e determinando

41
Capitolo 1

la nascita di un importante movimento di cinema sperimentale e di cinema


d’artista italiani, rappresentati da molti artisti (Gianfranco Baruchello, Mario
Schifano, Luca Patella, Paolo Gioli, Michelangelo Pistoletto per citarne solo
alcuni), ma anche da registi teatrali come Carmelo Bene, che in film come
Nostra signora dei Turchi e Hermitage (entrambi del 1968) e Salomè (1972) a ben
vedere (pur non dichiarandolo) si rivela influenzato dalle esperienze americane.
All’interno del New American Cinema trovano la loro casa filmmaker che già
operavano prima della fervida attività di Jonas Mekas e che hanno estetiche an-
che molto diverse dal “cinema diretto” e preferiscono guardare alle avanguardie
cinematografiche precedenti, mentre altri negli anni si assoceranno a questa
fortunata sigla.
Stan Brakhage (James Stanley Brakhage)3 è un filmmaker che costru-
isce, attraverso elaborazioni anche molto complesse della materia-pellicola,
una sorta di metafisica del proprio universo personale e autobiografico, una
specie di “mitologia dell’io” che si esprime in una serie di opere quasi tutte
rigorosamente mute, alcune dalla lunghezza inusitata, dove le immagini del
reale vengono sistematicamente rielaborate a favore della supremazia del pun-
to di vista emozionale dell’osservatore. Le sue opere sono combinazioni fra
immagini referenziali fortemente trattate e forme astratte ottenute attraverso
molteplici stratagemmi: sfocature, un determinato uso delle luci, esposizioni
multiple, ma anche e soprattutto interventi diretti sulla pellicola, come graffi,
acidi, solventi, pigmenti. Riprese spesso disarticolate e montaggi compulsi-
vi sono solo alcune delle caratteristiche stilistiche del filmmaker americano,
un vero sperimentatore ossessivo delle possibilità del linguaggio filmico. La
documentazione creativa dell’inesorabile connubio arte-vita si traduce qui in
una serie di opere in cui la realtà autobiografica viene costantemente mani-
polata, mentre in altri casi vengono filmate, sempre con un occhio partecipe,
situazioni visive al limite. Alla prima tipologia appartengono capolavori come
Anticipation of the Night (1958), Dog Star Man (1961-1964) e The Art of Vision
(1965), mentre alla seconda i controversi Window Water Baby Moving (1959),
dedicato al parto della sua prima moglie Mary Jane Collom; Love Making
(1968), dove vengono rappresentati con immagini esplicite atti etero e omo-
sessuali; e soprattutto The Act of Seeing with One’s Own Eyes (1971) dove si do-

3
La casa di distribuzione Criterion ha prodotto due dvd antologici della sterminata opera
di Brakhage: http://www.criterion.com/people/8216-stan-brakhage

42
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

cumenta una serie di autopsie di cadaveri deceduti di morte violenta, e dove


sostanzialmente Brakhage sfida il proprio sguardo e quello dello spettatore ad
assumersi la responsabilità dell’atto del vedere, del conoscere, superando tabù
e paure ancestrali.
Kenneth Anger (Kenneth Wilbour Anglemeyer)4 rappresenta un’al-
tra faccia del variegato mondo audiovisivo del New American Cinema:
magista, esperto di cultura esoterica legata alle teorie di Alesteir Crowley,
esteta, omosessuale dichiarato, mortalmente affascinato dai divi della prima
Hollywood e dalla loro terribile ma gloriosa caduta, è autore di opere in cui il
kitsch e il camp si rincorrono costantemente nel ricreare un pantheon perso-
nale di personaggi simbolici e mitologici inseriti in set casalinghi riccamente
arredati (Inauguration of the Pleasuredome del 1954), o in luoghi esotici (come
l’Egitto di Lucifer Rising del 1970-1980). Ma l’artista americano è anche at-
tento osservatore di fenomeni pop come la frangia gay degli Hell’s Angels, un
mix culturale impazzito dove le icone di Marlon Brando, James Dean, Gesù
Cristo e simboli nazisti possono convivere (Scorpio Rising, del 1964). La sua
estetica si discosta molto da quella dei filmmaker citati prima: l’attenzione
alla forma è ossessiva, e produce uno stile coloratissimo, antesignano del-
la psichedelia, e il ritorno prepotente alla musica (rigorosamente pop) come
colonna portante d’un montaggio attento al ritmo. La vicinanza sempre più
stretta fra mondo dell’avanguardia e altri ambiti, come la musica rock, è te-
stimoniata anche dall’interesse per alcune icone musicali e non (Mick Jagger,
Anita Pallenberg, Marianne Faithfull) che fanno capolino, alternate al rito
funebre di un gatto e a immagini della guerra del Vietnam, in Invocation of
My Demon Brother del 1969, un’opera che anticipa altre simbiosi fra arte e
pop, e cioè il cinema d’artista di Andy Warhol.
Ma le varie anime del New American Cinema sono veramente numerose
e impossibili da elencare tutte: gli esperimenti di cinema diretto di John Cas-
savetes in Shadows (1959); i suggestivi ed esoterici collage animati di Harry
Smith, vero guru di un’intera generazione di artisti; le provocazioni di Jack
Smith che in Flaming Creatures del 1963 mette in scena travestiti, omosessuali,
orge e drag queen in un gioioso inno alla cultura freak e all’ambiguità sessuale;
la filmografia di Shirley Clarke fra danza, documentario sociale e reinterpre-
4
Il sito del filmmaker è: http://www.kennethanger.org/, mentre la sua filmografia completa
è disponibile in tre dvd distribuiti da Fantoma: http://www.fantoma.com/fantoma.html;
recentemente Anger ha aperto un canale Vimeo: https://vimeo.com/user28482394

43
Capitolo 1

tazione astratta del reale; queste e altre esperienze costituiscono un intreccio


complesso e variegato di sperimentazioni del linguaggio cinematografico.
Ma è l’attività di un artista particolare che fa entrare definitivamente il
cinema nell’ambito dell’arte contemporanea che ruota intorno al luogo fisico
della galleria, determinando un vero e proprio spartiacque, ovvero la creazio-
ne del connubio fra arte contemporanea e sperimentazione cinematografica.
Andy Warhol5 frequenta Jonas Mekas e Jack Smith, e conosce la variegata
realtà del New American Cinema nel momento in cui, agli inizi degli anni
Sessanta, all’apice della sua carriera pittorica, annuncia che si occuperà solo
più di film. Warhol, come Kenneth Anger, vuole costruire un suo personale
connubio fra sperimentazione e star system pop, e come Jonas Mekas, crea
un proprio modello di cinema diretto. Fedele alla sua estetica seriale, legata
al concetto di macchina, è attratto dalla staticità e non a caso il suo primo
film è Sleep (1963), sei ore di girato di John Giorno che dorme. Con un atteg-
giamento simile alla cosiddetta “linea Lumières” degli esordi della storia del
cinema, a Warhol interessa cogliere delle situazioni e documentarle nel loro
fluire naturale. Dato che la tecnica cinematografica non può garantire tempi
particolarmente lunghi a causa del limite di lunghezza della bobina, rallenta
il più possibile la velocità del film, o riprende direttamente oggetti statici,
come il famoso Empire (1964), otto ore di girato dell’Empire State Building:
data la fissità della ripresa, i cambi di bobina sono praticamente impercet-
tibili. Il suo cinema diventa rapidamente, come molte esperienze del New
American Cinema, autobiografico ma, contrariamente a quel movimento, è
una biografia fredda, glaciale, dove il protagonista è assente, fuso completa-
mente con la macchina da presa che pretende un affollamento di corpi come
profilmico. Racconta la Factory che diventa il suo set privilegiato e il popolo
che la frequenta che si trasforma nella “star” collettiva del suo firmamento,
una Hollywood a suo uso e consumo, dove non c’è bisogno di saper fare
nulla, se non apparire con tutte le personali nevrosi.
I performer di Andy Warhol sono attori non professionisti che però vivo-
no una vita artificiale dominata dalle mode, dal mondo dello spettacolo, dalle
icone del rock, dalla tossicodipendenza, dalle pulsioni sessuali, da un insana-
bile, gioioso e a volte violento egotismo che ha un solo fine: diventare famosi,
5
Il sito del Museo Andy Warhol è: http://www.warhol.org/. Nel catalogo della casa di
distribuzione Rarovideo è presente una buona parte dei suoi film: http://www.rarovideo.
com/

44
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

importanti, indimenticabili. E alcuni di loro ci riescono, grazie soprattutto alla


loro sfortunata biografia, come Edie Sedgwick, vera icona e “martire” della
Factory. Le dinamiche linguistiche usate da Warhol assomigliano a quelle del
neorealismo o al cinema-verità o al cinema documentario, ma nei suoi film
si respira un’atmosfera di totale artificio, con un rovesciamento estetico che
trasforma tutti i personaggi ripresi in elementi inorganici, inattivi, determi-
nando un’atmosfera spesso carica di senso di morte, amplificato dalla scelta
del bianco e nero. Anche nei film in cui diventano esplicite tematiche etero e
omosessuali, come Blow Job (1964), l’invisibilità dell’atto e l’artificialità deter-
minata dal rallentamento dell’immagine provocano un senso di straniamento
non catartico, un allontanamento percettivo dalla sfera delle sensazioni a favore
di una contemplazione non partecipata. E se raramente si cerca l’appoggio di
un testo, come in Vinyl (1965), stralunato adattamento di A Clockwork Orange
di Anthony Burgess, la maggior parte dei film diventa puro pretesto per i per-
sonaggi della Factory di esibirsi in monologhi intenzionalmente noiosi, azioni
prolungate e senza senso. Alcuni dei suoi film sono dei semplici test: personaggi
vari, già famosi e non, che posano staticamente davanti alla cinepresa, senza
fare nulla. Pura superficie.
L’opera più conosciuta e forse la più ambiziosa di Andy Warhol è Chelsea
Girls (1966), film strutturato in due proiezioni sincronizzate, linguisticamen-
te più ricco dei film precedenti dato che vi sono parti a colori e un maggior
movimento di ripresa, rappresentato da zoomate e sfocature “a vista” che de-
nunciano ancora una volta la rinuncia alla correttezza formale del linguaggio
cinematografico. Il film consiste in una serie di episodi parzialmente montati,
dove compaiono una serie di personaggi, tra cui Nico, la cantante dei Velvet
Underground, e altri membri della Factory in varie azioni, monologhi, di-
scussioni, litigi anche violenti.
Warhol produce molti cortometraggi che creano una sorta di trend all’in-
terno del settore dell’arte contemporanea: l’idea che l’immagine in movimen-
to possa essere fruita come se fosse un oggetto esposto; l’assenza di montaggio
e la fondamentale staticità degli elementi ripresi o la dilatazione del tempo de-
rivata dal rallentamento eccessivo dell’immagine stessa invitano lo spettatore
a fruire queste opere non come film che pretendono un’attenzione narrativa,
ma come esperienze visive “oggettuali”, quadri in movimento. E nonostante
alcune opere di Warhol siano anche proiettate al cinema, la loro dimensione
più adatta è quella della mostra: anch’esse, come i personaggi che le animano,

45
Capitolo 1

vanno esibite. È un passaggio importante perché se è vero che i filmmaker di


cui abbiamo parlato finora frequentano e collidono con il mondo dell’arte
contemporanea, le loro opere sono vissute in contesti in cui si parla di cinema
sperimentale, mentre con Andy Warhol si comincia a parlare di cinema d’ar-
tista, di un modello di cinema che ha bisogno di rapportarsi con uno spazio
che non è più solo la sala cinematografica.
Isolato dal fermento newyorchese e immerso nelle atmosfere beat dell’al-
tra sponda creativa americana, ovvero San Francisco, c’è un altro artista in-
timamente multidisciplinare, fotografo, collagista, disegnatore e scultore,
che comincia alla fine degli anni Cinquanta a realizzare film: Bruce Conner.
L’estetica del collage si riverbera anche nella sua produzione cinematografica
attraverso l’idea del riciclo e del ri-montaggio creativo di materiali preesisten-
ti, altrimenti definiti found footage, una pratica che ancora adesso è usata e
che ha avuto negli anni vari nomi, da cut-up (come la definisce Burroughs)
all’odierno mesh-up, e che diventa un vero e proprio genere sia nell’ambito
sperimentale (basti ricordare La verifica incerta di Gianfranco Baruchello e
Alberto Grifi del 1964) sia in quello dei video musicali di MTV, fino ad arri-
vare a esperienze televisive come Blob di Enrico Ghezzi.
A MOVIE (1958), tutto maiuscolo come la maggior parte dei titoli delle
sue opere, è il primo film di Conner che assembla materiali vari, ma soprat-
tutto immagini di guerra, per ridefinire la natura cinematografica come ma-
teriale puro, oggetto da ricostruire a proprio piacimento. Gli accostamenti
delle scene vogliono programmaticamente provocare un senso agli occhi del-
lo spettatore, e quindi l’estetica di montaggio dell’artista americano affonda
nella tradizione del montaggio delle attrazioni, potenziandola però e facen-
dola diventare la “materia prima” del fare cinema. La critica verso la violenza
della società americana, i media, il consumismo, il perbenismo e la censura
è il tema costante di tutte le sue opere. In REPORT (1963-1967) la sequenza
televisiva dell’omicidio di John Kennedy viene ripetuta ad libitum, con un
effetto straniante: la falsità intrinseca delle immagini che servono esclusiva-
mente a costruire un immaginario che Conner vuole sistematicamente smon-
tare davanti agli occhi dello spettatore produce anche dei consapevoli “falsi”,
come in MARILYN TIMES FIVE (1968-1973), ri-montaggio di materiale
erotico degli anni Cinquanta in cui compare una modella molto somigliante
a una giovane Marilyn Monroe che viene spacciato come un filmato “proibi-
to” realmente realizzato dalla celebre star di Hollywood.

46
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

Anche Conner, come tanti filmmaker di questo anni, sdogana l’imma-


gine del corpo nudo come elemento significante di un’estetica liberatoria,
e nei pochi film in cui non vi è solo materiale riciclato compaiono immagini
di danzatrici nude che vengono inserite caoticamente dentro al magma del
flusso visivo, come in Cosmic Ray (1962). La sua carriera prosegue negli anni
attraverso committenze videomusicali per musicisti come i DEVO, Terry Ri-
ley, Brian Eno e David Byrne. Mongoloid (1977) per i DEVO, rimontaggio
caustico e irriverente di materiali che si riferiscono alla psichiatria, diventa
uno dei video musicali più controversi e innovativi della stagione creativa
precedente all’avvento di MTV.
Man mano che ci si avvicina agli anni Settanta, New York e San Franci-
sco non rappresentano gli unici punti di riferimento dei movimenti artistici
che coinvolgono il mondo del cinema. Il Canada, l’Europa e il Giappone
cominciano a generare esperienze significative, e infatti l’ultimo filmmaker
che chiude questa rassegna inevitabilmente sintetica sul cinema sperimentale
è canadese: Michael Snow6, più di tutti influenzato dalle istanze dell’Arte
Concettuale, utilizza un’estetica quasi strutturalista che vuole indagare alcu-
ne zone del linguaggio cinematografico per ampliarlo, vederlo al microscopio,
testarne i limiti soprattutto percettivi. Così in Wavelenght (1967) una lunga
zoomata di 45’, interrotta da sovrimpressioni, stacchi, colorizzazioni e disturbi
della pellicola che intralciano la continuità del movimento, procede dal totale
di una stanza fino a una foto appesa al muro raffigurante un mare increspato
dalle onde, mentre in La Région Centrale (1971) la cinepresa, agganciata a un
braccio meccanico che le permette di fare qualsiasi tipo di movimento e di
rotazione, indaga per tre ore su una serie di paesaggi rocciosi. Il paesaggio
esterno e lo spazio interno, rappresentato dall’immagine della stanza, sono
temi che ossessivamente si rincorrono nella filmografia di Snow. Dalla pura
vocazione concettuale, So Is This (1982) è un film di 50’ interamente fatto di
scritte bianche su sfondo nero: parola per parola, una serie di frasi che pon-
gono delle questioni sulla struttura del film stesso scorrono davanti agli occhi
dello spettatore, che a causa della durata “forzata” del tempo di lettura fatica a
ricomporre il significato delle frasi stesse. Michael Snow è anche curioso della
tecnologia video, che comincia a sperimentare sistematicamente solo dagli
6
La fondazione Langlois, sotto la direzione di Anne-Marie Duguet, ha prodotto nel 2002
un dvd rom dal titolo Anarchive 2: Digital Snow, con le opere di Michael Snow; ora il
contenuto del dvd è disponibile online: http://www.fondation-langlois.org/digital-snow/

47
Capitolo 1

anni Duemila, come testimonia una delle sue ultime opere, Corpus Callosum
(2002), enigmatico viaggio della telecamera all’interno di un ufficio dove la-
vorano degli impiegati, e nel quale avvengono varie anomalie visive che fanno
emergere una realtà inquietante dietro l’apparente freddezza dell’ambiente.
In maniera parallela a questo magma di tensioni sperimentali prosegue
l’altra corrente del cinema d’avanguardia: il cinema astratto. L’animazione è
fin dalle sue origini la tecnologia privilegiata dagli artisti che scelgono di im-
mettere nel flusso del tempo le loro immagini non referenziali. E come tante
tecniche, quella del “passo uno” si trasforma, declinandosi di volta in volta in
modo diverso, a seconda delle scelte sperimentali dei registi che la adottano.
Len Lye (Leonard Charles Huia Lye)7, disegnatore, scultore e poeta, nasce
in Nuova Zelanda da una famiglia europea, ma il suo aperto riconoscimento
nei confronti dell’arte tradizionale maori e il fatto di venire “sorpreso” a vi-
vere in una comunità indigena inducono il governo coloniale neozelandese a
espellerlo dal paese. Lye si trasferisce inizialmente a Londra nel 1926 per poi
trasferirsi negli Stati Uniti negli anni Cinquanta. In Inghilterra conosce John
Grierson, il direttore del GPO Film Unit, l’ufficio che si incarica di produrre
i filmati promozionali del servizio postale inglese, lo UK General Post Office,
ma anche documentari e cinegiornali. Qui Len Lye sviluppa una tecnica già
adottata da Man Ray e da altri sperimentatori di “effetti speciali”: quella di
intervenire direttamente sulla pellicola graffiandola, disegnandola, applican-
dovi timbri e materiali semitrasparenti. Len Lye elimina la macchina da presa
per lavorare direttamente sulla materia pellicola, producendo una serie di
opere che sono chiamate anche scratch film, o direct animation.
Sul solco dell’estetica pop di Fischinger e consapevole del fatto che i film
che il GPO produce sono committenze nel senso più stretto del termine, Len
Lye trasforma l’estetica del cinema astratto in qualcosa di colorato, allegra-
mente musicato, ritmico, caotico e coinvolgente. Appassionato di musica jazz
e di musica da ballo, per Len Lye le immagini devono esplodere ritmicamente
davanti agli occhi dello spettatore in un magma cromatico incontrollabile
e matericamente variegato. Quello di Len Lye è un vero cinema “gestuale”,
dove l’azione dell’artista è evidente fotogramma per fotogramma, una sorta
7
I film di Len Lye sono disponbili nel dvd dal titolo Rhythms distribuito da RE:Voir;
http://revoirvideo.blogspot.it/2009/06/dvd-len-lye-rythms-pal-2400-euros.html
Il sito della Len Lye Foundation è il seguente: http://www.govettbrewster.com/Len-Lye/
Foundation

48
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

di antesignano “cinetico” dell’action painting di Pollock, ma anche di alcune


scelte cromatiche care alla Pop Art e alla psichedelia.
A Colour Box e Kaleidoscope (entrambi del 1935), e Colour Flight (1937)
sono alcuni dei film che segnano una nuova era nella storia del cinema astrat-
to, soprattutto per le loro scelte stilistiche e tecnologiche. Len Lye è un infati-
cabile sperimentatore, e in A Rainbow Dance (1936), una delle sue opere più
importanti, compare la figura umana, trattata come una silhouette colorata,
a complicare ulteriormente l’ordito visivo e ad attestare una volta per tutte
che il cinema d’animazione può essere il luogo privilegiato dell’ibridazione
di fonti visive anche molto diverse: disegni, macchie, graffi, timbri e riprese
dal vero.
Più giovane di lui di una decina d’anni, un altro artista gravita negli uffici
del GPO Film Unit: è lo scozzese Norman McLaren8. Durante la Seconda
guerra mondiale fa parte dei tanti artisti emigrati negli Stati Uniti: qui dal
1939 al 1940 produce alcune opere grazie a una borsa di Studio della Solo-
mon Guggenheim Foundation, e nel 1941 viene chiamato sempre da John
Grierson che, appena entrato a far parte del National Film Board of Canada,
vuole aprire una sezione dedicata all’animazione. Norman McLaren si trasfe-
risce definitivamente in Canada, dove diventa il capo animatore di un gruppo
di studenti. Nel 1943 nasce ufficialmente la sezione animazione e negli anni a
seguire il National Film Board of Canada diventa una delle realtà produttive
e distributive più grandi e importanti di cinema (e ora video) animato.
Il corpus di opere di Norma McLaren è sterminato, e comprende film
realizzati con tecniche molto diverse. In generale, lo stile dell’animatore scoz-
zese, sia che faccia film astratti con la tecnica dell’animazione diretta, sia
che realizzi opere più tradizionali dove il disegno serve a evocare figure più
referenziali, è dominato da un grande controllo, un rigore che in alcuni casi
può essere confuso con la freddezza, ma che deve essere interpretato come fa-
scinazione nei confronti della matematica e della geometria. La sua curiosità
spazia da scelte minimali, come Dots (1940) realizzato esclusivamente con dei
punti, Rhytmetic (1956) con delle cifre, o Lines Vertical (1960) con, appunto,
linee verticali, a scelte decisamente più pittoriche, come A Phantasy del 1957.
8
Il National Film Board of Canada ha realizzato un cofanetto con sette dvd contenenti
la filmografia completa di Norman McLaren, dal titolo L’ integrale Norman McLaren The
Master’s Edition. Sul sito del National Film Board of Canada Norman McLaren è presente
con alcune opere: https://www.nfb.ca/explore-all-directors/norman-mclaren

49
Capitolo 1

In molti dei suoi film, appartenenti al primo periodo produttivo, McLaren è


debitore dell’esperienza fatta presso il GPO e della vicinanza con l’attività di
Len Lye, con una profonda differenza nelle scelte musicali: è un musicista in-
teressato alla musica elettronica e spesso le sue opere sono una combinazione
di forme e suoni entrambi realizzati da lui.
In realtà è in altre tipologie di opere che il talento di McLaren sviluppa
uno stile personale e un trend che sopravvive ancora oggi in vari modelli di
cinema: l’utilizzazione del corpo umano animato. Il passaggio è importante,
perché in questi anni la sperimentazione sulle tecniche d’animazione spinge
gli artisti a procedere verso un fronte che possiamo genericamente definire
anti-Disney o anti-cartoon hollywoodiano, e quindi radicalmente antinar-
rativo e non referenziale. L’introduzione della figura umana non disegnata,
ma trattata alla stregua di una marionetta animabile in stop motion, crea una
sorta di ibrido con la tradizione dell’animazione fatta coi pupazzi e il cinema
dal vero. Non si tratta solo di inserire personaggi reali su sfondi disegnati,
ma di elaborare tutto il profilmico (personaggi, ambienti, oggetti reali) come
oggetti animabili, in uno scambio costante e contraddittorio di differenti na-
ture: gli oggetti si muovono come esseri umani, e questi si muovono come
pupazzi meccanici. Il corpo diventa il territorio d’indagine privilegiato, e pre-
tende la presenza di un senso: ci si allontana dall’astrazione pura per entrare in
un ambito in cui ricompare la voglia di raccontare non solo linearmente una
storia, ma una situazione, una suggestione, un’emozione; ritorna in maniera
preponderante il Surrealismo come riferimento estetico. Neighbours (1952),
semplice metafora dei problemi di vicinato che possono condurre a una guer-
ra, vincitore del premio Oscar nel 1953, e A Chairy Tale (1957), stralunata e
ironica storia del rapporto quasi amoroso fra un uomo e una sedia, diventano
punti di riferimento nodali di questo passaggio, che sembra un “passo indie-
tro” ma in realtà rende più complessa e variegata l’area sperimentale animata,
sganciandola dall’estetica privilegiata dell’astrattismo, che pure prosegue per
altre vie.
Inevitabilmente si apre (o meglio si riapre) un altro terreno d’indagine
derivato dal rapporto fra corpo e immagine in movimento: la danza. In que-
sto caso McLaren crea un altro modello di ibridazione possibile, ovvero la
trasformazione del corpo in elemento astratto, un segno bianco e geometrico,
oggetto puro, disponibile alle mutazioni delle tecniche adottate. In Pas de
deux (1968) Norman McLaren coerentemente parte da un modello di danza

50
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

classico, utilizzando due danzatori vestiti con i costumi canonici del balletto,
per trasformare i loro movimenti in flussi geometrici, moltiplicando la silhou-
ette dei loro corpi, annullando quasi la loro presenza fisica, per realizzare un
cortometraggio per certi versi allucinatorio; il più emozionale della filmogra-
fia di McLaren.
La tecnica dello stop motion, detta anche pixilation, ovvero l’animazione
non più di disegni ma di oggetti, pupazzi o figure umane conquista un’area
di pubblico più adulta e adotta un linguaggio maggiormente sperimentale
attingendo sempre di più a estetiche neosurrealiste. Il principale promotore di
questo fenomeno è Jan Švankmajer9, scenografo e costruttore di marionette
nato a Praga che inizia a realizzare film nella metà degli anni Sessanta. Lavora
presso Laterna Magika, un teatro dove si eseguono performance multimediali
non verbali, frutto di una combinazione di danza, proiezioni di film ed effetti
luminosi, e dove si sperimenta il cosiddetto “teatro della luce nera”10, e più
tardi aderisce al Gruppo Surrealista Cecoslovacco. Švankmajer è un infati-
cabile creatore di cortometraggi ma anche e soprattutto di lungometraggi,
questi ultimi realizzati in larga parte in stop motion.
I suoi temi ossessivamente ricorrenti sono il cibo, il sesso, il cannibalismo,
lo scontro tra il maschile e il femminile, la modificazione dei corpi, il crinale
fra il mondo dell’inconscio e la cosiddetta realtà. Il linguaggio che adotta è
essenziale fino a risultare asettico: quasi mai parlate, se non con singole frasi
molto rumorose, le sue opere adottano un montaggio cadenzato, quasi ritua-
le, dove spesso si ripetono le stesse situazioni con piccole varianti; la messa
in scena è scarna, le scelte di ripresa sono di taglio quasi documentaristico.
9
Il sito dell’artista è: http://www.jansvankmajer.com/. I suoi cortometraggi si possono tro-
vare nel dvd Jan Švankmajer The Complete Short Films distribuito dal British Film Institute:
http://www.bfi.org.uk/blu-rays-dvds/jan-svankmajer-complete-short-films, mentre i suoi
lungometraggi sono disponibili in dvd in diverse edizioni.
10
Il “teatro della luce nera” o “teatro nero” è una particolare tecnica derivata dal teatro di
marionette giapponese Bunraku, sperimentata e sviluppata, tra gli altri, da Constantin
Stanislavski e Georges Méliès, e infine definita con questo nome da Jiri Srnec nel 1959 a
Vienna. Si basa sull’effetto ottico grazie al quale il pubblico non percepisce oggetti neri
posti su uno sfondo nero, in questo caso la scatola nera o black box del palco teatrale pri-
vo di scenografie. Sfruttando particolari effetti luminosi, come le lampade di wood che
emettendo una determinata frequenza illuminano solo alcuni colori, o semplicemente
utilizzando meccanismi e persone opportunamente coperti di nero che si confondono
con lo sfondo, si possono ottenere vari effetti visivi. Alcune risorse sul web sono http://
www.srnectheatre.com/bts/eng e http://www.blacktheatre.cz/en/

51
Capitolo 1

Eppure, nonostante questa pulizia linguistica ostentata, il suo è un cinema


fantasmagorico, ricco di invenzioni visive, irriverente, libero di spaziare fra
soluzioni visive grottesche o horror e di scivolare con ingenua libertà fra ge-
neri colti e non, totalmente concentrato sulle possibilità tecniche e stilisti-
che offerte dalla stop motion, ma non ripiegato sulla semplice ostentazione
dell’effetto speciale.
Fra le opere più significative che utilizzano l’animazione di elementi e per-
sonaggi ripresi dal vero si possono ricordare il mediometraggio Food del 1992,
dove i temi ricordati prima vengono visualizzati in maniera ironica e rocambo-
lesca, e i lungometraggi Alice (1988), versione oscura e inquietante, radicalmen-
te anti-Disney, della fiaba di Lewis Carroll, e Otesanek (2000), tratto da una
fiaba di Karel Iaromír Erben, storia di una donna che non può avere figli e che
“adotta” un ceppo di legno che comincia a divorare qualsiasi cosa.
Sul solco dell’estrema influenza che il cinema di Švankmajer esercita in
molti settori non solo cinematografici, nasce l’attività artistica dei Brothers
Quay11. Stephen e Timothy Quay sono due gemelli americani che si trasfe-
riscono a Londra nel 1969, ma di fatto sono intrisi di riferimenti culturali
che hanno radici nell’Europa dell’Est, nell’animazione polacca e ceca, negli
scrittori di quei paesi (Franz Kafka e Bruno Schulz fra tutti). Sebbene la loro
estetica, dichiaratamente figlia di quella di Švankmajer, sia più classica nel
metodo (le loro opere sono quasi tutte realizzate attraverso l’animazione di
marionette) e molto più raffinata dal punto di vista estetico, i Brothers Quay
creano un immaginario esoterico e oscuro che influenza molti artisti visivi
che dagli anni Novanta in poi rappresentano la seconda ondata di sperimen-
tazione videoartistica, ma ricade anche in molto immaginario videomusicale
e cinematografico. Street of Crocodiles (1986) è ancora oggi considerato il loro
capolavoro, un cortometraggio in cui una marionetta, liberata dai suoi fili,
vaga in vari ambienti post industriali e decadenti incontrando diversi perso-
naggi: qui i Brothers Quay sfoggiano tutta una serie di abilità tecniche care al
loro stile, come per esempio i movimenti di macchina robotici gestiti sempre
in stop motion, la capacità di animare oggetti minuscoli, come la polvere,
piccoli chiodi o fili sottilissimi, e l’abilità di generare un’atmosfera da “fiaba
noir” che permea non solo quest’opera ma la loro intera filmografia.
11
Un’ampia scelta di opere dei Brothers Quay è presente nel dvd The Short Films of the
Quay Brothers distribuito da Zeitgeist Films: http://www.zeitgeistfilms.com/film.php?dir
ectoryname=quayretrospective&mode=filmmaker/

52
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

La diffusione della musica elettronica

L’utilizzo di tecnologie e strumentazioni elettroniche all’interno della musica


acustica è una delle tante rivoluzioni iniziate nei primi decenni del Novecento
che si sviluppano in Europa, in particolare in Germania e in Francia. Dopo la
prima spaccatura della musica cosiddetta tonale operata da Arnold Schönberg,
Alban Berg, Anton Webern e altri, promotori della musica atonale o dodeca-
fonica, lo strumento elettronico o il nastro magnetico cominciano a ibridare
sempre più gli ensemble tradizionalmente acustici.
In Francia il movimento della Musica Concreta, o Arte Acusmatica – capi-
tanato da Pierre Schaeffer ed Edgar Varèse e sviluppato nell’immediato dopo-
guerra – introduce sempre di più l’uso del nastro magnetico a fini rumoristici: si
registrano suoni ambientali che vengono integrati in composizioni suonate con
strumenti acustici. In questi anni non solo in Francia giocano un ruolo molto
importante gli studi radiofonici che offrono la possibilità ai musicisti di speri-
mentare attrezzature elettroniche non ancora economicamente sostenibili per
tutti. Lo dimostra il fatto che in Francia lo studio RDF della Radiodiffusion
Française (che ospita il Groupe de Recherches de Musique Concrète fondato
da Schaeffer stesso) diventa un polo di riferimento per molti sperimentatori
musicali.
Anche in Italia accade un fenomeno simile con l’apertura dello Studio
di Fonologia della Rai di Milano (1955) che ospita l’attività di compositori
come Bruno Maderna, Luciano Berio e Luigi Nono, mentre in Germania a
Colonia presso gli studi della WDR si insedia un “colosso” come Karleinz
Stockhausen, il quale fonda nel 1951 il suo Studio Für Electronische Musik.
Un anno dopo John Cage, allievo fra gli altri di Arnold Schönberg che in quel
momento insegna a New York, insieme a David Tudor e Morton Feldman
fonda, presso la Columbia University, il Music for Magnetic Tape Project.
Nel 1958 a Londra nasce il BBC Radiophonic Workshop.
Il fronte sperimentale continua la ricerca tecnologica adottando un altro
strumento che nel frattempo appare anche in questo settore: il computer,
che viene usato inizialmente come strumento per elaborare metodi di scrit-
tura musicale innovativi o per gestire stratagemmi compositivi originali. Già
nel 1962 il compositore Iannis Xenakis usa il computer per comporre quella
che viene definita Musica Stocastica, brani musicali composti con il metodo
matematico delle probabilità, e dagli inizi degli anni Settanta il compositore

53
Capitolo 1

Gottfried Michael Koenig utilizza il computer non solo per programmare


le sue composizioni ma anche per produrre suoni. Si comincia a parlare di
Computer Music, una pratica che vive un suo percorso parallelo a quello
qui illustrato, e che rappresenta l’ennesimo spartiacque nella sperimentazione
musicale.
Un altro centro importante, ma nato più tardi, nel 1977, e con una confi-
gurazione un poco diversa rispetto ai centri radiofonici è l’IRCAM (Institut
de Recherche et Coordination Acoustique/Musique), fondato da Pierre Bou-
lez, anch’egli compositore elettroacustico dedito già dagli anni Cinquanta
allo sviluppo dell’uso dell’elettronica dal vivo (live electronics), all’elabora-
zioni di composizioni aleatorie o alla spazializzazione del suono. L’Institut è
un vero e proprio laboratorio tecnologicamente avanzato, aperto a progetti
esterni. Boulez esercita una forte influenza sul lavoro di Stockhausen e di
John Cage.
La figura di John Cage e il suo incontro con Marcel Duchamp sono no-
dali per molte delle arti d’avanguardia nate negli Stati Uniti. Cage non è solo
uno sperimentatore del nastro magnetico, ma un vero e proprio “progetti-
sta” di eventi sonori realizzati nei modi più disparati. Usa strumenti acustici
modificati, come il cosiddetto “piano preparato”, un pianoforte sulle corde
del quale vengono buttati casualmente oggetti metallici che ne modificano
profondamente il suono; organizza concerti con gruppi di musicisti collegati
a distanza in diversi studi radiofonici; sviluppa metodi aleatori di composi-
zione basandosi sul metodo della divinazione dei Ching; scrive colonne so-
nore per spettacoli di danza creando un sodalizio artistico con il coreografo
Merce Cunningham; collabora con artisti visuali e viene supportato già nel
1949 dalla Guggenheim Foundation che gli apre le porte del vasto ambiente
dell’arte contemporanea. Ma è anche un performer: celeberrima la sua pro-
vocazione intitolata 4’33’’ dove si invita l’esecutore a stare in piedi davanti al
pubblico mostrando un cronometro per, appunto, 4’ e 33’’, senza fare nulla,
nel più assoluto silenzio. Le sue lezioni vengono seguite dalla gran parte degli
artisti Fluxus, che diventano i protagonisti di molti eventi musicali condotti
da Cage. Insomma, il musicista americano diventa un vero e proprio perso-
naggio, per alcuni una sorta di guru dell’arte d’avanguardia americana.
Uno spartiacque tecnologico per quello che riguarda la musica elettronica
è la diffusione dei sintetizzatori analogici, tastiere in grado di produrre suoni
a partire dalla combinazione di frequenze semplici. Da ingombranti apparati

54
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

questi strumenti diventano fra gli anni Sessanta e Settanta sempre più ma-
neggevoli e intuitivi da usare, tanto da scavalcare l’ambito musicale “colto”
per essere sempre più diffusi in ambito pop e rock. Il responsabile della com-
mercializzazione del sintetizzatore è l’ingegnere Robert Moog, che dà il suo
cognome a uno strumento progettato nel 1963 e che ottiene negli anni un
successo sempre più clamoroso, il moog appunto.
Da questo momento in poi la musica elettronica cambia, generando un
altro settore che conquista un pubblico più vasto, non solo appassionato alla
sperimentazione radicale che comporta un notevole impegno nell’ascolto: la
Minimal Music, la musica minimalista, rappresentata da musicisti sempre in-
seriti nell’area di New York come Terry Riley, La Monte Young, Steve Reich
e Philip Glass. In questo campo permane come scelta stilistica, tranne in rari
casi, la contaminazione fra acustico ed elettronico e dal punto di vista com-
positivo si lavora su proposte tonali, ritmiche, dove la continua ripetizione
di semplici frasi musicali realizzate con poche note invita l’ascoltatore a non
lasciarsi trasportare in tentazioni emozionali o descrittive, ma ad abbando-
narsi all’astrazione, a un universo ipnotico e primitivo, spesso ispirato dalle
musiche orientali, soprattutto indiana. In C del 1964 di Terry Riley viene
considerato il primo esempio di questo genere musicale, ma sono soprattutto
Steve Reich e Philip Glass a esportare il loro particolare stile negli spettacoli
di danza e teatro e soprattutto nel cinema.
Negli anni Settanta, grazie alla diffusione capillare di vari modelli di sin-
tetizzatori, nasce in Germania, proprio a Colonia, patria della sperimenta-
zione di Stockhausen, un genere come la Kosmische Musik, capitanato da
gruppi come Tangerine Dream o da solisti come Klaus Schulze che abban-
donano decisamente qualsiasi tentazione acustica per affidarsi totalmente alle
nuove macchine, proponendo lunghe suite musicali elettroniche dall’impian-
to sonoro “futuribile”, ma dal punto di vista compositivo tradizionale, con
un ritorno decisivo alla tonalità o al libero flusso di frequenze ipnotiche, che
trovano un inaspettato pubblico e un successo commerciale crescente, fino
ad arrivare alle proposte dei Kraftwerk che aprono le porte alla Dance Music
e alla Techno.
L’avvento del campionatore, primo passo verso la digitalizzazione del suo-
no, ovvero di una tastiera che può registrare suoni dall’esterno, fa progredire
ulteriormente l’ambito musicale, nel quale nascono interessanti ibridi fra speri-
mentazione e pop. Un esempio fra tutti è Laurie Anderson, poetessa, musicista

55
Capitolo 1

ma soprattutto performer, che giovanissima, già agli inizi degli anni Settanta,
propone una serie di performance che la fanno conoscere nell’ambiente artisti-
co di New York e che le permettono di realizzare un sodalizio artistico con John
Giorno e William Burroughs. Lentamente la musica prende il sopravvento nel-
la sua attività artistica fino alla pubblicazione dell’album Big Science (siamo già
nel 1981) che inaugura una lunga serie di dischi che stanno in bilico fra speri-
mentazione elettronica e pop, e che conquistano un largo pubblico anche grazie
alla diffusione di una serie di video musicali e alle esibizioni live, veri e propri
spettacoli multimediali, tecnologicamente molto sofisticati.
Lo stesso si può dire per Brian Eno, “non-musicista” inglese, come lui stes-
so ama definirsi, inventore di una serie di generi musicali: l’Ambient Music
(la musica ambientale, ovvero flussi sonori che non pretendono nessun grado
di attenzione da parte dell’ascoltatore, ma che hanno la funzione di “tappeti
sonori” di accompagnamento), o la “Fourth World Music”, dove il “Quarto
mondo” sta a indicare un luogo utopico nel quale avviene la definitiva con-
taminazione fra la musica occidentale (elettronica) e quella orientale, e molti
altri “progetti musicali”, fondamentali per la musica, non solo elettronica,
dagli anni Ottanta in poi.

Nuovo teatro, nuova danza

Fra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta anche i territori
del teatro e della danza vengono scossi da rivolgimenti linguistici.
Allan Kaprow nel 1959 presenta 18 Happenings in Six Parts presso la gal-
leria Reuben di New York, inaugurando il concetto di happening: un evento,
non necessariamente agito da persone, in cui accade qualcosa in uno spazio
per un determinato periodo di tempo. In questo caso si tratta di una sorta
di connubio fra action painting, mixed media e Land Art in cui un gruppo
di artisti compie una serie di performance da condividere con il pubblico, al
quale vengono date istruzioni su come comportarsi. Il concetto di interattivi-
tà con gli spettatori e la loro partecipazione attiva diventano temi costanti di
molto teatro d’avanguardia di questo periodo. Presentando i suoi happening
in luoghi non teatrali come le gallerie d’arte o altri spazi urbani o naturali,
Kaprow lega inscindibilmente il mondo performativo a quello dell’arte con-
temporanea, creando un ibrido difficilmente classificabile.
Sempre in questo periodo è attivo un gruppo teatrale fondato da Peter

56
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

Schumann dal nome Bread and Puppet Theater, concentrato sull’attivismo


politico e sull’organizzazione di spettacoli teatrali che si trasformano in even-
ti di strada con maschere e pupazzi di cartapesta giganteschi. La dimensione
ribellistica si fonde con l’idea di rito collettivo, per cui alla fine di queste per-
formance si offre del pane al pubblico partecipante. Molti cortei di protesta di
questo periodo sono affollati dalle maschere del Bread and Puppet, e a poco a
poco si crea un immaginario che diventa l’icona di un’epoca.
Il gruppo o forse meglio dire il collettivo teatrale che più di tutti si fa
interprete dei movimenti estetici e sociali degli anni Sessanta è sicuramente il
Living Theater, fondato da Julian Beck e Judith Malina, già allieva di Erwin
Piscator. Profondamente influenzati dall’incontro con gli scritti sul teatro di
Antonin Artaud, vivono una fase iniziale dove la loro estetica ruota intorno
al valore della parola in contesti narrativi in cui la fusione teatro-vita diventa
centrale. Così in The Connection del 1959 da un testo di Jack Gelber, la vicen-
da di una serie di tossicodipendenti, che aspettano l’arrivo dello spacciatore,
viene svolta da persone realmente dedite alle droghe tanto da farne uso di-
rettamente in scena; mentre in The Brig del 1963, violenta descrizione della
meccanica e disumana quotidianità dei marine dell’esercito americano, una
serie di attori viene preparata, e cioè addestrata come se fossero dei veri solda-
ti, con gli stessi metodi usati nella realtà. In questo spettacolo è già evidente
l’idea che il contenuto dell’opera passa attraverso il movimento e la gestualità
degli attori e non più solo tramite l’uso della parola, e che la loro preparazio-
ne deve essere totale: il Living Theater si appresta a diventare un collettivo
teatrale, una comunità itinerante che vive all’insegna dell’anticonformismo
promulgando la libertà di espressione anche sessuale, il vegetarianesimo, l’an-
ticapitalismo più rigoroso, il pacifismo, il collettivismo cooperativistico che
preserva il valore delle singole individualità, la riappropriazione della primiti-
vità misterica dell’essere umano e della sua più radicale umanità.
Gli spettacoli successivi si presentano come veri e propri eventi, rituali
collettivi, spesso reputati scandalosi. Julian Beck e Judith Malina (insieme
ai membri oramai fissi del loro collettivo teatrale) diventano personaggi sco-
modi e mitici, vere e proprie star della controcultura, protagonisti di molto
cinema e video sperimentali. Nel 1965 Frankenstein è una denuncia della
mostruosa meccanizzazione della vita contemporanea, Antigone del 1967 ri-
vendica la libertà di espressione individuale e di indipendenza del pensiero,
mentre Paradise Now (1967-1969), vera e propria catarsi gioiosa e collettiva

57
Capitolo 1

nel nome dello slogan “The Plot is the Revolution”, diventa, complice l’av-
vento dei movimenti del 1968, lo spettacolo simbolo di una generazione che
crea scompiglio a ogni rappresentazione costellata da tentativi di censura,
interventi della polizia e contestazioni del pubblico stesso.
Come anche in altre discipline artistiche, alle ondate rivoluzionarie se-
guono reazioni estetiche di segno opposto, che ragionano su altre modalità
di sperimentazione. Da questo punto di vista è importante segnalare, anche
per la sua attività come videoartista e autore di videoinstallazioni, l’opera
di Robert Wilson. Dotato di un’estetica più austera e affascinato più dalla
macchina che dal corpo, l’attività teatrale di Wilson è un ibrido fra l’idea di
happening e di spettacolo teatrale vero e proprio, dominato da tempi lun-
ghissimi, movimenti astratti del corpo e scenografie meccaniche anche molto
complesse. Spesso i suoi spettacoli hanno un intento biografico o sono dedi-
cati a personaggi famosi, come The Life and Times of Sigmund Freud del 1969,
o The Life and Times of Joseph Stalin del 1973 performance muta di dodici
ore, mentre spesso le sue opere sono realizzate per spazi non teatrali, come
KA MOUNTain and GUARDenia Terrace del 1972, evento di sette giorni
allestito sui monti Haft Tan in Iran.
L’opera più famosa di Wilson, su musica di Philip Glass e coreografie di
Lucinda Childs è Einstein on the Beach del 1976, performance teatral-musicale
di cinque ore in cui il pubblico è intenzionalmente lasciato libero di andarsene
e tornare quando vuole, attivando una modalità di fruizione da installazione e
non da spettacolo vero e proprio. Robert Wilson rappresenta il vertice dell’ibri-
dazione fra arti performative e visuali, e il modello di un artista “fluido”, attivo
in più campi dell’espressione artistica, tra cui anche la videoarte.
L’abbandono degli stilemi e soprattutto del repertorio della danza classica
è rappresentato da una serie di scosse che si agitano fra l’Europa (Francia e
Germania) e gli Stati Uniti, patria di Martha Graham e del Martha Graham
Center for Contemporary Dance, compagnia all’inizio esclusivamente femmi-
nile, fondata già nel 1926 a New York. Il rinnovato contatto col suolo anche
attraverso la dinamica della caduta, antagonista rispetto alla danza sulle punte,
l’enfasi sull’emotività del gesto, l’articolazione fra contrazione e rilassamento, la
presenza di corpi muscolari e non canonici che ballano rigorosamente a piedi
nudi e usano come centro dei movimenti il bacino, l’attenzione al rapporto fra
costumi e scenografie che rimandano a immaginari autoctoni e contemporanei,
sono tutti elementi che rendono Martha Graham protagonista della straordina-

58
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte

ria spinta iniziale alla nascita di tante compagnie che negli Stati Uniti riscrivono
la storia della danza.
Merce Cunningham fonda nel 1953 la Merce Cunningham Dance Com-
pany e rappresenta insieme ad Alwin Nikolais, entrambi allievi di Martha
Graham, l’approccio più radicalmente antinarrativo e astratto della danza con-
temporanea. Fortemente influenzato dall’amicizia con John Cage e dall’idea
dell’aleatorietà, Cunningham impone ai suoi danzatori un metodo di “ristrut-
turazione delle improvvisazioni”, nel senso che fa improvvisare i suoi danza-
tori, a volte riprendendoli in video, mostra loro ciò che hanno fatto, sceglie i
momenti più interessanti e impone di ripetere il risultato ottenuto. Ma vuole
anche che le singole parti del corpo si muovano autonomamente, predilige la
contaminazione fra stili coreografici diversissimi, o riassembla casualmente
brani di vecchie coreografie, operando una sorta di operazione di riciclaggio
coreografico. Realizza spettacoli usando immagini in scena, aprendo la lunga
stagione dello spettacolo di danza multimediale, un terreno fertile ancora oggi,
sviluppa e commercializza un software di scrittura coreografica chiamato Life
Forms, ed è protagonista di molti film e di video di danza. In sintesi, diventa il
simbolo della nuova ricerca coreografica che collabora con gli artisti contempo-
ranei a lui vicini (John Cage, Sol LeWitt, Nam June Paik).
Alwin Nikolais ragiona su un fronte più fantasmagorico, proponendo
spettacoli in cui la figura del danzatore è spesso coperta completamente dal
costume e in cui la coreografia si fa sempre più robotica e meccanizzata. Le
complesse scenografie in cui si usano i più diversi apparati atti a creare illusio-
ni ottiche (luci specifiche, immagini, specchi, finte prospettive) trasformano
i suoi spettacoli in eventi multimediali di luci e colori, dove la presenza dei
danzatori quasi si distingue.
Ma ogni ribellione nutre altre rivolte, come abbiamo visto succedere in
tutte le arti nel crocevia degli anni Sessanta: Yvonne Rainer, danzatrice, co-
reografa e filmmaker, nel 1965 lancia un manifesto che è una serie di furiosi
“no” all’idea della spettacolarizzazione e ai grandi teatri, al virtuosismo, alla
stilizzazione, al coinvolgimento del pubblico, promuovendo il ritorno a una
maggiore quotidianità, all’assenza di costumi e scenografie, alla negazione
della durata classica degli spettacoli e proponendo pezzi di soli quattro mi-
nuti. Nasce la cosiddetta Post-Modern Dance anche perché i movimenti rap-
presentati da Graham, Cunningham e Nikolais vengono inseriti nella sigla
Modern Dance.

59
La Post-Modern Dance produce nomi come Trisha Brown, Twyla Tharp
e Lucinda Childs: ognuna a modo suo sviluppa dei metodi coreografici e crea
degli spettacoli che non si attengono rigidamente ai dettami del manifesto di
Yvonne Rainer, e che costituiscono di fatto il terreno fertile da cui nasce il vasto
movimento della danza contemporanea, con tutti gli inevitabili ritorni all’indie-
tro che questi fenomeni determinano. La Twyla Tharp Dance Company porta
il suo personale stile coreografico contaminato col pop a Broadway e soprattutto
al cinema, curando le parti danzate di un cult come Hair (Id., 1978) di Milos
Forman o realizzando il monumentale The Catherine Wheel (1981) con musiche
di David Byrne dei Talking Heads e con un notevole apparato scenografico
e multimediale. Lucinda Childs, “coreografa concettuale” dallo stile minimale
caratterizzato da piccoli gesti ripetuti e ricombinati con minime variazioni, cura
le coreografie di Einstein on the Beach di Robert Wilson. Insomma, in questi
anni il “gigantismo” e le scelte estremamente minimali si accavallano continua-
mente fino a generare una sorta di ritorno alla classicità tipico delle coreografie di
Carolyn Carlson, danzatrice e coreografa che fonde intimamente il suo stile con
le musiche di Philip Glass, creando quasi uno standard che ha fortuna ancora
oggi.
Questa ondata sperimentale investe anche l’Europa, soprattutto la Francia
dove si parla di Nouvelle Danse con coreografi come Jean-Claude Gallotta,
Maguy Marin, e tanti altri che si formano negli anni Ottanta e in Germania,
dove scoppia il “caso” di Pina Bausch e del suo Tanztheater, il teatro-dan-
za. Pina Bausch è direttrice artistica dal 1972 del Wuppertal Opera Ballet,
chiamato in seguito Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, diventando una
compagnia indipendente. Tornano la ricerca dell’emozione e di strutture
drammaturgiche paranarrative, ma lo stile coreografico è figlio delle tante
avanguardie che si sono succedute in questi anni: la ripetizione, soprattutto,
diventa il canone estetico dominante per azioni che hanno come tema quasi
costante la relazione e la memoria. Pina Bausch è un punto di riferimento
soprattutto in Europa e il teatro-danza ha una diffusione capillare in tutto il
mondo della coreografia.

60
Capitolo 2

La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

Prime esperienze videoartistiche

Le pagine che hanno anticipato l’argomento vero e proprio di questo testo


sono importanti per comprendere in quale magma artistico e tecnologico la
videoarte muove i suoi primi passi, e per conoscere alcuni riferimenti e perso-
naggi che sono presenti in varia misura nel primo ventennio di questa parti-
colare forma di espressione artistica.
Dato che la tecnologia televisiva nasce come fenomeno di trasmissione senza
supporti stabili, una serie di artisti intercetta immediatamente le potenziali-
tà della televisione, creando installazioni in cui è presente l’oggetto monitor.
Questa fase rappresenta gli albori della videoinstallazione e quindi anche della
videoarte. Nonostante l’oggetto privilegiato di questo testo sia il video monoca-
nale è impossibile prescindere da questa prima fase, anche perché i videoartisti
di questo periodo sono tutti autori prima di videoinstallazioni e poi di video
monocanale, due modalità che si intersecano continuamente.
Wolf Vostell (1932-1998)1 è l’artista che in maniera privilegiata comincia a
rivolgere la sua attenzione all’oggetto televisore. Nato in Germania e attivo fra
Wuppertal e New York, è autore di eventi artistici legati al concetto di happe-
ning e alla scelta dei media più svariati, dalla carta alla musica e alla presenza
di corpi reali. Inventa una tecnica che lui chiama Décollage, un gioco di parole
fra collage e il decollo degli aerei, che consiste inizialmente nello strappare ma-
nifesti già esistenti, ma che squaderna già un tratto costante della sua poetica:
spaccare qualcosa che appartiene al quotidiano per rivelare la sua struttura,
in modo tale che l’osservatore possa ragionare su di esso, distanziandosi dal

1
Il sito del Museo Vostell a Malpartida è: http://museovostell.gobex.es/vostell.htm

61
Capitolo 2

suo funzionamento originale. In questo senso cominciano ad apparire nelle sue


opere carcasse di televisori rotti miscelati con altri oggetti. Nel 1958 realizza
l’installazione Transmigracion 1-3, mentre fra il 1958 e il 1963 German View
from the Black Room Cycle, entrambe costruite con vari materiali e televisori
integrati nelle opere, definite coerentemente TV-Décollage.
Insieme a George Maciunas fonda il movimento Fluxus, nel quale rimane
per pochi anni, e insieme a Nam June Paik condivide una data fatidica per molte
delle arti descritte nella premessa: il 1963. Entrambi espongono le loro prime
videoinstallazioni, ovvero apparati in cui l’oggetto monitor diventa protagonista
e non semplice materiale aggiuntivo, che possono essere considerate le prime
opere di videoarte: Vostell allestisce Television Décollage presso la Smolin Gal-
lery a New York, mentre Nam June Paik presenta 13 Distorted TV Sets presso la
Galleria Parnasse a Wuppertal.
Le prime manifestazioni di videoarte quindi nascono in seno all’attività
del gruppo Fluxus e di due artisti: Wolf Vostell e Nam June Paik. Il primo
usa televisori che trasmettono normalmente programmi scelti a caso, mentre
il secondo opera delle deformazioni del segnale video che caratterizzano la
sua estetica.
Il fenomeno delle videoinstallazioni ha una fortuna crescente e il mondo
delle gallerie, a partire da quelle che permettono a Vostell e Paik di esibire le
opere citate, comincia a intercettare la novità della proposta. In breve tem-
po durante gli anni Settanta nascono artisti specializzati in videoinstallazio-
ni, come Dieter Froese, Frank Gillette, Dan Graham, Peter Campus, Peter
D’Agostino, o artisti che fra altre discipline si concentrano sul video (per
esempio Bruce Neuman), e il fenomeno videoartistico si estende fra Stati
Uniti, Giappone ed Europa, in paesi come la Germania, la Francia, l’Inghil-
terra, la Spagna. Anche l’Italia risponde per tempo a queste nuove sollecita-
zioni con la nascita e lo sviluppo delle sperimentazioni di Fabrizio Plessi2 e in
seguito del gruppo Studio Azzurro3.
I videoartisti sono affascinati dalla televisione per molti motivi: in primo
luogo è un oggetto che soprattutto fra gli anni Sessanta e Settanta ha svariati
2
Il sito dell’artista è: http://www.plessi.net/home/home.html
3
Il sito del gruppo è: http://www.studioazzurro.com/. Nel dvd distribuito da Feltrinelli
a cura di Bruno Di Marino Videomabienti, ambienti sensibili vi sono documentazioni
video delle videoinstallazioni del gruppo: http://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/
studio-azzurro/

62
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

design; illumina lo spazio circostante; è il simbolo della modernità e di un


certo tipo di cultura pop; può stare acceso per un tempo indefinito; propone
un immaginario che può essere capovolto; ha una funzione sociale e politica
sempre crescente; infine, il rapporto fra le immagini che trasmette, dato che si
usano palinsesti non controllabili da parte dell’artista, e la struttura proposta
o gli altri oggetti coinvolti è casuale.
In questi primi anni un altro fenomeno tipicamente televisivo è il perno
estetico di molte videoinstallazioni: la diretta o i cosiddetti sistemi “a circuito
chiuso”, dove la telecamera è direttamente collegata al monitor e trasmette in
tempo reale ciò che riprende; la diretta e il circuito chiuso sono variamente
usati in questo periodo sia per la mancanza di supporti di registrazione sia per
invitare gli spettatori a ragionare in maniera critica sul nuovo “specchio tec-
nologico” rappresentato da questi sistemi che impongono loro di partecipare
involontariamente alla videoinstallazione stessa.
In molti casi, come nelle opere di Dan Graham, il pubblico diventa il
vero performer e viene invitato a riflettere sull’artificialità ingannevole del
concetto di diretta televisiva, ponendo una serie di questioni sul ruolo della
sorveglianza, della televisione e dell’identità. Dato che il segnale video può
essere opportunamente ritardato, Graham approfitta di questa possibilità per
realizzare nel 1974 Present Continous Past(s), un ambiente in cui una parete di
specchi mostra il riflesso “reale” del pubblico, mentre in un’altra parete scor-
rono le immagini video – ritardate di una decina di secondi – del pubblico
stesso, ripreso in tempo reale da telecamere nascoste. L’anno seguente l’artista
amplifica questo concetto realizzando Yesterday-Today, dove un monitor piaz-
zato in uno spazio pubblico mostra l’attività di un ufficio privato: in questo
caso fra l’audio e il video c’è un ritardo di 24 ore, in modo tale che lo spetta-
tore guarda immagini in tempo reale con il suono del giorno precedente.
Il mondo dell’arte, a caccia di sigle, sull’onda dei termini coniati in seno
all’Arte Concettuale comincia a parlare di Television Art, mutuato in breve
tempo in Video Art. Sono termini che non piacciono molto alla maggior
parte degli artisti coinvolti, che nel tempo dichiara molti distinguo o che
rifiuta addirittura di essere etichettata in quel modo, ma il termine si dif-
fonde soprattutto fra gli addetti ai lavori e i galleristi. Fra gli anni Sessanta
e Ottanta si sviluppa un mercato diffuso anche per questo genere di opere,
e i galleristi hanno bisogno di dar loro un nome. Collezionisti curiosi, spe-
ranzosi ovviamente di investire in un’opera “che ha un futuro” e che quindi

63
Capitolo 2

può accrescere col tempo il suo valore, e in seguito importanti istituzioni


d’arte, musei, fondazioni e gallerie diventano il mercato intorno al quale si
muovono le videoinstallazioni. Piuttosto rapidamente il mondo dell’arte si
scopre interessato alla tecnologia e ricettivo al capovolgimento di funzione di
un oggetto domestico che sta diventando sempre più presente e importante
nella vita quotidiana.
Insieme ai progressi tecnologici nasce un desiderio sempre più crescente da
parte degli artisti coinvolti da questo fenomeno: poter manipolare e produrre
immagini personali, sganciandosi dal flusso offerto dai palinsesti televisivi o
dalla diretta. Ma esiste un problema di carattere produttivo: le tecnologie pre-
poste alla riproduzione e alla registrazione delle immagini, prima ovviamente
che si diffondano i sistemi home video, sono costose e disponibili in questi
anni solo nei centri di produzione televisivi. Tuttavia esistono centri radiofo-
nici che si stanno dotando di attrezzature video, e in breve tempo alcuni studi
privati e gallerie si dotano di laboratori ampliando le possibilità produttive.
Infine, nel 1965, la Sony comincia a distribuire il cosiddetto Portapack, un
sistema di registrazione amatoriale del segnale video.
Nel turbinoso mondo dell’arte americana e di Fluxus, sia Wolf Vostell con
Sun in Your Head (1963), sia Nam June Paik con Early Colour Manipolations
(1965), Videotape Study n. 2 e (in collaborazione con Jud Yalkut) Electronic
Moon n. 2, entrambi del 1969, cominciano a sperimentare in maniera “auto-
gestita” le distorsioni del segnale (che diventeranno la caratteristica principale
dell’opera di Paik). Sganciati dal movimento Fluxus si muovono altri artisti,
come Aldo Tambellini che in Black TV del 1968 usa lo zapping e i distur-
bi di ricezione del segnale come marca stilistica per denunciare il razzismo
strisciante della società americana, e Scott Bartlett, che in Off On, realizzato
nel 1967 e ultimato nel 1972, scandaglia molte delle possibilità di astrazio-
ne dell’immagine elettronica, senza dimenticare le prime sperimentazioni di
Steina e Woody Vasulka, che risalgono agli inizi degli anni Settanta.
Ma al di là della possibilità o no di accedere alle macchine, c’è da risolvere
anche una questione di know-how: sono pochi gli artisti autonomi da questo
punto di vista, per cui, nonostante, come vedremo, la videoarte si attesti fin
da subito come un atteggiamento – più che un movimento – artistico anti-
televisivo, gli albori del video monocanale si diffondono inevitabilmente in
ambiente televisivo.

64
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

Jean-Christophe Averty

È qui importante ricordare la rimarchevole figura di un regista televisivo


francese, Jean-Christophe Averty (1928). Attivo negli anni Cinquanta presso
la RTF, è un appassionato conoscitore di musica jazz e pop, e i suoi lavori
televisivi sono prettamente dedicati alla musica e all’arte. Frequentatore di
molti surrealisti, tra cui Salvador Dalí (sul quale realizza un documentario
nel 1970), è in realtà un ammiratore di Alfred Jarry e della sua Patafisica.
Averty, che si definisce «un pittore elettronico», vuole innestare la logica del
collage alla Max Ernst nelle nascenti possibilità manipolatorie dell’immagine
elettronica, e comincia intensamente a sperimentare le macchine a disposizio-
ne producendo opere originali e straordinariamente in anticipo sui tempi.
Nel 1965 realizza una versione televisiva della celebre opera teatrale Ubu
Roi4 di Alfred Jarry (pubblicata nel 1896), sfoderando una serie di trucage elet-
tronici che diventano di uso comune più tardi in molta produzione videoar-
tistica. L’immaginario di Jarry è chiaramente ancorato alle fantasmagorie del
pre-cinema di Georges Méliès e di Segundo de Chomón, e del già citato “teatro
della luce nera”, ma Ubu Roi rappresenta in modo radicale il primo tentativo di
svincolare il linguaggio televisivo dalla pura e semplice documentazione di un
evento live e dallo scimmiottamento del linguaggio cinematografico tradizio-
nale. Girato in bianco e nero (in questi anni in televisione non esiste ancora il
colore) i personaggi sono dispersi su uno sfondo scuro, in uno spazio vuoto, che
viene riempito di volta in volta da elementi aggiunti elettronicamente: disegni,
scritte, personaggi che, in diverse scale di grandezza, circondano altri posizio-
nati al centro dello schermo, corpi moltiplicati, immagini incastonate le une
dentro le altre grazie all’uso delle finestre, o inquadrate da cornici disegnate.
Averty in modo lucido predice una delle caratteristiche distintive dell’estetica
del montaggio della videoarte: le immagini non possono più stare le une accan-
to alle altre, ma le une sulle altre, in una logica di “composizione” del quadro,
di simultaneità necessaria. Non è più una forzatura come lo è stata per tanta
storia del cinema, ma un approccio naturale. Mancando un vero e proprio spa-
zio, i corpi fluttuano e possono avere tutte le dimensioni possibili, così come le
immagini si accavallano in una ipertrofia, in alcuni casi volutamente caotica.
4
La Mercury, attraverso la Universal Music France, ha distribuito una versione in dvd di
quest’opera di Averty. Non risulta nel catalogo ufficiale della Universal ma è disponibile
sul sito della FNAC: http://video.fnac.com/a1969536/Ubu-Roi-DVD-Zone-2

65
Capitolo 2

E nonostante Ubu Roi sia un raffinato e complesso lavoro di montaggio, lo


spettatore nel guardarlo ha la sensazione che i singoli personaggi e le immagi-
ni inquadrate compaiano all’interno di un flusso temporale costante, dove lo
stacco c’è anche se non rappresenta un salto spaziale o temporale: la “continuità
artificiale” è un’altra strategia tipica di molta videoarte monocanale.
Tuttavia è nei programmi musicali che Averty non solo anticipa molta
estetica “combinatoria” videoartistica, ma anche molti stilemi che appartengo-
no all’estetica videomusicale. Un esempio su tutti è rappresentato da Histoire
de Melody Nelson del 1971, realizzato a colori per l’omonimo album di Serge
Gainsbourg, dove uno stile consapevolmente kitsch viene supportato tecnologi-
camente dal chroma key che inserisce il cantante e la sua compagna Jane Birkin
in quadri di Dalí e di Ernst, o in fondali dove compaiono delle grafiche elettro-
niche elementari, e da continue sovrapposizioni in luma key che spesso confon-
dono la composizione tanto da sembrare dei quadri astratti in movimento.
L’opera di Jean-Christophe Averty non diventa un punto di riferimento
per la prima proliferazione videoartistica internazionale perché in quest’epoca
i programmi televisivi non “rimbalzano” da un paese all’altro, non possono
essere registrati e hanno sistemi di codifica del colore incompatibili (l’Europa
adotta in alcuni paesi il PAL, in altri il SECAM e gli stati Uniti l’NTSC), ma
sicuramente rimane un esempio di come alcune figure, isolate dal contesto
artistico internazionale (però particolarmente sensibili e lungimiranti), stiano
lavorando su una via sperimentale che “si respira nell’aria”. Averty in Francia
usa il montaggio, mentre altrove gli artisti sono alla ricerca della deformazio-
ne del segnale, dello scardinamento della macchina televisiva, che rappresenta
per ora l’altra faccia, se vogliamo più radicale, della sperimentazione video-
artistica.

The Medium Is the Medium. Video Visionaries

Una data certa per scandire l’inizio della videoarte monocanale è rappresentata
dalla produzione di un programma di una tv locale americana, la WGBH-TV
di Boston, dal titolo The Medium Is the Medium. Video Visionaries5, trasmesso
5
Una versione dvd del programma è disponibile nel catalogo della Electronic Arts
Intermix: http://www.eai.org/title.htm?id=1443. La EAI non è una casa di distribuzione
vera e propria, ma un archivio che vende o affitta il proprio materiale principalmente a
istituzioni e a singoli collezionisti con norme descritte sul sito.

66
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

nel 1969 e supportato anche da The Corporation for Public Broadcasting e


dal National Endowment for the Arts, istituzione quest’ultima molto impor-
tante per la maggior parte dei videoartisti di questi anni. Ispirato al celebre
slogan «The medium is the message» di Marshall McLuhan, il programma
consiste di una serie di video commissionati appositamente ad artisti ai quali
vengono messe a disposizione le attrezzature del canale televisivo. Questo
progetto è la continuazione di un’altra iniziativa simile: Rockefeller Artists in
Television, attiva dal 1967 al 1970, supportata dalla Rockefeller Foundation,
dove vengono coinvolti nell’utilizzo del video artisti di varia formazione, al-
cuni dei quali si approcciano per la prima volta a questa tecnologia, altri più
esperti, come Stan Van Deer Beck e Nam June Paik.
L’antologia consiste di: Black di Aldo Tambellini, Architron di Thomas
Tadlock, Hello di Allan Kaprow, Capriccio di James Seawright, Electronic
Light Ballet di Otto Piene e Electronic Opera 1 di Nam June Paik. Nei titoli di
testa del programma una voce fuori campo pone una domanda: «Cosa suc-
cede quando gli artisti prendono il controllo della televisione?» e ovviamente
alcune risposte risiedono nei video proposti in seguito. Questo programma è
sicuramente un punto fermo per gli inizi della storia della videoarte mono-
canale, dal momento che vi compaiono alcune scelte che formano l’estetica
della videoarte monocanale degli anni Sessanta e Settanta. Innanzitutto, la
predilezione per l’idea di flusso, per la mancanza di un montaggio visibile e
per la nascita di una sorta di “astrazione elettronica” derivata da vari incidenti
tecnologici. In questa direzione vanno i seguenti episodi: Black di Tambellini,
rigorosamente in bianco nero, dove, a partire da una serie di immagini fisse, si
crea un magma indistinto di fonti visive che contribuisce a determinare l’idea
dell’instabilità caotica dell’immagine elettronica, dove le forme referenziali si
disperdono perdendo definitivamente i contorni; Architron di Tadlock, dove
il “classico” feedback (la formazione di immagini astratte provocate dal fatto
che si riprende con la telecamera il monitor al quale è collegata) viene ulte-
riormente trattato con effetti “a specchio” che generano una serie di mandala
colorati in movimento; infine Electronic Light Ballet di Piene dove una serie
di luci colorate crea scie cromatiche che circondano le immagini di una per-
formance dell’artista stesso. In questi video c’è anche la scoperta del colore
“puro” elettronico, che può fare riferimento alla psichedelia, e l’attenzione
costante a qualsiasi difetto tecnologico in grado di produrre immagini.
Hello di Allan Kaprow è coerentemente un happening video, e testimo-

67
Capitolo 2

nia in maniera sincera la meraviglia dell’epoca nei confronti della diretta: in


uno studio televisivo una serie di persone guarda attraverso i monitor alcune
location attrezzate come studi dove sono situate persone che, a distanza, si
guardano, si salutano, scherzano, ridono. La frase più ricorrente che si dicono
è «I see you», e il finale, dove campeggia l’immagine della luna, è un chiaro
riferimento alla cancellazione del concetto di distanza effettuato da questa
tecnologia che ragiona con la velocità, abbattendo i limiti spazio-temporali
comunemente vissuti. Essendo in uno studio televisivo, questo episodio è
montato in diretta, attraverso un cambio casuale e ritmicamente disartico-
lato dei diversi punti di vista delle telecamere utilizzate. La perdita di senso e
l’apparente approccio “sgrammaticato” alle logiche di montaggio sono un’al-
tra caratteristica tipica della videoarte monocanale di questi anni, mutuata
chiaramente dal cinema d’avanguardia, ma giustificata come una naturale
propensione del mezzo: qui il montaggio è stato effettuato schiacciando i tasti
del mixer video, senza alcuna intenzionalità antiestetica. Fa parte dell’attitu-
dine alla spontaneità, fluidità e velocità tipiche dell’immagine elettronica.
Capriccio di Seawright e in parte Electronic Opera 1 di Paik svelano un altro
approccio tipico della videoarte monocanale: la consacrazione della figura del
danzatore o del performer come unica fisicità possibile. Se l’immagine è flui-
da e senza “punti fermi”, magmatica e temporalmente in continuità, il corpo
del danzatore e i suoi movimenti sono elementi perfettamente integrabili nel
magma elettronico. E infatti in entrambi i video non c’è nessuna attenzione al
dato coreografico in sé, perché le elaborazioni effettuate su di esso trasformano,
come aveva fatto Norman Mc Laren in Pas de deux ma con un approccio diver-
so, i corpi in elementi visivi che si disperdono nella fluidità dell’elettronica. Non
si tratta, infatti, solo di trasformare i danzatori in linee geometriche compatibili
con una generica estetica astratta, ma di tracciare la vera identità che i corpi
assumono nello spazio elettronico. Paik nel suo episodio dimostra di avere un
bagaglio tecnologico più consapevole, tanto che alcune elaborazioni del segna-
le presenti nel video fanno parte delle sperimentazioni effettuate negli anni
immediatamente precedenti la produzione di questo programma, e abbozza
un approccio dadaista e irriverente che diventa caratteristica della sua estetica,
come nel finale dove si sente una voce off chiedere «E adesso cosa facciamo?» e
Paik rispondere «Beh, ricominciamo dall’inizio».
Da questo momento la videoarte monocanale è pronta a produrre i suoi
autori.

68
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

Ed Emshwiller

Ed Emshwiller6 (1925-1990) è un illustratore di alcune importanti riviste


di fantascienza americane come «Galaxy» e «The Magazine of Fantasy and
Science & Fiction». Grazie a un finanziamento della Ford Foundation otte-
nuto agli inizi degli anni Sessanta comincia a interessarsi al cinema sperimen-
tale e aderisce al movimento del New American Cinema. Attento agli aspetti
tecnici dell’uso della stop motion e del time lapse, uno dei temi ricorrenti
della sua filmografia è il movimento del corpo incarnato dalla presenza di un
danzatore. Thanatopsis (1962) e Film with Three Dancers (1970), in cui com-
pare una giovane Carolyn Carlson, sono ascrivibili al genere del film di danza
che da Maya Deren in poi costituisce una sorta di fil rouge di molta speri-
mentazione audiovisiva. Emshwiller in questi film non tenta di annullare la
figura del danzatore, ma vuole potenziare il suo gesto amplificandolo grazie
agli effetti ottenibili con il time lapse, che scioglie visivamente il movimento
ma nello stesso tempo lo puntualizza.
Ben presto l’artista americano comprende che la tecnologia cinematografi-
ca non gli permette di sperimentare appieno la sua estetica, e partecipa al pri-
mo programma di residenza d’artista organizzato da un’altra realtà televisiva,
il TV LAb at Thirteen/WNET. Si tratta di un laboratorio televisivo della TV
pubblica di New York Thirteen/WNET che, grazie al supporto della Corpo-
ration for Public Broadcasting, della Rockefeller Foundation, del National
Endowments for the Arts e del New York State Council on the Arts, dal 1972
al 1984 fornisce a una serie di artisti la possibilità di sperimentare e produrre
opere video, e diventa un punto di riferimento fondamentale per la gran parte
della ricerca videoartistica monocanale di questi anni. Il TV Lab è una sorta
di “passaggio di testimone importante” che sposta la sperimentazione audio-
visiva dalla stazione WGBH di Boston nel cuore di New York, e rappresenta
una rara collaborazione fra istituzioni che promuovono arte contemporanea
e realtà tecnologiche televisive. Durante i primi due anni di attività del Lab
vengono chiamati, fra gli altri, Ed Emshwiller, Nam June Paik, Shirley Clar-
ke e Douglas Davis.
Ed Emshwiller è il primo, in ordine di tempo, a realizzare un video: Scape-
6
Alcuni video di questo autore e in generale un’ottima compilation degli esordi della vi-
deoarte è raccolta in due dvd distribuiti da Video Data Bank dal titolo Surveying the First
Decade: http://www.vdb.org/collection/Curated%20Compilations

69
Capitolo 2

Mates del 1972: in questo video compaiono i classici magmi colorati che co-
stellano molta della produzione monocanale del periodo, influenzata dalla
presenza di Paik nel laboratorio. Ma Emshwiller è interessato a far convergere
più tecnologie, perché l’opera, che usa ancora una volta la danza come vei-
colo principale della rappresentazione del corpo, è costituita da una serie di
ambienti tridimensionali molto semplici realizzati con una computer grafica
elementare. I danzatori, ripresi in chroma key, sono inizialmente spezzati e
quindi si vedono solo frammenti di corpi abitare gli ambienti tridimensionali
immersi nel magma indefinito e incontrollabile del flusso analogico. Solo alla
fine del video i danzatori compaiono a corpo intero, compiendo una serie di
evoluzioni all’interno degli ambienti descritti. I paesaggi fanno spesso riferi-
mento alle atmosfere della pittura metafisica e a volte all’immaginario della
fantascienza degli anni Cinquanta: i colori glaciali degli ambienti minimali
e i movimenti quasi robotici dei danzatori, in contrasto con la caoticità delle
immagini astratte, contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa. Scape-Mates
è sicuramente uno dei primi video monocanali della storia della videoarte a
mostrare scelte estetiche solide e una notevole cura tecnica.
Due anni dopo l’artista americano realizza Crossings and Meetings (1974),
dimostrando un’anima più concettuale e ironica allo stesso tempo. Sempre
riprese in chroma key, una delle possibilità tecniche più sperimentate in que-
sto periodo, una figura maschile e una femminile passeggiano distrattamente
attraversando lo schermo: all’inizio gli sfondi rigorosamente fissi sono degli
spazi interni che offrono una visione realistica del quadro totale, tuttavia man
mano che il video procede i corpi diventano linee elettroniche, gli sfondi su-
biscono vari interventi per scomparire del tutto mentre le figure, variamente
manipolate, ripetute, montate in modo discontinuo, si trasformano in magmi
colorati e astratti che riempiono lo schermo.
L’idea dell’attraversamento dello spazio è un tema che ricorre spesso nella
videoarte monocanale, insieme alla ritrovata possibilità, erede del cinema d’ani-
mazione, di poter considerare il personaggio e lo sfondo due dimensioni autono-
me e modificabili parallelamente. Crossings and Meetings è un piccolo saggio di
svelamento dell’inganno che impone al pubblico di rendersi conto della presenza
di un trucco, o più semplicemente di accettare il fatto che con l’elettronica sia il
corpo sia lo spazio acquistano nature differenti, profondamente artificiali, e che
non possono più apparire come elementi realisticamente rappresentati.
Ed Emshwiller prosegue la sua ricerca – che tende ad assemblare imma-

70
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

gini analogiche e contributi digitali – con il suo lavoro più riuscito e maturo:
Sunstone, del 1979. Realizzato presso il New York Institute of Technology
grazie a un finanziamento della Guggenheim Foundation, questo video te-
stimonia e anticipa una tendenza tipica della Computer Art: il legame fra
questa tecnologia e la grafica in generale tipica di quegli artisti che hanno
un curriculum da pittori o illustratori, come nel caso di Emshwiller. Il video
si basa su una serie di semplici, ma efficaci, animazioni intorno a una figura
costante: un viso a forma di sole, articolando una serie di suggestioni simbo-
liche che attingono a un immaginario archetipico che rimanda all’iconografia
dei tarocchi, dell’alchimia, delle culture orientali e dei segni primevi della
civiltà umana. Nella sua breve durata il video è un capolavoro di “sintesi” nel
senso anche tecnologico del termine. Dopo che l’immagine del sole forma un
cubo rotante con delle elaborazioni varie dell’astro stesso proiettate sulle facce
dell’oggetto tridimensionale, il video termina con il passaggio di una figura
umana che lascia dietro di sé delle scie colorate, quasi a celebrare la nascita di
un “uomo nuovo” partorito dal mondo del digitale. Apparentemente sempli-
ce, poetico e denso di suggestioni, Sunstone, è sicuramente uno dei capolavori
della videoarte monocanale di questi anni.
Nel 1980 Emshwiller partecipa con Lillian Schwartz alla realizzazione
degli effetti speciali di un film di fantascienza prodotto direttamente per la
televisione dal canale WNET, The Lathe of Heaven, tratto dall’omonimo ro-
manzo di Ursula K. Le Guin, che ha un enorme successo di pubblico e che
riceve l’Academy Award per gli effetti speciali, segno che le vie della speri-
mentazione e del mainstream spesso si incrociano.

Nam June Paik

Nam June Paik7 (1932-2006) è un musicista di origine coreana che vive a


Tokyo: studia pianoforte classico, ma ben presto viene attratto dal vento
delle avanguardie musicali frequentando Stockhausen in Germania e John
Cage negli Stati Uniti. Diventa un membro molto attivo del gruppo Fluxus,
cimentandosi in performance distruttive nei confronti dello strumento che
originariamente ha studiato: il pianoforte. Grazie alla conoscenza e alla fre-
quentazione dell’artista Fluxus Wolf Vostell, viene attratto molto presto dalla

7
Il sito postumo dell’artista è: http://www.paikstudios.com/

71
Capitolo 2

tecnologia televisiva, che diventa la co-protagonista di una serie di performan-


ce video musicali realizzate in collaborazione con Charlotte Moorman, una
violoncellista classica che frequenta assiduamente il gruppo Fluxus. Si tratta
di esibizioni in cui il violoncello viene sostituito da tre televisori che ne ricor-
dano la forma (TV Cello del 1964), o in cui alcuni televisori vengono applicati
sui seni di Charlotte Moorman, come TV Bra for a Living Sculpture (1969),
che è l’ironica risposta a un fatto avvenuto nel 1967, quando Paik e Moorman
sono arrestati per oscenità durante l’esecuzione di Opera Sextronique perché
la violoncellista si esibisce in topless. Paik realizza anche degli oggetti robotici
che diventano protagonisti di alcune performance, acquisendo una notorietà
e una visibilità mediatica notevoli a New York.
Quando nel 1964 Charlotte Moorman partecipa all’organizzazione della
presentazione di Originale di Karlheinz Stockhausen, un concerto-happening
in cui gli artisti vengono invitati a partecipare attivamente all’opera in ma-
niera casuale e spontanea, i rapporti già non idilliaci con George Maciunas,
fondatore e ideologo di Fluxus, si rompono definitivamente perché quest’ul-
timo considera Stokhausen un imperialista della cultura, e impone ai mem-
bri di Fluxus di organizzare un picchetto all’ingresso del teatro come segno
di protesta, o di entrare durante il concerto per disturbarlo in tutti i modi
possibili. Il gruppo Fluxus si spacca: Nam June Paik e altri partecipano at-
tivamente alla performance insieme ad Allen Ginsberg e Allan Kaprow che
riescono a forzare il picchetto. George Maciunas spedisce una cartolina a Paik
in cui scrive «Traitor! You left Fluxus», e l’alleanza con il gruppo neo Dada si
interrompe.
Paik approfondisce sempre di più il discorso tecnologico, e rapidamente ab-
bandona la performance come mezzo privilegiato di espressione artistica. A
Tokyo frequenta due tecnici video, Hideo Uchida e Shuya Abe, che gli illustra-
no le possibilità manipolatorie dell’immagine elettronica. L’artista coreano, che
nel frattempo si è interessato alla musica elettronica e alla manipolazione delle
frequenze per creare suoni innovativi, intuisce che l’immagine elettronica può
essere trattata nello stesso modo: come un insieme di frequenze che possono
essere alterate. Insieme a Shuya Abe progetta una macchina chiamata coerente-
mente Video Synthesizer, l’antesignano del mixer video, che di fatto funziona
come un sintetizzatore musicale analogico applicato al segnale video, in grado
di generare immagini astratte senza l’ausilio di telecamere, o di deformare sen-
sibilmente immagini televisive. Comincia la lunga stagione della sperimenta-

72
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

zione delle interferenze del segnale video che contraddistingue l’estetica di Paik
e che segna uno spartiacque nella storia della videoarte.
La famosa installazione del 1963, 13 Distorted Tv Sets, che per molti in-
dica l’inizio della videoarte, è composta da tredici televisori posti in semicer-
chio, sintonizzati su alcuni canali televisivi, le immagini dei quali vengono
opportunamente deformate da alcuni stratagemmi molto semplici, come l’ap-
plicazione di campi magnetici sui televisori stessi. Tutto avviene “live”, sia la
trasmissione del segnale sia la sua manipolazione. Le interferenze interessano
molto a Paik per un motivo estetico più complesso della semplice volontà di
disturbare le immagini televisive “ufficiali” o della possibilità di generare im-
magini astratte e dinamiche. Per l’artista è importante che lo spettatore capi-
sca che nell’immagine elettronica “Non vi è nessuna verità”, che è il prodotto
di un processo tecnologico complesso il cui risultato finale è sì un’immagine
riconoscibile, ma totalmente artefatta, quindi diventa più interessante rendere
visibile il processo di formazione dell’immagine e non l’immagine. Paik vuo-
le sventrare la scatola-televisore per mostrare il suo interno fatto di circuiti, di
un tubo catodico, di valvole, in una parola di tecnologia.
Contemporaneamente è affascinato dalla possibilità che il televisore e
l’immagine elettronica, opportunamente manipolati, possano produrre im-
magini dominate dalla velocità, dal caos, dai colori puri, dall’imprevedibi-
lità: i risultati possono apparire kitsch, di cattivo gusto, senza controllo dal
punto di vista formale. Ma il suo progetto è proprio questo: aprire la scatola
chiusa della tecnologia e renderla “ridicola”, approfittare dei suoi difetti, de-
gli incidenti, dei malfunzionamenti, degli errori. Questo approccio fa parte
dell’altra linea estetica perseguita ossessivamente dall’artista coreano, e cioè
l’umanizzazione della tecnologia: Paik non è un apocalittico, e la sua estetica
si basa su un ottimismo nei confronti della tecnologia volutamente infantile
e al contempo coerente; la tecnologia deve diventare uno strumento a favore
dell’uomo, non deve fagocitarlo, quindi è inutile demonizzarla perché può
trasformarsi in un gioco, o in un giocattolo vero e proprio. Da qui deriva-
no l’ironia (nel senso etimologico del termine, ovvero di distruzione) a volte
demenziale, l’irriverenza classicamente dadaista che permea tutta l’opera di
Paik, che prende molto sul serio la missione di scardinare la funzione “ufficia-
le” della televisione, ma che non vuole essere preso sul serio.
Per l’artista coreano la videoarte ha un solo nemico: la televisione, non la
tecnologia televisiva. È una forma di espressione che si proietta oltre la tecno-

73
Capitolo 2

logia e l’estetica cinematografiche e che deve attestarsi in maniera chiara come


una rivoluzione anti-televisiva. Ciononostante, essere contro la televisione si-
gnifica combatterla con i suoi stessi mezzi: usare la sua tecnologia per rovesciare
il suo linguaggio tradizionale. Per questo motivo è necessario usare la tecnolo-
gia in prima persona: bisogna appropriarsi del mezzo per poterlo scardinare e
sperimentare, e lasciare fluire l’immagine elettronica per quello che è in origine,
un flusso di energia veloce, caotico e colorato che costituisce una sorta di for-
ma “primeva” di un immaginario tecnologico del futuro. Nella maggior parte
delle sue videoinstallazioni i monitor sono usati per costruire forme riconosci-
bili (spesso antropomorfe), rassicuranti e giocose, e per trasmettere un insieme
di immagini astratte, a volte caotiche, a volte geometriche, lasciate libere nel
loro comparire e scomparire senza un’apparente logica di montaggio. Le sue
videoinstallazioni, a volte dalla struttura minimale e a volte gigantesca, sono
presenti nei maggiori musei e gallerie internazionali, e si sono col tempo inseri-
te saldamente all’interno del mercato dell’arte, rendendolo il primo videoarti-
sta ufficialmente accettato dal sistema dell’arte contemporanea e quindi da un
settore più ampio e visibile di quello specificamente interessato alla videoarte,
tanto che realizza anche videoinstallazioni permanenti all’interno dell’arredo
urbano di alcune città.
La sua opera non è solo formata da videoinstallazioni, e del resto, negli
anni Sessanta e Settanta, la quasi totalità dei videoartisti realizza indifferente-
mente video monocanali e installazioni. La produzione monocanale di Paik,
al di là delle primissime sperimentazioni e della partecipazione al program-
ma The Medium Is the Medium, comincia in modo sistematico e maturo dal
punto di vista estetico nel 1973, con la produzione di Global Groove presso il
Lab di Thirteen/WNET. A differenza delle videoinstallazioni, che ragionano
dal punto di vista percettivo relazionandosi con lo spazio e contando su una
fruizione non concentrata dello spettatore, i video monocanali di Paik hanno
un soggetto costante, tipicamente Fluxus: le arti performative.
Global Groove è un’opera collettiva: nei titoli di testa viene presentato
come opera di Nam June Paik e John Godfrey, mentre in quelli di coda si ci-
tano i contributi video non realizzati direttamente da Paik. Conformemente
alle tracce estetiche già presenti nelle opere realizzate in The Medium Is the
Medium, anche qui il corpo e la danza, insieme alla musica, sono i protagoni-
sti assoluti e gli unici elementi referenziali. La prima parte è costituita da una
serie di immagini di danzatori ripresi in chroma key, le evoluzioni dei quali

74
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

vengono costantemente manipolate con l’effetto del feedback che moltiplica


all’infinito i loro gesti. I performer sono vestiti e si muovono con uno stile
che richiama in maniera netta la danza jazz: per Paik il pop televisivo è uno
degli elementi più importanti da sfruttare per poter ribaltare la retorica del
linguaggio della tv. Il montaggio è caotico e le elaborazioni delle immagini
trasformano i corpi in scie elettroniche: è il magma video, la sua vera “sostan-
za”, che soggiace all’illusione della referenzialità che traspare dalla superficie
dello schermo. La traccia costante della danza viene continuamente interrotta
da materiali d’archivio in cui compaiono alcune delle icone ricorrenti della
produzione di Paik: Charlotte Moorman, John Cage, Allen Ginsberg, il Li-
ving Theater. A volte queste immagini vengono rimanipolate, a volte lasciate
integre come se fossero delle testimonianze “storiche”, immutabili. Non man-
cano autocitazioni in cui si mostrano frammenti di documentazioni video di
alcune performance. Il tutto è costellato da altri materiali riciclati: spogliarelli
burlesque anni Cinquanta, pubblicità giapponesi, elaborazioni astratte del se-
gnale video.
Global Groove allude chiaramente al concetto di Marshall McLuhan del
“Global Village”, l’idea che la televisione trasformerà culturalmente il mon-
do da una serie di realtà geolocalizzate a una dimensione, appunto, globale,
interconnessa, dove il concetto di distanza si frantuma. Per Paik il “groove”,
la “routine” che diventa tendenza musicale è rappresentata da una scatola
meravigliosa, la televisione, che può essere usata a proprio uso e consumo,
trasformarsi in un palinsesto personale, anche autobiografico, in cui svelare
non solo la sostanza originaria di cui è fatta ma anche preservare un archivio
di ricordi che è una funzione, questa sì prettamente televisiva, che egli rispet-
ta e utilizza. La memoria audiovisiva, la capacità del linguaggio televisivo di
trasformarsi in archivio, sono altri temi portanti della sua estetica.
Estetica che non cambia anche nei video monocanali prodotti successiva-
mente, ma che si affina sempre di più, articolando una produzione ampia e
variegata in cui si profila chiaramente il desiderio di Paik di non andare deci-
samente “contro” la televisione, ma di fare una sua televisione personale, con
le sue piccole star, trend, allineandosi con questo approccio, pur con risultati
stilistici differenti e peculiari, ad alcuni filmmaker sperimentali, come Jonas
Mekas – da cui assorbe la volontà di usare un linguaggio audiovisivo il più
possibile “sgrammaticato”–, Kenneth Anger o Andy Warhol, dai quali assi-
mila la volontà di creare un pantheon privato di celebrità, in questo caso reso

75
Capitolo 2

da artisti rigorosamente d’avanguardia e amici. Inoltre nella produzione di


Paik sono molto chiare le lezioni di Duchamp e di Cage, come l’utilizzo della
casualità e l’enfasi data alla natura del processo dell’opera, e le varie tensioni
che scuotono il movimento Fluxus e l’Arte Concettuale. Per i videoartisti so-
prattutto di questo periodo realizzare incroci estetici fra le istanze del cinema
sperimentale e dell’arte contemporanea è un atteggiamento più che naturale.
Il concetto di performance, le relazioni fra il tempo e l’opera d’arte conti-
nuano a essere le protagoniste dei suoi video successivi, che paradossalmente
accettano sempre di più l’adesione al genere del documentario, o meglio del
“ritratto d’artista”, e si delineano dal punto di vista produttivo più tradizio-
nali: nei titoli di coda compaiono i nomi di più montatori e sponsor anche
importanti come stazioni televisive, fondazioni d’arte, la Sony. Paik insom-
ma non realizza tutto in prima persona, ma si avvale di un buon numero di
collaboratori. Si tratta di veri e propri omaggi a personaggi che conosce per-
sonalmente e che ritiene importanti, vere e proprie icone del mondo dell’ar-
te contemporanea “in movimento”. Spesso Paik associa due personaggi per
creare dei confronti a volte sorprendenti: in Merce by Merce by Paik del 1978
(realizzato in collaborazione con Charles Atlas e Merce Cunnigham), il vi-
deoartista coreano mette a confronto il coreografo Merce Cunningham con
Marcel Duchamp, ragionando ovviamente sul concetto di casualità caro a
entrambi gli artisti. La prima parte (realizzata da Charles Atlas) è una lunga
suite in cui si sperimenta in modo intensivo il chroma key: il corpo di Merce
Cunningham viene moltiplicato e i suoi movimenti sono messi in relazione
a vari doppi creati, ma diventa anche pura linea elettronica, segno luminoso,
traccia astratta. La seconda parte impone in maniera ironica allo spettatore,
attraverso una serie di scritte associate a delle immagini, una questione: che
cosa sia veramente la danza, se qualcosa di strutturato o qualsiasi movimento
fatto da un essere umano o da un animale o da oggetti semoventi, il tutto
costellato da una serie di interviste televisive a Marcel Duchamp.
In questo video si chiariscono alcuni approcci estetici di Paik. L’uso del
chroma key ha una funzione totalmente anti-realisitica, in linea con i lavori
di Ed Emshwiller: qui non si vuole ingannare lo spettatore mettendo un per-
sonaggio su uno sfondo coerente, ma giocare in tutti i modi con le possibilità
offerte da un corpo “sganciato” dal suo spazio. La scelta dello spazio neutro,
o nero, o colorato, è tipica dell’idea che il corpo, quando diventa elettronico,
può vivere spazi totalmente artificiali, vuoti, piatti, diventare partecipe di una

76
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

trasformazione materiale che gli permette di compiere atti impossibili nella


realtà (per esempio galleggiare sulle acque, come viene ironicamente mostrato
più volte). Si espone chiaramente la scelta di un doppio binario estetico: da un
lato la manipolazione massiva del segnale video, dall’altro il tema della me-
moria illustrato prima, e qui ripreso attraverso le interviste televisive a Duc-
hamp, in questo caso trattate più coerentemente che in Global Groove, perché
le parole e le immagini dell’artista dadaista sono drasticamente rimontate,
rallentate, spezzettate in modo tale che l’archivio audiovisivo subisce le stesse
possibilità di manipolazione applicate alle altre immagini.
Lo stesso discorso si può fare per Allen and Allan’s Complaint (1982), rea-
lizzato con la moglie e artista Fluxus Shigeko Kubota, nel quale Allen Gins-
berg e Allan Kaprow vengono accomunati perché entrambi omosessuali e di
famiglia ebrea, e quindi si descrive il rapporto con i loro padri e il momento
in cui per la prima volta hanno dichiarato ai genitori le loro preferenze ses-
suali. Ma anche in questo caso il video non è un classico documentario: le
immagini di Pierre Restany, famoso filosofo e critico d’arte, che fungono da
introduzione all’opera, sono completamente distrutte dal montaggio, mentre
il video è costellato da ampie parti musicali in cui i visi dei protagonisti ven-
gono rielaborati elettronicamente secondo lo stile oramai consolidato di Paik.
La riscoperta del primo piano, dell’icona del viso, è un’altra traccia estetica
che il videoartista coreano sperimenta sempre di più.
Tuttavia alcune star del firmamento di Paik, oltre a comparire di continuo
in altri video, rimangono isolate: John Cage è il protagonista di A Tribute
to John Cage (1973-76) mentre Julian Beck di Living with the Living Theater
(1989) realizzato in collaborazione con Betsy Connors e Paul Garrin, commos-
so ritratto degli ultimi giorni del fondatore del Living Theater e del rapporto
con Judith Malina e i figli. Il video si sviluppa secondo le modalità oramai
classiche dello stile di Paik, ma sembra più partecipato ed è sicuramente una
delle sue migliori produzioni, insieme all’opera corale dedicata alla musica
All Star Video (1984), dove un giovane Ryuichi Sakamoto diventa l’inusuale
intervistatore di John Cage o di Julian Beck e Judith Malina, e dove compaio-
no tutti gli amici artisti che costellano le sue produzioni, insieme ad altri più
giovani, come Laurie Anderson. Questa opera è la più significativa dal punto
di vista stilistico e rappresenta una sorta di modello dell’estetica di Paik: la
prima parte – una sorta di video musicale su un brano di Sakamoto in cui le
immagini del suo viso e del suo corpo sono variamente rielaborate – è uno

77
Capitolo 2

degli esempi migliori dell’approccio manipolatorio tipico del videoartista, e


la dimostrazione di come tutta la sua opera influenzi non solo il mondo della
videoarte ma anche quello del video musicale. Qui appare anche più chiara
la distanza dai “diari autobiografici filmati” di Jonas Mekas: quest’ultimo ha
un approccio più classicamente documentaristico-antropologico, mentre per
il videoartista coreano l’intento è quello di creare delle opere nelle quali, a
partire dai ritratti dei singoli artisti, si affrontino – in modo impercettibile,
leggero – macro temi come le radici culturali e familiari, la simbiosi arte-vita,
la creazione di mode culturali, e soprattutto il rapporto fra le arti e le tecnolo-
gie, nonché il concetto di tempo, un tema chiaramente Fluxus che Paik non
abbandonerà mai.
Il 1984 è anche l’anno di realizzazione della sua operazione più impegna-
tiva, Good Morning Mr. Orwell, una vera e propria “performance video via
satellite”, in cui il canale televisivo di New York WNET si collega al Centre
Pompidou di Parigi e ad altri canali televisivi americani, tedeschi e sudcorea-
ni. In questo evento televisivo particolarmente innovativo nei suoi contenuti
rispetto ai palinsesti correnti, il dichiarato omaggio a Orwell è in realtà uno
dei più lucidi esempi di collaborazione creativa fra televisione e videoarte. Nel
live via satellite compaiono le star di Paik: Merce Cunningham, Allen Gins-
berg e Peter Orlovsky, Joseph Beuys, Charlotte Moorman, Laurie Anderson,
insieme a personaggi decisamente più pop come i Thompson Twins; il tutto
viene costellato da materiali montati, come frammenti di video di Paik realiz-
zati insieme a John Cage, o video presentati in anteprima come Act III (1983)
di Dean Winkler e John Samborn sulla musica di Philip Glass ed Excellent
Birds (1984) di Dean Winkler su un brano originale di Peter Gabriel e Laurie
Anderson, due opere in cui si vede già chiaramente la simbiosi fra un certo
modello stilistico di videoarte e l’estetica nascente dei video musicali. Questa
trasmissione televisiva, nonostante le difficoltà tecniche dovute alla comples-
sità dei vari collegamenti, proietta l’attività di Paik in un contesto di visibilità
molto ampio, tanto che egli diventa una sorta di icona conosciuta in ambiti
sempre più eterogenei, e non solo legati all’arte contemporanea.

78
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

Steina e Woody Vasulka

Steina (1940) e Woody (1937) Vasulka8 sono una coppia di artisti che si sono
incontrati a Praga. Woody, dopo una formazione in ingegneria meccanica, stu-
dia cinema e televisione, mentre Steina, islandese di origine, violino e teoria
musicale; da sposati, si trasferiscono a New York nel 1964. Qui Woody realizza
documentari e lavora come montatore per una società di produzione di filmati
industriali. La loro vena creativa e il clima effervescente di New York portano
i due artisti a frequentare sempre di più il “popolo” del Greenwich Village, il
quartiere dell’arte americana. Insieme cominciano a sperimentare l’immagine
elettronica e Woody abbandona il suo interesse per il cinema. Nel 1971 affit-
tano la cucina in disuso del Mercer Arts Center e la trasformano in uno spazio
espositivo per il video e le arti performative: nasce The Kitchen9. Nei due anni
in cui i Vasulka dirigono il centro, The Kitchen ospita artisti come Hermann
Nitsch o organizza eventi come il Women’s Video Festival, e lascia in eredità
un luogo che, dislocato in un’altra sede, ospiterà mostre di artisti appartenenti a
differenti discipline come Bill Viola, Gary Hill, Robert Mapplethorpe, Lucinda
Childs, Steve Reich, Philip Glass, Brian Eno, Peter Greenaway e altri.
Dopo un periodo trascorso a sviluppare un laboratorio produttivo
e a insegnare presso il Center for Media Study at the State University
of New York, i Vasulka, oramai noti nel panorama videoartistico, nel
1980 si trasferiscono a Santa Fe, nel New Mexico, definitivamente lontani
dal centro nevralgico dell’arte americana, per aprire un laboratorio in cui
sperimentano intensivamente la tecnologia elettronica e digitale, e in cui
possono autoprodurre in tutto o in parte le loro opere, avendo comunque
come supporto quasi costante i contributi dal National Endowment for the
Arts e il New Mexico Arts Division. La sterminata produzione dei Vasulka
– che si articola in video monocanali, videoinstallazioni e spettacoli mul-
timediali – ha firme differenti: alcune sono di Woody, altre di Steina, altre
ancora di entrambi. Steina si concentra su uno strumento da lei definito
Machine Vision, un complesso apparato ottico-elettronico-meccanico fatto
di sfere specchianti e telecamere collegate a circuito chiuso con dei monitor,
tutti elementi posizionati su strutture rotanti, che indagano il rapporto fra

8
Il sito degli artisti è: http://www.vasulka.org/
9
Il sito della sede attuale di The Kitchen è: http://www.thekitchen.org/

79
Capitolo 2

spazio e tecnologia e fra l’immagine del corpo e l’ambiente riflesso da que-


sto sistema. La musicista islandese è anche interessata all’interazione suono-
immagine ed elabora dei sistemi semplici in cui l’emissione di un suono può
deformare il segnale video, come si vede nella sua opera più compiuta da
questo punto di vista, Voice Windows10, realizzata nel 1986 in collaborazio-
ne con Joan La Barbara, fino a creare, agli inizi degli anni Novanta, spetta-
coli multimediali in cui suonando il violino riesce a manipolare e rimontare
immagini video registrare su Laser Disc11.
Dal canto suo, Woody, insieme all’ingegnere Jeffrey Schier, elabora uno
strumento definito Vasulka Imaging System o Digital Image Articulator, uno
dei primi strumenti in grado di generare immagini semplici su basi algoritmi-
che e di trasformarle in segnali analogici. Si interessa più tardi alla robotica
e all’elaborazione di sistemi interattivi. Entrambi, fin dagli inizi degli anni
Settanta, sperimentano la tecnologia video a disposizione, tra cui sintetizza-
tori video, apparati per il disturbo del segnale, e strumenti progettati da altri,
come il Rutt-Etra Scan Processor, un apparecchio che riconverte il segnale
video in una serie di onde luminose. Come per Paik, anche per i Vasulka è
fondamentale “entrare” nella macchina video per poterla usare: per questo
motivo l’idea del laboratorio è essenziale, e altrettanto importante è la cono-
scenza tecnica del mezzo. Questo è un periodo in cui i videoartisti più attenti
a questioni di linguaggio sono anche degli appassionati tecnici: smontano
le macchine, quando addirittura non le costruiscono direttamente, vogliono
andare immediatamente al “cuore” del sistema per poterlo usare come uno
strumento personalizzato.
Per i Vasulka l’intensa attività laboratoriale, di ricerca applicata, che con-
traddistingue il primo decennio di produzioni, ha un senso molto chiaro:
creare un vocabolario visivo elettronico-digitale12. Anche l’esplorazione di ciò
che la macchina “di per sé” può produrre, al di là dell’uso della telecamera,
origina una lunga esplorazione delle possibilità di generare inusitate immagi-

10
Lavori selezionati di entrambi gli artisti sono visionabili sul sito della Fondazione
Langlois: http://www.fondationlanglois.org/html/e/page.php?NumPage=422
11
Un esempio recente di una videoperformance di Steina è visibile al seguente link: ht-
tps://vimeo.com/31770607
12
Una compilation di video di Woody Vasulka è stata pubblicata nel dvd Woody Vasulka:
Virtual Mushrooming DVD (1969-1987), Ed. Národní filmový archiv, sito di riferimento:
www.nfa.cz

80
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

ni astratte, ma in questo caso, rispetto alla sperimentazione di Paik, si posso-


no già intuire delle differenze di approccio. I Vasulka cercano l’inganno della
terza dimensione e la collaborazione fra analogico e digitale introducendo un
concetto, in questi anni pioneristico, che diventa di uso comune per la com-
puter grafica: considerare l’immagine un oggetto. Ma i Vasulka non fanno
computer grafica 3D: forzano il più possibile il segnale e mettono in collega-
mento le possibilità della tecnologia analogica con la sua gestione digitale in
modo tale da creare degli affascinanti ibridi in cui immagini, dall’apparenza
solida, collaborano con la tipica idea di flusso dell’elettronica.
In questa direzione vanno i video di Woody The Matter e C-Trend, en-
trambi del 1974, dove è presente in maniera chiara il concetto di “matrice”
dell’immagine che diventa materiale malleabile, ricostruibile, qualcosa di
fluido e di scultoreo nello stesso tempo; così come viene sistematicamente
usata l’immagine del “rumore video”, la neve. Dopo la prima ondata di spe-
rimentazione, entrambi cominciano a costruire un discorso per introdurre lo
spettatore e le sue facoltà percettive all’interno della questione del rapporto
fra naturale e artificiale. Steina Vasulka realizza nel 1980 Selected Treecuts,
un video in cui si associano le immagini “naturalmente” caotiche di foglia-
me mosso dal vento con la loro interpretazione digitalizzata, mentre Woody
realizza nello stesso anno Artifacts, vero e proprio “saggio” sulla natura del
video, un lungo viaggio sugli inganni visivi e i giochi ottici che il video può
realizzare condotto dalla voce fuori campo di Woody stesso che dà le istruzio-
ni all’osservatore (come per esempio mettere in pausa il nastro) in modo tale
che alcuni elementi dell’immagine non vengano percepiti.
Una volta creato il vocabolario e condivise con lo spettatore alcune que-
stioni tecnico-linguistiche, per i Vasulka è tempo di parlare con il linguaggio
del video, e da questo punto di vista la linea in un qualche modo “saggistica”,
preconizzata dagli pseudo-documentari di Paik, trova compimento in un’ope-
ra a metà fra la narrazione e il saggio, intrisa di tutta la sperimentazione visiva
che i due artisti hanno accumulato nel tempo, Art of Memory di Woody Va-
sulka del 1987. Per tutti gli artisti citati in questa sezione il “varco” degli anni
Ottanta rappresenta un decisivo cambio di estetica, derivato dall’esigenza di
mettere al servizio di contenuti più diretti e significativi le sperimentazioni
accumulate con entusiasmo nel decennio precedente, e questa opera rappre-
senta uno vero spartiacque nella storia della videoarte monocanale.
Art of Memory ha un chiaro riferimento al celebre e suggestivo libro dallo

81
Capitolo 2

stesso titolo uscito nel 1966 della studiosa inglese Frances Yates: un viaggio
che affronta il tema del collegamento fra le immagini e la memoria attraver-
sando la mnemotecnica dei retori latini, che immaginavano ipotetiche strut-
ture architettoniche all’interno delle quali dislocare le varie parti del discorso;
l’immaginifico “Teatro della memoria” progettato da Giulio Camillo Delmi-
nio, una biblioteca circolare fatta di settori semoventi ognuno contrassegnato
da immagini tematiche; la filosofia di Giordano Bruno che preconizza con il
concetto di pictura mentis quello che oggi noi chiameremmo immagine men-
tale; il teatro di Shakespeare, suggestioni junghiane e altri temi connessi.
Woody Vasulka prende spunto da queste riflessioni per creare il suo per-
sonale teatro della memoria, contaminato da elementi naturali e artificiali,
presenze umane e figure metafisiche. Il paesaggio montagnoso del New Me-
xico, rappresentato sia realisticamente sia come flusso libero e inarrestabile
di energia, diventa il palco privilegiato sul quale inserire strutture architet-
toniche che mostrano, come in una sorta di mapping virtuale, drammati-
che immagini d’archivio inerenti la storia più recente, soprattutto la Seconda
guerra mondiale, la Guerra di Spagna, la guerra nel Pacifico, e l’inevitabi-
le immagine-icona dello scoppio della bomba atomica. All’interno di que-
sta complessa geografia di immagini inserisce due personaggi simbolici: un
uomo e un angelo dorato, i quali si incontrano e scontrano durante tutto il
video. Le immagini dei ricordi personali dell’uomo si mescolano e collidono
in un corto circuito percettivo con quel catalogo audiovisivo della memoria
già fissato e immutabile delle immagini d’archivio, creando soluzioni visive
affascinanti. Il dialogo e lo scontro fra l’uomo, rappresentante la dimensione
terrena e fugace, e l’angelo, che scruta impassibile nel flusso non controllabile
del tempo le immagini più atroci del nostro passato, sono il filo conduttore
di tutto il video, esplicitato dalla scena in cui l’uomo fotografa in lontananza
l’angelo, provocando la sua reazione violenta.
Il tema del ricordo fissato, incastonato per sempre nel mezzo fotografico
e cinematografico, in contrasto con la memoria che si scioglie nel magma
del video, è un altro contenuto che attraversa tutta l’opera, il cui andamento
paranarrativo offre diversi temi, crea una struttura simile a un “saggio per im-
magini”, proponendo un approccio estetico e stilistico che miscela abilmente
istanze sperimentali, immaginario astratto, riprese dal vero ed esigenze di
contenuto, che sfuggono alla formula del documentario, della sperimenta-
zione pura e della narratività classica. Verso la fine dell’opera l’uomo tenta

82
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

di imitare la natura dell’angelo, mimandone goffamente il volo, ma è già


incastonato egli stesso in quelle strutture architettoniche che contengono le
immagini registrate del passato, e il finale vero e proprio, ovviamente aperto
e suscettibile di molte interpretazioni, è rappresentato da una sorta di massa
grigia che ruota su se stessa, un punto di non ritorno nel quale si possono
intravedere la fine della memoria o l’inizio di una memoria nuova, combina-
zione di varie istanze, anche percettive, in cui l’elemento umano, metafisico
e tecnologico si incontrano.
Nello stesso anno Steina realizza Lilith, un video meno complesso di Art
of Memory ma chiaramente, fin dal titolo, diverso come approccio estetico
dalla sua produzione precedente. Qui il demone femminile della mitologia
ebraica è un’anziana fusa alle fronde di alberi mosse dal vento, che appare
e scompare pronunciando parole che vengono rallentate, deformate, rese
misteriose e a volte aggressive dalla manipolazione effettuata anche sulle
frequenze della voce stessa. La performer è Doris Cross, un’artista ameri-
cana che dalla metà degli anni Sessanta ha concentrato la sua attività nella
presentazione di opere poetiche realizzate con la tecnica dell’Erasure, che
consiste nel cancellare parti di testi esistenti per crearne di nuovi: in parti-
colare Doris Cross per ottenere questa cosiddetta “Found Poetry” utilizza
i vocabolari. Lilith non è solamente un ritratto, ma il tentativo simile ad
Art of Memory di esprimere qualcosa attraverso il vocabolario elettronico-
digitale intensivamente sperimentato negli anni precedenti che vada al di
là della biografia artistica tipica di Paik: come Woody, anche Steina si ri-
ferisce al mito pur rappresentando un’artista e amica, e quindi rintraccia
un macro-tema per sviluppare visivamente dei possibili contenuti. Questa
Lilith invecchiata è rassicurante dal punto di vista visivo, ma viene immersa
in una natura agitata, pronuncia parole incomprensibili con toni non uma-
ni, risulta una traccia visiva inquietante che costantemente si mostra e si
nasconde denunciando la sua alterità rispetto al mondo naturale.
Steina e Woody Vasulka sono ancora oggi degli infaticabili sperimentatori
di sistemi interattivi e di apparati digitali, e costituiscono un punto di riferi-
mento per tutta la ricerca videoartistica monocanale.

83
Capitolo 2

La computer grafica astratta

Il primo periodo di sperimentazione della computer grafica è dominato dal-


la scelta dell’astrattismo in movimento, per motivi eminentemente tecnici
ma anche perché i primi artisti ad avvicinarsi a questa complessa tecnologia
hanno un background grafico astratto. Inoltre c’è una questione che riguar-
da la natura stessa delle immagini digitali che sono considerate, come da
Woody Vasulka, oggetti che squadernano una visione geometrica del mondo.
L’astrazione digitale scorre parallelamente alla scoperta del flusso visivo elet-
tronico e costituisce una parte importante del ritorno massivo all’astrazione
“in movimento” che percorre tutti gli anni Sessanta e Settanta, non solamente
in campo videoartistico. Tutta l’astrazione di cui si parla in questo paragrafo
è musicale, e di fatto sancisce un binomio inscindibile.

John Whitney

John Whitney (1917-1996)13 è sicuramente un pioniere di questa forma arti-


stica. Dopo aver compiuto studi di fotografia e musica e aver lavorato durante
la Seconda guerra mondiale su un sistema fotografico in grado di prevedere la
traiettoria dei missili, insieme al fratello James realizza una seria di cortome-
traggi astratti. Costruisce una macchina da lui definita Mechanical Analogue
Computer, una sorta di tavola ottica potenziata e gestita da un computer con
la quale realizza delle opere che possono essere considerate la “preistoria” della
computer grafica. Dopo aver lavorato, nel 1958, insieme a Saul Bass per i titoli
di testa di Vertigo (La donna che visse due volte) di Alfred Hitchcock, Whitney
si rende conto delle potenzialità delle sue ricerche e nel 1960 fonda la Motion
Graphics Incorporated, una società che lavora prevalentemente per la pubblicità
e per il mercato dei filmati industriali. Catalog del 1961 è un cortometraggio
realizzato rigorosamente in 2D con questa macchina e si presenta come una
sorta di compendio di possibilità grafiche: caleidoscopi formati da punti in mo-
vimento, figure che richiamano direttamente la forma dei mandala, dischi ot-
tici alla Duchamp che diventano neon colorati, quadrati che si trasformano in
13
Il sito postumo di questo autore è: http://www.siggraph.org/artdesign/profile/whitney/
whitney.html. The John Whitney Collection è il titolo del dvd in cui sono presenti le sue
opere più importanti: http://www.pyramidmedia.com/homepage/search-by-title/huma-
nities/john-whitney-collection-detail.html

84
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

rettangoli. Nonostante la vicinanza stilistica ed estetica al cinema astratto degli


anni Venti e Cinquanta sia molto presente, come per esempio la scelta dello
sfondo nero, già in questo cortometraggio è evidente una meccanicità fredda e
robotica che non richiama nulla di manuale.
Whitney comincia a definire il suo stile Digital Harmony, un’armonia
digitale creata da una macchina che produce immagini che ragionano pre-
valentemente sulla simmetria, e possono riprodurre simboli del passato legati
all’idea della circolarità e dell’infinito. Nel 1966 diventa artist in residence
presso un laboratorio dell’IBM gestito dal programmatore Larry Cuba, e fi-
nalmente la sua armonia digitale può incontrare la sua macchina privilegiata:
il computer.
Permutation del 1968 è il primo video (anche se tutte le opere di Whitney
per motivi tecnici sono conservate in pellicola) realizzato dall’artista ame-
ricano in questo laboratorio, e già dal punto di vista musicale le sue scelte
estetiche si chiariscono ancora di più: al suono ipnotico di un raga indiano
scorrono davanti allo spettatore forme cangianti create da ammassi di punti
in movimento. Qui Whitney invita lo spettatore a perdersi dentro l’universo
delle immagini digitali: il contrasto fra la magmaticità ritmica e melodica
della musica e l’incedere perfetto e ieratico delle immagini determinano un
risultato che richiama la dinamica delle relazioni fra caos e ordine, fra la ma-
nualità dell’improvvisazione e le vertigini del calcolo ordinato. Diventa più
chiara la relazione con gli stati percettivi di trance che inevitabilmente questa
tipologia di immagini e di musica richiamano. Sempre in questo anno Whit-
ney viene contattato da Douglas Trumbull, incaricato da Stanley Kubrick di
realizzare la sequenza finale di 2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spa-
zio, 1968), ma nonostante la tecnica usata per il film sia molto simile a quella
sviluppata dall’artista americano, non viene coinvolto in prima persona.
I due lavori successivi, Matrix I e Matrix II, rispettivamente del 1971 e del
1972, lavorano invece sulla scoperta della linea e modificano il nero dello sfon-
do in un pattern colorato che rappresenta la possibilità di un piano. Se in Per-
mutation lo sguardo di Whitney indaga l’idea dell’infinitezza del cerchio e dei
suoi legami con la sfera del trascendente, qui il discorso è tutto terreno, legato
alla finitezza, e dalle linee si passa rapidamente al quadrato e alla figura del
cubo, non ancora solido ma visualizzato come una figura “a fil di ferro”.
Arabesque, del 1975, indaga, come già denunciato dal titolo, la sinuosità
delle forme con composizioni grafiche in movimento che tendono a combina-

85
Capitolo 2

re gli esperimenti precedenti: compare l’idea della cornice rettangolare dentro


alla quale si inscrivono forme tonde in movimento, mentre al contempo le
linee che danzano liberamente sullo schermo scoprono il fuori campo scon-
finando dal quadro. Di nuovo compare lo sfondo nero, forse il più adatto per
questo tipo di ricerca.

Stan Van Deer Beck

Stan Van Deer Beck (1927-1984)14, architetto di formazione, appartiene alla


seconda generazione di filmmaker astratti attivi negli anni Cinquanta: men-
tre lavora come scenografo per alcuni programmi televisivi americani, auto-
produce i suoi film realizzati con la tecnica del collage di materiali vari. Gli
anni Sessanta rappresentano l’incontro con artisti come Claes Oldenburg,
Allan Kaprow e coreografi come Merce Cunningham e Yvonne Rainer con
i quali collabora per diversi anni. Van Deer Beck è alla ricerca di tecnologie
più consone al suo lavoro, e fondamentale è l’incontro con Ken Knowlton,
artista e pionieristico sperimentatore della fotografia digitale, che in questo
momento collabora con i Bell Labs, un laboratorio di sviluppo tecnologico
della compagnia telefonica americana. Insieme fra il 1964 e il 1967 realizzano
otto video in grafica 2D intitolati Poemfield.
Influenzato dall’arte concettuale, Van Deer Beck è interessato all’animazio
ne del linguaggio, e tutta la serie di Poemfield, musicata con brani rumoristici
suonati da strumenti acustici, è costituita da opere brevi che hanno come prota-
gonisti lettere, parole, singole frasi scomposte e ricomposte. I suoi video hanno
uno stile molto diverso dagli esempi precedenti: le frasi spezzettate si aggregano
e si disintegrano all’interno di sfondi colorati che cambiano in continuazione,
mettendo a dura prova la percezione dello spettatore. La pulsione luminosa
costante delle immagini (che sono sempre sature di colori) crea un’architettura
visiva che esplode in continuazione, lasciando solo tracce di forme, tentativi di
costruzioni visive in rapido disfacimento. L’estetica di Van Deer Beck è decisa-
mente più selvaggia, una sorta di Art Brut del digitale.
Con questo approccio è realizzato anche Simmetricks del 1972, una serie di
disegni bianchi su fondo nero creati con uno stile grezzo e infantile che lampeg-
14
Il sito postumo dell’artista è: http://www.stanvanderbeek.com/. Un’antologia di film e
video è disponibile nel dvd Visibles distribuito da RE.VOIR: http://revoirvideo.blogspot.
it/2008/11/stan-vanderbeek.html

86
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

giano sullo schermo, con un chiaro riferimento, soprattutto per la scelta musi-
cale (un brano ritmico africano), a Free Radicals (1958), una delle ultime opere
di Len Lye, e alle forme recursive e circolari di Whitney, rivedute e corrette però
da uno spirito più irriverente e dadaista. Van Deer Beck in questo periodo in-
segna Visual Arts in varie università americane e diventa sempre più conosciuto
in ambito artistico, sviluppando varie tecniche di presentazione delle sue opere,
dalle proiezioni sul vapore effettuate alla Guggenheim Foundation fino alla
realizzazione di Violence Sonata (1970) all’interno del programma Rockefeller
Artists in Television, opera composta da immagini preregistrate e mixate in
tempo reale con la ripresa della sistematica distruzione di un pianoforte, conce-
pita su due schermi e trasmessa su due canali televisivi diversi in cui si invita lo
spettatore a usare due televisori collegati ai rispettivi canali.

Lillian Schwartz

Lillian Schwartz (1927)15 è una delle prime donne a comparire in questa storia
della videoarte monocanale, e in particolare della Computer Art. Dopo una
breve carriera come autrice di sculture e installazioni mixed media, frequenta
il laboratorio di WNET dove effettua una serie di esperimenti di elaborazione
live del segnale video assistita dal computer, per approdare ai Bell Labs dove
diventa artist in residence e consulente artistica dal 1969 al 2002. Qui incontra
la tecnologia digitale della quale diventa sperimentatrice. Il corpus di opere di
Schwarz, che continua a produrre incessantemente ancora oggi, è veramente
sterminato. La prima produzione dell’artista americana è composta da video
non interamente realizzati in computer grafica, ma frutto di un abile mix fra
elementi naturali (soprattutto colori e liquidi versati su superfici trasparenti) e
semplici elaborazioni grafiche: il colore è molto importante nella videografia di
Schwarz così come il contrasto, ma anche l’ambigua somiglianza fra naturale
e artificiale, uno dei suoi temi preferiti. Con questo approccio sono realizza-
ti Pixillation (1971), e Mutations (1972), quest’ultimo arricchito da riprese di
luci al laser. Il binomio musica-immagini è qui rigorosamente elettronico: nel
primo compare un flusso di suoni di stampo rumoristico, mentre nel secondo
un brano del compositore Jean-Claude Risset. È inoltre presente una notevole

15
Il sito dell’artista è: http://lillian.com/, dove è visionabile gran parte della sua ricchis-
sima videografia.

87
Capitolo 2

padronanza del senso del colore e del ritmo di montaggio: si tratta di opere di
breve durata in grado di tenere alta l’attenzione dello spettatore.
In altri casi l’artista americana squaderna le potenzialità dell’astrazione
2D digitale cercando forme che richiamano il flusso, la velocità, la pulsazione
dell’immagine, come in UFO’S del 1971, mentre Apothesis del 1973 scan-
daglia la possibilità di creare forme geometriche non facilmente definibili,
immerse nel nero e continuamente in trasformazione. Schwarz negli anni uti-
lizza diversi software e modalità di produzione, rimanendo fedele al concetto
di astrazione bidimensionale, e sperimentando anche sistemi di interattività
fra immagine analogica e digitale.

William Latham

Il passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta, per quello che riguarda la
Computer Art, segna l’ingresso del 3D e un rinnovato interesse nei confronti
dell’astrazione. E attesta anche un mutamento di approccio al digitale: se
prima abbiamo citato artisti che, in collaborazione con programmatori, si av-
vicinano al linguaggio dei computer per poi diventare autonomi, ora l’artista
è in prima persona un programmatore, in grado di scrivere o riscrivere il soft-
ware secondo le sue necessità. Cambia anche la modalità di creazione delle
immagini: se prima l’idea di fondo era quella di disegnare e di organizzare
delle forme grafiche, ora la gestione degli oggetti può essere affidata a sistemi
di autogenerazione casuale basati su semplici sistemi di intelligenza artificiale.
In questo caso l’artista non disegna più direttamente gli oggetti uno per uno,
ma crea un ambiente in cui i singoli elementi assumono dei comportamenti
guidati che conducono a risultati formali non prevedibili.
William Latham (1961)16 è un programmatore che lavora presso la divi-
sione inglese dell’IBM per la sezione grafica, per poi diventare il responsabile
di molte società di sviluppo di videogiochi e docente di varie università bri-
tanniche. Autore di fotografie digitali e di videoinstallazioni, produce pochi
ma significativi video monocanali, tra cui alcuni video musicali per il gruppo
techno The Shamen. Latham definisce la sua estetica col nome di Organic
Art, da cui deriva il termine più attuale Generative Art.
La sua opera più importante è A Sequence from the Evolution of Form, del

16
Il sito dell’artista è: http://doc.gold.ac.uk/~mas01whl/index.html

88
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

1986, un breve ma folgorante video in cui il titolo stesso indica una tempo-
ralità che il supporto non può visualizzare pienamente: quest’opera è una
sequenza, solo il frammento di un organismo in crescita perenne; all’osserva-
tore è concesso vedere solo l’abbozzo di una forma che ha una sorta di “vita
propria”, indipendente da qualsiasi supporto di registrazione. Una serie di
particelle dalla superficie metallica compie delle evoluzioni dal centro dello
schermo, immersa in un nero che qui ha il valore di una sorta di “notte dei
tempi”, un buio primordiale dal quale fuoriescono forme di vita elementari.
Rapidamente queste “cellule” cominciano ad agglomerarsi creando forme de-
finite: quando la struttura sembra completa, ruota su se stessa per farsi osser-
vare da tutti i lati, e a quel punto si disgrega, per permettere alle particelle di
crearne delle altre. Le forme che queste cellule generano in un processo con-
tinuo e potenzialmente infinito, sono relazionate alla struttura più semplice
della natura: la spirale. In realtà, fra riferimenti alla forma della conchiglia,
del DNA, del polipo, della stella marina eccetera, il mandala sembra ancora
un orizzonte simbolico citato quasi obbligatoriamente.
A Sequence from the Evolution of Form è una tappa importante per l’astrazione
animata, anche per la modalità di creazione e di gestione delle forme. Qui alle
singole particelle sono stati impostati dei parametri di aggregazione di disaggrega-
zione che fanno sì che di volta in volta creino forme differenti e non previste piena-
mente dal programmatore. La gestione del caso, in una sorta di ordine artificiale
che richiama la generazione di forme naturali, è una spinta stilistica che Latham
intuisce essere essenziale per l’estetica digitale ed è un’idea che verrà copiata, omag-
giata in vario modo per molti anni a seguire. Latham aggiunge anche una fascina-
zione in più tipicamente digitale: l’idea della superficie fredda, artificiale, metallica,
fatta di punti-sfere che si snodano e creano forme sinuose in continuo movimento.
Questo oggetto metallico si muove e cresce: in una parola, contraddittoriamente,
vive, e squaderna anche l’ambivalenza fra macrocosmo e microcosmo, intuita da
Whitney, ma qui pienamente visualizzata.

Yoichiro Kawaguchi

Sull’onda delle ricerche effettuate da William Latham si inserisce Yoichiro


Kawaguchi (1952)17, ricercatore presso la Divisione Design dell’Industrial

17
Il sito dell’artista è: http://www.yoichiro-kawaguchi.com/

89
Capitolo 2

Product Research Institute of Tokyo, docente universitario, non solo coinvol-


to nella creazione di immagini digitali, ma anche di robot (recentemente ha
fondato una rock band fatta di automi, gli Z-Machines). Anche Kawaguchi
è interessato all’ambivalenza fra immagini digitali create con sistemi che non
si basano su un disegno preesistente e forme organiche: il richiamo o il rife-
rimento alla natura fa parte di molta cultura giapponese, e in questo caso la
creazione di una vita parallela artificiale è rappresentata da immagini i cui
colori psichedelici comunicano un’atmosfera di gioco infantile.
In Morphogenesis (1984), Embryo (1988) e Flora (1989) elementi gassosi e
liquidi si trasformano incessantemente mimando forme che ricordano essen-
zialmente il mondo vegetale, organismi semplici o la vita sottomarina. Gli
elementi visivi collidono gli uni con gli altri senza soluzione di continuità, e
i movimenti di macchina che sorvolano le forme aumentano la sensazione di
trovarsi di fronte a un mondo colorato in perenne mutamento. Se in William
Latham ritorna l’assenza di montaggio, che invece era presente negli autori
precedenti, qui il tutto procede secondo una fluidità incontrollabile che simu-
la il piano sequenza, pur presentando passaggi di immagini.
Kawaguchi rinuncia a rivestire le sue forme di superfici realistiche o me-
talliche perché la sua estetica punta a rimarcare il fatto che quello che lo spet-
tatore sta guardando è una versione digitale, non una copia, di alcune forme
naturali, per cui tutto è solido e liquido allo stesso tempo, opaco o trasparente.
Anche la scelta delle musiche di accompagnamento – brani elettronici lontani
dalle atmosfere sperimentali di Van Deer Beck o Schwarz – che non voglio-
no mettere alla prova l’ascolto dello spettatore, dimostrano che l’astrazione
digitale negli anni Ottanta sta diventando un genere che attraversa pubblici
differenti, non solo gli appassionati o gli addetti ai lavori.

Gary Hill

Gary Hill (1951)18 è scultore, musicista e videoartista americano, autore di vi-


deoinstallazioni e di video monocanali, fortemente legato alle istanze dell’Ar-
te Concettuale. Il linguaggio, il testo e le loro relazioni con i nuovi mondi
18
Il sito dell’artista è: http://www.garyhill.com/, mentre una selezione delle sue opere vi-
deo è visionabile sulla sua pagina Vimeo: https://vimeo.com/garyhill. Inoltre nel volume
AAVV, Around and About. A Performative View. Gary Hill, Éditions du Regard, Paris,
2000, è presente un dvd con una selezione dei suoi video.

90
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

dell’elettronica e del digitale sono i temi costanti e ossessivi delle sue opere.
Dal punto di vista stilistico Gary Hill oscilla tra la scoperta dell’astrazione
elettronica e il desiderio di lavorare con immagini referenziali, a volte accura-
tamente riprese, e con un approccio estetico simile al cinema sperimentale di
Michael Snow: crea uno stile unico che coniuga una visionarietà suggestiva
e una radicalità verticale che trasformano alcuni suoi video in opere struttu-
raliste, rigorosamente votate alla ricerca del linguaggio interno insito nelle
macchine. Gary Hill è anche un performer di reading, e la ricerca sulla voce
umana è un’altra traccia costante della sua opera.
L’artista comincia a produrre video già dalla data “fatale” del 1973, con
The Fall, semplice giustapposizione di elementi naturali e oggetti tecnolo-
gici. In seguito indaga le possibilità di manipolazione dell’immagine video
soprattutto per quello che riguarda i colori, le solarizzazioni e l’uso del nega-
tivo in modo tale da renderle quasi irriconoscibili, come in Mirror Road del
1976. Nel frattempo, grazie all’incontro con Steina e Woody Vasulka presso
il Center for Media Study di Buffalo (New York), anche Hill comincia a spe-
rimentare il mondo astratto dell’elettronica attraverso l’uso del feedback, del
Video Synthesizer e di quegli strumenti che fanno parte della prima ondata
di sperimentazione videoartistica.
La svolta estetica avviene nel 1977, quando l’attenzione verso il linguaggio
trascina Gary Hill su una sponda di ricerca personale: Electronic Linguistics
è un video in cui l’artista, che come molti altri ha un approccio all’immagi-
ne da musicista elettronico, indaga la somiglianza di alcuni suoni elettronici
con la voce umana, come per rintracciare uno spazio di linguaggio naturale
all’interno delle frequenze sonore. Dal punto di vista visivo semplici imma-
gini astratte in bianco e nero seguono il percorso dei suoni comportandosi
in maniera interattiva. Nel 1978 realizza Elements, dove una serie di disturbi
video vanno a sincrono con frammenti di frasi e parole disturbate elettro-
nicamente. Dal 1979 Gary Hill viene finanziato da diversi enti, dal Natio-
nal Endowments for the Arts, alla Rockefeller Foundation alla Guggenheim
Foundation, per cui anche dal punto di vista tecnico i suoi video acquistano
più maturità.
In Equal Time (1979) la ricerca sul collegamento fra linguaggio e imma-
ginario elettronico si affina attraverso una scelta anomala per i videoartisti
di questo periodo, ovvero l’uso della voce fuori campo: visivamente, due
semplici barre verticali scorrono sullo schermo incontrandosi e separandosi,

91
Capitolo 2

mentre due voci che recitano due testi diversi percorrono lo stesso spazio
sfruttando le possibilità dello stereo; nel momento in cui le due barre si in-
contrano le due voci in sincrono si trovano a recitare il medesimo testo, per
poi separarsi nuovamente. In Videograms (1980-1981) usa il Rutt-Etra Scan
Processor per produrre una serie di brevi episodi in cui semplici immagini
astratte vengono commentate da una voce fuori campo che recita con toni
freddi, testi paradossali come fossero poesie in prosa creando dei corto-
circuiti di senso con le immagini presentate. Gary Hill, al contrario dei
videoartisti precedentemente citati, non è ideologicamente schierato a favore
di un certo tipo di estetica elettronica, per cui ricorre a modalità stilistiche
tipicamente e classicamente cinematografiche, come la voce fuori campo,
creando un ibrido interessante fra Arte Concettuale, cinema sperimentale
e videoarte. Questa ricerca trova nuove formule in Processual Video (1980)
e Happenstance (Part One of Many Parts) (1982-83), splendida animazione
e rielaborazione di testi che diventano immagini elettroniche a metà fra
l’astratto e il referenziale.
Around and About del 1980 mostra l’altro versante della ricerca di Gary
Hill: al suono di un testo recitato in maniera monotona, una serie di immagini
raffiguranti oggetti di un ambiente domestico viene montata su ogni singola
parola. L’effetto finale è che il monologo produce le immagini in continui slit-
tamenti di senso. Le immagini sono talmente brevi da risultare delle fotografie,
e gli oggetti sono illuminati in maniera curata: si avverte la presenza di un set,
ma al contempo Hill affina una delle tecniche di montaggio che utilizzerà più
spesso: l’uso delle tendine e delle finestre che vanno a destrutturare sempre più
le immagini “correttamente” riprese.
In Primarily Speaking (1981-1983) due finestre centrali, inserite in sfondi
astratti che richiamano (come le barre di colore) la presenza tecnologica della
televisione, ospitano immagini sincronizzate a due voci che creano uno dialo-
go stralunato. In questo video compaiono altre scelte tipiche della videografia
di Hill: alcuni oggetti sono posti in un contesto quotidiano, solitamente rife-
rito all’interno di una stanza, mentre altri vengono isolati e mostrati come og-
getti presenti in uno studio fotografico; in altri casi ci sono immagini realiz-
zate in stop motion, o montate in maniera talmente frammentata e veloce da
sembrare un’animazione. L’evidenza dell’artificio visivo e la tessitura astratta
dei testi di Hill concorrono sempre di più a costruire una struttura che rap-
porta la voce all’immagine e che rende la prima la vera “regista” del video.

92
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

Il percorso di Hill si complessifica ancora di più per aderire a formule più


classicamente cinematografiche sperimentali: Why Things Get in a Muddle?
(Come on Petunia) del 1984 e URA ARU (The Backside Exists) del 1985-1986
rappresentano due video di transizione in cui l’artista abbandona decisamente
l’astrazione a favore del set, di attori che recitano e di elaborazioni visivo-
sonore e di montaggio meno evidenti, anche se intensifica l’uso delle tendine,
la presenza del testo come immagine e una certa atmosfera surrealista che
ammorbidisce i toni freddi dei video precedenti. Sono prove ulteriori di ibri-
dazione, video che fungono da ponte per la sua opera più impegnativa e più
riuscita: Incidence of Catastrophe (1987-1988), prodotto in parte dal National
Film Institute, dal canale televisivo inglese Channel Four e infine dal Na-
tional Endowments for the Arts, ispirato al testo Thomas l’obscur di Maurice
Blanchot, filosofo e scrittore francese.
Incidence of Catastrophe è il video in cui Hill abbandona (sull’onda di una
tendenza che coinvolge anche altri videoartisti come Bill Viola) in maniera
decisiva l’ansia manipolatoria dell’estetica video degli albori, per cercare un
ibrido con il linguaggio del cinema sperimentale: qui le immagini sono riela-
borate il minimo indispensabile (qualche ralenti e qualche sovrapposizione).
Hill stesso si mette in scena, non come performer, ma come character: è un
personaggio che interpreta una parte, è il lettore del romanzo, ma potrebbe
anche essere una sorta di incarnazione di Blanchot e del suo doppio, il prota-
gonista del romanzo. È importante sottolineare che i partner produttivi sono
diversi dai video precedenti: accanto a un istituto che sovvenziona artisti, ci
sono un canale televisivo non dedito alla sola sperimentazione e un ente di
supporto cinematografico. È evidente quindi che il pubblico di riferimento è
diverso da quello tipico dell’arte contemporanea, e questo fatto testimonia il
desiderio di molti videoartisti di muoversi in un ambito il più vasto possibile,
in grado di attrarre finanziamenti da più settori.
Un tema costante di tutto il video è l’erosione: perdersi nel testo di Blan-
chot significa annegare nelle pagine del suo libro, e annientare quella facoltà
di linguaggio che è il cardine dell’estetica del videoartista americano: qui il
personaggio-Gary Hill non pronuncia una parola, ma appare come il lettore
muto e ossessivo di un testo raffigurato come pagina scritta accompagnata da
suoni amplificati e assordanti che lentamente, come l’acqua che distrugge a
poco a poco la banchina dell’inizio del video, entra nel cervello del protago-
nista provocando incubi e visioni di perdita, di smarrimento e di confusione,

93
Capitolo 2

fino al finale in cui il suo corpo nudo, circondato da escrementi, che pronun-
cia fonemi senza senso, giace in una stanza bianca sulle pareti della quale
sorgono, gigantesche, le lettere del testo di Blanchot. Questo lungo viaggio
segnato dalla catastrofe è guidato da un altro protagonista del video: l’acqua,
un’immagine che ricorre ossessivamente in molte opere di videoartisti, come
Fabrizio Plessi e Bill Viola, non più il flusso dell’elettronica, ma l’elemento
naturale che più di tutti le somiglia. La discesa del corpo del protagonista
nell’acqua, qui visualizzata con uno scarto di montaggio tipicamente surrea-
lista (Hill casca da una tavola imbandita trascinando con sé la tovaglia e tutti
gli oggetti appoggiati, e a stacco vediamo il suo corpo tuffarsi nell’acqua) è un
altro elemento visivo che ritorna spesso in artisti differenti.
Anche in questo caso, come in Primarily Speaking, la dimensione indivi-
duale dell’artista è rappresentata da spazi chiusi, domestici, scorci di stanze,
o da situazioni esterne chiaramente “scenografate”, come la ripresa notturna
in cui Hill corre in un bosco, mentre le situazioni visive più oniriche, come
la sequenza della cena (ripresa da una carrellata circolare che sembra non fer-
marsi mai e in cui compaiono personaggi che vengono definiti dalle singole
parole che pronunciano) si presenta come un set quasi teatrale: non a caso
questa scena sfocia in una sorta di performance dionisiaca in cui vengono
distrutti vari oggetti.
Hill prosegue la sua fortunata attività ancora oggi, realizzando videoin-
stallazioni, sculture e installazioni con diversi media, relazionandosi costan-
temente con il tema del linguaggio in rapporto alle nuove tecnologie.

Robert Cahen

Robert Cahen (1945)19 è un musicista francese allievo di Pierre Schaeffer che


comincia molto presto a interessarsi all’immagine e in particolare alla fotogra-
fia e al cinema. Agli inizi degli anni Settanta fa parte di un gruppo di lavoro,
Groupe de Recherches Musicales, che opera all’interno di alcuni laboratori del-
la radio francese, la ORTF; in seguito diventa direttore di un laboratorio di
ricerca audio-video della televisione francese, Le Service de la Recherche de la
19
Nel testo di Sandra Lischi, Il respiro del tempo. Cinema e video di Robert Cahen, Edizioni
ETS, Pisa, 2009 è presente un dvd con otto opere di Robert Cahen. Altri video sono
visionabili sul sito http://grandcanal.free.fr/ e sul relativo canale Youtube: https://www.
youtube.com/user/GrandCanalCollector/

94
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

RTF. Qui comincia intensivamente a sperimentare l’immagine video trasferen-


dovi la propria ricerca legata alla musica concreta: le origini della videoarte sono
attraversate da musicisti di varia formazione che si interessano al video.
Il suo primo video monocanale risale a una data che oramai è costante:
il 1973, e si tratta di L’ invitation au voyage, un’opera in cui si squadernano
molte delle istanze estetiche del videoartista francese. Una serie di immagini
di paesaggi, in prevalenza marini, si alterna a brani d’archivio, dove sono pre-
senti le figure di un treno e scorci di paesaggio ripresi dal finestrino, il tutto
musicato da un tappeto sonoro, composto dal videoartista, in cui compaiono
brevi frasi lette da una voce maschile. Le immagini, rallentate, solarizzate,
ricolorate elettronicamente, creano una tessitura pseudo-pittorica che è tipica
dello suo stile, il più attento fra i videoartisti presentati in questa sezione alla
composizione cromatica dell’immagine. La ricerca della fluidità nel passag-
gio fra le immagini è un’altra componente costante della sua estetica che si
basa su un lavoro anche molto complesso di montaggio sfruttando la maggior
parte delle tecniche fin qui evidenziate (tendine, riquadri, sovrapposizioni in
luma key) che vengono rese quasi invisibili, impercettibili agli occhi dello
spettatore.
Bisogna notare che Cahen è uno dei pochi videoartisti, se non l’unico in
questa fase della storia della videoarte, a occuparsi esclusivamente di video mo-
nocanali e non di videoinstallazioni: il suo bagaglio culturale e tecnologico di
fotografo evidentemente incide nella scelta di concentrarsi sulla sperimenta-
zione dell’immagine in sé piuttosto del suo eventuale rapporto con lo spazio.
Questo anche perché la scelta linguistica che gli interessa di più è il tempo
dell’immagine elettronica, della sua percezione e della sua articolazione pre-
sente in quella sorta di “arte del tempo” che è il montaggio delle immagini in
movimento. Dopo una serie di video in cui scandaglia le possibilità astratte
dell’immagine elettronica, come Trompe l’oeil20 del 1979 (che attesta già dal
titolo il suo interesse nel collegare il lavoro di manipolazione dell’immagine
elettronica al concetto di pittura), o come Artmatic e L’entr’aperçu21 entrambi
del 1980 (opere che si fanno notare a livello internazionale vincendo una serie di
premi in festival importanti), realizza un video che rappresenta un punto fermo
della sua personale estetica: Juste le temps del 1983, prodotto dall’Institut Natio-

20
Il video è visionabile al seguente link di Vimeo: https://vimeo.com/66317849
21
Il video è visionabile sul sito di Grand Canal: http://grandcanal.free.fr/video_80_03.html

95
Capitolo 2

nal de l’Audiovisuelle (INA) – un’istituzione francese, che diventa un partner


rilevante per molta videoarte francese –, con una colonna sonora originale di
Michel Chion, importante musicista e teorico del rapporto suono-immagine
nel cinema.
Juste le temps è un’opera che suggerisce una situazione paranarrativa, l’in-
contro di un uomo e di una donna nello scompartimento di un treno, immersa
in un’atmosfera sospesa e rarefatta. Qui Cahen affina alcune tracce stilistiche
usate nei suoi video precedenti: le immagini dal vero vengono rallentate, i colori
rielaborati in modo consistente per far risaltare la fragilità dell’elettronica, la
sua impossibilità di produrre immagini realistiche a favore di forme umbratili,
trasparenti che emergono dal “rumore” dell’elettronica, dal magma confuso di
pixel che governa la formazione delle figure. Il paesaggio che scorre veloce dal
finestrino dello scompartimento, opportunamente rallentato, è trattato con il
Rutt-Etra Scan Processor e quindi diventa una serie di scie colorate dentro le
quali pulsa in modo vitale la vita “frequenziale” del video che è fatta di legge-
rezza, di movimento, di velocità. Il tema simbolico del passaggio è importante
per Cahen: dalla veglia al sonno, da una dimensione naturale a una artificia-
le; simbolo che, nel videoartista francese, si configura sempre più chiaramente
come luogo dell’inconscio, interpretazione mentale del mondo che la macchina
può rappresentare meglio di ogni altro mezzo perché ne condivide la natura
liminale. Nel video i passaggi, appunto, dal paesaggio esterno, pur osservato
dal finestrino dello scompartimento, all’interno del vagone sono sempre transiti
che si mutano in immagini liquide, fluide, dalla natura mercuriale, in continua
metamorfosi, che non riescono a stabilirsi in una forma certa. Pur adottan-
do una modalità di montaggio scarnificato, fatto solo di stacchi e dissolvenze,
l’attento legame con i passaggi sonori e l’attenzione all’idea di fluidità onirica
creano una sensazione di ipnosi.
Nella videografia di Cahen compaiono due elementi che sempre più diven-
tano protagonisti: il corpo e il paesaggio. Il videoartista francese è autore anche
di opere di videodanza, esperimenti volti ad approfondire l’idea della rappresen-
tazione del corpo: alcuni video di questo genere derivano da una committenza
e quindi adottano un taglio documentaristico, come Regards/Danse (1986) sul
rapporto danza e pittura, richiesto dal Museo d’Orsay, o di documentazione
come La danse de l’ épervier (1984) su coreografia di Hideyuki Yano, opere in
cui il videoartista è libero comunque di sperimentare il suo personale linguag-
gio; ma è in due video che Cahen riesce a miscelare la sua visione dell’immagine

96
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

con la rappresentazione del corpo danzante: Parcelle de ciel del 1987 e Solo del
1989. Il primo, prodotto dall’INA e da La Sept, un canale televisivo via satellite
che in seguito diventerà ARTE (che offre uno spazio di visibilità inusitato per la
sperimentazione video francese), trasforma i corpi dei danzatori in ectoplasmi
elettronici, complici gli effetti dello scan processor, ma anche del rallentatore
che crea scie di ritardo visivo sull’immagine e del montaggio che puntualizza
la coreografia, fermando addirittura l’immagine. Quasi lo stesso discorso vale
per Solo, prodotto dal canale televisivo spagnolo RTVE per la serie El arte del
video, su coreografia di Bernardo Montet, dove le evoluzioni di un danzatore
in un’arena da corrida deserta vengono continuamente rallentate, interrotte,
mandate all’indietro, fino alla dissoluzione finale in cui tutta l’immagine viene
distorta come se fosse riflessa su uno schermo deformante. Cahen sperimen-
tando il fermo immagine rivela un altro possibile e contraddittorio “passaggio”
di stato dell’immagine video, ovvero il ritorno a una natura primordiale, pre-
tecnologica, fotografica, di glaciazione dell’istante e del movimento.
Le committenze per Cahen diventano sempre più numerose e variegate:
nel 1988 The Kitchen gli commissiona un video su musica di John Zorn, il
post-jazzista “rumorista” di New York, Le deuxième jour, un omaggio musica-
le al cinema di Jean-Luc Godard, che Cahen svolge evitando accuratamente
di citare le opere del grande cineasta francese, ma approfondendo un tema
che si rivela sempre più pregnante per la sua estetica: la rappresentazione del
paesaggio, soprattutto quello urbano. Le deuxième jour è un esempio interes-
sante di video musicale “d’artista”, dove le immagini di New York sono la
struttura visiva portante per una serie di incastri visivo-musicali attenti a non
ricadere nel cliché della sincronicità o del puro accompagnamento.
Fra i partner produttivi dei video di Cahen compaiono sempre più spes-
so, oltre all’INA, dei canali televisivi: gli anni Ottanta e in parte Novanta,
soprattutto in Francia ma anche in Inghilterra, in Germania e parzialmente
in Italia, testimoniano un interesse piuttosto attivo da parte di alcune realtà
televisive per la sperimentazione audiovisiva.
La maggiore visibilità che Cahen ottiene grazie a una committenza te-
levisiva è rappresentata da una proposta dell’INA e del canale FR 3 che vo-
gliono “svecchiare” i cosiddetti “intervalli televisivi”. Nasce Cartes postales
vidéo (1984-86) in collaborazione con Alain Longuet e Stéphane Huter, una
serie di cartoline di varie città del mondo, presentate come immagini fisse di
30’’ nelle quali a un certo punto, inaspettatamente, si muove qualcosa: o un

97
Capitolo 2

elemento dell’immagine o tutta la “veduta”. Il programma ha un successo


internazionale e viene trasmesso da molte televisioni tanto da diventare un
format ripreso e omaggiato da altri, come gli Intervalli realizzati alla fine degli
anni Ottanta da Luca Pastore e Alessandro Cocito e trasmessi da RAI 3. La
notorietà di Cahen travalica il mondo della videoarte complice anche il fatto
che la televisione francese, grazie all’attività di registi come Jean-Cristophe
Averty o Michel Jaffrenou, è abituata all’incontro fra esigenze di palinsesto
e sperimentazione linguistica. Nel frattempo le sue opere sono sempre più
presenti in molti festival (anche cinematografici) internazionali, e ricevono
numerosi premi e riconoscimenti.
Forte del successo ottenuto con questa produzione e della maturità stili-
stica conquistata con i video citati in precedenza, Cahen realizza una sorta di
trilogia di video dedicati al paesaggio, ognuno dei quali rappresenta un passo
in avanti nella storia della videoarte monocanale: Hong Kong Song (1989)
in collaborazione con Ermeline Le Mezo, Voyage d’ hiver (1993), e 7 Visions
Fugitives (1995).
La scelta stilistica di evitare set preparati ma di cogliere degli eventi non
classicamente programmabili (per questo la danza è un elemento che a Cahen
interessa) e di voler comunque indagare il rapporto del corpo con l’ambiente
che lo circonda, aggiungendo quindi un elemento in più, lo spazio, alla sua di-
mensione d’indagine privilegiata, il tempo, porta il videoartista francese a cre-
are un ibrido fra documentazione e sperimentazione, definito da alcuni teorici
“documentaire de création”, traducibile come “documentario creativo”. Hong
Kong Song, prodotto dall’INA, La Sept e FR3 con la partecipazione del Centre
National de la Cinématographie, nasce da un progetto chiamato Urbasonic,
supportato dai Ministères des Affaires Étrangères de la Culture et de la Com-
munication, che vuole indagare l’“urbanismo sonoro”, rintracciare l’identità di
un contesto urbano attraverso i suoi suoni. Qui Cahen crea una visione quasi
allucinatoria di Hong Kong e della sua confusione visiva e sonora, immettendo
lo spettatore in un’atmosfera di fascinazione irresistibile nei confronti del caos
vitale e tumultuoso della una realtà urbana. Dal punto di vista stilistico ritor-
nano alcuni approcci costanti: la visualizzazione “oscilloscopica” della natura
frequenziale delle immagini video, il rallentamento delle forme che determina
scie di colore, aggiungendo il sezionamento del quadro attraverso sovrapposi-
zioni costanti e tendine dal bordo sfumato che impercettibilmente creano dei
veri e propri quadri in movimento. Le immagini di Cahen sembrano sempre

98
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

più fragili, incapaci di emergere totalmente da una dimensione liquida, sempre


più “dense” di sostanza immateriale. Si affina il lavoro sui colori e l’abilità di
cogliere con la telecamera scorci di realtà urbana e l’umanità che la popola come
degli osservatori non visti, pur costruendo inquadrature suggestive.
Voyage d’ hiver, realizzato presso il Centre International du Création Vi-
déo Pierre Schaeffer (CICV) con il supporto di La Sept e di Les Films du
Tambour de Soie, è una sorta di esaltazione dell’annullamento dello spazio:
girato nel territorio antartico cileno, il video gioca sull’annegamento delle
forme nel bianco, dal quale si intravedono corpi e barche colorate che gal-
leggiano annichilite dalla maestosità dell’ambiente. 7 Visions Fugitives, pro-
dotto dal CICV, da ARTE e molti altri partner, sono per contro dei veri e
propri “appunti di viaggio” video, o forse delle autentiche “visioni di viaggio”
come suggerito dal titolo, dedicati alla Cina. Strutturato in sette brevi episo-
di, è un’opera che rappresenta il vertice dell’estetica di Cahen e il ritorno alla
collaborazione con Michel Chion. Il videoartista francese chiarisce in modo
netto che non si tratta di un documentario, ma di una serie di impressioni
visive, di suggestioni mentali derivate da squarci improvvisi, visioni appunto
di qualcosa che scappa nell’angolo degli occhi, che appare e scompare, mute-
vole, fugace. I singoli episodi presentano situazioni riprese da una telecamera
sempre più “emotiva”, mossa non solo dall’occhio ma anche dall’inconscio, e
trattate con il bagaglio di manipolazioni descritte prima che qui trovano un
compimento e un equilibrio, soprattutto in rapporto ai suoni, straordinari.
Paesaggi immersi nella nebbia, capelli che si trasformano in immagini astrat-
te, attraversamenti di mercati affollati, dettagli di volti e di occhi sono alcune
tracce di una “base” visiva sulla quale Cahen opera i suoi trattamenti creando
una sinfonia audiovisiva di estrema bellezza e suggestione, il punto più alto
della sua intera videografia.
Robert Cahen dagli anni Novanta comincia anche a realizzare videoin-
stallazioni, versioni multischermo di alcuni suoi video, altre produzioni ori-
ginali, rarefacendo la produzione di video monocanale, ed è un videoartista
attivo ancora oggi.

99
Capitolo 2

Bill Viola

Bill Viola (1951)22, come molti altri videoartisti già citati, ha un bagaglio di
studi artistici e soprattutto musicali: fa parte dell’Ensemble Rainforest del
compositore David Tudor, allievo di John Cage, e gli studi sulla musica elet-
tronica e in generale le collaborazioni con altri musicisti sono elementi im-
portanti per l’estetica del videoartista americano. Dal 1974 al 1976 è direttore
tecnico di Art/Tapes/22 di Firenze, una delle prime gallerie (diretta da Maria
Gloria Bicocchi) a offrire agli artisti la possibilità di produrre video (in Italia,
negli stessi anni, esiste un’altra realtà simile, il Centro Videoarte di Palazzo dei
Diamanti a Ferrara, nato nel 1972, dove nasce e si sviluppa l’opera di Fabrizio
Plessi). Grazie a una serie di finanziamenti da quegli enti culturali già citati (le
fondazioni Guggenheim e Rockefeller) Bill Viola viaggia nelle Isole Solomon, a
Java, a Bali, in Giappone, documentando il più possibile con la sua telecamera,
per poi tornare a New York come artist in residence presso il Lab di WNET/
Thirteen. Nel 1977 è chiamato dall’artista e curatrice Kira Perov a presentare
un programma sulla videoarte alla Trobe University a Melbourne, in Australia.
I due si sposano l’anno successivo e compiono insieme una serie di viaggi nel
Sahara, in Tunisia e in Giappone, dove si fermano per un anno e mezzo e dove
Bill Viola studia buddhismo con il maestro Daien Tanaka, mentre è artist in
residence presso la Sony Corporation, primo artista occidentale a essere scel-
to dalla grande industria giapponese. Tornati negli Stati Uniti agli inizi degli
anni Ottanta, fondano il Bill Viola Studio, diretto da Kira Perov, fotografa che
assiste assiduamente il marito non solo nella realizzazione delle opere video
(sia monocanali sia installazioni), ma anche nella documentazione fotografica,
sperimentando tecnologie in grado di stampare su carta frame da video. Kira
Perov diventa col tempo anche curatrice e organizzatrice di alcune grandi mo-
stre del marito.
Come si può notare dalle brevi biografie degli artisti presi in considerazio-
ne, la logica del “gruppo” tipica degli anni Sessanta si scioglie gradualmente a
favore dell’artista solitario che innesta delle collaborazioni con altre realtà, ma
22
Il sito dell’artista è: http://www.billviola.com/. Bill Viola Works è un cofanetto di Raro
Video curato da Bruno di Marino contenente tre opere di Bill Viola: Hatsu Yume (First
Dream), 1981, I Don’t Know What It Is I Am Like (1986) e The Passing (1991) (http://www.
rarovideo.com/Page.asp/id=401/A501=1497/bill-viola-works. Nel 2010 le Éditions à voir
hanno editato, a cura di Bill Biola e Kira Perov, il dvd Selected Works: 1976-1981.

100
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

che non fa più parte di una “comunità”. Anche dal punto di vista tematico,
i contenuti diventano meno “collettivi”, poco riferiti al mezzo televisivo o a
un contesto di ribellione sociale o politica, ma diventano più privati, si rife-
riscono principalmente all’io dell’artista e alla sua sfera esperienziale, quasi
esistenziale, che assume come mezzo privilegiato il viaggio.
Bill Viola è autore di video monocanali e di videoinstallazioni, e fin da
subito si contraddistingue per uno stile visivo semplice e diretto che lo porterà
al successo internazionale. Dopo una esplorazione dell’astrazione elettronica
con il video Information, realizzato nel 1973, un anno affollato di opere prime
di molti videoartisti, il primo video monocanale già significativo per la sua
personale estetica è The Reflecting Pool (1977-1979). In questo video è chiaro
l’uso che Bill Viola fa del proprio corpo nella prima fase della sua produzione
monocanale: da un lato c’è un richiamo forte all’idea performativa, alla tra-
dizione tipica della Body Art di considerare il corpo dell’artista come l’unico
“agente” possibile del quadro dell’immagine, dall’altro questo riferimento si
scioglie a favore di una sorta di “presenza” che compie dei gesti minimi o che,
come spesso accade nei video successivi, quasi non agisce, ed è seduta su una
sedia, in una situazione meditativa e contemplativa. In questo caso l’azione
di Bill Viola è minima: compie un salto come per tuffarsi in una piscina qua-
drata immersa nel verde. Il corpo è fermato a mezz’aria grazie a un fermo im-
magine, mentre al di sotto di questa dimensione congelata, la vasca riflette lo
scorrere del tempo con eventi vari, increspandosi, illuminandosi più o meno
di raggi di sole, rispecchiando sagome di persone che si avvicinano e si allon-
tanano. Lentamente il fermo immagine di Bill Viola svanisce fra le fronde, e
il suo corpo nudo riemerge dalla piscina e si allontana nel bosco.
Bill Viola non è interessato all’astrazione dell’elettronica e alla manipolazione
dell’immagine che svela l’interno della macchina video: è alla ricerca di altri
“interni”, ovvero dell’interiorità spirituale che pure appartiene al video, grazie
alla sua capacità di catturare un tempo dell’immagine potenzialmente infinito.
Preferisce usare la tecnologia per nasconderla, o per creare paradossi spazio-tem-
porali che conducono lo spettatore verso una sorta di consapevolezza che non
riguarda solo le questioni classiche della “verità” dell’immagine, ma del grado
di esperienza personale che l’immagine può dare. La manipolazione del tempo
e dello spazio serve a rappresentare un’immagine simbolica molto semplice, e i
passaggi di stato che il protagonista deve attraversare per concluderla e viverla
appieno: il battesimo, uno dei temi visivi più ricorrenti nella sua videografia.

101
Capitolo 2

L’acqua è un chiaro simbolo di vita ma è anche il simbolo del video, di una


tecnologia che sconfigge l’idea della “mortalità” dell’immagine a favore della
diretta, ovvero del flusso “vivente” delle forme rappresentate. Eppure, proprio
perché è una tecnologia che può contenere temporalmente il “massimo” della
vita, inevitabilmente ne contiene anche la morte: il battesimo, o più semplice-
mente il passaggio da uno stato all’altro, da una dimensione a un’altra, dalla
vita alla morte, dalla veglia al sonno, dal buio alla luce è quindi il transito
obbligato che ogni essere umano deve compiere per acquisire una maggiore
consapevolezza di sé e dello spazio che lo circonda.
Nel 1977 Viola realizza Sweet Light, un video che aggiunge elementi im-
portanti per l’estetica appena descritta. Innanzitutto la rappresentazione del
mondo degli animali, in questo caso degli insetti. Qui il videoartista è seduto
mentre tenta di scrivere qualcosa in una specie di garage evidenziato da una
lunga panoramica che descrive lo spazio; improvvisamente il protagonista
del video si alza e butta a terra, dopo averlo nervosamente accartocciato, un
foglio di carta che viene inseguito da una serie di movimenti a scatti della
telecamera. Il foglio di carta è in realtà pieno di insetti, e sullo sfondo della
stanza si intravede passeggiare Bill Viola vestito in modo diverso dalle inqua-
drature precedenti. Segue una panoramica circolare continua su un gruppo di
persone che mangia e parla, una scena quasi citata da Incidence of Catastrophe
di Gary Hill, e il video si chiude con la visione notturna delle scie lasciate da
falene, mentre il corpo vestito di bianco del videoartista, illuminato artificial-
mente, si avvicina alla telecamera. L’atmosfera cupa e minacciosa di questo
video corrisponde a una sorta di “altra sponda” della sua ricerca, quella che
indaga il buio, il senso di smarrimento, la premonizione della morte rappre-
sentata più volte da immagini di mosche o altri insetti che rimandano all’idea
di putrefazione, di mortalità della carne.
In Chott-El-Djerid (A Portrait in Light and Heat) del 1979 Bill Viola più
chiaramente dimostra il suo interesse per la rappresentazione del paesaggio de-
sertico. Lunghe inquadrature indugiano su due tipologie di territori: alcune
zone ghiacciate del Canada e il deserto tunisino in cui si intravedono dei pas-
saggi di esseri umani. Il videoartista usa questa associazione ambientale per
mettere a confronto due “difficoltà” di visione: le immagini del deserto sono
deformate dal cosiddetto “effetto mirage” (linee di calore che rendono galleg-
gianti le forme riprese e che creano in alcuni casi degli effetti a specchio), men-
tre quelle dei ghiacci canadesi risultano, per motivi tecnici differenti come il

102
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

bianco eccessivo e le temperature bassissime, difettose, poco definite, in alcuni


casi simili a fantasmi. Il problematico rapporto fra natura e tecnologie della
visione, che qui altera per motivi tecnici gli ambienti, intepretandone le forme
in maniera errata, diventa un tema sempre presente nella sua opera.
Anche per altri videoartisti successivi alla prima ondata sperimentale l’inte-
resse per la rappresentazione del paesaggio diventa un tema costante. Ancient of
Days del 1980, prodotto da diversi enti tra i quali la Sony americana e giappone-
se, WNET/Thirteen, il National Endowments for the Arts e il New York State
Council on the Arts, è un video formato da diversi episodi in cui Bill Viola
esplora ancora di più le possibilità di originare paradossi spazio-temporali grazie
alla tecnologia video. L’Antico dei Giorni è il nome di Dio secondo il Libro di
Daniele, ed è forse la prima volta nella storia della videoarte che viene fatto un
riferimento così esplicito alla religione e alla spiritualità, anche se forse in questo
caso il riferimento è filtrato dal celebre frontespizio di William Blake per il suo
poema Europe a Profecy (1794), dove si vede la figura mitologica inventata da
Blake stesso, Urizen, disegnare con un compasso il mondo.
In effetti, la circolarità del tempo è uno dei temi di questa opera, semplici
“ritratti” di realtà urbane e non, rappresentate nel loro fluire temporale, che
viene reinterpretato dalla tecnologia video: un tavolo di legno in un giardino
imbandito con pochi oggetti che brucia in reverse, mentre una serie di zoomate
in avanti, poste in continuità da brevi dissolvenze incrociate, formano una sorta
di “macro zoomata” artificiale che proietta il tempo dell’azione all’indietro; una
strada affollata di uomini e automobili viene descritta da una serie di panorami-
che semicircolari effettuate in momenti differenti della giornata, messe anch’es-
se in continuità da una serie di rapide dissolvenze incrociate che le trasforma-
no agli occhi dello spettatore in una panoramica unica; le vette innevate del
Fujiyama diventano l’immagine-cartolina trasmessa dal mega schermo di un
edificio giapponese che viene descritto con un lento movimento e una zoomata
che “entra” nel piano terra affollato da persone che giocano con videogame, fino
a quando il loro movimento viene rallentato sino a fermarsi; nel quadro finale
un orologio appoggiato su un tavolo scandisce il tempo mentre sullo sfondo un
monitor, attaccato a una parete come fosse un quadro, trasmette le immagini
di nuvole in movimento. Bill Viola qui comincia a sperimentare il rallentato-
re, mentre nell’ultimo episodio adotta una formula, quella del “video quadro”,
che diventerà una nota costante delle sue videoinstallazione da metà degli anni
Novanta in poi.

103
Capitolo 2

Dal punto di vista sonoro, Viola usa quasi sempre l’audio in presa diretta,
i rumori delle azioni e alcune semplici elaborazione degli stessi: una scelta
“anti-musicale” presente in quasi tutta la sua videografia, eccetto per alcune
committenze di cui si parlerà in seguito. Anthem (1983), prodotto dalla Ro-
ckefeller Foundation, Sony Corporation e American Film Institute, indaga
ulteriormente l’immaginario oscuro e perturbante del videoartista america-
no: l’inno a cui il titolo si riferisce è l’urlo di una bambina giapponese in
piedi nella hall di uno spazio buio. Questo suono rallentato e velocizzato
fa da substrato a tutto il video, che è un montaggio abile e ben calibrato di
varie immagini volte a scatenare delle sensazioni inquietanti nello spettatore:
operazioni chirurgiche, ambienti industriali notturni, serpenti che entrano
dentro a tronchi d’albero, associate a immagini diurne in netto contrasto con
le precedenti (bagnanti al sole, complessi industriali di perforazione, interni
d’ospedale). In Anthem si riprende deliberatamente la tradizione del montag-
gio analogico delle avanguardie cinematografiche, innestando delle associa-
zioni, talora violente, fra le immagini, la gran parte delle quali richiama l’idea
della penetrazione, del taglio, dell’intrusione della tecnologia. È un video
che testimonia l’interesse per le immagine mediche che incontreremo anche
nella videografia di Peter Greenaway, ma è soprattutto la visualizzazione di
una natura minacciosamente dominata dalla macchina, con corpi in bilico
fra la vita e la morte, in balia di strumenti che tagliano, curano e scrutano il
loro interno.
L’estetica di Bill Viola abbandona sempre di più la vocazione manipolato-
ria tipica della videoarte monocanale, ricercando nelle immagini una qualità
fotografica da “bella immagine”, con l’intervento di luci curate, recuperando
il valore del set e adottando soluzioni di montaggio tradizionali. Man mano
che il videoartista americano produce le sue opere (così come avviene anche
per Gary Hill) e che la tecnologia video comincia a garantire una certa defi-
nizione, si avverte il ritorno a una estetica più cinematografica, tanto che le
sue opere, degli anni Ottanta e Novanta, aprono un confine a volte ambiguo,
in bilico fra videoarte e cinema d’avanguardia formando un ibrido linguistico
che potremmo definire “cinema sperimentale elettronico”. La consapevolezza
di usare tecnologie video lo spinge comunque a interrogarsi sul mezzo più che
altro dal punto di vista percettivo, ovvero di come la tecnologia video interpreta
il mondo, il suo spazio, il suo tempo. La distanza dall’estetica della televisione
non consiste più nello “spaccare” la macchina e usare l’elettronica indagando

104
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

le sue possibilità manipolatorie, ma nel tornare all’alveo del linguaggio cine-


matografico declinato nella sua versione sperimentale: nei video che abbiamo
citato, le lente zoomate che costruiscono spazi e tempi paradossali, hanno come
chiaro riferimento la cinematografia di Michael Snow e un certo tipo di cinema
strutturalista, miscelato con scelte più classiche e facilmente comunicabili al
pubblico, come il montaggio delle attrazioni.
Da questo punto di vista, una delle sue opere più interessanti tenta l’azzar-
do della durata cinematografica, i classici 90’: si tratta di I Don’t Know What
It Is I Am Like, del 1986, una sorta di kolossal prodotto dalle Fondazioni che
già abbiamo incontrato altre volte, la Rockefeller e la Guggenheim, insieme
a The American Film Institute, il National Endowments for the Arts, Mas-
sachusetts Council for the Arts and Humanities, Western States Regional
Media Arts Fellowship, ai quali si aggiunge un partner importante, di nuovo
televisivo, il canale tedesco ZDF, che supporterà il videoartista anche nelle
produzioni successive. Il titolo (“Non so a cosa assomiglio”) deriva da un
versetto del Ṛgveda, gli “inni della conoscenza” scritti originariamente in
sanscrito che compongono la base del complesso sistema religioso e filosofico
dell’induismo. Come per altri videoartisti anche per Viola è giunta l’ora di
creare una sorta di video macrotematico, un saggio per immagini. L’esito è
un lungo, enigmatico e affascinante viaggio che pone alcune domande sulla
percezione del proprio io confrontata con quella del mondo naturale, in par-
ticolare animale, e con culture rituali che accettano l’uso anche estremo del
corpo come una sorta di sfida necessaria per compiere qualsiasi passaggio di
conoscenza. Il protagonista è di nuovo l’artista, figura neutra ma rappresen-
tante di una cultura tecnologizzata, curiosa, che indaga con i suoi strumenti
conoscenze ataviche che si sono forse perdute.
L’opera è strutturata in cinque episodi che vengono dichiarati solo nei ti-
toli di coda e che sono parzialmente riconoscibili all’interno del video stesso,
che ha una sorta di incipit già molto chiaro: la soggettiva di uno sguardo che
entra in un ambiente marino, interrotto bruscamente da un disturbo elettro-
nico che introduce il primo episodio. Natura e artificio, umanità e tecnologia
si incontrano e scontrano in un momento di vuoto e di smarrimento. Tutto
l’incipit sembra voler raffigurare una sorta di stato naturale primordiale delle
origini: l’interno di una grotta buia che mostra forme quasi umane, bisonti
circondati da fulmini che si intravedono sullo sfondo, dettagli di occhi di ani-
mali, pesci e soprattutto uccelli, quasi a voler cogliere, sulla superficie del loro

105
Capitolo 2

sguardo, la loro percezione del mondo; una lunga zoomata dentro l’occhio di
una civetta introduce la parte in cui Bill Viola, seduto in un interno buio, sta
osservando antichi libri con immagini anatomiche del cervello. La dimensio-
ne mentale del protagonista del video è rappresentata da una serie di riflessi
del suo corpo che si diffondono in tutto l’ambiente, grazie a bicchieri, specchi,
finestre, gocce d’acqua. Il protagonista ha un piccolo monitor nel quale osser-
va riprese di rituali estremi in cui alcune persone si perforano il viso con aghi
molto lunghi. Il suo habitat domestico, mentre si sta cibando di un pesce su
una tavola spartanamente imbandita, si anima di presenze animali: un gatto,
una lumaca, un pulcino che nasce da un uovo, un elefante, presenze primitive
che cominciano a popolare il suo universo. L’atmosfera è contemplativa: tutto
avviene lentamente e le immagini procedono ritualmente con un montaggio
semplice, come in perenne attesa di qualcosa. Improvvisamente, anticipato
dall’immagine di un cane lupo che al rallentatore sembra aggredire l’osser-
vatore, comincia un montaggio ritmico scandito da una serie di battiti in cui
si intravedono immagini di denti di animali, paesaggi abbandonati, flash di
puro colore che introducono una lunga sequenza in cui, accompagnate da una
musica ritmica e ipnotica, appaiono a tutto schermo le immagini intraviste
nel monitor citate prima. Dal fondo marino dell’inizio del video emerge un
pesce che viene trasportato sulla terraferma e lì, lentamente, si decompone.
L’accettazione del “passaggio di stato” deve avvenire attraverso la conoscenza
del dolore e la consapevolezza della morte: bisogna quindi abbandonarsi a un
senso primitivo dell’esistenza che però può essere comunicato anche dalla tec-
nologia e dal “suo” sapere, dalla sua capacità di interpretare, anche in maniera
visionaria, il mondo.
The Passing del 1991 è il video più emotivo e più connesso al tema del le-
game inscindibile fra vita e morte. Prodotto dal National Endowments for the
Arts e dal canale televisivo ZDF, nasce dalla vicinanza temporale tra la morte
della madre di Bill Viola e la nascita di suo figlio: un passaggio fra vita e morte
(o viceversa) che è il tema cardine di tutta l’opera. Girato interamente con tele-
camere a raggi infrarossi (strumenti molto sensibili in grado di poter riprodurre
con molta chiarezza immagini notturne), è un viaggio autobiografico nel buio,
nel mistero della vita e della morte, associate allo stato di veglia e di sonno.
Qui Bill Viola costruisce una sorta di “mitologia metafisica dell’io” simile a
certe esperienze cinematografiche di Stan Brakhage, e in alcuni punti, come la
scena della nascita del figlio, sembra quasi fare delle citazioni dirette al filmma-

106
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

ker sperimentale americano. Ma al di là di questi riferimenti, qui compaiono


delle immagini che diventano il cardine estetico di tutta la sua opera recente:
la presenza di corpi o ambienti immersi nell’acqua, in bilico fra la caduta e
l’ascensione. Mentre la presenza del paesaggio naturale e primitivo associato
a luoghi urbani abbandonati continuano a essere elementi della sua estetica.
Inevitabile, anche in questo caso, la presenza di corpi agenti con una funzione
decisamente autobiografica: Bill Viola, sua madre, Kira Perov e il figlio sono i
protagonisti del video.
Gli anni Novanta rappresentano un decennio di svolta per la videoarte
monocanale, e Bill Viola e altri videoartisti della sua generazione diradano
sempre di più questo tipo di produzioni a favore di un certo modello di vi-
deoinstallazioni. Déserts, del 1994, è l’ultimo video monocanale realizzato dal
videoartista americano e l’unica opera musicale della sua videografia. Com-
missionato dall’orchestra Ensemble Modern di Francoforte, ha la funzione di
accompagnare visivamente l’esecuzione del celebre brano di Edgar Varèse, ed
è una coproduzione televisiva formata da ZDF/ARTE, BBC, Alive-TV/KTCA
TV. L’opera è un compendio dei temi illustrati prima, perfettamente calibrati a
livello di montaggio alla colonna sonora: immagini di paesaggi, corpi immersi
nell’acqua, ambienti desertici, fuochi e incendi costituiscono la tessitura visiva
che lega la sequenza principale, quella di una figura umana somigliante a Bill
Viola che, rallentata in modo parossistico, in un interno domestico si siede a
un tavolo, beve un bicchiere d’acqua, si alza e si tuffa letteralmente in un pavi-
mento liquido, che diventa una sorta di mare dentro il quale si riversano tutti
gli oggetti della stanza.

Klaus Vom Bruch

Klaus Vom Bruch (1952)23 fra il 1975 e il 1976 è allievo di John Baldessari,
esponente dell’Arte Concettuale presso il California Institute of the Arts, stu-
dia filosofia all’Università di Colonia fra il 1976 e il 1980, e diventa docente
di Media Arts in varie università tedesche. Come quasi tutti i videoartisti qui
trattati, è autore sia di video monocanali sia di videoinstallazioni.
Realizza video dalla metà degli anni Settanta riprendendo la pratica del
23
Il sito dell’artista è: http://www.kvb.com/, la sua pagina YouTube è: https://www.you-
tube.com/user/djbruch, mentre la sua pagina Vimeo, più ricca di contributi, è: https://
vimeo.com/user8759686

107
Capitolo 2

found footage, arricchendola con la presenza di immagini realizzate apposi-


tamente, spesso riferite al corpo e al viso dell’artista stesso. Vom Bruch è un
caustico e irriducibile critico del linguaggio audiovisivo di massa del cinema
e della televisione: per lui le immagini di propaganda bellica e le pubbli-
cità televisive assolvono alla stessa funzione, e per questo motivo vengono
trattate come materiali dei quali evidenziare il più possibile la loro vuotezza
linguistica e l’iteratività, che diventano nei suoi video una ossessiva coazione
a ripetere.
Dopo alcune sperimentazioni in cui si concentra sull’uso della telecamera
per produrre immagini distorte cromaticamente e volutamente sovresposte,
in una parola “scorrette”, e su rimontaggi di materiali televisivi, il suo discor-
so estetico si chiarisce con Propellertape (1980), dove una serie di immagini
d’archivio di militari che avviano le eliche di un aereo vengono montate os-
sessivamente con il volto dell’artista su sfondo nero che guarda fuori campo,
illuminato di giallo: dal punto di vista della durata delle immagini, Vom
Bruch ama giocare con il concetto di subliminale, per cui il suo viso compare
per frammenti temporali che lo proiettano in una dimensione della memoria
ambigua, trasformandolo ora in uno spettatore delle immagini d’archivio,
ora in un soggetto i cui ricordi potrebbero appartenere a quella dimensione
cinematografica.
Lo tesso discorso vale per Das Duracellband (1980), dove in maniera sincopa-
ta sono montati vari repertori di guerra tra cui lo scoppio della bomba atomica,
un pilota americano che con un gesto sembra confermare lo sgancio di una bom-
ba e le immagini dei corpi martoriati di Nagasaki, insieme all’immagine di una
pubblicità in cui si vede una batteria Duracell divisa a metà che si chiude con un
suono sordo e all’immagine di Vom Bruch che si copre il viso con una mano.
Dal punto di vista sonoro il videoartista tedesco non concede nessuna tregua allo
spettatore, usando solo il rumore della pubblicità in loop. La “rivelazione” del
linguaggio, un approccio tipicamente concettuale, qui si lega a filo doppio con
la denuncia radicale e iconoclasta della propaganda audiovisiva, combinando
varie icone riferite al concetto di energia, dalla batteria “che non muore mai” alla
bomba atomica che tante vittime ha mietuto.
Lo spirito caustico di Vom Bruch si rivolge anche all’immaginario edul-
corato del cinema in Relativ Romantisch/Tausend Küsse (1983), dove mille baci
tratti da vari film hollywoodiani subiscono interventi di manipolazione e di
associazione insistendo sull’industrializzazione dell’immaginario di massa

108
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

come conseguenza di un’idea bellica e non certo romantica del mondo. In


questo video sviluppa lo stile di rimontaggio radicale delle sue opere prece-
denti aggiungendo scelte di composizione dell’immagine, intervenendo elet-
tronicamente sulle fonti originarie, e creando di volta in volta associazioni
visive spiazzanti.

Il passaggio estetico della videoarte dagli anni Sessanta agli anni


Ottanta

La videoarte monocanale subisce un notevole processo di trasformazione dagli


anni Sessanta agli anni Ottanta. Dal momento che molti degli artisti fin qui
trattati attraversano con la loro attività questo arco temporale, per poi prosegui-
re sotto altre forme che vedremo negli anni Novanta, mentre altri si affacciano
al mondo della videoarte monocanale negli anni Ottanta, sarebbe stato piutto-
sto difficile dividere in due parti questo testo. Il presente paragrafo quindi serve
da pausa di riflessione su quello che è stato scritto finora e come spartiacque
funzionale fra il primo periodo di sperimentazione della videoarte monocanale,
rappresentato dagli anni Sessanta e Settanta, e il secondo periodo, quello degli
anni Ottanta. Per questo motivo il passaggio estetico fra questi archi temporali
viene affrontato adesso, comprendendo gli autori fin qui trattati e quelli che
verranno affrontati alla fine di questo capitolo, per cui alcuni argomenti qui
dibattuti sono la sintesi di alcuni temi già analizzati e l’anticipazione di altri che
riguardano strettamente gli anni Ottanta.
Le linee estetiche della videoarte degli esordi si concentrano sulle possibi-
lità della macchina video di poter generare autonomamente immagini astrat-
te, che vengono percepite dai videoartisti come il sistema di forme originarie,
quasi primordiali e archetipiche dell’elettronica che viene svelato al pubblico.
Si vuole combattere il rassicurante immaginario televisivo usando la tecnologia
televisiva, smascherare la voglia di rappresentare il reale della televisione con la
tv, e quindi si forza la macchina, si cerca l’errore tecnologico in grado di produr-
re immagini, si lascia libera la macchina di usare il “vuoto d’immagine”, ovvero
l’assenza di icone referenziali, che diventano l’immaginario cardine di molta
videoarte: la neve, il feedback, le forme sinusoidali in perenne movimento, i
disturbi di segnale, la nuova astrazione agevolata da macchine come il sintetiz-
zatore video o il Rutt-Etra Scan Processor.
Tutto questo avviene nel momento in cui sembra che la telecamera possa

109
Capitolo 2

non essere usata dai videoartisti che si concentrano sul televisore come og-
getto e sulla generazione delle immagini in tempo reale. La diretta provoca
un rinnovato interesse nei confronti del tempo, che col video può diventare
potenzialmente infinito, discostandosi in maniera radicale dal concetto di
durata, insito nella tecnologia e nel linguaggio cinematografici. L’immagine
elettronica non solo esiste “di per sé”, ma può durare per sempre, innestando
vertigini percettive basate su un’idea di fruizione ipnotica. Come per ciò che
riguarda la formazione dell’immagine, anche la diretta può essere “capovolta”
linguisticamente ed essere usata come materiale duttile da elaborare, cosa
che avviene in molte videoinstallazioni. Con la tecnologia si può giocare: se
l’immagine elettronica è un magma fluido in perenne movimento, può anche
essere costantemente manipolabile, e da qui deriva una sorta di “estetica della
metamorfosi” tipica della videoarte degli esordi.
L’avvento delle telecamere, inizialmente in bianco e nero e con una defi-
nizione scarsa, diffonde anche in questo caso il desiderio di sfruttare le “man-
canze” della tecnologia a favore di un aumento di consapevolezza estetica.
Dalle riprese della macchina video allora si cerca di evidenziare e manipolare
ulteriormente proprio la bassa definizione delle sue forme che appaiono di
natura fragile, fantasmatica, indefinita, umbratile, trasparente, a confermare
da un lato l’impossibilità di questa tecnologia di rappresentare in maniera
naturalistica il mondo, essendone un’interpretazione artificiale altamente for-
malizzata, dall’altro l’appartenenza di queste forme al regno della mente, del
sogno e della memoria. Alcuni hanno chiamato questa tendenza “estetica del-
la bassa definizione”, che si perpetua anche nel momento in cui la tecnologia
video acquista tecnicamente negli anni una maggiore risoluzione.
Se il video non può, o non deve, produrre immagini realistiche, allora
qualsiasi forma pur definita deve essere manipolata: in questo caso quell’este-
tica della metamorfosi applicata al segnale puro o al palinsesto televisivo viene
utilizzata per forzare la fuoriuscita della trama, del “rumore”; operazione age-
volata da un bagaglio di effetti speciali (solarizzazioni, negativi, effetti di mo-
saicizzazione, comparsa di scie sui movimenti) che hanno origini nella ricerca
fotografica e cinematografica, e che per il video non sono affatto considerabili
“speciali” ma connaturati all’essenza liquida della sua tecnologia. Con l’av-
vento del colore si cerca di “preservare” la colorimetria fredda o eccessivamen-
te calda del video, senza preoccuparsi di eventuali risultati kitsch o forzati
dal punto di vista cromatico: di nuovo, si può o si deve giocare con il sistema

110
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

di forme che la macchina produce naturalmente, senza “truccarlo” di realtà.


Dall’immagine video non si pretende una qualità fotografica, ma pittorica.
In questo contesto alcuni elementi diventano i nuovi protagonisti dell’occhio
della telecamera: l’oggetto, il paesaggio e il corpo nelle loro declinazioni più
astratte, per cui la figura del danzatore, sintesi fra corpo spersonalizzato e
movimento, diventa il soggetto privilegiato di quella videoarte monocanale
più attenta alla sperimentazione, senza dimenticare l’altra tendenza che vede
nel video uno specchio tecnologico nel quale si riflette l’artista stesso.
La diffusione dei videoregistratori e dei supporti, per lo meno inizialmen-
te molto poco stabili, dei nastri magnetici, suggerisce un altro elemento da
elaborare dal punto di vista estetico, quello della memoria audiovisiva, col-
legato ovviamente a quello della durata dell’immagine, e reintroduce l’idea
di montaggio. L’approccio manipolatorio qui diventa combinatorio: la simul-
taneità e la velocità fanno parte del caos del video, per cui non ha più senso
montare le immagini una dopo l’altra, ma una “dentro” l’altra, una tendenza
da alcuni definita “impaginazione dello schermo”, un approccio che oggi, col
digitale, ha un nome preciso: compositing. Tutto l’armamentario tecnologico
che il video può sfruttare (tendine, riquadri, intarsi, luma key e chroma key),
pur essendo derivazione di estetiche della forzatura del linguaggio del cine-
ma sperimentale, appartiene al regno della naturale metamorfosi dell’idea
di montaggio. L’accavallamento caotico e apparentemente senza senso delle
immagini fa parte di un’idea di fondo che scorre in quasi tutta la videoarte:
la fragilità, la mancanza di compattezza dell’immagine che diventa, appunto,
un “quadro” da impaginare.
Se gli anni Sessanta e Settanta rappresentano il periodo della formazione
di un linguaggio audiovisivo elettronico, nella maggior parte dei videoartisti
che hanno attraversato quella fase, o in quelli nati subito dopo, alle soglie
degli anni Ottanta qualcosa cambia: nasce l’esigenza di usare questa gram-
matica per sviluppare dei temi che non siano esclusivamente l’argomento
metalinguistico per eccellenza, ovvero la televisione e il suo immaginario, o
la scoperta della tecnologia. Se questi temi permangono, essi acquistano in
questi anni una forma più diretta, semplice e comunicativa, come nei video
di Klaus Vom Bruch o come nell’epico Der Riese (1982-83) di Michael Klier
che realizza un video di 80’ montando una serie di immagini prese da tele-
camere di sorveglianza, anticipando le ossessioni voyeuristiche di una certa
televisione e di internet.

111
Capitolo 2

Di fatto gli anni Ottanta testimoniano il desiderio di fare uno sforzo in


più, complici anche le numerose committenze televisive e la presenza di molte
opere monocanali a festival non solo di video ma anche di cinema, alcuni dei
quali molto prestigiosi e con un pubblico seppure non “generico” diverso da
quello che frequenta le gallerie d’arte. Molti videoartisti, composto il loro
personale “alfabeto”, vogliono cominciare a “parlare” . Gli pseudo-documen-
tari biografici di Paik già vanno in questa direzione: l’umanizzazione della
tecnologia, un tema tanto caro al videoartista coreano, corrisponde anche
a una sorta di umanizzazione del linguaggio del video, che deve maturare e
procedere oltre l’astrazione e il metalinguaggio.
La metà degli anni Ottanta è un momento significativo per quei videoar-
tisti che hanno vissuto gli anni Sessanta e/o gli anni Settanta per l’affollarsi di
opere che tendono a definirsi come saggi audiovisivi su macrotemi: è il caso di
Art of Memory (1987) di Woody Vasulka, I Don’t Know What It Is I Am Like
(1986) di Bill Viola, Incidence of Catastrophe (1987-88) di Gary Hill, e di altre
opere di autori che iniziano a produrre negli anni Ottanta. Compaiono rife-
rimenti più o meno espliciti a un certo tipo di letteratura sperimentale e alla
poesia. Si accettano la vicinanza con il linguaggio del documentario (Robert
Cahen) o scelte visive (gli ultimi video monocanali di Bill Viola o di Gary
Hill) più asciutte e legate a una qualità fotografica dell’immagine e al ricorso
di modalità di montaggio tradizionalmente cinematografiche, come il mon-
taggio delle attrazioni o il solo uso di tagli e di dissolvenze. L’avvicinamento
all’idea di “narrazione audiovisiva” porta alcuni videoartisti a riscoprire il
valore simbolico delle immagini o un certo linguaggio tipico del cinema degli
esordi. Per altri, come per esempio i Vasulka, la presenza di uno o più temi
non determina lo spostamento degli approcci stilistici ed estetici verso scelte
di linguaggio più rassicuranti, anzi le rafforza.
In generale se gli anni Sessanta e Settanta rappresentano una fase di speri-
mentazione sullo statuto dell’immagine elettronica, sul tempo e sul montag-
gio, negli anni Ottanta l’interesse si sposta quasi esclusivamente sulle possi-
bilità manipolatorie del montaggio elettronico e dello spazio dell’immagine,
facendo diventare il chroma key uno dei protagonisti assoluti di questa ri-
cerca, e introducendo una certo tipo di sperimentazione dentro ai palinsesti
televisivi grazie alla nascita delle televisioni satellitari come La Sept/ARTE
o Canal Plus o canali dediti alla cultura come l’inglese Channel Four che
danno linfa vitale a una serie di produzioni sperimentali.

112
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

Per quello che riguarda la Computer Art invece si può dire che la ricerca
sull’astrazione diventa la struttura portante sulla quale si articolano diversi
approcci al mezzo tecnologico e differenti scelte stilistiche. L’avvento del 3D e
del metodo generativo applicato all’immagine di sintesi determina l’avvicina-
mento dell’idea di astrazione alla visualizzazione di qualcosa di riconoscibile,
un’interpretazione digitale di forme naturali o viventi. L’estetica del simula-
cro e l’idea dell’immagine come oggetto non collimano con il desiderio di
gestire forme riconoscibili, e la computer grafica astratta per tutti gli anni Set-
tanta risiede nei laboratori informatici in grado di fornire le strumentazioni
necessarie ad artisti dalla formazione tradizionale (pittura astratta, disegno,
cinema astratto), che con l’avvento del 3D si trasformano in ingegneri infor-
matici in grado di gestire in prima persona i software usati. La Computer
Art, al contrario della videoarte, negli anni Sessanta e Settanta non ha un
“nemico estetico” al quale contrapporsi, ma sviluppa liberamente il proprio
linguaggio astratto anche perché dal punto di vista tecnologico le macchine
usate si esprimono al meglio con quelle scelte stilistiche.
Gli anni Ottanta e soprattutto Novanta determinano in modo rapido
una serie di bruschi mutamenti: l’avvento dei personal computer, la diffusio-
ne della cultura e dell’industria dei videogiochi, il sempre più vivo interesse
dell’industria cinematografica e televisiva per i cosiddetti effetti speciali, con
la rinascita di generi come la fantascienza e il fantasy. L’interfaccia utente dei
computer diventa sempre più grafico e iconico, e bisogna ammettere che l’uti-
lizzo delle finestre, oramai diventato di uso comune, ha origine nel linguaggio
dell’elettronica, in particolare di una certo tipo di televisione e di videoarte
monocanale. I videogiochi e l’industria dell’intrattenimento televisivo e ci-
nematografico puntano tutto sulla ricerca del verosimile, la computer grafica
è invece vista in una logica di sostituzione del set e/o degli attori, quindi da
questa tecnologia si pretende il massimo del realismo, con la relativa diffusio-
ne di software che operativamente rispondono a questa esigenza. E se anche
alcuni teorici insistono sul fatto che, sia o no realistica, un’immagine digitale
è pur sempre un simulacro, improvvisamente molti artisti si trovano di fronte
a un’estetica di origine industriale che conquista fette sempre più ampie di
consenso e di pubblico, insomma uno standard con o contro il quale pren-
dere posizione. Generalizzando, di fronte a questo fenomeno si creano varie
correnti: chi sostiene che la simulazione fotorealistica può essere comunque
uno strumento di sperimentazione da ribaltare in vario modo; chi si oppone

113
Capitolo 2

in maniera radicale approfondendo il discorso sull’astrazione; chi preferisce


combinare le due scelte, immaginando universi a metà fra il referenziale e
l’astratto. Un’ulteriore linea di ricerca nega la tridimensionalità per ritornare
alla grafica 2D, o alla combinazione fra 2D e 3D, determinando la nascita di
una sorta di sottogenere della computer grafica definito motion graphics.
Il trend fotorealistico negli anni si concentra su due elementi: ambienti e cor-
pi, sviluppando tecniche e metodi di simulazione che si affinano sempre di più,
fino al punto che oggi si può parlare in maniera realistica di ambienti virtuali e
di attori virtuali che stanno “abitando” i non-luoghi interattivi dei videogiochi
e quelli non interattivi di un certo tipo di cinema. Accanto a questa tendenza si
sviluppa la linea “cartoonistica digitale”, quella cioè che riprende l’idea del carto-
ne animato classico declinandolo in versione digitale. Il ritorno dell’importanza
del segno o del disegno, in una parola dello stile delle immagini, è un’altra mo-
dalità possibile per allontanarsi dall’idea che la computer grafica 3D debba essere
uno specchio efficiente e ingannevole del mondo. In questo campo le situazioni
realmente “in opposizione” sono da ricercare ai margini dell’industria produtti-
va, perché, dagli anni Novanta in poi, un certo settore videoartistico, che aveva
integrato nella sua storia autori e tecniche molto diverse, fatica a intercettarle e a
renderle parte integrante della sua storia. Almeno per ora.

La nascita di MTV e l’osmosi fra videoarte e videomusica

Nel 1981 il panorama televisivo muta radicalmente perché nasce MTV, la


prima televisione monotematica, ovvero dedicata a un genere unico: il vi-
deo musicale. Fermo restando che questo genere audiovisivo esiste già prima
dell’avvento di MTV, è innegabile che l’idea di trasformare il vecchio format
radiofonico, ovvero un dj che trasmette musica, in una televisione in cui un
vj trasmette video musicali accentra, dal punto di vista mediatico e produt-
tivo, quei prodotti audiovisivi che prima avevano spazi ridotti in programmi
appositi, dando loro un luogo fisso in cui poter sperimentare appieno le loro
potenzialità. MTV, avendo una programmazione di ventiquattro ore su ven-
tiquattro, è a caccia di contenuti ma soprattutto di stili ed estetiche che possa-
no funzionare per un genere audiovisivo breve che deve attirare un pubblico
particolare.
I fondatori di MTV hanno spesso dichiarato che l’inventore del video
musicale è Nam June Paik. Dichiarazione paradossale per coloro che sono

114
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

convinti che il videoartista coreano è il “padre” della videoarte e che quest’ul-


tima non può “abbassarsi” al livello commerciale dei video musicali, ma a
ben guardare (per lo meno ai primi dieci anni di programmazione di MTV)
bisogna rendersi conto che il linguaggio della videoarte monocanale, che in
quel momento è la “punta di diamante” linguistica dell’universo audiovisivo,
diventa il punto di riferimento di molti registi di video musicali che hanno
bisogno di estetiche coraggiose a cui ispirarsi. Ma l’altro elemento importante
da osservare è il punto di vista di questa dichiarazione di paternità dalla pro-
spettiva inversa, nel senso che Nam June Paik non demonizza l’avvento dei
video musicali, ma li giudica un’interessante prosecuzione della sperimenta-
zione audiovisiva degli anni Sessanta 24.
Il “riconoscimento”, insomma, avviene da entrambe le parti pur ammet-
tendo le ovvie differenze di contesto sia tematico sia produttivo. Bisogna poi
ammettere che anche la videoarte è inserita in un contesto economico che
ragiona sulla vendita di singoli prodotti e che genera al suo interno dei trend
che derivano da scelte strettamente connesse a esigenze di committenza e di
rapporto con contesti produttivi televisivi o istituzionali. E non è detto che
una casa discografica, solo perché vende musica e soddisfa necessità commer-
ciali, non sia in grado di produrre video musicali assimilabili a opere d’arte,
perché succede quasi subito, come nel caso della produzione cinematografica
e video del gruppo The Residents, presente insieme a molti altri nella collezio-
ne del Museum of Modern Art di New York.
Ma ciò che determina la nascita di MTV è un fenomeno se vogliamo
più vasto: tutta la sperimentazione audiovisiva, il cinema sperimentale, il ci-
nema d’animazione, la videoarte e la Computer Art non solo diventano ap-
procci stilistici ed estetici da omaggiare o copiare, ma trovano spazio diretto
all’interno del suo palinsesto (sotto forma di piccole sigle, interruzioni nella
programmazione) o addirittura nella realizzazione stessa dei video musicali.
Questo determina un vero e proprio fenomeno di osmosi fra sperimentazione
audiovisiva e produzione videomusicale, permettendo alla prima di incontra-
re un pubblico inaspettato. Intere generazioni si formano con questo tipo di
immaginario, non identificandolo più come qualche cosa di sperimentale. Più
che un vero e proprio passaggio di testimone, si tratta di una proliferazione
24
A questo proposito è interessante l’intervista a Nam June Paik effettuata da Eduardo
Kac presente al seguente link: http://namjunepaik.wordpress.com/2010/04/09/interview-
with-nam-june-paik/.

115
Capitolo 2

per alcuni, di una diaspora per altri, di un certo tipo di linguaggio audiovisi-
vo che si diffonde dai video musicali alla televisione fino al cinema.
Se l’estetica videoartistica diventa un punto di riferimento per registi di
video musicali come David Mallet e molti altri, la lista dei videoartisti che
collaborano a vario titolo con MTV o che vengono coinvolti in progetti chia-
ramente videomusicali sono tanti, e alcuni di questi sono nomi già noti mentre
altri verranno approfonditi più avanti: Zbigniew Rybczynski, John Samborn,
Joan Logue, William Wegman, Peter Callas, Robert Cahen, Bill Viola per il
tour And All That Could Have Been (2002) dei Nine Inch Nails, Tony Oursler
per David Bowie. Anche la Computer Art viene coinvolta da questo processo di
assimilazione con autori come Rebecca Allen per i Kraftwerk, Dean Winkler
per Peter Gabriel e Laurie Anderson, William Latham per The Shamen.
Su versanti musicali più “colti”, Laurie Anderson lega la propria attività di
musicista multimediale a un immaginario elettronico che molto, quasi tutto,
deve a quello videoartistico, così come bisogna citare tutta la produzione vi-
deomusicale dei The Residents, vero crocevia di sperimentazioni audiovisive,
la collaborazione fra Nam June Paik e Ryuichi Sakamoto, e Brian Eno che
sdogana l’idea della videoinstallazione classica (quella fatta con i monitor per
intenderci) a uso e consumo di un pubblico di massa nel momento in cui cura
il gigantesco allestimento multimediale del tour degli U2 Zoo TV (1994), e
infine la videografia di Björk. Senza dimenticare anche la stretta connessione
fra videodanza e videomusica, che si incarna nella figura della musicista Kate
Bush, e nelle collaborazioni fra David Bowie e i La La La Human Steps,
Twyla Tharp e David Byrne nella versione video dello spettacolo Catherine
Wheel (1983) dove compaiono immagini digitali di Rebecca Allen, e fra il
coreografo e autore di videodanza Philippe Decouflé e i New Order.
Senza dimenticare, per quello che riguarda l’animazione sperimentale, Jan
Švankmajer e i Brothers Quay che collaborano con MTV per la realizzazione di
alcune sigle e firmano alcuni video musicali, inaugurando una lunga stagione di
collaborazione fra un certo tipo di animazione e il settore videomusicale. Solo per
citare uno degli esempi più significativi di questo processo bisogna ricordare TV
Interruptions (1993) del videoartista inglese David Hall (1937)25, pioniere della vi-
deoarte inglese specializzato nell’evidenziare l’artificialità e l’autoreferenzialità del
linguaggio televisivo. Nel 1976 realizza This Is a Television Receiver commissionato

25
Il sito dell’artista è: http://www.davidhallart.com/index.html

116
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

dalla BBC per il programma Arena Video Art, dove le immagini e l’audio di un
anchorman inglese vengono progressivamente distrutti diventando puro disturbo.
Precedentemente aveva avuto la fortuna di “sfondare” il palinsesto televisivo (in
questo caso scozzese) con una serie di brevi intervalli: 7 TV Pieces (1971), titola-
to anche TV Interruptions 1971, interruzioni appunto (realizzate in pellicola per
motivi tecnici) che si interrogano e giocano sulla natura della televisione. TV In-
terruptions del 1993 consta di cinque episodi straordinari per potere di sintesi e
per le illusioni visive messe in atto: ogni episodio ha un titolo in cui si gioca con
la parola TV. Così ExtaseeTV mostra una serie di televisori che al rallentatore si
sfracellano sul soffitto di uno spazio neutro; WithouTV è una carrellata virtuale
che letteralmente “buca” degli schermi di televisori posizionati in un deserto
che trasmettono l’immagine del deserto medesimo; in ReacTV un televisore che
oscilla come un pendolo mostra topi che si trasformano in colombe che spiccano
il volo. Vere e proprie “pillole di pensiero” in video che ironicamente demonizza-
no proprio in televisione il mezzo televisivo.

Gianni Toti

Gianni Toti (1924-2007)26, ex partigiano, militante comunista, giornalista, cri-


tico cinematografico, ma soprattutto poeta legato al Futurismo russo, si avvicina
al cinema negli anni Sessanta dirigendo una serie di documentari e collaborando
con altri come autore dei testi, sceneggiatore o attore. Negli anni Settanta alcu-
ni di questi documentari sono prodotti dalla RAI, ed egli entra a far parte del
Settore Ricerca e Sperimentazione Programmi della RAI di Torino. Toti è lega-
to alla sperimentazione testuale della poesia visiva e sonora ed è visceralmente
connesso alla stagione delle avanguardie letterarie, artistiche e cinematografiche
russe. Per questo motivo la sua produzione è esclusivamente monocanale: la vi-
deoinstallazione e in generale il circuito dell’arte contemporanea sono ambiti che
non interessano al videoartista romano, che considera la tecnologia video e la vi-
deoarte come naturali prosecuzioni del cinema sperimentale. Le durate delle sue
opere si conformano a questo approccio e anche la modalità di fruizione imposta
da Toti ai suoi video è legata alla massima concentrazione dello spettatore, spesso
costretto a impegnativi tour de force visuali e sonori. Toti crede nel linguaggio

26
Il sito postumo dell’artista è: http://www.lacasatotiana.it/giannitoti/, con la relativa
pagina YouTube: https://www.youtube.com/user/casatotiana/

117
Capitolo 2

delle avanguardie e nella tecnologia video come canali possibili per trasmettere
una cultura “alta” a un pubblico eterogeneo come quello televisivo.
Gigantismo e ipertrofia del linguaggio sono le sue scelte costanti mentre
il tema preferito di tutti i suoi video è uno solo: la Rivoluzione – linguistica,
artistica, storica, sociale. Nel suo primo video del 1980, Per una videopoesia.
Concertesto e improvvideazione per mixer, memoria di quadro e oscillo-spettro-
vector-scopio, compare il termine “videopoesia” che può essere considerato, al
pari della videodanza, uno dei sottogeneri della videoarte monocanale che
per il videoartista è intrinsecamente legato al concetto di poesia sonora e di
“declamazione” del testo: il rapporto con la musica è essenziale e assume i
contorni di una vera e propria colonna sonora, spesso realizzata con fram-
menti di brani di musica classica, apparentemente in contrasto con il suo im-
maginario “futuribile” ma in grado di creare universi audiovisivi affascinanti,
dominati da un senso di entusiastica fiducia nell’utopia.
Dopo aver realizzato, sempre all’interno del Settore Ricerca e Sperimenta-
zione Programmi della RAI, altre opere definite “Videopoemetti” (in teoria de-
stinate a occupare gli interstizi del palinsesto televisivo sotto forma di intervalli
creativi), il videoartista romano crea il video dove si squadernano in maniera
più matura le sue linee di ricerca: SqueeZangeZaúm del 1988, prodotto da RAI
3 e Istituto Luce, definito nei titoli di testa “VideoPoemOpera”, dedicato al
linguaggio “transmentale” del poeta futurista Velimir Chlébnikov, lo Zaúm ap-
punto, un iper-linguaggio ricco di simbolismi sonori, in grado di trascendere il
senso comune della parola per creare un insieme linguistico nuovo e moderno.
Il video, lungo un’ora e quaranta minuti, si snoda attraverso varie fasi e alterna
differenti linee di ricerca: da un lato il riutilizzo di materiale cinematografico,
riferito prevalentemente agli anni Venti e agli esperimenti di Dziga Vertov, che
viene rielaborato elettronicamente attraverso strategie stilistiche che moltipli-
cano l’immagine al suo interno, creando geometrie tridimensionali sulle quali
scorrono le immagini; dall’altro il ricorso massiccio alla postproduzione video
che ricolora, disturba, distorce le immagini che diventano insiemi astratti in
dialogo con immagini di feedback rielaborati; la creazione di immagini solide le
cui superfici sono formate da magmi astratti; l’utilizzo di riprese dal vero come
una danzatrice con un costume da scheletro a incarnare la “mortemorfosi” evo-
cata dalle poesie di Chlébnikov. Il tutto fluisce dirompente di fronte agli occhi
dello spettatore come un insieme epico di idee, di suggestioni, di “rivoluzioni”
estetiche, al suono della musica di Valerij Voskobojnikov e della voce di Toti

118
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

che puntella con invenzioni linguistiche tutto il video, conducendo lo spettato-


re nelle varie stanze della complessa architettura del suo immaginario.
Lo stile di Toti si avvicina molto a quello di Woody Vasulka, ma si dimo-
stra più attento al rapporto fra musica, immagine e ritmo. Nonostante i suoi
video abbiano durate impegnative la loro struttura ritmica non preveda quasi
mai la possibilità della pausa: vorticosi e fluidi, presentano invenzioni visive
che richiamano quasi sempre la figura della vertigine e del baratro, sfidano
l’occhio dello spettatore affollando lo schermo di immagini e di sollecitazio-
ni. Come per Gary Hill, anche per Toti la voce è un mezzo importante, una
guida vera e propria del flusso visivo, ma a differenza della freddezza tipica
del videoartista americano, nonostante il linguaggio parlato e scritto sullo
schermo forzino costantemente il senso inventando di continuo neologismi,
la sua voce invita lo spettatore a unirsi a una sorta di festa orgiastica e vitale
del senso, portandolo contemporaneamente a riflettere sulla storia, sulla me-
moria, sul senso del cambiamento, e soprattutto sul valore della rivoluzione
come istinto vitale, imprescindibile dell’animo umano. Insomma, nonostante
la complessità dei suoi video, Gianni Toti riesce a trasmettere un calore rigo-
glioso che contagia lo spettatore.
La collaborazione produttiva con la RAI frutta al videoartista una serie di
premi e di riconoscimenti in festival e manifestazioni italiane ed estere; alcuni
dei suoi video vengono anche acquistati da canali televisivi internazionali, ma la
televisione pubblica non è intenzionata a trasmettere sui propri canali alcuna sua
opera, né per intero né sotto forma di intervalli. Gianni Toti comincia a rivolgersi
fuori dall’ambito televisivo realizzando, sempre con il suo stile immaginifico, alcu-
ni documentari scientifici: L’immaginario scientifico (1986) e Terminale intelligenza
(1990). Chiusa la collaborazione con la RAI, dopo un periodo di transizione in cui
riesce a trovare spazi all’estero, come l’Atelier Brouillard-Précis di Marsiglia che
gli produce L’OrigInédite (1994), omaggio al celebre quadro del 1866 L’origine du
monde di Gustave Courbet, con cui si avvicina a un’altra tendenza tipica di questi
anni, il riferimento alla pittura, approda al CICV Pierre Schaeffer di Montbéliard,
un centro produttivo importante negli anni Novanta.
Qui, complice l’incontro con il montatore del Centre, Patrick Zanoli, che
Toti definisce “montautore”, il videoartista italiano produce una serie di opere
che rappresentano il vertice della sua “poetronica”: Planetopolis (1994), e una
trilogia che trae spunto dalla storia della colonizzazione dell’America Latina: Tu-
pac Amauta – primo canto (1997), Gramsciategui ou le poesimistes – secondo grido

119
Capitolo 2

(1999) e La morte del trionfo della fine (2003), il suo ultimo video. Planetopolis,
della durata di due ore, è un video frutto di elaborazioni complesse di materiale
girato in America Latina, in Russia e in altri paesi, miscelato con immagini d’ar-
chivio, che descrive, con un’estetica che sempre più restituisce le forme astratte, il
rischio di abitare “impoeticamente” il mondo, e che diventa una sorta di sinfonia
urbana elettronica dai toni cupi e preoccupati per il futuro del pianeta.
Gramsciategui ou le poesimistes è forse il video più riuscito, anche per la sua
capacità di sintesi, di tutta l’estetica totiana. Nel titolo si fa riferimento a due
personaggi: Antonio Gramsci da un lato e dall’altro Josè Carlos Mariátegui,
filosofo e politico peruviano vissuto negli anni Venti, uno dei primi pensatori
marxisti dell’America Latina, detto anche l’Amauta e protagonista della tri-
logia totiana citata in precedenza. L’inizio epico del video è completamente
astratto, e sembra un omaggio elettronico alla sequenza dello Stargate di 2001:
Odissea nello spazio di Stanley Kubrick: cerchi rossi invadono lo schermo, li-
nee sottili e fuochi artificiali compongono una sorta di Big Bang primordiale
di immagini in bilico fra macrocosmo e microcosmo, spirali di DNA e forme
recursive. La collaborazione fra immagini elettroniche e computer grafica 3D
è uno dei segni distintivi della videoarte degli anni Novanta, e infatti questa
introduzione accompagna lo spettatore a osservare la ricostruzione in 3D del
Monumento alla Terza Internazionale di Vladimir Tatlin, le pareti del quale
ospitano immagini d’archivio di Gramsci e Mariátegui. Da qui in poi il video
è un susseguirsi vorticoso di simboli: il monumento di Tatlin viene associato
alle piramidi Maya, attraversato da un enorme serpente in computer grafica,
simbolo del dio Kukulkan, il serpente che scala la piramide per diventare un
uccello. Riprese dal vero di una civetta che cerca di afferrare un topo vengo-
no immerse in un ambiente astratto, insieme ad alcune riprese d’archivio di
Gramsci visto di schiena che cammina zoppicante.
Nonostante la complessità tecnologica del lavoro, nel quale compare molta
computer grafica 3D, l’idea di fluidità e di ritmo viene efficacemente svilup-
pata e compaiono scelte di montaggio scarnificate, come il loop, e un’ulteriore
attenzione al rapporto con la musica. In questo video c’è un’atmosfera più
drammatica, e scelte stilistiche e cromatiche più controllate che avvinghiano
lo spettatore tenendo sempre alta la sua attenzione, grazie a una calibrazione
di tempi e di attese perfettamente calcolata. Il video è dedicato alla moglie
pittrice, Marinka Dallos, morta nel 1992, ed è forse il più emozionale della
videografia di Toti, che però nel finale non rinuncia a delineare una prospet-

120
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

tiva “in avanti”, perché ricompare al centro dello schermo e immersa nel nero,
la “figurina” zoppicante di Gramsci, che non smette mai di camminare, quasi
un saluto a tutte le persone care che si potrebbero reincontrare nella dimen-
sione della memoria.

Robert Wilson

Come si noterà anche per gli autori citati in seguito, chi inizia a realizzare
video negli anni Ottanta arriva da un percorso artistico differente dai vide-
oartisti della prima ondata: molti hanno un background cinematografico o
teatrale, e l’approdo al video diventa una tappa necessaria della loro estetica, a
testimoniare il fatto che il linguaggio videoartistico sta proliferando non solo
in televisione. Robert Wilson (1941)27 è un nome che abbiamo già conosciuto
nel paragrafo dedicato al teatro, e il suo incontro col video certifica la sua
curiosità artistica e l’attenzione che ha nei confronti della tecnologia.
Prodotto dal Centre Georges Pompidou, dall’INA e dalla ZDF, Wilson
realizza nel 1978, alle soglie degli anni Ottanta quindi, Video 50, una colle-
zione di brevi video di 30’’, nei quali compaiono come performer, fra gli altri,
Lucinda Childs e Wilson stesso. L’idea degli intervalli “artistici” in questi
anni è molto sfruttata, anche se in questo caso la committenza non è televisi-
va. Si tratta di veri e propri sketch dominati da uno spirito surreale e svilup-
pati visivamente in due modi: da un lato, set evidentemente posticci ed este-
tizzanti al limite del kitsch, dall’altro situazioni create in chroma key, dove
i soggetti hanno come sfondo immagini rigorosamente fisse. Wilson ribalta
l’immaginario patinato hollywoodiano e televisivo ragionando su un sistema
di immagini che oramai il pubblico riconosce come meta-testuali e lavoran-
do anche sui generi: la suspence di un telefono che squilla, il romanticismo
dell’incontro di due amanti in un interno borghese, il thriller di una rapina,
tutte situazioni costellate da immagini dominate da un radicale nonsense,
come personaggi che bofonchiano fonemi senza senso, una signora che si sie-
de, una sedia appesa per aria, un uomo con una valigetta nera che lentamente
vuole tuffarsi in una cascata. Alcune situazioni, come le ultime descritte, sono
ricorrenti e fungono da intervalli dentro agli intervalli. Il video è dominato
da un’atmosfera di sospensione e si ha la sensazione di assistere alla messa in

27
Il sito dell’artista è: http://www.robertwilson.com/

121
Capitolo 2

scena di qualcosa di puramente surreale, artificiale e artefatto. Wilson lavora


sull’esasperazione della finzione e il video si rivela uno strumento adatto per
svolgere questa ricerca in immagini che sembrano una versione elettronica
del “teatro fotografato” degli esordi del cinema, o delle fotografie o quadri
dominati da un “falso movimento”.
Dopo aver firmato la versione video di un suo spettacolo famoso, Deafman
Glance (1981), nel 1982 realizza Stations, prodotto da un gruppo imponente di
partner: Byrd Hoffmann Foundation, ZDF, INA, New York State Council on
the Arts, National Endowment for the Arts, e infine American Film Institute.
Si tratta di un video musicale di un’ora in cui si esplora l’universo misterioso
e a volte sinistro delle fantasie di un bambino di undici anni, e in cui il la-
voro sul chroma key si fa più preciso nell’ingannare lo spettatore innestando
situazioni paradossali. Qui Wilson usa il chroma key non tanto per aggiungere
degli sfondi agli attori-performer, ma per riempire di immagini finestre, porte
e interni di mobili, scoperchiando degli interni e degli esterni artificiali. La
nettezza e la precisione formali delle immagini, una caratteristica tipica dei
video di Wilson, diventano ancora più dichiarate. La fuoriuscita dell’anomalia
all’interno di contesti apparentemente ordinari e legati a un certo immaginario
americano ricorda da vicino alcune scelte stilistiche del cinema di David Lynch,
come l’apparente sensazione di leggerezza surreale che nasconde ombre sinistre
e paure inquietanti. La collisione fra un’estetica tradizionalmente cinematogra-
fica, l’impianto dichiaratamente teatrale di alcune scene e le elaborazioni elet-
troniche sull’immagine, soprattutto a livello di colore, creano un immaginario
freddo ma inquietante al contempo, e attestano uno stile inconfondibile.
La Femme à la cafetière (1989), prodotto dal Museo d’Orsay, INA e La Sept,
omaggio all’omonimo quadro di Paul Cézanne, è uno dei tanti video dedicati
alla pittura che incontreremo nel “bivio” degli anni Novanta. Wilson lavora di
nuovo sull’inganno, sull’ironia, sullo svelamento dell’artificialità del linguag-
gio del video. Il quadro è perfettamente ricostruito dal punto di vista cromatico
e di composizione degli oggetti, con la differenza che la donna qui ritratta è
giapponese. Ombre che passano sullo sfondo, cucchiaini che si muovono da
soli, mani che dal fuori campo riposizionano gli oggetti, porte sullo sfondo che
si aprono mostrando un enorme muso di topo sono solo alcuni degli “inciden-
ti” che costellano il breve video. Dal punto di vista sonoro ogni piccola azione
è sottolineata da suoni e rumori.
Wilson è interessato al rapporto musica e immagine e alle contaminazioni

122
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

con il pop, e nel 1991 realizza una sorta di video musicale d’artista dal titolo
Mr. Bojangles’ Memory Og On Fire, prodotto da Arcanal e dal Centre Georges
Pompidou, in due versioni monocanali e una come videoinstallazione. Le due
versioni monocanali sono identiche dal punto di vista visivo, ma presentano due
colonne sonore diverse. Mr Bojangles’ è il titolo di una canzone country di Jerry
Jeff Walker, dedicata a un anonimo performer di strada di New Orleans, chia-
mato Mr. Bojangles in riferimento alla figura del noto attore e ballerino di tip
tap di colore Bill “Bojangles” Robinson. Qui l’estetica di Robert Wilson arriva
al suo apice: il chroma key viene usato per mimare goffamente l’immaginario
degli effetti speciali cinematografici, i set si riducono a pattern monocromatici,
il mondo della finzione deflagra mettendo sullo stesso piano uomini preistorici,
aviatori della Prima guerra mondiale, fanciulle assassinate, e uno stralunato Mr.
Bojangles con un cappello enorme sul quale danzano i personaggi prima citati.
Con Robert Wilson la ricerca metalinguistica “classica” della videoarte
monocanale non si rivolge quindi solo al mezzo tecnologico in sé, ma all’im-
maginario mediatico e iconografico che nel frattempo si sta addensando di
stimoli sempre più complessi: pittura, fotografia, teatro, televisione, cinema
e il video musicale vengono trattati non come materiali da riciclare ma da
ripensare, da osservare al microscopio per coglierne la struttura e ribaltarla.

Zbigniew Rybczynski

Zbigniew Rybczynski (1949)28, dopo aver compiuto studi artistici approda


alla scuola di cinema di Lódz, dove approfondisce la ricerca sul cinema d’ani-
mazione e le tecniche dello stop motion e del time lapse. Dal 1973 al 1980
lavora presso lo studio specializzato in cinema d’animazione Se-Ma-For, del
quale diventerà in seguito direttore, producendo lavori industriali e opere
più personali, alcune delle quali diventano molto conosciute, proiettando la
figura di Rybczynski nell’alveo dei grandi animatori al pari di Švankmajer e
dei Brothers Quay. Fra il 1977 e il 1980 lavora come esperto di effetti spe-
ciali per alcuni programmi della ORF, canale televisivo di Vienna. Nel 1980
realizza Tango, che ottiene nel 1982 l’Oscar come miglior cortometraggio
28
Il sito ufficiale dell’artista è: http://www.zbigvision.com/, e la relativa pagina YouTube è:
https://www.youtube.com/user/ZbigVision/. Una selezione dei suoi film e video è dispo-
nibile in dvd in un cofanetto curato da Bruno Di Marino per Rarovideo, Zbig Rybczynski
Film & Video: http://www.rarovideo.com/.

123
Capitolo 2

d’animazione. Ma il 1982 è anche l’anno in cui il governo polacco instaura la


legge marziale per contrastare l’azione di Solidarność, prima organizzazione
sindacale autonoma del blocco sovietico, di cui Rybczynski è un membro
attivo. L’artista polacco decide di chiedere asilo politico a Vienna, per poi
trasferirsi, forte della vittoria dell’Oscar, a New York dove fonda, con alcuni
collaboratori, lo studio Zbig Vision.
Negli Stati Uniti Rybczynski scopre l’elettronica e le sue possibilità e di-
venta nel giro di breve tempo un famoso regista di video musicali, un campo
in cui trasferisce l’attenzione per la tecnologia e il suo stile che punta sull’as-
surdo, sull’ironia e su un calcolato equilibrio fra sperimentazione formale e
comunicabilità. Lo stile di Rybczynski diventa una sorta di trend nel settore
videomusicale, all’interno del quale approfondisce l’uso delle nuove tecno-
logie, in particolare del chroma key, lo strumento più sperimentato in quasi
tutti i suoi video.
Nel 1987 il regista polacco viene contattato dal canale americano PBS
– in associazione con il canale di Minneapolis KTCA-TV e con il canale
inglese Channel Four – per realizzare un video che introduca un dibattito sul
clima di distensione di quegli anni fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Se si
riflette sul fatto che il 1987 è anche l’anno di realizzazione di Art of Memory di
Woody Vasulka e che nel 1988 Gianni Toti realizza SqueeZangeZaúm, si può
comprendere come nella videoarte monocanale degli anni Ottanta insorga
spontanea molta “memoria” cinematografica, rielaborata in vario modo.
Steps è forse l’opera più conosciuta di Rybczynski, e una delle pietre mi-
liari della storia dell’audiovisivo. Il video adotta sulla superficie, a causa an-
che della committenza, un linguaggio tradizionalmente narrativo: ci sono un
plot, degli attori che recitano, un inizio e una fine definiti, ed è il primo video
trattato qui che racconta esplicitamente una storia, ma sono la modalità con
la quale viene svolta e soprattutto i risvolti meta-testuali che soggiacciono alla
narrazione gli elementi che trascinano quest’opera nell’ambito della ricerca
videoartistica. Anche perché, a ben vedere, il vero protagonista di Steps non
sono gli attori, ma lo stratagemma preferito da Rybczynski: il chroma key.
La vicenda, dal sapore grottesco e vagamente fantascientifico, narra di
un gruppo di turisti scelti da un computer come modello della società ame-
ricana che vengono accompagnati da una guida dal forte accento russo, un
burocrate sussiegoso e ridicolo, dentro uno studio televisivo attrezzato per il
chroma key. I turisti stanno per assistere a uno spettacolo globale e multime-

124
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

diale frutto della collaborazione fra USA e URRS che consiste nell’entrare
letteralmente dentro le sequenze del celebre film Bronenosec Potëmkin (La
corazzata Potëmkin, 1926) di Sergej Ejzenštejn, in particolare nelle immagini
della sequenza della Scalinata di Odessa.
Dopo che la guida ha brevemente presentato per nome le comparse del
film originale, prestando particolare attenzione al bambino nella carrozzina,
i turisti sono lasciati liberi di girovagare dentro l’ambiente del film. Ne nasce
una serie di piccoli eventi, molti dei quali strutturati come vere e proprie gag
iconoclastiche che trascinano i protagonisti del video, in un climax narra-
tivo ben calibrato, nella più totale confusione nel momento i cui i cosacchi
cominciano a sparare sui manifestanti. Scene di panico, dialoghi concita-
ti, ma anche la più totale indifferenza: i turisti americani sfoderano enormi
hamburger e fotografano da vicino i cadaveri. Dentro la carrozzina delle ce-
leberrima scena cade uno stereo che trasmette musica rap; una giornalista
tenta invano di intervistare, durante il massacro, un regista piuttosto borioso,
John Kane Jr., perché ha conosciuto Ejzenštejn a Hollywood, che viene da lui
descritto come il re del cinema d’avanguardia europeo ma senza un soldo in
tasca; una coppia tenta di girare delle scene per un video porno; un esaltato
attivista anti-americano cerca di vendere segreti militari agli attori del film,
e via dicendo.
La guida che ha introdotto il gruppo di americani e che ora si è trasfor-
mata in un cosacco, quindi in un finto personaggio in bianco e nero, si rende
conto, man mano che procede l’azione, di non avere più la situazione sotto
controllo. Si era raccomandata di non interagire con gli attori, ma stanno
accadendo degli inevitabili contatti fra le due dimensioni: i turisti americani
si sporcano del sangue (nero) degli attori del film; gli stivali dei cosacchi, che
a volte appaiono enormi rispetto alle dimensioni del corpo degli americani,
colpiscono proprio quell’attivista che tanto cerca di aiutarli. Ma l’evento che
la guida disperatamente non controlla e non capisce è il finale: improvvisa-
mente il bambino della carrozzina “passa dall’altra parte” e si trasforma in
un bimbo vero, che piange a terra vicino alla carrozzina rovesciata. La guida
viene imperiosamente richiamata in regia dalla voce di John Kane Jr., che
poco prima era svenuto dall’emozione ed era stato portato via in barella, per
entrare, con il ritratto di Lenin sotto il braccio, nello studio televisivo deserto,
a guardare il bambino che nel frattempo è diventato sorridente e divertito, e
a chiedersi disperato: «E ora cosa devo fare?».

125
Capitolo 2

L’opera è realizzata completamente in chroma key, girata come se fosse un


piano sequenza, senza stacchi di montaggio operati successivamente. Ryb-
czynski attrezza il suo studio – il luogo che si vede nel video – preparando una
serie di set indipendenti in modo tale che tutte le singole azioni possano essere
riprese da telecamere appositamente posizionate: in questo modo gli attori si
spostano da un set all’altro senza dover interrompere la loro performance, e
il video può essere montato in tempo reale, come in un programma in diret-
ta. Anche i contributi che servono come sfondi alle singole riprese vengono
“lanciati”, come si dice in gergo, in tempo reale e ritrasmessi su dei monitor
di controllo che servono agli attori per poter vedere il risultato finale. Alcune
elaborazioni di postproduzione sono state effettuate in un secondo momento,
ma Rybczynski insiste sul fatto che Steps è il risultato della combinazione
fra il concetto di tempo reale e di montaggio, fusi insieme dalle possibilità
dell’elettronica.
Dal punto di vista narrativo questo video è ovviamente una metafora di
due mondi, quello americano e quello sovietico o se vogliamo occidentale e
orientale, molto differenti, che ragionano ancora dal punto di vista politico,
nonostante le apparenze, con una logica di scontro, ma che dovrebbero sco-
prire, o forse lo stanno già facendo, che le osmosi sono più interessanti del-
le rivendicazioni autoritarie delle proprie differenze. L’America rumorosa,
piuttosto volgare, ma curiosa e soprattutto piena di tecnologia, e la Russia,
accademicamente arroccata su un concetto statico di cultura e di avanguar-
dia che diventa soffocante, possono incontrarsi, nel segno dell’unione fra
tecnologia e cultura, fra sperimentazione tecnica e ricerca linguistica, e far
nascere un mondo nuovo, o un uomo nuovo, rappresentato dal bambino
del finale del video.
Tuttavia la metafora vera di questo video risiede altrove: solo la tecnologia
che si unisce alla cultura, alla voglia di sperimentare e a un approccio d’avan-
guardia può creare nuove immagini, e nuovi immaginari. La tecnologia va
sperimentata in quanto tecnica, ma al contempo si deve alleare con l’arte, sen-
za rimanere nell’alveo dell’elitarismo, e avere il coraggio di voler comunicare
qualcosa a un pubblico. Rybczynski evoca l’epoca del Rinascimento come
periodo fatale in cui scienza, tecnologia e arte collaboravano attivamente: per
il regista polacco è ora di riprendere quella visione del mondo.
Rybczynski in questo video coniuga e affina molte delle istanze speri-
mentali della videoarte monocanale: la ricerca sul tempo reale innanzitutto,

126
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

che qui viene coniugata creando un cortocircuito fra idea di fluidità (il tem-
po reale delle riprese) e di discontinuità (il montaggio in diretta). L’artificia-
lità del rapporto corpo-spazio imposto dal chroma key, che in questo caso si
affina perché i soggetti sono immessi in uno spazio “già costruito”, quello di
un film del passato, immutabile, non gestibile direttamente, in una parola
artificiale; nonostante le composizioni finali siano prospetticamente coe-
renti e i personaggi sembrino veramente abitare il film, gli americani sono
troppo colorati e troppo illuminati, sono una superficie bidimensionale evi-
dentemente attaccata alle sontuose scene in bianco e nero del film, sono il
risultato di un collage: artificio su artificio, finzione su finzione, immagina-
rio su immaginario, in un labirinto di specchi. È tutto dichiarato ed è tut-
to falso, come viene esplicitato dalla guida che all’inizio del video illustra
come funziona lo studio televisivo e sale delle scale invisibili dicendo: «Sono
reali, ma invisibili, questo è l’ultimo grido della tecnologia» (le scale ci sono,
ovviamente, ma non sono “presenti”, non hanno nessuna materialità fisica).
La fragilità dell’immagine video qui diventa la sua forza trasformandosi in
qualcosa di estremamente flessibile, che entra nelle pieghe del film, slitta
senza peso, è qualcosa di liquido che imbeve le maglie inflessibili delle im-
magini cinematografiche, e può assumere qualunque forma, come dimostra
il fatto che la guida si “tramuta” in cosacco.
Un’idea di cosa può diventare la tecnologia quando dialoga con l’arte
è rappresentata da un altro affascinante video, The Fourth Dimension del
1988, prodotto da una serie di realtà importanti come Canal Plus, RAI
3, Alive from Off Center/KTCA, Ex Nihilo e The Kitchen. Qui non c’è
nessuna storia e nessun dialogo, e si svela l’anima più sperimentale (ma pur
sempre comunicativa) del regista polacco: due figure nude, un uomo e una
donna – riferimento ad Adamo ed Eva – stanno in piedi da soli in ambienti
diversi, lei in una stanza non arredata con finestre che mostrano cieli “alla
Magritte” e il tronco di un albero al suo fianco, lui su un palco teatrale,
davanti alla scenografia di un ambiente marino. I personaggi e gli ogget-
ti sono coinvolti da metamorfosi spiraliformi che durante tutto il video
creano effetti sorprendenti. I personaggi mutano atteggiamento nel corso
dell’opera assumendo di volta in volta ruoli simbolici differenti: si vestono,
si avvicinano sempre di più per incontrarsi alla fine, di nuovo nudi, abbrac-
ciati e circondati da strutture al neon, coinvolte anch’esse dalla mutazione
sinusoidale, giochi di luce geometrici che si riferiscono alla figura della spi-

127
Capitolo 2

rale del DNA o al simbolo dell’infinito. Le immagini sono accompagnate


da una musica ipnotica che porta lo spettatore a uno stato di trance.
La tecnica di realizzazione del video è un altro compimento delle tante speri-
mentazioni della videoarte monocanale, perché agisce direttamente sul processo
di formazione dell’immagine elettronica e contemporaneamente crea un’este-
tica. Rybczynski utilizza un sistema attraverso il quale viene modificato il pro-
cesso di scansione: ogni linea non è letta una volta sola ma 480; dal momento
che nel video i soggetti, grazie a pedane meccaniche poste sul pavimento o a fili
appesi al soffitto, ruotano attorno al proprio asse o si muovono in cerchio, la
lettura dell’immagine è ritardata in maniera fluida e progressiva linea per linea,
determinando gli effetti spiraliformi che si vedono. Considerato che questo tipo
di elaborazione dell’immagine può risultare distruttivo, Rybczynski preferisce
girare in pellicola per avere il massimo della qualità possibile che l’elettronica an-
cora non può garantire, per poi riversare il tutto e montare in video. The Fourth
Dimension si dipana in una serie di quadri in movimento in cui Rybczynski
incasella immagini simboliche per creare un discorso sul futuro della storia
dell’arte: il principio maschile e il principio femminile che, dapprima separati, si
incontrano per diventare, alchemicamente, un Rebis, un corpo unico; la pietra
filosofale che si vede all’inizio trasformarsi nell’albero della conoscenza e che
ricompare alla fine come compimento circolare di tutta l’opera; i riferimenti
diretti che omaggiano alcuni maestri come Leonardo da Vinci ma anche i pittori
surrealisti; i neon, la luce della tecnologia, sostituiscono il fuoco vero attraverso
il quale il personaggio maschile forgia i suoi manufatti. Questi e altri elementi
costruiscono un utopistico e affascinante squarcio sulla “quarta dimensione”, un
non-luogo in cui arte e tecnologia si incontrano per generare nuovi mondi.
La ricerca di Rybczynski esplora in continuazione nuovi territori, soprat-
tutto l’idea della continuità artificiale e della costruzione di spazi paradossali:
nel video musicale Imagine (1987), commissionato da Yoko Ono per cele-
brare la figura del marito scomparso, John Lennon, il regista polacco inven-
ta un corridoio dove vi sono molteplici stanze nel quale due bambini, man
mano che aprono le porte per procedere da un ambiente all’altro, crescono e
si inoltrano in una vita fatta di piccole conquiste, delusioni e fallimenti. Qui
Rybczynski elabora un altro stratagemma tecnologico che sperimenterà in
maniera intensiva anche in altre opere: usa una stanza sola dove riprende tutte
le performance del video per poi allinearle una dopo l’altra, facendole slittare
orizzontalmente e tenendo il bordo delle pareti come “punto di aggancio” per

128
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

ogni singola ripresa, in modo da visualizzare un corridoio virtuale nel quale


tutto può succedere, soprattutto fra l’apertura e la chiusura delle porte. Da un
punto di vista superficiale dovremmo definire questo video un piano sequen-
za, ma in realtà sono singole riprese effettuate in tempi diversi e ricomposte
a simulare una continuità artificiale. Il regista polacco realizza questa opera
nel formato in alta definizione analogica che comincia a diffondersi in questi
anni e che avrà breve vita, e adotta il formato 16:9 come naturale conseguen-
za. L’idea dell’attraversamento lineare degli spazi e dello “sfondamento” del
concetto classico di campo e di fuori campo viene qui ulteriormente speri-
mentata, insieme al desiderio di assimilare e trasformare attraverso l’elettroni-
ca alcuni elementi fondamentali del linguaggio cinematografico, come quelli
di continuità e di montaggio che qui vengono fusi in maniera paradossale.
Dopo aver realizzato per la tv spagnola RTVE sempre in alta definizione
analogica nel 1989 Capriccio n. 24, ispirato alle musiche di Paganini – un
video ironico e irriverente, in cui il regista polacco sperimenta l’idea dell’af-
follamento del quadro dovuto alla moltiplicazione (in chroma key) del mede-
simo personaggio – e dopo la fatiche di The Orchestra (1990) – una sorta di
kolossal televisivo di 70’ in cui vengono visualizzati alla sua maniera alcuni
brani di musica classica e in cui sono affinate le soluzioni tecnologiche e sti-
listiche descritte prima –, il regista polacco firma la sua ultima opera, un
altro capolavoro della videoarte monocanale: Kafka, del 1992, prodotto da
Telemax Les Editions Audiovisuelles. Ritornano il riferimento letterario e
l’approccio teatrale. Il video è costruito intorno a un lungo monologo, che
a tratti diventa un dialogo, del personaggio di Kafka che recita frammen-
ti dei suoi scritti più noti guardando costantemente verso lo spettatore, che
viene letteralmente guidato nei meandri visivi del famoso scrittore rigenerati
dal linguaggio elettronico di Rybczynski. L’opera, attraverso complessi mo-
vimenti di macchina apparentemente in continuità che ci guidano in vari
ambienti domestici e urbani, elabora un intricato labirinto di spazi artificiali
dove i corpi si moltiplicano all’infinito, spariscono e costruiscono semplici
narrazioni attraverso architetture visive complesse e multiformi.
Il riverbero delle voci degli attori restituisce alla spettatore l’idea dello stu-
dio, di uno spazio inesorabilmente chiuso in cui si aggirano Kafka e i fantasmi
dei suoi personaggi: la loro recitazione fredda, declamatoria, in un parola anti-
naturalistica, trasforma i corpi in pupazzi meccanici, incaricati di ridisegnare lo
spazio mentale del protagonista insieme agli sfondi scuri e bui degli ambienti.

129
Capitolo 2

La gestione stessa del dialogo si conforma alla liquidità dello spazio artificiale
creato in chroma key, come nella scena in cui due personaggi che parlano sono
seduti su dei lunghissimi tavoli, e ogni battuta corrisponde a un “clone” molti-
plicato del medesimo personaggio, in modo tale che si creano delle vere e pro-
prie “sfilate” di corpi iterati, a ognuno dei quali è affidato un frammento della
battuta. Lo spettatore ha la sensazione di assistere alla strana “diretta” di uno
spettacolo teatrale paradossale, in cui i corpi sembrano marionette robotiche
perfettamente sincronizzate in un mondo in continua metamorfosi.
Toccante, drammatico e poetico, questo video rappresenta il vertice
dell’estetica di Rybczynski, l’opera più rigorosa e meno accomodante nei con-
fronti dei gusti di un ipotetico pubblico generico, anche se tutta la videografia
del regista polacco contribuisce a diffondere in maniera decisiva l’approccio
sperimentale all’immagine elettronica mutuato dalla ricerca videoartistica e a
proiettarlo su un versante mediatico di estrema visibilità. Il suo stile diventa
un trend per molti, non solo in campo televisivo ma anche cinematografico,
come testimonia la video-filmografia di Michel Gondry, e questo dato è l’en-
nesima dimostrazione che la proliferazione del linguaggio della videoarte in
contesti meno settoriali oramai è un processo inarrestabile.

Peter Greenaway

Il gallese Peter Greenaway (1942)29 è pittore, sceneggiatore, scrittore, autore


di film, video e videoinstallazioni. Dopo aver lavorato come montatore presso
il Central Office of Information di Londra, un’istituzione in cui si producono
documentari, Greenaway comincia a realizzare film in cui esplicita un’estetica
manierista, ossessivamente attenta al dettaglio, enciclopedica, a volte ridon-
dante ma sempre fortemente visionaria e surreale, con una particolare at-
tenzione al rapporto con la musica. L’impianto antinaturalistico della messa
in scena e della recitazione degli attori viene esaltato da scelte stilistiche che
sfruttano costantemente riferimenti alla pittura e alla finzione teatrale, men-
tre dal punto di vista narrativo i suoi film, apparentemente lineari, sfidano lo
spettatore in un labirinto di suggestioni letterarie fitte di citazioni, dialoghi
29
Il sito ufficiale del regista è: http://petergreenaway.org.uk/, mentre la pagina YouTube è:
https://www.youtube.com/channel/UCKiKTlw7bM15f-bmBmcekTA, dove ci sono solo
alcuni video. Tutti i film di Greenaway sono reperibili in dvd, mentre per i video citati
saranno elencate più avanti le eventuali disponibilità.

130
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

stralunati, nonsense, in un accavallarsi impazzito di infinite possibilità di rac-


conto che porta a un’entropia che distrugge il senso stesso di narrazione.
Film come A Zed & Two Noughts (Lo Zoo di Venere) del 1985, The Belly of
an Architect (Il ventre dell’architetto) del 1987, Drowning by Numbers (Giochi
nell’acqua) del 1988, The Cook, the Thief, His Wife and Her Lover (Il cuoco, il
ladro, sua moglie e l’amante) del 1989, Prospero’s Books (L’ultima tempesta) del
1991, The Baby of Mâcon del 1993 e The Pillow Book (I racconti del cuscino) del
1996, per citarne solo alcuni, inseriscono Greenaway al centro dell’attenzione
internazionale sia di pubblico sia di critica, come una figura visionaria in
grado di coniugare sperimentazione e narrazione.
Contattato dal canale inglese Channel Four per realizzare una versione
televisiva del poema di Dante Alighieri la Divina Commedia, il regista gallese
si allea a Tom Phillips (1934)30, pittore, filmmaker e traduttore in inglese
moderno del testo dantesco per firmare insieme un’opera fondamentale per la
storia della videoarte monocanale, dal titolo sorprendentemente “paikiano”:
A TV Dante-The Inferno (1989)31. Greenaway e Phillips realizzano i primi otto
canti dell’Inferno con un ottimo successo di critica e di pubblico, mentre i se-
guenti sei vengono affidati a Raoul Ruiz che delude le aspettative dei produt-
tori determinando, anche per motivi di budget e a causa del cambio di linea
nel palinsesto di Channel Four, la fine dell’ambizioso progetto, che prevedeva
di affidare i canti seguenti a Jean-Luc Godard e a Zbigniew Rybczynski.
Greenaway, che nei suoi film non cede certamente a concessioni al lin-
guaggio tradizionale, in questo prodotto televisivo sfodera un inaspettato ap-
proccio videoartistico, sperimentando in maniera verticale le possibilità del
montaggio elettronico e in particolar modo l’impaginazione del quadro. Per
ovviare alla difficoltà di comprensione del testo dantesco, Greenaway decide
di visualizzare la Divina Commedia come se fosse un “libro in movimento”:
mette in scena in modo particolare le vicende, e commenta e spiega nello stes-
so momento i passaggi più complessi, affidando questo compito a delle vere e
proprie “note a pie’ di pagina”, ovvero a una serie di esperti che compaiono,
inquadrati in una serie di finestre in basso sullo schermo, ognuno ripreso in
chroma key e con uno sfondo appropriato all’argomento che sta trattando.
30
Il sito dell’artista è: http://www.tomphillips.co.uk/
31
La versione in dvd di quest’opera è distribuita da Digital Classics dvd in Europa e da
Films Media Group negli Stati Uniti: http://www.films.com/search.aspx?q=greenaway.
Entrambe le versioni sono riversamenti da vhs.

131
Capitolo 2

Il video è un collage fitto di contributi visivi in movimento, in questo caso


regolato da un gusto geometrico che predilige la simmetria. L’uso delle finestre
e del luma key diventa norma costante. L’accostamento delle immagini è una
questione regolata da un gusto più grafico che narrativo: ma a Greenaway serve
anche per realizzare raffinati giochi simbolici interni alla narrazione del testo
dantesco. Oltre alle finestre, il regista inglese usa, in maniera intensiva, le ten-
dine che diventano strumenti per sezionare il quadro con forme che acquistano
relazioni simboliche con l’architettura visiva d’insieme – come l’utilizzo della
forma del triangolo rovesciato, che identifica la divinità capovolta, ma anche
richiama la forma stessa della geografia dell’Inferno descritta da Dante.
A TV Dante è una complessa orchestrazione di riprese appositamente gira-
te, materiali di repertorio, elementi in computer grafica e testi che compaiono
sullo schermo che da un lato anticipa la pratica del compositing che si farà
negli anni successivi, dall’altro, sempre con spirito simile all’estetica di Paik,
riprende alcuni stilemi classici della televisione per ribaltarli a favore della
sperimentazione. Dante, Virgilio (interpretato da John Gielgud) e tutti i per-
sonaggi che compaiono vengono trasformati in paradossali talking head, di-
ventano dei conduttori televisivi, primi piani immersi nel nero che recitano il
testo dantesco con lo sguardo puntato verso lo spettatore. I filmati d’archivio
servono a descrivere alcuni ambienti, come immagini di repertorio di bufere
e tempeste sono funzionali a descrivere la pena dei lussuriosi, mentre grafi-
ci con informazioni mediche o immagini al microscopio di batteri vengono
usate per descrivere lo “stato di salute” di Dante o per identificare l’infezione
del male come un fenomeno intimo e intrinseco all’essere umano. I picco-
li set, dichiaratamente artificiali e circondati dal buio, servono a descrivere
l’atmosfera chiusa e claustrofobica di un non-luogo. Vi sono continue con-
taminazioni con la contemporaneità: la discesa agli inferi viene visualizzata
attraverso l’immagine di un montacarichi, e arditi accostamenti simbolici,
come avviene nel V canto, dove il personaggio di Francesca è associato a
quello di Eva, entrambe legate dal coraggio di rompere le catene delle regole
precostituite.
La simultaneità di eventi visivi e sonori, che mettono a dura prova l’atten-
zione dello spettatore invaso da informazioni e suggestioni, si trasforma in un
capolavoro visionario, che sfrutta appieno le strategie di montaggio elettroni-
co creando un affascinante ibrido fra videoarte e documentario.
A ridosso della realizzazione di questo programma, nel 1988 Greenaway

132
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

realizza un’opera che si presenta più tradizionalmente come un docu-fiction,


Death in the Seine32, coprodotto da Erato Films, Mikros Image, La Sept, Al-
larts Tv Production, NOS Telévision e Centre National de la Cinématogra-
phie. Questo video inaugura la collaborazione con una figura importante
per la videoarte degli anni Novanta: Eve Ramboz, esperta di elaborazioni
grafiche. Fra il 1795 e il 1801 furono rinvenuti nella Senna più di trecento ca-
daveri poi collocati in un obitorio a Parigi, dove due assistenti di nome Boule
e Doude tentarono di identificarli. Il risultato è un elenco puntiglioso di dati
che descrivono le cause della morte e tutta una serie di dettagli utili all’arduo
compito: questa piccola enciclopedia è conservata alla Bibliothèque Nationale
e riscoperta da uno studioso inglese, Richard Cobb, che pubblica nel 1978 un
libro dal titolo Death in Paris per la Oxford University Press. Greenaway, af-
fascinato dal tema dell’enciclopedia e ancor più da quello della morte, realizza
un video che solo pretestualmente è una versione per immagini di trentadue
casi descritti nel libro. Death in the Seine è una lunga riflessione sulla morte
e sul valore del corpo come ultima traccia dell’esistenza umana, testimone
estremo, con i suoi segni e con i suo infiniti dettagli, dell’esistenza della varia
umanità descritta dal video, ma è anche un saggio sul voyeurismo e sull’osses-
sione scopica della scienza nei confronti del corpo, e infine sulla bellezza del
corpo in tutte le sue manifestazioni.
Dal punto di vista linguistico, Greenaway approfondisce l’utilizzo delle
finestre, delle tendine e del testo scritto sullo schermo per stilare il suo elenco
personale di cadaveri, interpretati ovviamente da attori in carne e ossa che in
qualche punto del video si muovono, si alzano, denunciando la finzione in
atto. L’abilità grafica di Eve Ramboz offre una sensazione di maggiore ma-
nualità alle figure geometriche delle finestre che tendono a somigliare sempre
più a cornici disegnate, a schizzi, a disegni sovrapposti all’immagine. Ci si
avvicina a quell’idea di quadro in movimento che molti videoartisti stanno
sperimentando in questo momento e che in Greenaway diventa la scelta stili-
stica più frequente. L’acqua, elemento caro alla cinematografia dell’artista al
pari della videografia di Fabrizio Plessi e di Bill Viola, diventa la protagonista
simbolo della cuspide fra vita e morte, e percorre tutto il video, elaborata e
raffigurata in vario modo.

32
Il dvd è distribuito da Films Media Group: http://www.films.com/search.
aspx?q=greenaway

133
Capitolo 2

Nel 1991 Greenaway realizza M Is for Man, Music and Mozart (a volte
indicato più brevemente come Not Mozart), un video coprodotto da Avro,
BBC e Dutch Cultural Broadcasting Promotion Fund, un’opera che rappre-
senta una sorta di “chiusura del cerchio” del rapporto fra l’estetica del regista
gallese e la videoarte perché è un video musicale di danza, e un altro capola-
voro di sintesi fra la ricerca degli anni Ottanta e le tecnologie che mutano il
panorama audiovisivo degli anni Novanta. Omaggio divertito e irriverente a
Mozart, il video si dipana raffigurando una serie di divinità vestite di stracci e
assise su un emiciclo dorato mentre tentano di costruire con vari materiali un
essere umano, il quale si trasforma in un danzatore che attraverso le sue evo-
luzioni richiama vari modelli pittorici di corpi umani. Qui la collaborazione
fra Greenaway ed Eve Ramboz si fa decisiva: i trattamenti dell’artista francese
trasformano parti del video in veri e propri disegni in movimento, densi di
citazioni pittoriche; le cornici delle finestre diventano parte integrante di un
ordito visivo in perenne bilico fra rappresentazione naturalistica dell’imma-
gine e grafica in movimento. Si avvicina l’era del compositing.
Il riferimento alla pittura, e l’accostamento delle possibilità manipolatorie
dell’immagine elettronica a quelle del pittore è una posizione nota all’inter-
no dell’estetica di molti videoartisti, ognuno con la sue personali varianti: per
Greenaway in questo video è importante, grazie alla possibilità di integrare ani-
mazione digitale con le riprese dal vero, fare un passo avanti e non solo riferirsi
all’universo pittorico, ma simularlo direttamente. La massiccia trasformazione
grafica dell’immagine permette al regista gallese – senza ricorrere al chroma
key, una tecnica che egli non ama usare – di inserire i corpi che si muovono
in uno spazio astratto, fatto di segni in movimento (come accade nell’ultima
parte, un lungo “solo” dell’uomo costruito dagli dèi, trasformati in spettatori,
dove il danzatore si esibisce sommerso da strati di pennellate, disegni, grafici,
dai quali emergono a volte frammenti del suo corpo, ritagliati e duplicati, a
sottolineare alcuni momenti del suo movimento, in una interessante ambiva-
lenza fra immagine statica e dinamica). Greenaway, insomma, ricostruisce lo
spazio dell’immagine rendendolo una “pagina bianca” da riempire di immagini
e segni grafici.
Forte di questa esperienza, il regista gallese sempre nel 1991 dirige un
film, Prospero’s Books (L’ultima tempesta), tratto dal testo di William Shake-
speare The Tempest, che rappresenta non solo il titanico sforzo tecnologico di
miscelare due supporti (pellicola e alta definizione analogica) per realizza-

134
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

re un’opera dove le manipolazioni elettroniche e la grafica digitale possano


manifestarsi a tutto schermo, ma anche la prima volta in cui l’estetica della
videoarte monocanale si rivela in maniera esplicita in una produzione cine-
matografica. Opera tecnologicamente pionieristica, rappresenta un decisivo
passo in avanti nel processo di osmosi fra videoarte monocanale e cinema.
Dal punto di vista linguistico, Greenaway miscela qui abilmente tutte le scel-
te sperimentate nei suoi video precedenti, organizzando un’architettura visiva
in cui le elaborazioni grafiche di Eve Ramboz, l’uso delle finestre, la messa
in scena esplicitamente teatralizzata, la presenza della danza e dei testi scritti
sullo schermo diventano la visionaria realtà di Prospero e della sua isola piena
di libri.
L’isola di Prospero è uno spazio interno: è il luogo della fantasia, dell’im-
maginazione, dove sogni e incubi possono avere un corpo; questa dimensione
onirica ha uno spazio, quello delle finestre che ospitano le immagini in alta
definizione. L’astante è immerso in una situazione dove la continuità spazio-
temporale è rigorosa, e dove il tempo sembra svolgersi davanti ai suoi occhi
in uno spazio unico, mentre le finestre ospitano le forme di ciò che Prospero
vede e immagina, soprattutto le visioni raffiguranti i libri della sua biblioteca.
Tutto il film è legato all’idea che ciò che si vede è uno spettacolo messo in sce-
na: più volte, durante alcune azioni, la camera si allontana per mostrarci vari
personaggi dell’isola, seduti, mentre guardano, da una finestra vera, lo svol-
gersi degli eventi. La continuità della rappresentazione teatrale è la naturale
prosecuzione dell’attenzione al tempo reale, derivata dalla diretta, ed è una
possibilità stilistica che attrae molti registi in maniera diversa, come abbiamo
visto in Kafka di Rybczynski.
Greenaway affida alle animazioni di Ramboz il compito di visualizzare
le magie descritte dalla voce di Prospero, soprattutto la raffigurazione dei
volumi della sua biblioteca, come se la grafica digitale avesse l’incarico di
trasformare in oggetti le funzioni simboliche dei libri descritti. Tutto il film
gioca sulla sovrapposizione di piani, o per meglio dire di livelli: le finestre (che
oltre a spaccare lo spazio del quadro servono a complessificare ritmicamente
il montaggio); l’affollamento a volte parossistico dei personaggi all’interno di
spazi che sono dichiaratamente delle scenografie; i personaggi che guardano
dalle finestre vere parti di azioni sono tutti elementi che mirano a confondere
il bidimensionale con il tridimensionale, a incasellare immagini sovrapposte
ed evoluzioni di prospettive ricostruite artificialmente. Anche il corpo in que-

135
Capitolo 2

sta dimensione perde la sua consistenza e diventa leggero: spesso è un disegno


in movimento nei libri, a volte è una forma galleggiante a pelo d’acqua, come
Ariel, il servitore di Prospero, e sempre più spesso danza, come Calibano, un
altro schiavo dell’isola, interpretato da Michael Clark.
Non è quindi un caso che Greenaway, nel momento in cui il cinema in-
contra l’alta definizione digitale, un formato che può sostituire definitiva-
mente la pellicola, torni a sperimentare liberamente il suo linguaggio com-
binatorio e intimamente videoartistico, liberandosi contemporaneamente dei
riferimenti letterari alti (Dante, Shakespeare), per lavorare su un personaggio
che è chiaramente il suo alter-ego: Tulse Luper. La trilogia dell’imponente
progetto Tulse Luper Suitcases (Le valigie di Tulse Luper), realizzata fra il 2003
e il 2004, rappresenta infatti non solo il ritorno del regista gallese alle mo-
dalità stilistiche descritte prima, ma anche la precisazione e il radicamento
di un’estetica che lo porta a far implodere qualsiasi tentativo di narrazione
lineare in un universo entropico fatto di mille possibilità che proliferano non
solo nella versione cinematografica (o forse meglio dire video) dell’opera, ma
nei suoi corollari sul web, nel campo del videogioco33, nelle mostre che ar-
ricchiscono di elementi il progetto, senza mai concluderlo. Un vero e proprio
puzzle digitale.

La Computer Art negli anni Ottanta

La ricerca sull’immagine digitale negli anni Ottanta prosegue, come abbia-


mo visto per le opere di William Latham o Yoichiro Kawaguchi, sul solco
dell’estetica astratta che acquista una terza dimensione. Ma se l’astrazione è
un fil rouge che percorre tutta la storia della Computer Art fino ai giorni no-
stri, in questi anni si vedono i primi segni della volontà di sganciarsi da questo
trend per intraprendere strade nuove.

Dean Winkler

Dean Winkler34, regista televisivo e realizzatore di effetti speciali, intuisce la


33
La versione videoludica del progetto è presente nel sito ufficiale di Tulse Luper: http://
www.tulseluperjourney.com/
34
La pagina YouTube dell’artista è: https://www.youtube.com/channel/UC-
16tboUMiMHZGOlvrbTAhQ

136
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

possibilità di lavorare sul nascente immaginario digitale che ruota intorno


al mercato dei videogiochi e che comincia a fare timide apparizioni al cine-
ma. La formula videomusicale, oramai comunemente adottata per la ricerca
digitale astratta, ora ha un altro alleato: MTV e i video musicali, e infatti
l’artista americano è l’autore del già citato video per Laurie Anderson e Peter
Gabriel Excellent Birds (1984), trasmesso in anteprima durante l’evento satel-
litare Good Morning Mr. Orwell, insieme a un altro video cofirmato con John
Samborn, ACT III del 1983, con la musica di Philip Glass. Dean Winkler,
che ha la possibilità di accedere a vari studi televisivi per autoprodurre in
tutto o in parte le sue opere, vuole realizzare dei video musicali “d’autore”,
lavorando con musicisti in bilico fra sperimentazione e mercato, e cercando
di conservare dal punto di vista visivo la stessa ambivalenza. In ACT III com-
paiono soluzioni grafiche molto semplici che seguono il ritmo forsennato del
brano musicale, dove l’illusione del 3D è data dalla distorsione di immagini
bidimensionali, accostate a rielaborazioni digitali di materiale girato dal vero:
cubi e sfere mappati con immagini video (come il cubo e il cerchio di Ed
Emshwiller) diventano i protagonisti di un universo visivo in cui le immagini
dal vero vengono come fagocitate dalla computer grafica.
La condivisione anche forzata e kitsch dei due mondi (le riprese video e
la geometria digitale) è una delle caratteristiche estetiche di Dean Winkler,
ben visibile anche in Luminare, realizzato sempre insieme a John Samborn
e commissionato dall’Expo di Vancouver del 1986, dove compaiono forme
astratte realizzate in 3D e un’immagine cardine di molta computer grafica
di questi anni: l’esplorazione in soggettiva di un tunnel grafico potenzial-
mente infinito. La serialità e la ripetizione meccanica dell’immagine rap-
presentano altre tracce stilistiche sperimentate in maniera più consapevole,
mentre il desiderio di combinare l’immaginario grafico con forme preesi-
stenti determina la scelta di utilizzare dei danzatori ripresi in chroma key
che interagiscono attraverso i loro movimenti con le forme astratte. Ritorna
l’icona del corpo danzante che in questo caso vive un ambiente da “giocare”
e non più solo da esplorare.
Continuum Part 1&2, realizzato nel 1989 insieme a Maureen Nappi,
sempre su musiche di Philip Glass, rappresenta il video più maturo di Dean
Winkler e l’incontro inevitabile con la bidimensionalità della pittura e del
disegno. L’ambivalenza fra 3D e 2D qui scava nell’origine dell’immagine: non
più la ripresa dal vero, ma la forma disegnata. Il video è un viaggio condotto

137
Capitolo 2

all’interno delle immagini per scovarne la loro sostanza: l’idea di trasparen-


za, di mutabilità, di fragilità tipica dell’immagine elettronica viene trasferita
efficacemente nelle forme digitali tridimensionali in continuo rapporto con
il loro “doppio” bidimensionale. Una linea estetica che sarà seguita da molti
sperimentatori degli anni Novanta.

Rebecca Allen

Rebecca Allen35 è un’artista specializzata nella creazione di immagini digitali


per realizzare video, videogiochi, sistemi di vita artificiale e videoinstalla-
zioni interattive. Lavora presso il New York Institute of Technology, settore
Computer Graphics Laboratory, il MIT’s Architecture Machine Group (pre-
decessore del MIT Media Lab) nel Massachusetts, il gruppo di ricerca Liminal
Devices del Media Lab Europe a Dublino, per approdare al Department of
Design Media Arts at University of California Los Angeles (UCLA), dove
fonda e dirige lo UCLA Center for Digital Arts.
Rebecca Allen rappresenta l’incontro inevitabile della computer grafica con
l’icona del corpo. L’allontanamento progressivo dalla ricerca sull’astrazione
pura porta alcuni artisti a confrontarsi con il concetto di rappresentazione, che
in digitale diventa simulazione delle forme del reale, a interrogarsi su quale pos-
sa essere l’interpretazione “matematica” del mondo che abbia anche un valore
stilistico, a parità di tecnologia, che in questo momento, pur essendo ancora
agli albori, si deve confrontare con l’immaginario nascente del mondo dei vi-
deogiochi.
L’artista americana sviluppa una linea estetica che da un lato deriva da
limiti oggettivi della tecnologia, dall’altro si attesta come una scelta consape-
vole che viene conservata anche quando i mezzi tecnici potrebbero permet-
tere di fare altrimenti: rivelare la struttura matematica delle forme, e quindi
lavorare sulla visibilità del processo di simulazione digitale. Nasce una sorta
di trend che viene definito animazione “a fil di ferro”, perché le immagini del
corpo umano sulle quali Rebecca Allen lavora sono dei progetti, delle ipotesi,
delle idee di corpo. Si tratta di animazioni in cui alcune linee, che possono
anche assumere stili grafici diversi, compongono agli occhi dello spettato-

35
Il sito dell’artista è: http://rebeccaallen.com/, dove è visionabile gran parte della sua
produzione video.

138
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

re delle silhouette più o meno precise che richiamano figure umane o loro
dettagli, soprattutto visi. Ciò che l’artista mostra non è quindi quello che
potrebbe essere il risultato finale di un oggetto modellato, con delle texture
definite, ma la struttura del modello stesso, che assurge al ruolo di immagine
autosufficiente a comporre una forma. Parlando col linguaggio della videoar-
te monocanale, è lo stesso discorso del disvelamento delle immagini astratte
che risiedono “dentro” le forme definite che appaiono in televisione: si mostra
l’interno della tecnologia, il suo processo, non solo per rivelarne l’artificialità,
ma per attestare che quella è l’estetica della macchina sulla quale poter o, in
alcuni casi, dover lavorare. Allo stesso tempo, nella misura in cui Rebecca Al-
len decide di donare texture rigorosamente anti-naturalistiche ai suoi sogget-
ti, i suoi visi e i suoi corpi denunciano una forma poligonale che poco ha che
fare con un’interpretazione realistica del mondo, bensì con una traduzione
geometrica della natura.
Il primo esempio, già affascinante, è la partecipazione di Rebecca Allen
alla realizzazione del video di danza di Twyla Tharp The Catherine Wheel del
1982, con musiche di David Byrne. La protagonista del video, Santa Cateri-
na, è realizzata con una computer grafica semplice, a “fil di ferro” appunto,
e duetta insieme ad alcuni danzatori in carne e ossa, presentandosi come un
corpo vuoto, leggero, delineato da semplici segni grafici che non costruiscono
un vero e proprio scheletro ma una sorta di schizzo, di forma appena abboz-
zata che però ha un peso, e, muovendosi in perfetta sincronia con i danzatori,
denuncia una fisicità paradossale.
Produrre immagini di questo tipo negli anni Ottanta significa investire
molto in tecnologia, e i centri, pur importanti, che Allen frequenta da soli non
bastano a garantire una continuità di ricerca, e quindi è nel mercato video
musicale che l’artista americana trova terreno fertile e committenze adeguate
per poter proseguire la sua personale sperimentazione. In Smile (1983) per
Will Powers e Tod Rundgren, immagini di danzatori di break-dance vengo-
no imitate da silhouette di figure umane digitali in stile Bauhaus: la danza
e il riferimento a stili grafici appartenenti alla storia dell’arte cominciano a
essere i due elementi più usati da Rebecca Allen e da molta computer grafica
di questi anni.
Rebecca Allen si impone sia nel campo videomusicale sia in quello artistico
con Adventures in Success (1983) per Will Powers, Robert Palmer e Sting, un
videomusicale che viene premiato in vari festival ed esibito in alcuni musei e

139
Capitolo 2

gallerie americani, uno dei primi “successi digitali” di MTV. Non è intera-
mente realizzato in computer grafica, ma presenta scelte variegate: brevi scene
riprese dal vero, animazioni in stile cartoon gestite in digitale che anticipano di
molti anni quello che avverrà al cinema nell’epoca post-Disney, e immagini in
computer grafica vere e proprie che lavorano su un’icona che Rebecca Allen usa
sempre di più, quella della maschera metallica che diventa volto umano.
Il video che proietta il lavoro di Rebecca Allen in un ambito di visibilità
internazionale mettendo d’accordo pubblico e addetti ai lavori è Musique Non
Stop per i Kraftwerk: contrariamente ai lavori precedenti in cui alcune scel-
te stilistiche sono legate a inevitabili ragioni di committenza, qui la musica
elettronica fredda e robotica del gruppo tedesco si combina perfettamente
con le forme create dall’artista americana, inventando una sorta di “estetica
techno”, in voga ancora oggi. I visi dei quattro musicisti sono trasformati
in cloni digitali “alla” Rebecca Allen in un video che mostra l’evoluzione
del processo: dalle foto dei musicisti reali, alla loro interpretazione a “fil di
ferro”, fino alla simulazione finale dove diventano delle statue poligonali che
cantano le brevi frasi della canzone. Ritorna lo sfondo nero, che tante volte
abbiamo incontrato in queste produzioni, ovvero quello spazio primordiale
dal quale nascono immagini ancora primitive ma piene di fascino futuristico.
Anche questa opera diventa un successo nella programmazione di MTV e in
una serie di mostre, rassegne specializzate e festival.
L’artista americana alterna lavori su committenza videomusicale ad altri
di natura più autoriale: nel 1987, su un brano musicale di Peter Gabriel, rea-
lizza Behave, dove uno stormo di uccelli, costruito con una grafica essenziale,
vola su immagini dal vero delle strade di New York. L’opera usa un sistema
di intelligenza artificiale che permette ai singoli oggetti, senza essere animati
uno per uno, di “comportarsi” (da qui il titolo) in modo coerente. È il primo
video creato quasi interamente in computer grafica ad avvalersi della tecnolo-
gia dell’alta definizione analogica.
Nel 1989 viene contattata dal canale spagnolo RTVE per realizzare
un’opera da inserire nella serie El arte del video: Steady State è un’opera ancora
in tecnica mista, dove i movimenti di due danzatori reali – il cui corpo è
spersonalizzato da una tuta che li ricopre totalmente – sono reinterpretati da
una serie di oggetti semplici che va a comporre una sorta di geografia urbana
asettica. Nel 1990 è autrice dell’impianto scenografico video per lo spettacolo
Mugra della Fura dels Baus, a testimoniare l’interesse del mondo della danza

140
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

e del teatro nei confronti del lavoro di Rebecca Allen che è anche autrice di
perfomance multimediali. Nel 1993 realizza Twisted Turtle, opera commis-
sionata da Nam June Paik per una sua videoinstallazione.
L’artista americana comincia a interessarsi alla rappresentazione dell’ambiente,
che spesso si risolve nella figura del labirinto, un’altra icona costante nella cultura
digitale. In Theme of Secrets (1985), per Peter Baumann (ex Tangerine Dream) ed
Eddie Jobson, inaugura un’altra linea estetica, quella dei paesaggi minimali fatti
di oggetti posati su superfici desertiche o marine, riprendendo iconografie ricono-
scibili che vanno dal Surrealismo alla pittura metafisica, e aprendo un altro fronte
possibile alla vasta tendenza di questi anni che associa l’estetica video alla pittura.
In Laberint del 1992, commissionato dalla televisione catalana TVC e Animatica,
su musica di John Paul Jones, lo spazio diventa un labirinto: realizzato in tecnica
mista rappresenta il vertice dell’estetica di Rebecca Allen. Protagonisti sono due
figure, una femminile e una maschile, che entrando nel dedalo digitale di Barcel-
lona si trasformano in un androgino: il simbolo più chiaro ed efficace dell’unione
fra artificiale e naturale che determina una forma ibrida.
L’evoluzione estetica di Rebecca Allen si può dividere in varie tappe: dalla
scelta di evidenziare la struttura del modello, alla volontà di visualizzare le for-
me non ancora complete e quindi mostrare la loro natura poligonale, fino alla
realizzazione di immagini relazionate soprattutto agli ambienti che appaiono
formalmente realistiche nella misura in cui lo spettatore le accetta come disegni
tridimensionali, e non come copie verosimili della realtà. L’alternanza dell’uso
di corpi digitali graficamente abbozzati e corpi reali spersonalizzati rappresenta
la volontà di unire due mondi che necessitano l’uno dell’altro per creare una
“realtà di mezzo”, un androgino fatto di natura e macchina.
Rebecca Allen oggi concentra la sua attività nella realizzazione di videoin-
stallazioni interattive e di sistemi di generazione dell’immagine basati su pro-
grammi di intelligenza artificiale.

Brian Eno

Brian Eno (1948)36, allievo di Roy Ascott, artista e teorico visionario dell’ar-
te cibernetica, dopo aver fatto studi artistici in cui viene influenzato dalla
pittura minimalista, diventa un famoso musicista elettronico, progettista so-

36
Il sito del musicista è: http://brian-eno.net/lux/

141
Capitolo 2

noro, produttore musicale e artista visuale. Inizia la sua carriera suonando


le tastiere per i Roxy Music, proseguendo come solista e formulando diversi
progetti musicali: fra i tanti sono importanti da citare la Ambient Music,
una musica che, sulla scorta delle intuizioni del compositore Éric Satie, non
deve essere ascoltata con attenzione ma fare da sottofondo ai rumori della
vita quotidiana, e la Fourth World Music, una sorta di ambiente sonoro uto-
pico in cui la musica occidentale e quella orientale si incontrano formulando
ibridi di vario genere. Si tratta di album strumentali in cui Brian Eno for-
mula uno stile sonoro elettronico inconfondibile che lo rende un creatore di
sound piuttosto ricercato da diverse realtà musicali: i Genesis, Robert Wyatt,
David Bowie, Peter Gabriel, Robert Fripp, Laurie Anderson e David Byrne
dei Talking Heads. Il musicista inglese produce i DEVO e gli Ultravox, e
diventa il creatore di un tipo particolare di sonorità che fa breccia nel mercato
discografico degli anni Ottanta. Come produttore e ingegnere del suono cura
la realizzazione di alcuni album di David Bowie e soprattutto degli U2. La
sua carriera prosegue inventando, di album in album, nuove “strategie” so-
nore, mentre il concetto di Ambient Music (o musica ambientale) diventa un
genere della musica elettronica che esiste ancora oggi. Realizza anche colonne
sonore per film, e diventa un artista internazionalmente noto non solo per la
sua musica, ma per una serie di installazioni sonore, di installazioni luminose
e di videoinstallazioni.
Eno inoltre produce due curiosi progetti video distribuiti in vhs – il primo
si intitola Mistaken Memories of Mediaeval Manhattan (1980-1981), il secondo
Thursday Afternoon (1984)37 – , e trasferisce il concetto di musica ambienta-
le nel video: infatti, entrambi i progetti vengono definiti Ambient Videos o
Videopaintings. In essi si invita il fruitore a compiere un gesto piuttosto ano-
malo: ruotare il televisore sul lato corto per guardare le immagini in verticale,
dato che sono state riprese posizionando la telecamera lungo quel verso. Nel
primo si vedono alcuni scorci di Manhattan ripresi dalla finestra della casa di
Brian Eno, nel secondo vari video-ritratti di una figura femminile (Christine
Alicino), intenta a compiere in bagno una serie di gesti quotidiani.
Questi video ambienti, come la musica ambientale, non pretendono nes-
sun grado di attenzione partecipata da parte dell’ipotetico pubblico: sono

Entrambi i video sono ora disponibili nel dvd Brian Eno 14 Video Paintings, Ed. Opal/
37

Upala Music.

142
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta

immagini che possono fluire nella più totale disattenzione e trasformano il


monitor (opportunamente decontestualizzato dalla sua funzione originaria
grazie alla sua posizione) in un video-quadro. Non a caso il riferimento alla
pittura si riflette anche nei soggetti che compaiono: il primo è dedicato al
paesaggio, il secondo alla figura umana, se vogliamo al ritratto.
Brian Eno non pensa alle gallerie per questo tipo di operazione e in alcune
sue dichiarazioni prende le distanze dal mondo della videoarte, ma il suo approc-
cio estetico è intimamente legato alla videoarte degli anni Settanta: diffondere
nelle case degli utenti generici un nuovo modo di usare l’oggetto televisore, scar-
dinare la sua fruizione tradizionale, eliminare il potere del palinsesto, trasforma-
re la televisione in una scatola luminosa che trasmette immagini non montate,
fluide, come se fossero veri e propri quadri in movimento. Per fare questo egli
sente il bisogno di sporcare il più possibile la nitidezza dell’immagine, per cui per
Mistaken Memories of Mediaeval Manhattan approfitta del malfunzionamento
della telecamera per generare immagini opalescenti, antirealistiche, sfilacciate;
mentre in Thursday Afternoon (sponsorizzato dalla Sony) opera una serie di trat-
tamenti video dove i colori vengono sfalsati, la colorimetria diventa caldissima,
mentre il rallentamento eccessivo dell’immagine provoca effetti di scie e disturbi
sull’immagine, e soprattutto la comparsa della grana, della “trama” dell’imma-
gine elettronica. In una parola, l’artista inglese, lavorando su modalità stilistiche
già sperimentate, riesce a ottenere effetti “pittorici”.
Se visivamente questo approccio all’immagine elettronica, pur raggiun-
gendo risultati affascinanti, non rappresenta una novità significativa nel pa-
norama della videoarte monocanale ma l’ennesima dimostrazione che il suo
linguaggio sta “invadendo” molti settori, sono la terminologia che Eno usa
per identificare queste opere, la modalità di fruizione e soprattutto di distri-
buzione di questi due progetti a risultare precursori di una tendenza tipica de-
gli anni Novanta. Innanzitutto conia lucidamente il termine Videopainting,
video-quadro, identificando nel monitor la cornice adatta per far fluire im-
magini che possono essere percepite dallo spettatore come qualcosa che non
deve essere visto dall’inizio alla fine, senza un reale sviluppo narrativo o di
montaggio, ma dei flussi visivi osservabili liberamente, in qualsiasi momento.
Da questo punto di vista l’assenza di montaggio e l’uso dello slow motion
sono funzionali a eliminare qualsiasi alterazione nella percezione, confortata
dal fatto che, al contrario di quello che succede normalmente in televisione,
il singolo video-quadro non cambia mai immagine.

143
L’adozione del formato verticale e la decisione di distribuire questi video
ambienti in vhs, ora in dvd, come oggetti liberamente utilizzabili e non da
visionare in una galleria, contribuiscono a trasformare lo spettatore nel pro-
prietario di una piccola “videoinstallazione a schermo singolo”, da utilizza-
re quando vuole, da posizionare dove vuole, in una parola: personalizzabile.
L’umanizzazione della tecnologia passa anche da qui. E se l’idea di diffondere
questo nuovo modo di usare la televisione, ignorando la distribuzione del
mercato dell’arte e tentando di trovare una strada non elitaria, non ha molto
successo anche per questioni di carattere pratico e tecnico – in quegli anni
gli apparecchi televisivi sono pesanti o ingombranti e non tutti posizionabili
sul lato corto –, Brian Eno prevede l’uso che si farà dei monitor piatti degli
anni Novanta e una tendenza tipica della videoarte presente nel settore e nel
mercato dell’arte contemporanea.
Questa è la sua intuizione più importante: fondere il concetto di video
monocanale con quello di videoinstallazione, ossia affidare al video mono-
canale il compito di intraprendere una modalità di fruizione tipicamente da
videoinstallazione, unendo in una osmosi estetica e stilistica i due ambiti.

144
Capitolo 3

La videoarte dagli anni Novanta a oggi

Gli anni Novanta rappresentano, sotto molti punti di vista (tecnologico, di-
stributivo e infine estetico), un periodo di cambiamento piuttosto radicale nel
panorama produttivo audiovisivo in genere, e videoartistico in particolare.
Per digitale, lo ripetiamo, non si intende solo lo sviluppo delle tecnologie
preposte all’animazione, ovvero alla computer grafica, ma anche e soprattutto
alla gestione digitale della produzione di un video, quindi l’avvento di teleca-
mere in alta definizione, e la possibilità di montare ed elaborare le immagini
tramite computer: quello che viene definito editing non lineare e tutta la fase
di postproduzione e di compositing delle immagini.
La fine della tecnologia analogica pone un problema pratico al mondo della
videoarte: la conservabilità delle opere, soprattutto delle videoinstallazioni. Un
video monocanale si può riversare da un formato all’altro, a patto che il nastro
sia ben conservato, una videoinstallazione realizzata con monitor che non esi-
stono più pone dei problemi difficilmente risolvibili. Il mercato dell’arte è il
primo a subire ripercussioni da questo fenomeno: se i collezionisti, già incerti
sull’acquisto dei video monocanali (grazie alla formula delle copie firmate e
numerate) si sono trovati a combattere con continui cambi di formato dei nastri
non facilmente conservabili, ora la diffidenza nei confronti del dvd o del for-
mato digitale in genere è ancora più alta a causa della loro facile duplicabilità.
Le edizioni in dvd vendute a prezzo contenuto o la presenza sul web di opere
importanti di videoartisti famosi come Woody Vasulka, Gary Hill o Bill Viola
testimoniano il fatto che il video monocanale nel giro di pochi anni perde quasi
completamente il suo valore nel mondo del mercato dell’arte.
Per le videoinstallazioni il discorso è simile, anche se meno drastico: da
un lato un’istituzione con il Museum of Moving Image di Londra non riesce
a conservare alcune videoinstallazioni di Nam June Paik perché non esiste

145
Capitolo 3

più materialmente la tecnologia che le renda funzionanti, dall’altro Christie’s


a Hong Kong nel 2007 vende la videoinstallazione di Nam June Paik Wright
Brothers (1995) a 600.000 dollari. Perciò i collezionisti, per avere maggiori ga-
ranzie sul rischio d’investimento su opere tecnologiche, si rivolgono a formati
più duraturi, come disegni o progetti firmati dai videoartisti.
Il passaggio dall’analogico al digitale è piuttosto traumatico per quello che
riguarda la videoarte monocanale nata fra gli anni Sessanta e Settanta: la mag-
gior parte dei videoartisti (Nam June Paik, Bill Viola, i Vasulka, Zbigniew
Rybczynski, Robert Cahen, Gary Hill, per citare solo alcuni nomi storici) in-
terrompe la produzione “su schermo singolo” a favore della videoinstallazione.
Infatti, il semplice passaggio di formato del quadro da 4:3 a 16:9 per alcuni
videoartisti rappresenta uno scarto di linguaggio notevole da affrontare: per il
video monocanale, bisogna ripensare la modalità di ripresa; per le videoinstal-
lazioni, riprogettare l’intero allestimento immaginando monitor rettangolari e
non più quadrati. Alcuni lo fanno, altri no.
Negli Stati Uniti il meccanismo virtuoso, rappresentato dall’esistenza di la-
boratori video o di canali televisivi supportati da fondazioni d’arte, si esaurisce
col tempo a favore del mantenimento e in qualche modo del rafforzamento del
sistema delle gallerie, dei musei e delle fondazioni. La videoarte “pura” diffi-
cilmente si vede in televisione: è il mondo dell’arte contemporanea ad appro-
priarsene quasi completamente, conquistando non solo l’ambito americano, ma
tutta l’area internazionale: improvvisamente nelle biennali d’arte le videoinstal-
lazioni riempiono i padiglioni. In Europa la ventata produttiva rappresentata
dalle televisioni satellitari si esaurisce, perdurando un poco più a lungo in Fran-
cia, un paese nel quale nasce un centro produttivo di videoarte monocanale, il
CICV Pierre Schaeffer. Molta videoarte monocanale degli anni Novanta arriva
dalla Francia, ma il settore che più incide a livello distributivo e di visibilità è
quello dell’arte contemporanea.
Inoltre l’avvento dell’alta definizione digitale (o HD) provoca una piccola
scossa in tutto il comparto audiovisivo, e determina un decisivo ritorno a
un’esigenza di pulizia, nettezza e precisione dell’immagine. Una tensione a
una forma visiva molto definita, simile a quella fotografica o cinematografica.
La qualità dell’immagine suggerita da questo formato digitale determina uno
standard estetico: il ritorno all’idea dell’immagine fotograficamente pulita,
quando non addirittura patinata. Da MTV alle mostre di videoarte, la parola
d’ordine sembra essere: “definizione”.

146
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

Il che potrebbe sembrare una rivoluzione, ma di fatto si innesca un pro-


cesso curioso: innanzitutto l’approccio manipolatorio dell’immagine elettro-
nica degli anni Settanta e Ottanta non viene sentito come una tradizione da
rinvigorire e approfondire attraverso il digitale, ma come qualcosa di ine-
sorabilmente sorpassato, morto, che ha già detto e mostrato tutto. L’unico
modo di approcciarsi a esso è lavorare su un’estetica dichiaratamente vintage,
kitsch, citazionistica, ironicamente nostalgica, come nel caso più che esem-
plare dell’opera di Pipilotti Rist.
Se l’estetica elettronica è da considerarsi superata, l’ambito di quella videoar-
te che si trova ad avere come unica possibilità produttiva e distributiva il mondo
dell’arte contemporanea non ricerca una possibile nuova estetica digitale, ma
promuove un ritorno a una estetica foto-cinematografica. E se è vero che nelle
ultime opere monocanali di Bill Viola o di Gary Hill questa tendenza è già piut-
tosto netta, è altrettanto chiaro che lì i riferimenti sono a certe forme di cinema
d’avanguardia trasferiti dentro un’estetica elettronica, non al cinema tout-court.
Proprio nel momento in cui le produzioni cinematografiche stanno progressiva-
mente abbandonando la pellicola a favore dell’HD, nel settore videomusicale e
in varie esperienze videoartistiche ritorna la pellicola, oltre all’HD, come uno dei
supporti possibili da usare. Contemporaneamente collezionisti, gallerie, curato-
ri, fondazioni scoprono di avere un retroterra non videografico, ma intimamente
cinematografico: un background, di nuovo, che non si riferisce alla tradizione
del cinema d’avanguardia. È chiaro che questo settore predilige come modello
principale d’espressione la videoinstallazione alla videoarte monocanale, e quan-
do anche compaiono videoartisti interessati a entrambi gli ambiti, la produzione
di videoinstallazioni, anche per una semplice motivazione di mercato, è di gran
lunga superiore.
Insomma, nel settore dell’arte contemporanea la videoarte riparte da zero,
ovvero dal cinema: come in tutti i periodi di transizione, le contraddizioni
possono portare a interessanti mutazioni. La situazione attuale, come verrà
esplicitato più avanti, è un poco confusa: molti artisti che si esprimono con
un’estetica digitale non vengono intercettati da questo ambito, ma stanno
creando una sorta di area diffusa di sperimentazione che esprimendosi prin-
cipalmente attraverso la formula del video monocanale, cerca altri canali di
diffusione oltre all’allestimento. Così come la vasta area che si dedica alle vi-
deoinstallazioni interattive, quindi intrise di estetica digitale, si è trovata una
sua nicchia rappresentata da manifestazioni specializzate, lontane dall’ambito

147
Capitolo 3

artistico contemporaneo. Questi due settori, invece di alimentarsi a vicenda,


si stanno divaricando sempre di più. Ma, appunto: le mutazioni sono appena
cominciate.
La rinnovata voglia di cinema che agita quella videoarte che si muove
nell’ambito dell’arte contemporanea sdogana, inaspettatamente, anche l’ani-
mazione tradizionale a sfavore della computer grafica: un esempio fra tutti è
William Kentridge, che realizza i suoi cortometraggi (in pellicola) con una tec-
nica ai limiti dell’archeologia dell’animazione, realizzando installazioni in cui
lavora su un’estetica vintage che affonda nelle origini della storia del cinema.
Ritornano il set, la troupe e anche alcuni generi trattati, dal punto di vista
linguistico, in modo molto classico, come il documentario, spesso intriso di au-
tobiografia, per esempio nelle produzioni di Shirin Neshat, o nelle videoinstal-
lazioni di Eija-Liisa Ahtila, veri e propri docu-fiction frazionati in vari schermi,
come If 6 Was 9, del 1999, o infine in alcune produzioni di Doug Aitken1, dove
la rappresentazione documentaristica del paesaggio, naturale o industriale, di-
venta un tema ossessivo.
Il riferimento, spesso nostalgico, alla memoria del cinema e dei suoi divi
diffonde una vera e propria cinefilia di ritorno, come in 24 Hours Psycho di
Douglas Gordon (1993), dove il film di Alfred Hitchcock viene rallentato fino
a diventare, appunto, lungo 24 ore, mentre in Telephones (1995) e The Clock
(2010) di Christian Marclay si ripresenta l’estetica del found footage rimontato.
Ritorna il feticismo nei confronti della pellicola come materiale, per esempio
nell’opera di Tacita Dean, che lavora rigorosamente in 16mm ed espone una vi-
deoinstallazione dal titolo più che paradigmatico, Film (2011), proiettando im-
magini su un’enorme struttura verticale a forma, appunto, di pellicola. Oppure
si recupera l’immagine della sala cinematografica in The Muriel Lake Incident
(1999) di Janet Cardiff2, dove l’installazione consiste nell’inserimento di un
piccolo modello di cinematografo dentro una struttura di legno con un’apertu-
ra che l’osservatore può usare per guardare all’interno.
Per alcuni la formula monocanale può coerentemente coincidere con la pro-
duzione di un vero e proprio film: Pipilotti Rist con Pepperminta (2009), Shirin
Neshat con Women Without Men (2009), Douglas Gordon con Zidane, a 21st
Century Portrait (2006), ma da questo punto di vista forse la parabola più signi-
1
Il sito dell’artista è: www.dougaitkenworkshop.com, mentre il suo canale Vimeo è:
https://vimeo.com/user5764412
2
Il canale Vimeo di Janet Cardiff è: https://vimeo.com/user1047515

148
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

ficativa è quella di Steve McQueen, videoartista e regista cinematografico che


vince l’Oscar con un film narrativo tradizionale, 12 Years a Slave (12 anni schia-
vo), del 2013. O, al contrario, si crea un’estetica che manda in corto circuito la
formula video monocanale con quella più tradizionalmente cinematografica.
È il caso dell’opera di Matthew Barney (1967), performer, fotografo, scul-
tore, disegnatore e videoartista americano. Vive la sua infanzia e compie i
primi studi nell’Idaho, per essere reclutato dalla squadra di football della
prestigiosa Università di Yale, dove si laurea. Dopo il divorzio dei genitori,
Barney segue la madre, pittrice astratta, a New York, dove viene introdotto
al mondo dell’arte mentre lavora come modello, riuscendo in questo modo a
finanziare i suoi primi lavori. Fra il 1999 e il 2002 realizza un mastodontico
progetto, in gran parte prodotto dall’influente gallerista americana Barbara
Gladstone, dal titolo The Cremaster Cycle3, formato da cinque episodi: Cre-
master 4 (1994), Cremaster 1 (1996), Cremaster 5 (1997), Cremaster 2 (1999),
e Cremaster 3 (2003). La numerazione dei titoli è volutamente non progressiva
rispetto agli anni di realizzazione.
Il progetto è pensato per un doppio modello di fruizione: essendo queste
opere strutturate in episodi in cui le azioni si concatenano in lunghe scene,
alcuni brani vengono proposti come videoinstallazioni per lo più a schermo
singolo, mentre gli episodi completi o l’intero ciclo sono distribuiti in un
circuito cinematografico: festival di cinema, quando non proprio sale cinema-
tografiche. Ogni episodio ha una durata specifica, dai quaranta minuti alle
tre ore. Il modello linguistico sul quale Barney lavora è una sorta di cinema
liquido, ipnotico, dove tutto accade lentamente senza che vengano applicati
effetti di rallentamento; le riprese, girate con una cura maniacale della foto-
grafia fino a risultare patinate, non subiscono nessun tipo di trattamento se
non di correzione del colore. I video di Barney sono la rappresentazione quasi
estatica di alcune situazioni visive che lavorano sulla ricchezza di elementi
delle scenografie, sulle azioni dei performer, sulle loro mutazioni e sui loro
costumi. L’artista crea un universo quasi mitologico in cui ogni personaggio
ha una funzione simbolica precisa che viene svelata nel sito del progetto, dove
sono descritte anche le tracce narrative dei singoli episodi. Se c’è dialogo, è
sussurrato o quasi incomprensibile, mentre la gran parte dell’azione è gestita
3
Il sito ufficiale del progetto Cremaster è www.cremaster.net, pubblicato anche in dvd in
una versione di venti cofanetti venduti come oggetti d’arte, e non distribuiti nel mercato
ufficiale, tranne un frammento dell’episodio The Order, fuori commercio da molti anni.

149
Capitolo 3

dai corpi muti di figure in perenne metamorfosi, con la testa o parti del corpo
di animali, vestiti con assemblaggi di abbigliamento di epoche diverse, con il
viso dipinto come fossero guerrieri tribali, coperti completamente da un folto
pelo eccetera. L’icona della maschera torna in maniera prepotente nella video-
grafia dell’artista americano: il folklore soprattutto americano, reinterpretato
visivamente, è una delle tante fonti visive dalle quali attinge per comporre le
sue opere dal ritmo quasi rituale, scandito da scene rappresentanti bizzarri riti
di passaggio, iniziazioni sessuali, mutamenti di stato.
I riferimenti linguistici che Barney evoca, oltre a quelli legati alla sua per-
sonale estetica, vanno dal cinema di David Lynch e di David Cronenberg,
al cinema surrealista, al teatro e alla videografia di Robert Wilson, mentre
scorre sottotraccia in quasi tutti i suoi video, come nel cinema di Lynch, una
sorta di nostalgia per l’immaginario degli anni Cinquanta, per le atmosfere
ingenue e fatate del musical, per un’epoca di divi che non esiste più e che
Barney in qualche modo vuole ricostruire in una mitologia personale in cui
simboli, spazi ed epoche diverse collidono in un non-luogo in cui si possa
ancora credere all’esistenza di creature a metà fra l’umano e l’animale, divi-
nità ctonie, iper-corpi magici. Con lo stesso approccio è realizzato uno degli
ultimi video, Drawing Restraints 9 (2005), ritratto rituale dell’incontro con la
musicista islandese Björk.
Insieme a questo processo stilistico e di contenuto, si verifica qualcosa di
più sostanziale, l’ennesima “mutazione” che incide sulla modalità di distribu-
zione della videoarte sotto forma di videoinstallazioni. L’intuizione di Brian
Eno, e cioè fondere l’idea del video monocanale con la modalità di fruizione
da installazione nella formula del “video quadro” diventa un trend sempre più
ricorrente, quasi uno standard, compresa la scelta del formato verticale. Que-
sto anche perché l’avvento dei monitor piatti e del formato del 16:9 offrono
a questa idea il suo naturale compimento: il “video quadro” ora può essere
“appeso al muro”, esattamente come un quadro tradizionale o una foto, con
tanto di cornice.
Da questo momento in poi, per quello che riguarda l’ambito galleristico,
distinguere il video monocanale dalla videoinstallazione non ha più molto
senso. Sono produzioni in cui si articolano dei set dove il referente raramente
viene rielaborato, per cui si ristabilisce il primato del profilmico, di ciò che
sta davanti alla telecamera. Svapora sempre di più l’idea di montaggio: esat-
tamente come nelle opere di Brian Eno, il “video quadro” impone la presenza

150
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

di una singola immagine, magari rallentata, con un riferimento sempre più


diffuso alla pittura o alla fotografia, laddove si citano in maniera evidente
opere del passato, o laddove si prediligono scelte tematiche che appartengono
alla tradizione foto-pittorica come il ritratto o il paesaggio.
Gli anni Novanta scandiscono questo processo: Bill Viola produce The
Greeting nel 1995, mentre Sam Taylor-Wood realizza le sue videoinstalla-
zioni a schermo singolo (Brontosaurus nel 1995, Knackered nel 1996, per ar-
rivare anche lei al formato verticale nel 2001 con Mute) in pellicola. L’ope-
razione che forse più di tutte sintetizza questa tendenza espositiva con il
desiderio di assimilare sempre di più il mondo del cinema, o più in generale
dello spettacolo (e dei suoi divi) sono i Vroom Portraits (2012) di Robert
Wilson: star assise dentro a monitor verticali, in varie situazioni statiche,
dove l’artista americano riesce a mantenere alcune tracce della sua estetica
elettronica.
Questa formula convince il mercato dell’arte e quelli che lo creano: i col-
lezionisti, che finalmente sono confortati dall’acquisto di un oggetto. Il video
monocanale diventa così una videoinstallazione a schermo singolo, che entra
nelle case di chi la acquista come un flusso audiovisivo su un monitor piatto,
che può essere usato come un quadro. Che poi il formato finale sia ovvia-
mente digitale, non importa, perché viene percepito e definito anche dagli
addetti ai lavori come un “film”, o una foto in movimento. Nasce un genere
che potremmo chiamare “film da camera”, piuttosto lontano dalle istanze
linguisticamente rivoluzionarie e sperimentali della videoarte.
Tutta la prima stagione della videoarte, anche quella che meno ideolo-
gicamente si schiera contro la televisione o contro il cinema, afferma, nei
modi più disparati, la sua ambizione a essere una “avanguardia”, un modello
espressivo che guarda al futuro dell’immagine, con tutti gli inevitabili e trau-
matici rapporti col passato (come mirabilmente ritratto da Art of Memory di
Woody Vasulka), ma pur sempre un’arte tecnologica che apre spiragli estetici
e stilistici per gli immaginari a venire. Il linguaggio della videoarte monoca-
nale mutato “in digitale” intride, consapevolmente o meno, altre esperienze
autoriali che si muovono intorno a un sistema se vogliamo più tradizionale,
quello televisivo e cinematografico che più correttamente potremmo defini-
re audiovisivo, internet compreso, che stanno sperimentando altri approcci
tecnologici, come il compositing e l’animazione (2D o 3D), la vera sede della
“mutazione digitale” nella videoarte monocanale, una tecnica che può ridise-

151
Capitolo 3

gnare il mondo, così come la videoarte ha fatto con le tecnologie elettroniche.


Una situazione che apparentemente colloca la videoarte monocanale in una
geografia di esperienza dispersa, ma che forse sarebbe preferibile considerare
diffusa.
Molti autori producono opere visibili su piattaforme distributive (festival,
rassegne, internet, televisione) che l’ambito videoartistico contemporaneo, a
dispetto del passato, non riconosce più come vetrine convincenti, preferen-
do la situazione espositiva, più legata al mercato dell’arte contemporanea.
Bisogna anche sottolineare che dalla fine degli anni Novanta, a causa della
diffusione dei software di grafica e di realizzazione video, il fenomeno dell’au-
toproduzione si espande in maniera vertiginosa, creando un fronte produttivo
piuttosto vasto e difficile da analizzare.
I nuovi autori attivi in questo processo spesso lavorano in più settori fra
quelli citati, miscelando le tecniche e adottando una vera e propria fusione di
riprese dal vero, animazioni di vario tipo e trattamenti digitali dell’immagine.
Operano a volte indifferentemente in vari ambiti di mercato (cinema, pub-
blicità, video musicali, grafiche e sigle televisive) e in ambiti dove l’approccio
è più autoriale e sperimentale. Prediligono l’alta definizione digitale, usando
sporadicamente la pellicola per soddisfare “sacche di resistenza” del mercato
tecnologico che si stanno sfaldando sempre di più, ma si esprimono inesorabil-
mente in digitale, attraverso un linguaggio che grazie al processo della sintesi (di
generi, di tecniche, di approcci sperimentali) sta scandagliando i territori di una
possibile videoarte digitale, intesa come proseguimento dell’era della videoarte
analogica o elettronica.

Pipilotti Rist

Elizabeth Charlotte “Pipilotti” Rist (1962)4, artista svizzera, autrice di video


monocanali e soprattutto videoinstallazioni, rifiuta ogni modernità tecnolo-
gica per rifugiarsi in una sorta di “Arcadia” costituita dalla tecnologia analo-
gica e in particolare dall’estetica di Nam June Paik. La noncuranza stilistica
nella modalità di ripresa, l’esasperazione della bassa definizione dell’imma-
gine elettronica, i disturbi creati dal trascinamento accelerato/rallentato del
nastro, l’esaltazione degli errori, dei drop e delle immagini di disturbo – come

4
Il sito dell’artista è: http://www.pipilottirist.net/

152
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

gli sganciamenti di segnale o la neve – costituiscono l’armamentario stilistico


che Pipilotti Rist usa in maniera consapevolmente vintage.
Il soggetto privilegiato delle sue opere, creando un ponte con un altro
approccio tipico degli esordi della videoarte interessata alla performance, è il
suo corpo o il suo viso. L’elemento che allontana l’estetica di Rist dalla sem-
plice citazione nostalgica è che il riferimento alla videoarte oramai “classica”
diventa la rappresentazione di un mondo infantile che non vuole crescere,
che ama ancora i giocattoli elettronici, che lavora sulla bassa definizione, sui
colori troppo sgargianti, su intarsi di immagini che sono dichiaratamente
grossolani, su immagini realizzate da telecamere difettose. È un kitsch di-
vertito, consapevole e innocuo, non rappresenta più la denuncia della falsità
dell’immagine elettronica tipica di Paik, e non c’è l’ironia iconoclastica del
videoartista coreano. In questo caso si tratta dell’immersione dentro all’im-
maginario primevo di un personaggio naif, un folletto elettronico al femmi-
nile. Il suo soprannome, Pipilotti, è infatti ispirato al personaggio noto in
italiano come Pippi Calzelunghe.
L’artista svizzera, coniugando due mondi rappresentati ancora nel loro
stato “nascente”, la videoarte degli esordi e il video musicale degli albori,
realizza una serie di “anti-video musicali” esteticamente e tecnologicamente
fuori tempo. Una delle opere più esplicite di questo approccio è I’m Not the
Girl Who Misses Much (1986), prodotto presso la Kunstgewerbeschule di Ba-
sel, dove l’artista, vestita di nero ma con i seni scoperti, canta e balla la can-
zone di John Lennon Happiness Is a Warm Gun. La ripresa a camera fissa che
suggerisce la dinamica del selfshot, dell’autoscatto, è completamente sfocata e
continuamente ostacolata da disturbi, accelerazioni del nastro, sganciamenti
dell’immagine; il finale è un filmato d’archivio degli anni Venti in cui si vede
una giovane donna spogliarsi. Il tema della nudità è molto presente nella
videografia di Pipilotti Rist, ed è l’ennesima traccia stilistica di un ritorno
all’origine, a uno stato primordiale.
In Pickelporno del 1992, prodotto dagli Uffici Federali della Cultura di alcu-
ni Cantoni, il riferimento erotico diventa più esplicito, ma si trasforma anch’esso
in un gioco infantile: “Pickel” in tedesco infatti significa “foruncolo”. Le evolu-
zioni, riprese con un chroma key volutamente grossolano, di Pipilotti Rist con
un giovane dalle fattezze orientali diventano un viaggio della telecamera in con-
tinuo movimento, ma senza una vera intenzione voyeuristica sui dettagli dei cor-
pi che si ritrovano a galleggiare dentro fondali marini, circondati dalla natura,

153
Capitolo 3

da fiori sgargianti, da frutti che compaiono anche fisicamente suoi corpi stessi.
Rist fa riferimenti espliciti a un certo erotismo innocuo degli anni Settanta legati
alla cultura hippy, e il tema della natura si fa più presente. L’artista svizzera cura
anche la realizzazione dell’accompagnamento sonoro dei suoi video, realizzando
improbabili e ironiche cover con strumenti elettronici dai suoni decisamente
fuori moda o registrando con la sua voce cantilene infantili.
Mutaflor del 1996, autoprodotto, è forse il video più esplicito e al contem-
po più poetico della sua produzione: Pipilotti Rist, nuda e accovacciata su un
pavimento dove è sparsa della frutta, guarda vero l’alto come ad accogliere
un ipotetico osservatore. Attraverso un movimento del suo corpo ripetuto
all’infinito, la telecamera si avvicina alla sua bocca e, tramite una dissolven-
za incrociata, si allontana dal suo ano, riprendendo una mela stretta tra le
gambe. Il video ha un ritmo ipnotico e innesta un’allegoria semplice che di
nuovo richiama la naturalità delle funzioni del corpo legate al suo istinto più
primitivo: nutrirsi. Ma è anche una stralunata interpretazione dell’idea di
loop e una metafora della soggettiva e dell’inclusione dello spettatore dentro
al gioco infantile e scherzoso attivato dal corpo dell’artista svizzera, e l’enne-
sima declinazione della traccia tematica costante delle sue opere: un “ritorno
all’umano” che non è certamente l’umanizzazione della tecnologia di Paik,
ma una decisiva riconsiderazione dell’elemento naturale e sessuale all’interno
delle immagini. Un ritorno alle origini simbolizzato nella scelta di un’estetica
che si raffigura come anti-moderna, riferita a una situazione primitiva, larva-
le, uno “stato nascente” che non vuole o non riesce a svilupparsi oltre.
Pipilotti Rist è autrice anche di un film girato in HD, Pepperminta del 2009,
dove un bizzarro personaggio femminile, Pepperminta, evidentemente l’alter ego
dell’artista, tenta di convincere il mondo ad abbandonarsi alla gioia dei colori. Il
discorso della “disintegrazione” elettronica dell’immagine non viene mantenuto,
ma appaiono molte elaborazioni di sovrapposizione dell’immagine e di modifi-
che del colore che lo rendono un’esperienza psichedelica. Gran parte del girato di
quest’opera, rielaborato in vario modo, fa parte del bagaglio visivo di alcune sue
videoinstallazioni più recenti.

154
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

Il Centre International de Création Vidéo Pierre Schaeffer

Il Centre International de Création Vidéo Pierre Schaeffer (inizialmente in-


dicato come Centre International de Création Vidéo de Montbéliard Belfort)
è un centro di produzione video ospitato nel Castello di Montbéliard, diretto
da Pierre Bongiovanni, supportato da finanziamenti statali e regionali, e at-
tivo dal 1990 al 2004. Il Centre ha una serie di studi e di attrezzature gestiti
da personale tecnico specializzato che accoglie e sostiene, ma non finanzia
direttamente, progetti selezionati dall’esterno. Agli artisti scelti si offrono
tecnologia, competenza, vitto e alloggio, chiedendo loro di trasferirsi tempo-
raneamente nel Centre per realizzare, da soli o aiutati dai tecnici presenti, i
progetti per quali sono stati selezionati, adottando la formula della residenza
d’artista. Il Centre si propone inizialmente come ponte fra la sperimentazione
audiovisiva ed eventuali collaborazioni televisive, lanciando la proposta di
una sinergia per la creazione di una possibile “televisione di ricerca”. In real-
tà, diventa un polo attrattivo per tutta una serie di artisti, prevalentemente
europei, che trovano una sorta di “casa” in grado di realizzare i loro progetti.
Rapidamente diventa il punto di riferimento della produzione video mono-
canale, meta di artisti già affermati, come Gianni Toti e Robert Cahen, e di
altri meno noti che si formano e crescono in un luogo che è anche una sorta
di comunità di artisti, da molti definita il “tempio” della videoarte.
Fra i tanti video qui realizzati, è importante segnalare Parabolic People5
(1991) della regista brasiliana Sandra Kogut, coprodotto da Laterit Productions.
Il progetto sfrutta l’idea del cosiddetto video box: camion con all’interno un
piccolo set attrezzato in cui le persone possono entrare e videoregistrarsi. Sparsi
in varie città del mondo, questi video box forniscono alla regista brasiliana una
gigantesca quantità di video-ritratti, coordinati in una serie di episodi della du-
rata variabile dai 3’ ai 5’. In Parabolic People il tema è l’interconnessione della
televisione (simboleggiata dall’antenna, appunto, parabolica) che riesce ad az-
zerare le distanze geografiche e culturali agglomerandole nello spazio virtuale
del “villaggio globale”, ma è anche il racconto, le storie, le “parabole” che i vari
protagonisti dei video condividono con lo spettatore. Gli episodi sono gestiti
per temi (il doppio, l’imitazione di personaggi famosi, la figura della finestra,

5
Il video è visionabile al seguente link: http://laurentine.arscenic.tv/medias/films/article/
parabolic-people-sandra-kogut?lang=fr

155
Capitolo 3

la musica eccetera) e dal punto di vista stilistico sono un saggio delle possibilità
iperboliche del montaggio elettronico che ragiona sulla simultaneità: il quadro
viene costantemente impaginato da finestre, tendine, interventi grafici, scritte,
interpretando il caos anche linguistico, la babele visiva e sonora nella quale siamo
immersi.
Nei primi anni di attività del Centre molti video sono realizzati combi-
nando riprese dal vero con interventi grafici 2D o 3D, in linea con l’approccio
combinatorio, tipico del lavoro di compositing, che diventa una delle scelte
stilistiche più approfondite negli anni Novanta. Cathy Vogan6, esperta in
postproduzione e collaboratrice di Dominik Barbier che fonda la sua per-
sonale casa di produzione Fearless, realizza in collaborazione con il CICV
alcune opere che hanno come tema costante il tempo. Methuselah (1993), pro-
dotto da Fearless e dal British Council, è il commovente ritratto del danzato-
re ultraottantenne Ernest Berk: il suo corpo nudo viene visualizzato mentre
danza circondato da immagini sovrapposte di tronchi secolari e viene intar-
siato continuamente da elementi grafici di orologi che scandiscono il tempo.
Il danzatore, accovacciato in uno spazio nero racconta della sua sessualità,
della vecchiaia, di come il suo corpo sia mutato e di come sia ancora in grado
di danzare: questo video può essere considerato un capolavoro nel genere
della videodanza.
Prima della sua collaborazione con Fearless e il CICV Vogan realizza
un altro video di danza, Electronic Kamasutra (1989), opera sul rapporto
fra sessualità e oggetti inusuali, dove si libera la sua essenza stilistica fat-
ta di immagini veloci e coloratissime, accostamenti di situazioni visive che
tendono a trasformare il quadro in un magma caotico di forme, collegando
l’estetica della videoarte combinatoria al linguaggio del video musicale. The
Synchronizer (1997), coprodotto da Fearless, prosegue e affina questa ricerca
alimentandola con il contributo di interventi di computer grafica e di una
notevole padronanza della postproduzione. Il tema del video è il desiderio
nell’era digitale: organizzato come uno stralunato show televisivo che vede la
partecipazione come attore di David Larcher, quest’opera è un mix vorticoso
di immagini video, fotografiche, 3D e rielaborate graficamente inerenti l’an-
sia dell’adeguamento causato dalle nuove tecnologie; la sincronia fra uomo e

6
Il sito dell’artista è: http://vogania.com/. La sua pagina YouTube è: http://www.youtube.
com/user/NOTAMARKinc. La sua pagina Vimeo è: https://vimeo.com/user8412228.

156
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

macchina. Fra orgasmi cronometrati, corpi sempre più efficienti e muscolosi,


seni sempre più grossi, erezioni misurate al centimetro, Vogan mostra come il
corpo, cercando miglioramenti quantitativi, stia cambiando sempre di più.
Dominik Barbier7, scenografo e videoartista parigino, realizza presso il
CICV un affascinante documentario sul famoso scrittore teatrale Heiner
Müller dal titolo I Was Hamlet del 1993. Il video si avvale di interviste esclu-
sive, di materiale di repertorio e di riprese originali. Restituito in un livido
bianco e nero, una scelta che diventa quasi uno standard in molte produzioni
del CICV, l’opera procede con tempi dilatati e riflessivi usando in maniera
intensiva finestre, tendine, sovrapposizioni di immagini e una serie di scritte
che invadono lo schermo e guidano lo spettatore nella visione. I temi princi-
pali sono la biografia del drammaturgo tedesco e la descrizione testuale della
sua pièce più famosa, Die Hamletmaschine. Quest’opera si aggiunge all’elenco
dei “documentari di creazione” che si stanno realizzando in questo periodo.
David Larcher (1942)8 comincia a usare il video dopo un’esperienza ar-
tistica legata al cinema sperimentale. Con Videovoid del 1995 e Videovoid
Text 9 del 1996 realizza una sorta di compimento delle ricerche sul disturbo
del segnale e sulle possibilità dell’autogenerazione di immagini, tipica della
videoarte degli esordi, arricchita con le potenzialità del video digitale e del
compositing. Videovoid lavora su una continua rielaborazione di immagini
semplici e minimali, come il drop, che diventano tessiture astratte complesse,
o come la neve che può trasformarsi in immagini che ricordano forme natu-
rali o ambientali. Livello su livello, intarsio su intarsio, è un lavoro quasi ma-
niacale nel tentativo di addentrarsi sempre più nelle possibilità di integrazione
fra analogico e digitale per distruggere la visibilità delle forme.
Tuttavia l’opera non è semplicemente una collezione di esperienze visive
astratte: grazie all’ausilio di altre fonti, come fotografie ritoccate o immagini
video fortemente rielaborate, una voce fuori campo che recita un monologo
quasi costante per tutto il video e testi scritti che scorrono sullo schermo, Vi-
deovoid è una lunga riflessione filosofica sul vuoto, sul nulla, sulle dimensioni
liminali e buie della tecnologia e del pensiero. Ragionamenti che partono
da concetti matematici, paradossi scientifici, riflessioni esistenziali e semplici
7
Il sito dell’artista è: http://dominikbarbier.fearless.fr/+Dominik_2.html
8
Il sito dell’artista è: http://www.khm.de/~davidl/cicv/larcher.html
9
Il video è visionabile al seguente link: http://laurentine.arscenic.tv/medias/films/article/
videovoid-text-david-larcher?lang=fr

157
Capitolo 3

giochi di parole accompagnano lo spettatore nel labirinto visivo e radicale


creato dall’artista inglese.
Nella maggior parte dei video prodotti dal CICV si intravedono le possi-
bilità del compositing che diventano più evidenti in altri autori, e soprattutto
la collaborazione fra analogico e digitale rappresentata dalla tridimensiona-
lizzazione di forme bidimensionali, dalla possibilità di simulare prospettive
inesistenti sempre grazie alla distorsione di forme piatte e di far dialogare in-
terventi grafici semplici in 2D o in 3D con immagini video: percorsi stilistici
abbozzati già negli anni Ottanta.
La computer grafica vera e propria non occupa uno spazio significativo
all’interno delle produzioni del Centre, eccetto alcuni video realizzati da
N+N Corsino, compagnia marsigliese di ricerca coreografica formata da Nor-
bert e Nicole Corsino10, che da anni indaga il rapporto immagine-danza fino
a spingersi ad affrontare la questione della digitalizzazione del corpo e, oggi, a
creare sistemi interattivi per la realizzazione di spettacoli ed eventi creati per
il web. Captives 2nd movement 11 del 2000, coprodotto da Canal Plus, Danse
34 Productions e Société Animare, è un video in cui corpi digitali realizzati
con una computer grafica 3D essenziale, simile a certi videogiochi, danzano
intorno a strutture architettoniche sulle quali sono riflesse immagini video
di performer reali che imitano i movimenti dei cloni digitali. Il titolo è un
gioco di parole: il termine “captive” in inglese significa “prigioniero”, ma si
riferisce anche alla “motion capture”, la “cattura del movimento” di un corpo
reale che serve ad animare un clone digitale. Nel video, quindi, vi sono dei
corpi digitali che hanno catturato i movimenti di persone reali, mentre le
strutture architettoniche imbrigliano immagini di danzatori in carne e ossa
trasformandole in texture: il mondo “rovesciato” del digitale è rappresentato
in maniera enigmatica, scura, in un bianco e nero minaccioso, ma al contem-
po affascinante nella sua freddezza e rarefazione.
Molta della produzione del Centre si concentra su un’estetica di carat-
tere intimista, dove gli artisti creano ritratti autobiografici lavorando su un
immaginario e su scelte stilistiche che ricordano da vicino The Passing di
Bill Viola, un’opera che influenza molto le nuove generazioni di videoarti-

10
Il sito della compagnia è: http://www.nncorsino.com/en/
11
Un frammento del video è visionabile al seguente link: http://www.unesco.org/archi-
ves/multimedia/index.php?s=films_details&pg=33&id=118#.U_Jkp6M4KVg

158
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

sti. Los lobos12 del 1996 di Francisco Ruiz De Infante (1966)13 è un lavoro
che tenta la durata cinematografica dei 90’, in bianco e nero, sul tema delle
paure dell’infanzia: i lupi a cui si fa riferimento nel titolo, animali selvag-
gi che popolano la mente e che non muoiono mai. L’artista spagnolo, che
cura anche l’accompagnamento sonoro, crea un’opera dominata dal nero
e dal buio, dove semplici immagini (molte delle quali riprese non inten-
zionalmente per il video) vengono montate e rimontate, sovrapposte con
altre situazioni in loop, creando nello spettatore un vero e proprio stato
d’ansia. Topi, insetti, paesaggi notturni, maschere, mani e volti di bambini
sono solo alcuni dei protagonisti di questo lungo viaggio nella notte di un
inconscio infantile che non riesce a svegliarsi dal suo stato in bilico fra la
veglia e il sogno.
Irit Batsry14 realizza nel 1993 Traces of a Presence to Come15, coprodotto da
La Sept/Arte e dal Centre International de la Cinématographie con il supporto
di Guggenheim Foundation, Jerome Foundation, The Experimental TV Cen-
ter, Owego, Academy of Media Arts, DAP, Ministère de la culture, Film/Video
Arts: imponente riflessione sull’incontro, sulla perdita e sull’identità. L’artista
israeliana lavora sulla rarefazione dell’immagine, sulla perdita del colore e su
rallentamenti estremi che ghiacciano le immagini. Le forme si trasformano in
macchie nere in movimento, quadri quasi astratti, fragili, trasparenti, come se da
un momento all’altro le forme potessero perdersi, allontanarsi dall’osservatore.
La produzione del CICV rappresenta la sintesi e il compimento dell’este-
tica della videoarte elettronica che va dagli anni Sessanta fino agli anni Ot-
tanta, con una nascente estetica digitale che ancora si interroga sulla propria
natura, una sorta di ponte rispetto alle esperienze di cui parleremo più avanti.
A causa di un’endemica mancanza di fondi e di un cambiamento repentino
della politica culturale francese il Centre è costretto a chiudere nel 2004 e
a oscurare il suo sito, lasciando dietro di sé scarsa documentazione visibile
dell’immenso lavoro fatto. La maggior parte degli artisti attiva nel CICV,

12
Il video è visionabile al seguente link: http://entremon.blogspot.com.es/2012/11/els-
llops-aquells-animals-ferotges-dels.html
13
Il sito dell’artista è: http://www.ruizdeinfante.org/
14
Il sito dell’artista è: http://www.iritbatsry.com/. La sua pagina Vimeo è: http://vimeo.
com/user5795312
15
Un brano del video è visionabile al seguente link: http://www.exquise.org/video.
php?id=3436&l=uk

159
Capitolo 3

complice anche la serie di processi descritti agli inizi di questo capitolo, si


concentrerà sulla realizzazione di videoinstallazioni o su collaborazioni con il
mondo del teatro e della danza, mentre altri più legati al lavoro sulla singola
immagine trovano spazio di lavoro e di sperimentazione all’interno di stazio-
ni televisive internazionali.

Marc Caro

Marc Caro (1956)16 è illustratore, fumettista, realizzatore di costumi e di sce-


nografie, regista di video musicali e collaboratore di Jean-Pierre Jeunet per due
film: Delicatessen (Id., 1991) e La Cité des enfants perdus (La città perduta, 1995),
ma è soprattutto realizzatore di video interessato alla danza (insieme a Philippe
Decouflé), all’astrazione, alla combinazione fra 3D, 2D e riprese dal vero, tutte
tecniche volte a mostrare un universo personale che anticipa le mode steam-
punk. Stilisticamente, alcuni suoi video sono una raffinata combinazione di
immagini variamente elaborate per rappresentare un universo inesorabilmente
piatto, dove i diversi elementi coinvolti si amalgamano solo attraverso il contra-
sto che rende visibile l’artificio nel modo più dichiarato possibile. L’artista fran-
cese può essere considerato l’iniziatore di un approccio estetico, ripreso in parte
da alcune produzioni del CICV e tipico della videoarte monocanale degli anni
Novanta, che potremmo definire il “compositing creativo”, ovvero la miscela-
zione di elementi differenti e consapevolmente dichiarati come tali che vengono
ricombinati per offrire una visione antirealistica del mondo, o paradossalmente,
una visione “realistica” di un mondo mentale, di una costruzione del pensiero
che ridisegna le apparenze invece di limitarsi a interpretarle offrendo un sem-
plice punto di vista soggettivo. Nel digitale le idee diventano oggetti visibili, e
su questa linea si muovono molti autori.
Le Topologue (1988), prodotto da Reteitalia, Centre Nationale de la Ciné-
matographie, CIDIS, VDM, Kodak, Renault, Barte & Co, Museo d’Orsay,
Telegraph, Mikros Image e INA, è un omaggio alla sceneggiatura L’ homme
au cent trucs di Georges Méliès, figura che viene spesso evocata da alcuni
videoartisti come il primo esponente di un linguaggio combinatorio anti-
naturalistico. Nel video alcuni cubi metallici, che si trasformano in palchi
teatrali, ospitano una figura umana vestita di una strana corazza e con un

16
Alcuni video dell’autore sono raccolti nel dvd Made in Caro, Ed. Cinemalta.

160
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

enorme compasso in mano che si aggira fra i vari ambienti, si esibisce in un


numero circense coadiuvato da oggetti tridimensionali che lo circondano e
si moltiplica in una serie di cloni che diventano un pubblico che applaude.
Si evincono strategie linguistiche che saranno costanti nella videoagrafia di
Caro: la ripetitività meccanica dei gesti del corpo che diventa un automa, lo
spazio come labirinto di elementi interconnessi dispersi nel nero, la continuità
simulata dalle tecniche del compositing che distruggono l’idea di montaggio
classico, e infine un’atmosfera infantile e irriverente, dal sapore dadaista.
La cirque-conference (1989), prodotto da Mikros-Duran, Centre National
Georges Pompidou e Canal Plus-Ex Nihilo, sfrutta le possibilità che il composi-
ting può dare nel simulare una continuità spazio-temporale fittizia, creando uno
spazio dichiaratamente paradossale; i corpi umani si trasformano in macchine
robotiche, in immagini pure che hanno la funzione di tasselli che compongono
l’ordito della composizione finale. Il video appare in maniera consapevole come
una sorta di grafica in movimento che rifiuta il concetto di realismo, forzando
tutti gli elementi coinvolti in una bidimensionalità dichiarata che gioca con ele-
menti artificiali tridimensionali. Le riprese dal vero si mescolano senza soluzione
di continuità con la grafica 2D e 3D: è l’inizio di una estetica digitale che domi-
na le produzioni degli anni Novanta nelle quali l’animazione sembra sciogliersi
in un magma dove vengono condivise più fonti visive e più tecniche.
Exercise of Steel (1993), prodotto da Canal Plus e dal Centre International
de la Cinématographie, è invece un delirio tecno-pornografico dove si simula
una profondità di immagine che non esiste, e dove la carne e il metallo, rife-
rendosi in maniera evidente a una certa estetica cyberpunk, si mescolano in
una dimensione naturale (oramai irriconoscibile) con la dimensione dell’arti-
ficiale: la grafica metallica che circonda le figure dei corpi femminili protago-
nisti del video. In questo caso il tema della robotizzazione del corpo è riferito
alla sfera della sessualità, di una sorta di pornografia del futuro, dove le figure
femminili assomigliano a bambole artificiali che si esibiscono in atti sessuali
compiuti con strumenti meccanici. La carica di derisione, la leggerezza for-
zata che spingono verso un’atmosfera demenziale, il nonsense tipicamente
dadaista e la libertà di stile di tutta la sua produzione video, rigorosamente
musicale, fanno di Marc Caro una sorta di neo Paik digitale, un crocevia ne-
cessario per le produzioni video artistiche a venire che si interrogano su cosa
fare con le tecnologie digitali.

161
Capitolo 3

Eve Ramboz, Christian Boustani, Alain Escalle

Gli artisti trattati in questo paragrafo sono i primi a costruire coerentemen-


te un’estetica digitale a partire da alcune istanze sperimentali della videoarte
elettronica. Sono riuniti, nonostante abbiano carriere da un certo punto in poi
separate, perché nascono come gruppo di lavoro e formano inconsapevolmente
una sorta di “scuola”, le cui scelte stilistiche invadono molti campi, non solo
quello della videoarte, e che da alcuni è stata definita “videopittura”. Sono tre
artisti grafici digitali, esperti di elaborazione dell’immagine fissa, che si adden-
trano nella sperimentazione del movimento, e sono soprattutto professionisti
che lavorano a vario titolo in un mercato audiovisivo che non appartiene a quel-
lo dell’arte contemporanea. Le possibilità dell’elaborazione grafica dell’imma-
gine e del compositing sono gli stilemi tecnologici che dominano le produzio-
ni audiovisive di questi autori: le immagini diventano quadri in movimento,
l’artista si trasforma in una sorta di alchimista che utilizza la tecnologia come
athanor in grado di miscelare gli elementi più disparati (riprese dal vero, com-
puter grafica 3D o 2D, immagini statiche, foto o quadri eccetera).
Il riferimento alla pittura diventa una sorta di ossessione stilistica per que-
sti autori, così come avviene nell’ambito delle videoinstallazioni a schermo
singolo, ma con un approccio all’immagine e alla tecnologia ben diversi; il
chroma key rappresenta lo strumento necessario per poter lavorare con l’ico-
na del corpo; tutte le singole fonti visive sono rispettate nella loro forma ori-
ginale, ma riposizionate in contesti altri, a favore della modellazione di un
mondo surrealista alla Salvador Dalí nel senso più stretto del termine: ogni
singolo oggetto è rappresentato in modo iperrealistico, ma la somma degli
elementi non offre una finestra verosimile sul mondo. Tutti i video citati in
questo paragrafo sono musicali, una scelta oramai costante in questi anni.
Per chi usa la grafica digitale, l’oggettualità è il nuovo scoglio estetico da
usare o da contraddire, essendo comunque il frutto di un processo altamente
formalizzato e quindi artificiale. I formati video digitali restituiscono un’im-
magine apparentemente più definita (più oggettiva quindi), mentre la compu-
ter grafica “ragiona” per oggetti. Il riferimento alla realtà audiovisiva passa at-
traverso il modello del “campionamento”: di frammenti di copie artificiali del
reale che possono essere usate e ricombinate. È un approccio per entrare nella
macchina digitale e spaccare l’ordine visivo tradizionale e creare un imma-
ginario sperimentale che cerca di andare oltre alla “semplice”, con virgolette

162
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

d’obbligo, corrente dell’astrazione digitale, che pure continua copiosa. Questa


nuova generazione di videoartisti non ha come punto di riferimento consape-
vole la videoarte classica, ma un insieme di suggestioni che appartengono a
un certo tipo di cinema d’animazione, agli esordi della sperimentazione della
computer grafica, e soprattutto ad alcuni momenti della storia dell’arte (non
contemporanea), e a tutto quel linguaggio videoartistico che è confluito nei
generi citati prima. Non si dichiarano come dei post-Bill Viola o dei post-
Nam June Paik, ma rappresentano a pieno titolo la corrente post-analogica,
digitale, della videoarte monocanale. Da questo punto di vista il riferimento
alla pittura pare essere inevitabile: bisogna ricominciare dal confronto con il
concetto di icona, e non più dal confronto con il cinema o la televisione.
Eve Ramboz, fondatrice dello studio La Maison17, ed esperta nell’utilizzo
del Paint-Box (il primo sistema digitale in grado di elaborare graficamente
riprese dal vero) e in generale di compositing e grafica computerizzata, lavora
nel settore della pubblicità, del video musicale, della televisione e del cinema.
La combinazione è l’elemento stilistico centrale attorno al quale ruota la sua
estetica, che non è interessata a distruggere la riconoscibilità dell’immagine,
ma a costruire un mondo fatto di elementi disparati, ri-combinati a favore di
un immaginario che rende visibile il trucco, così come molta videoarte delle
origini è interessata a mostrare il funzionamento della macchina elettronica.
Eve Ramboz, nella sua unica opera autoriale, svincolata da esigenze di
committenza, sceglie Hieronymus Bosch come riferimento imprescindibile
dal quale ripartire da zero per testare le macchine e le proprie scelte stili-
stiche. L’escamoteur (1991), prodotto da La Sept, Mikros Image e Advance
Productions, è un esempio di prestidigitazione dell’immagine in movimento.
Frammenti di vari quadri di Bosch sono campionati e scaraventati nel calde-
rone digitale, per diventare altro: forme in movimento, prospettive forzate,
profondità di campo inventate, ricombinazione fra le immagini originali di
Bosch (i campioni, i sample visivi) con riprese dal vero e computer grafica 3D.
E non importa se quest’idea ha un antecedente piuttosto preciso e dichiarato,
in The Battle of Kerzents di Yuri Norstein (1971) perché qui siamo comunque
in un altro contesto. Là c’è un discorso raffinato di citazioni, qui la pittura di
Bosch si trasforma in un quadro digitale in movimento straordinariamente
contemporaneo, o forse meglio inserito in una bolla temporale che potrebbe

17
Il sito dello studio è www.alamaison.fr

163
Capitolo 3

essere definita come un futuro remoto: qui l’originale, alchemicamente, cam-


bia sostanza.
Christian Boustani e Alain Escalle lavorano sul solco dell’intuizione di Eve
Ramboz, sviluppando estetiche differenti. In entrambi la figura umana e il set
(rigorosamente in chroma key) diventano elementi essenziali attraverso i quali
inserire riprese dal vero dentro a sfondi animati, determinando un effetto dichia-
ratamente artificiale. Il compositing non vuole ingannare lo spettatore, ma agire
sul senso di meraviglia, senza produrre, in maniera voluta e consapevole, nessun
effetto di realtà. E nonostante l’impegno profuso nel creare finte prospettive e
profondità di campo artificiali apparentemente realistiche, il risultato è sempre
bidimensionale, graficamente dichiarato.
Christian Boustani (1959)18 in Cités antérieures: Brugge (1995), prodotto
da Vidéo Lune, Mikros Image, Canal Plus, Magic Company, Grand Canal,
Belgische Radio en Televisie e Périscope Production, crea un vero e proprio
universo parallelo e senza tempo dove la pittura fiamminga convive con im-
magini contemporanee, fino a far sciogliere letteralmente davanti agli occhi
dello spettatore le forme colpite dalla pioggia. La tenue traccia narrativa, un
pittore che fa un ritratto nel suo studio, è il pretesto per animare alcuni scorci
dipinti contaminandoli con personaggi reali. La virtualità dello spazio messo
in atto permette a Boustani dei paradossi spazio-temporali, per cui sulle strade
“fiamminghe”, digitalmente ricomposte, viaggiano turisti in bicicletta, carrozze
dell’Ottocento, figure troppo grandi o troppo piccole per essere credibilmente
inserite nei luoghi visualizzati. Il pittore protagonista del video è un alchimi-
sta, e il compositing qui diventa veramente il luogo dell’unione degli elementi.
Per quanto le singole fonti siano verosimili, come gli attori in costume o le
scenografie degli interni, tutto il video proietta lo spettatore in un’atmosfera
sospesa, irreale, esattamente come Steps di Rybzynski. Le fonti bidimensiona-
li diventano prospettiche, le immagini video si appiattiscono sempre di più in
un labirinto che porta Boustani a virtuosismi stilistici e al contempo lucidi per
mostrare le capacità del digitale (come la scena in cui nello studio del pittore
la telecamera si avvicina a uno specchio circolare appeso alla parete e penetra
il suo interno, visualizzando un mondo di figure grafiche in movimento che
proiettano lo spettatore all’esterno dello studio stesso). La citazione del celebre

I video di Christian Boustani sono disponibili alla pagina Vimeo di Gilles Boustani:
18

www.vimeo.com/user1257990

164
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

quadro I coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck qui serve a far comprendere le possi-
bilità del digitale di “sfondare” la bidimensionalità svelando altri mondi.
A Viagem (1998), prodotto da D&D Audiovisuais per il padiglione porto-
ghese dell’Expo 1998, è un video ispirato alla vicenda reale di una spedizione
di gesuiti portoghesi in Giappone. Tutto l’ordito visivo è schiacciato su un
mondo piatto, dominato dal colore oro che non riesce ad avere una prospetti-
va reale, e qui l’omaggio a Rybzynski è piuttosto esplicito. Ma anche in questi
universi il punto di vista può viaggiare su un immaginario “asse di profondi-
tà” per scovare l’interno stesso delle immagini (altra ossessione della video-
arte elettronica), costituito da altri set e da altre situazioni visive, che svelano
mondi dentro ad altri mondi, in un labirinto potenzialmente infinito.
Chi più consapevolmente opera all’interno di questa estetica che ri-costruisce
per de-costruire è sicuramente Alain Escalle (1967)19, un artista che non solo la-
vora con produzioni monocanale ma anche, raramente, con videoinstallazioni,
spesso versioni multi schermo dei suoi video a schermo singolo. Come Boustani
e Ramboz, anche Escalle, pur recuperando una logica “da set”, costruisce le sue
architetture visive intorno al movimento di corpi, al lavoro di compositing e al
rapporto con la musica: per Boustani i corpi sono pure figure agenti, per Escalle
invece, il più delle volte, danzatori consapevoli del valore “narrativo” del proprio
movimento. D’après le naufrage (1994), Le conte du monde flottant (2001) e il re-
centissimo Le livre des morts (2013) costituiscono un gruppo di opere affascinanti
e nodali: un chiaro slancio in avanti del linguaggio della videoarte monocanale
digitale alla ricerca di un pubblico più vasto e meno specializzato dell’ambito stret-
tamente artistico. Escalle trasforma tutte le fonti visive usate in figure grafiche,
facendo diventare i suoi video veri e propri quadri in movimento. Se in Boustani
il girato non viene coinvolto nella rielaborazione grafica delle immagini, in Escalle
tutto diventa pittorico, a discapito anche della qualità dell’immagine o della sua
definizione: l’importante è amalgamare il più possibile tutte le componenti coin-
volte in un universo visivo che dichiara uno stile. In particolare Le conte du monde
flottant, prodotto da Mistral Film e dal Centre National de la Cinématographie, è
un’opera fondamentale per la storia della videoarte monocanale. Il video è dedicato
allo scoppio della bomba atomica a Hiroshima, e il titolo si riferisce al fatto che il
mondo perde il suo equilibrio dopo tale evento. L’opera prende come pretesto, per

19
Il sito dell’artista è: http://www.escalle.com/.La pagina Vimeo è:www.vimeo.com/alai-
nescalle, mentre alcuni lavori sono disponibili in dvd distribuiti da AE Studio.

165
Capitolo 3

la gestione del flusso delle immagini, i ricordi di un vecchio che all’epoca di quegli
eventi era un bambino: tutto è quindi filtrato dalla sua memoria che affastella si-
tuazioni metaforiche, suggestioni, visioni nebulose e infantili. E infatti tutto avvie-
ne in un clima sospeso, dove si alternano vari episodi in cui compaiono personaggi
ricorrenti che si incontrano alla fine del video: una suonatrice di Koto, un guerriero
samurai, il bambino protagonista del video e altri. Lo scoppio della bomba atomica
viene evocato da una deflagrazione di elementi grafici, il mondo che “galleggia”
viene raffigurato da una serie di danzatori nudi che barcollano frastornati men-
tre subiscono varie metamorfosi corporee, le conseguenze delle radiazioni sono
descritte come una pioggia che distrugge le immagini. Tutta l’opera è costellata
da invenzioni visive in cui la performatività del corpo inserito in uno spazio rico-
struito digitalmente gioca un ruolo essenziale nella gestione delle emozioni e nella
scansione degli eventi. Dal punto di vista formale il video rappresenta il vertice di
quella linea antirealistica che utilizza il chroma key per inventare dei mondi e non
per riprodurli fedelmente. Il filtro della memoria del bambino giustifica il pieno
trattamento delle immagini che, anche quando appaiono nitide, denunciano sem-
pre un intervento digitale sui contorni o sui colori, o sono disturbate da interventi
grafici astratti. Tutto il video gioca su una sensazione di tridimensionalità prospet-
tica che è un’illusione data dal trattamento delle immagini, che anche quando
sono realizzate in computer grafica 3D appaiono come dei disegni o dei dipinti,
evitando così qualsiasi “tentazione” fotorealistica.
Questa “scuola” francese, oltre a influenzare il mondo videoartistico, tocca
profondamente il mondo audiovisivo e in particolare quello cinematografico,
dimostrando come, a partire dagli anni Novanta, alcuni settori audiovisivi
tradizionalmente poco impermeabili si connettano a vicenda.

Rosto A.D.

L’olandese Rosto A.D.20, fumettista, animatore, musicista e regista di video


musicali, prosegue la linea combinatoria per realizzare opere che fondono in
maniera inscindibile la sperimentazione videoartistica e l’animazione digita-
le. Il progetto di fumetto per il web Mind My Gap21, diventa anche una trilo-

20
Il sito dell’artista è: http://www.rostoad.com/. La sua pagina Vimeo è: https://vimeo.
com/studiorostoad
21
Il sito del progetto è: http://www.rostoad.com/menu.html

166
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

gia di video22 prodotta con il supporto del Netherlands Film Fund: Beheaded
(1999), Anglobilly Feverson (2001), e Jona Tomberry (2006). In queste opere
Rosto A.D. traspone l’immaginario grottesco e oscuro del fumetto online,
operando diverse strategie stilistiche: da un lato simula col digitale l’utilizzo
di tecniche d’animazione tradizionali, dall’altro miscela riprese dal vero, so-
prattutto corpi umani ai quali sostituisce il viso realizzando delle maschere
digitali, con sfondi in grafica 2D o 3D, amplificando il senso di irrealtà di
Escalle. Rosto spesso si autoritrae in maniera deforme, seguendo una linea
tipica della videoarte elettronica.
E se in alcune parti delle sue opere esistono un dialogo e l’apparenza di
una trama, il tutto si scioglie in ampie parti musicali in una formula che
Rosto definisce “opere rock videomusicali”. Il video più riuscito della serie è
senza dubbio Jona Tomberry, in gran parte in bianco e nero, realizzato con
un’abile miscela di 3D e live action, dove l’immaginario dell’artista olandese
si squaderna in tutta la sua inquieta pienezza. Il tema del transito da un am-
biente all’altro attraverso specchi e vetri che si frantumano, collegato al tema
dell’accecamento, che sono costanti in questo video, rappresentano anche la
volontà di rendere indefinito e drammaticamente ambiguo il rapporto fra
rappresentazione animata di una realtà inconscia e l’identità stessa dell’im-
magine digitale. Vedere “in digitale” significa attraversare la materia degli og-
getti, e scoprire la loro vita interiore, come il sole a forma di pupilla che scruta
le azioni dell’intera opera. Viceversa, la computer grafica è uno straordinario
strumento per dare materia oggettiva alla propria vita interiore senza filtri di
alcun genere, anzi rischiando la perdita della vista.
La dimensione della morte viene inevitabilmente scandagliata da una tecnolo-
gia che “dà vita” alle forme, e in questo caso l’ultimo passaggio, il trapasso, non è
altro che un mutamento di sostanza: infatti Jona, il bambino anfibio apparente-
mente ucciso all’inizio del video, ricompare a colori fra le braccia di Tomberry, una
strega umanoide fatta di rami e tronchi d’albero, e canta una struggente canzone
in cui dichiara di non avere paura di nulla. Il passaggio di materia è un tema che
l’estetica digitale sfrutta costantemente: in questo video da un paesaggio semide-
sertico e brullo si passa a un ambiente sottomarino (di nuovo compare l’acqua
come elemento che riempie gli ambienti e rende leggeri gli oggetti) dentro al quale

22
La trilogia è distribuita in dvd da Chaletpointu: http://www.chaletpointu.com/dvd-
collection.php

167
Capitolo 3

risiedono altri ambienti che rispondono a leggi fisiche proprie, ma ben coscienti di
essere frutto di un artificio.
Un elemento costante degli interni visualizzati in questo video è la presen-
za visibile di faretti posizionati per illuminare la scena: i luoghi sono dei veri
e propri set. Tutto appare finto in maniera dichiarata, come le maschere par-
lanti indossate dai personaggi, o i piccoli cloni di Rosto A.D. che si attaccano
al cappotto nero del doppio gigantesco dell’artista olandese, un personaggio
che poi scaraventa queste piccole copie di sé dentro uno specchio circolare,
per favorire l’ennesimo passaggio al successivo episodio della serie. Anche
nei video musicali Thee Wreckers: No Place Like Home (2009) o nel film The
Monster of Nix (2011), Rosto persegue la sua particolare estetica di fusione fra
videoarte, cinema d’animazione ed estetica digitale.

Dave McKean

L’inglese Dave McKean (1963)23 è illustratore, disegnatore, fumettista, fo-


tografo, grafico digitale e realizzatore di video e film. Con lo scrittore e sce-
neggiatore di fumetti e di film Neil Gaiman costituisce un sodalizio artistico
quasi costante in tutte le sue produzioni. Lo stile grafico delle illustrazioni
di McKean è una combinazione di disegni manuali, elaborazioni grafiche in
2D e 3D, fotografie, testi scritti e materiale variamente trattato: è inevitabile
quindi che nel momento in cui si diffonde l’estetica combinatoria fin qui
descritta, anche il famoso fumettista inglese si eserciti nello sperimentare la
dinamizzazione del suo particolare stile che diventa un punto di riferimento
per l’estetica del collage digitale.
L’animazione digitale o la motion graphics sono componenti tecnologiche
essenziali per la videoarte monocanale degli anni Novanta: i concetti di ani-
mazione e di combinazione con altri elementi non animati è connaturato al
passaggio in digitale dell’immagine elettronica, e questa natura viene indagata
da vari autori con approcci differenti. Nella videografia di McKean l’ambiguità
fra immagini dal vero, la loro rielaborazione grafica e la presenza di forme digi-
tali 2D e 3D è costante e quasi necessaria per rappresentare un mondo a metà
23
Il sito dell’artista è: http://www.davemckean.com/. I suoi video sono disponibili nel
dvd Keanoshow – A collection of short films by Dave Mckean, distribuito da New Video
Group inc. La sua pagina YouTube è: https://www.youtube.com/channel/UClFUAQc-
mJYZevmmN2asi7Q/videos

168
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

fra quello ideale e quello degli oggetti. Se un personaggio si presenta come un


oggetto in 3D, la sua testa è una superficie “mappata” con immagini video di
un viso reale; se invece i personaggi sono figure reali indossano una maschera
che ne spersonalizza il viso. Il tema della maschera, della possibilità di animare
oggetti e della trasformazione del corpo in manichino semovente sono costanti
non solo, come abbiamo visto, nell’opera di McKean.
Sonnet 138, del 2001, realizzato quasi interamente in 3D, è un breve video
ispirato direttamente al Sonetto n. 138 di William Shakespeare, una poesia
narrata in prima persona in cui si accenna alle bugie consapevoli che due
amanti, lui anziano e lei molto giovane, si raccontano per negare l’eviden-
za della loro differenza di età. Nel video viene mostrata una strana creatura
umanoide recitare il testo integrale del sonetto. Un busto piatto, di legno, è
incastonato dentro un libro: sopra vi è una testa stilizzata, degli avambracci
legnosi volano a un’altezza coerente rispetto al corpo; il tutto appoggia su una
sfera sotto la quale c’è un cubo, entrambi di legno. Intorno, un enigmatico
ambiente in cui campeggia una sorta di triangolo come sfondo. Durante il
sonetto, il personaggio apre il libro dentro al quale risiede il suo busto, e da
una fessura estrae un altro piccolo volume che galleggia nell’aria ruotando
velocemente intorno al proprio asse; da questo si aprono delle composizioni
di carta che circondano il personaggio, che raccoglie con le sue mani le pagine
animate, per poi trasformarle in farfalle colorate. Nel frattempo la camera
fluttua avvicinandosi e allontanandosi dal personaggio, e lo sfondo si trasfor-
ma in una sorta di paesaggio roccioso dai colori caldissimi.
Incontriamo di nuovo alcune scelte che sembrano quasi obbligate per il
linguaggio del digitale: la rotazione intorno al soggetto, la fluttuazione del
punto di vista, e infine la leggerezza degli oggetti. Ma ciò che più interessa
è la perfetta adesione stilistica fra questa opera e l’estetica bidimensionale di
McKean. Il video sembra una delle sue illustrazioni proiettata in un ambiente
tridimensionale, e l’autore lavora abilmente con l’ambivalenza fra realistico e
antirealistico: la superficie degli oggetti richiama una materia riconoscibile,
il legno, mentre la presenza della figura umanoide tronca e degli avambracci
spezzati, che si muovono come se effettivamente fossero attaccati al corpo,
insieme alle varie azioni che si susseguono, proiettano l’astante in un universo
fantastico, dove gli oggetti non solo si animano ma contribuiscono a creare la
parvenza di un personaggio parlante. Legno, pagine, libri: oggetti quotidiani
riassemblati per costruire un mondo artificiale.

169
Capitolo 3

Reason 9/11 del 2003, prodotto da Colony, è un breve video ispirato ai


fatti dell’11 Settembre 2001: le Twin Towers diventano due busti maschili
che vomitano un liquido nero, il quale si trasforma in due pezzi di stoffa che
si legano l’uno con l’altro. La tecnica è mista fra 3D e riprese dal vero: l’atmo-
sfera è cupa e l’ambiente desertico intorno alle due statue comunica un senso
di desolazione.
Ma l’opera più riuscita e quella che più consapevolmente indaga la logica
combinatoria del compositing sperimentale è Neon del 2002, prodotta da Si-
mon Moorhead. Il protagonista del video è un uomo che, in una Venezia onirica
e sospesa, perde la sensazione del tempo e della realtà immergendosi in ricordi
personali attivati dalla visione di alcuni oggetti, particolari architettonici, visi
di passanti e soprattutto un manichino femminile svestito nella vetrina di un
negozio di abbigliamento. Dal punto di vista estetico in questo video si affinano
alcune scelte stilistiche costanti della videografia di McKean: le immagini sono
sempre disturbate da graffi artificiali di pellicola, e sono opalescenti, fragili,
con zone fuori fuoco, o distorte diagonalmente. L’invecchiamento artificiale
dell’immagine – attraverso una sorta di “estetica del rumore”, che qui si risolve
non esaltando la grana del digitale, ma simulando i difetti di una tecnologia che
non è stata realmente usata, la pellicola – innesta nello sguardo dello spettatore
un processo di riconoscimento, e al contempo un’informazione temporale pa-
radossale: il video che si sta guardando assomiglia a un film in bianco e nero
antico e malamente conservato, quindi ritrovato in chissà quale archivio, ma la
computer grafica chiaramente riconoscibile in molte immagini non appartiene
all’epoca suggerita dai difetti della pellicola. Il disturbo riesce da un punto di
vista formale ad amalgamare i diversi contributi tecnologici usati nel video, ma
lo proietta in una bolla temporale difficilmente definibile.
Del resto Neon gioca sulla categoria dell’indefinito: le elaborazioni video
delle immagini di Venezia combinate con la presenza di oggetti 3D, come
le enormi teste spaccate che galleggiano sulla laguna, e di trattamenti grafici
2D, come le scritte sospese che costellano molti momenti del video, proiettano
quest’opera in una dimensione visiva in cui i vari elementi che cosituiscono la
natura del digitale si mescolano in una formula quasi alchemica perfettamente
riuscita. Il tema del passaggio da una sostanza all’altra viene approfondito anche
dall’estetica di McKean, e qui si traduce nell’apparizione di una figura reale,
quasi un fantasma, che incarna il doppio spettrale del manichino della vetrina
che tanto ossessiona il protagonista. Ma anche in questo caso è la dimensione

170
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

artificiale ad avere un peso, mentre quella naturale diventa una presenza fanta-
smatica, trasparente.
Forte di tutta l’esperienza acquisita, Dave McKean realizza un lungome-
traggio prodotto in HD e distribuito direttamente in dvd, Mirror Mask del
2005, dove la sua estetica visiva, oramai matura e consapevole, serve a visua-
lizzare la sceneggiatura di una fiaba per adulti sul tema del doppio scritta da
Neil Gaiman.

Édouard Salier

Édouard Salier24, designer, fotografo, artista multiforme francese, lavora nel


campo delle videoinstallazioni, dei video musicali, ed è anche il creatore di
video dalla forte impronta autoriale. La sua opera può essere considerata il
vertice della tendenza combinatoria della videoarte digitale: per questo au-
tore la dimensione della grafica, sia essa 2D o 3D, e il mondo “dal vero”
sono materiali utilizzabili e miscelabili indifferentemente, e il compositing
è il luogo dello svelamento dello stile, dell’intenzionalità del trucco e non
uno stratagemma per nascondere un’illusione. Anche quando viene usata una
computer grafica che si avvicina al fotorealismo, la situazione rappresentata,
lo stile delle forme, o semplicemente l’uso di particolari texture non verosi-
mili, trasformano i mondi creati da Salier in luoghi simbolici dell’incontro
fra sperimentazione linguistica, tecnologia e volontà di affrontare temi anche
scomodi, visualizzati in maniera irriverente.
Flesh (2008), prodotto da Autour de Minuit, Canal Plus, Arcadi, Strike-
BackFilms e Centre National del Cinématographie, partner di supporto co-
stanti in tutte le sue produzioni, diventa così una beffarda metafora del crollo
delle Twin Towers, dove grattacieli in 3D, sui quali vengono proiettate immagi-
ni video pornografiche, sono penetrati da aerei suicidi, provocando l’esplosione
di linee astratte rosse che invadono il cielo. La computer grafica di Salier è vo-
lutamente incompiuta, e lavora su un livello di riconoscibilità dell’artificio che
trasforma le immagini in qualcosa a metà fra il realistico e il disegnato.
Il regista francese lavora intensivamente con l’idea della continuità simula-
ta, come nell’imponente 4 (2008), dove la soggettiva di un personaggio scono-

24
Il sito dell’artista è: http://www.edouardsalier.fr/. La pagina Vimeo dell’artista è www.
vimeo.com/edouardsalier

171
Capitolo 3

sciuto si addentra nei meandri di una serie di corridoi, dietro le porte dei quali
si nascondono situazioni visive sempre più inquietanti. Se la videoarte elettro-
nica ha scandagliato il rapporto fra immagine, memoria e sogno, quella digitale
sembra addentrarsi sempre di più nel mondo dell’inconscio, come se ritenesse il
mondo delle idee e il mondo degli oggetti digitali due dimensioni molto vicine.
Il trapasso dalla realtà al sogno e al territorio della memoria, un tema tipico
della videoarte elettronica, qui diventa il passaggio da una realtà virtualmente
concreta – reinterpretata dall’oggetto digitale che si è collegato direttamente,
senza filtri – al pensiero che l’ha generata. Insomma, fra immagine e l’idea
dell’immagine non c’è quasi più differenza, per questo il digitale può dare for-
ma a mondi puramente mentali, legati a una dimensione sempre più interiore. 4
è un altro punto fermo nella costruzione di un’estetica videoartistica digitale.
Salier è ovviamente anche interessato all’idea del piano sequenza, come in
Splitting the Atom (2010), video musicale per i Massive Attack, dove la camera
percorre uno spazio urbano in via di distruzione come se fosse una foto tri-
dimensionale, un attimo congelato ma “visitabile” dalla soggettiva in movi-
mento che lo esplora in tutte le direzioni. Lo stile di Salier è dichiaratamente
grafico, in bilico fra l’evidenza dell’artificialità della costruzione digitale e la
verosimiglianza di ambienti e personaggi che a volte diventano degli autentici
cartoon bidimensionali, catapultando lo sguardo dello spettatore in un co-
smo attraversato da tecniche diverse, da modi diversi di guardare il mondo.
E quando Salier tenta la strada della computer grafica fotorealistica, lo fa per
creare metafore sociali provocatorie, come in Civilization (2011), per il gruppo
Justice, dove una mandria di bisonti deve fuggire da una serie di enormi statue
di figure religiose che si abbattono al suolo.

Joan Pueyo

Juan Pueyo (1956)25 è un artista di Barcellona in cui l’idea combinatoria tipica


degli anni Novanta sfocia in un’estetica che adotta l’idea del collage per creare
bizzarri quadri in movimento in cui il soggetto principale è il corpo. Si tratta
di riprese dal vero, frequentemente accelerate, di dettagli di corpi ritagliati e
ricomposti per creare costruzioni architettoniche, agglomerati di frammenti di
corpi. In Contorsionista (1991), prodotto, come gran parte delle sue opere, da

25
Il sito dell’artista è: http://www.joanpueyo.com/

172
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

La General TV e da Departament de Cultura-Generalitat de Catalunya, un


totem a forma di parallelepipedo ospita diverse immagini – in cui si formano e
si disfano una serie di “possibilità” di corpi a volte mostruosi, grotteschi, inquie-
tanti – e suoni di una foresta piena di animali. Primitivismo e tecnologia sono il
segno estetico costante di molti suoi video, dove il compositing serve a ricreare
la figura umana che, pur provenendo da immagini reali, sembra diventare un
disegno digitale. Il video ha due funzioni: una monocanale e l’altra in forma
di videoinstallazione, definita da un totem di metallo che contiene un monitor
che trasmette le immagini dell’opera.
Nel 1992 realizza Maria Muñoz, esemplare video di danza che persegue
un’estetica antirealistica nei confronti dell’immagine del corpo, e che utilizza
il chroma key con una funzione opposta a quella che abbiamo visto negli au-
tori precedenti. La figura nuda della danzatrice si esibisce in una serie di evo-
luzioni: il suo corpo è ripreso in chroma key e su sfondi geometrici e astratti,
ma lo stesso movimento coreografico viene ripreso più volte coprendo di volta
in volta parti del corpo con tessuti dello stesso colore dello sfondo. Il risultato
è che mentre Maria Muñoz esegue la sua performance i vari frammenti della
sua persona sembrano staccarsi e ballare per conto proprio.
Juan Pueyo non è alla ricerca della “bella immagine” o della correttezza
formale dei suoi collage, ma si concentra sull’idea della distruzione che richia-
ma i Décollage di Wostell, rivendicando l’insorgenza di nuovi canoni estetici
che ritrovino il senso della bellezza nella mostruosità. Il digitale ricombina
gli elementi: non è detto che per farlo non possa prima distruggerli. I suoi
video sono volutamente grezzi e richiamano l’Art Brut, lavorano su una sti-
lizzazione infantile. Le sue composizioni hanno l’atmosfera di una catastrofe
appena avvenuta, dove i pezzi della realtà sono stati riattaccati malamente.
L’artista catalano vuole dare un valore allo “strappo” delle immagini e lavora
su un’estetica radicalmente bidimensionale, senza nessun inganno prospetti-
co: sia le riprese dal vero sia la grafica condividono la stessa natura artificiale,
sono elementi grezzi che possono, o devono, essere ricombinati una volta che
la mano dell’artista li ha disintegrati, com’è evidente in Teleplàstia (1993),
dove viene visualizzata una grottesca divinità televisiva, o in Anormals (2001)
con la disturbante bellezza iconoclastica di corpi riassemblati, rinchiusi in
un recinto circondato da filo spinato, o infine in Aixafacaps (2003), dove una
serie di visi ripresi dal vero sono schiacciati e distrutti da una pressa realizzata
in grafica.

173
Capitolo 3

Kurt D’Haeseleer

Il settore della videoarte monocanale digitale non è solo rappresentato dalle


possibilità sperimentali del compositing: la tradizione videoartistica della di-
struzione del referente a favore della reinterpretazione (all’epoca elettronica,
ora digitale) del reale continua in alcune esperienze, e in particolare nelle ope-
re di Kurt D’Haeseleer (1974)26. Realizzatore di video monocanali, videoin-
stallazioni interattive e videoscenografie per il teatro, il suo lavoro sull’imma-
gine digitale tende a distruggere le forme originali a favore della riemersione
di texture dinamiche che si intrecciano con riprese dal vero.
Il fulcro del suo immaginario è costituito da situazioni quotidiane che
l’artista belga esplora grazie alla telecamera con una dinamica da voyeur,
come se i soggetti rappresentati, spesso ripresi da molto lontano, fossero cat-
turati di nascosto da un occhio indagatore. Allungamenti e stretch estremi
spesso costituiscono una tessitura astratta dentro la quale pulsa la vita di tutti
i giorni degli ignari protagonisti dei suoi video, tutti accompagnati da sfondi
musicali elettronici.
File (2001) è una sorta di sinfonia della metropoli digitale in cui l’artista,
usando effetti di allungamento e dilatazione estremi sull’immagine, visua-
lizza una realtà urbana desolata in cui compaiono a sprazzi tracce di figure
umane. Le forme sono sempre pulsanti e al limite della riconoscibilità: il con-
tinuo altalenare di porzioni di immagine ingrandite all’eccesso nelle quali
l’osservatore viene letteralmente catapultato per scoprirne la grana digitale, e
le riprese statiche di squarci di vita urbana pongono lo spettatore, continua-
mente proiettato in situazioni al limite fra visibile e invisibile, in un’atmosfera
di inquietudine e di ansia.
Fossilization (2005) e S*CKYMP (2012) sono gli esempi più maturi dell’este-
tica di questo “artista audio visuale”, come si autodefinisce: l’ultimo dei video
citati, prodotto da Peter Missotten e Filmfabriek, tenta la durata cinematogra-
fica, 80’, mettendo a dura prova lo sguardo dello spettatore, letteralmente bom-
bardato da frammenti impazziti di “vita digitalizzata”, di esistenze catturare
dalla macchina e avviluppate da un’energia fatta di immagini più o meno defi-
nite in lotta con fantasmi di forme che emergono violentemente da una sorta di
“residuo mnestico” senza controllo, interno alle immagini stesse.

26
Il sito dell’artista è: www.kurtdhaeseleer.com, dove sono visionabili numerosi video.

174
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

Marco Brambilla

Marco Brambilla (1960)27 è un regista e videoartista canadese di origine ita-


liana. Dopo una breve carriera cinematografica e televisiva che comprende
la regia di Demolition Man nel 1993, si rivolge al settore della videoarte. La
sua opera è un ponte interessante fra l’estetica espositiva della videoinstalla-
zione a schermo singolo e l’estetica combinatoria della videoarte monocanale
digitale. I suoi lavori pretendono proiezioni gigantesche o ambienti in cui
lo spettatore sia completamente assorbito dalle immagini, adottano la logica
espositiva del “video quadro” ma con un’intensità compositiva molto diversa
che attiva nello sguardo del pubblico un livello emozionale che pretende l’at-
tenzione tipica del video monocanale. L’artista canadese attraversa i territori
della cultura audiovisiva pop che è il tema costante delle sue opere, molte
delle quali costituiscono un riflessione sui miti del cinema o del cinema in sé
come moda culturale.
Le sue ultime produzioni indagano le possibilità del collage digitale, an-
dando a creare dimensioni visive quasi architettoniche, costituite da singole
particelle formate da frammenti di film ritagliati e montati in loop. Il riferi-
mento al cinema è più che altro un’operazione di riciclaggio creativo, di “iper
found footage” in versione digitale, ben lontano da esperienze simili realizzate
da altri artisti. Civilization (2008), prodotto per essere inserito all’interno de-
gli ascensori dello Standard Hotel di New York, è una lunga carrellata virtua-
le verso l’alto nella quale sono rappresentati tre ambienti (Inferno, Purgatorio
e Paradiso) costituiti da miriadi di frammenti di scene di film ri-compositati
e posti su piani tridimensionali in modo da creare un intricato paesaggio ani-
mato frutto della combinazione di memorie collettive cinematografiche che
si rivela allo spettatore come spazio creativo.
Brambilla è un artista attento al concetto di percezione, e in Syncwatch
(2005) frammenti di scene cinematografiche – dove si vedono dei personaggi
intenti a guardare un film al cinema – vengono montati tramite dei rapidi
morphing a una velocità parossistica in modo da creare nello spettatore la
sensazione di assistere a una modalità di visione che si sta sempre più sgreto-
lando, una sorta di archeologia della percezione che sta cedendo il passo alla
velocità, allo spezzettamento, al frammento. Realizzato sempre con la logica

27
Il sito dell’artista è: www.marcobrambilla.com

175
Capitolo 3

del compositing sperimentale è RPM (2011), dove alcune immagini che ri-
chiamano l’epica della velocità della gare di Formula Uno sono ricombinate
in un tunnel visivo che ricorda, in un ennesimo omaggio che già abbiamo
incontrato molte volte nella storia della videoarte, il finale di 2001: Odissea
dello spazio di Stanley Kubrick.
In queste esperienze visive il cinema è veramente diventato un sample, un
campione, quasi un pretesto che non ha più il valore nostalgico della citazio-
ne, da utilizzare a favore di un’estetica digitale che macina voracemente tutto
per creare mondi caotici, complessi, veloci, che divorano il concetto di spazio
e di tempo con la loro ipertrofia.
Marco Brambilla lavora indifferentemente nel mercato dell’arte contem-
poranea e in altri settori audiovisivi, accettando committenze dal panorama
musicale (Power del 2010 per Kanye West, dove si riprendono le modalità del
compositing per creare un mondo mitologico) e dal mondo della moda, Ghost
(sempre del 2010 per il sito www.models.com, semplice serie di sovrapposi-
zioni effettuate sulle immagini sovraesposte e rallentate del primo piano di
una modella che urla) e Hugo Boss Kino (2012), un omaggio alla continuità
simulata di Rybczynski, per i profumi di Hugo Boss, senza dimenticare uno
spot per la Jaguar, Jaguar Machines (2013), e un cinematic trailer realizzato
interamente in computer grafica 3D per il videogioco Spec Ops (2009), tutte
committenze nelle quali riesce a sperimentare ulteriormente la tecnologia di-
gitale e a consolidare il suo stile.

La Computer Art negli anni Novanta

La Computer Art negli anni Novanta sviluppa due estetiche che sono stretta-
mente connesse e che cercano di svincolarsi dalla posizione secondo la quale
l’astrazione sia l’unica via da percorrere per allontanarsi dall’approccio della
simulazione fotorealistica. La prima tendenza sviluppa un’area di ricerca che
nega radicalmente la necessità del 3D per indagare, o riscoprire, le possibilità
del 2D e di quel genere di computer grafica che oggi si definisce motion gra-
phics; la seconda invece tenta di sviluppare l’idea dell’astrazione per lavorare
su un’estetica liminale fra astrazione e referenzialità. Anche in questi anni la
Computer Art è musicale: il binomio musica e immagini per questo settore è
oramai inscindibile.

176
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

Peter Callas

Peter Callas (1952)28 è un artista australiano multidisciplinare, realizzatore di


video, videoinstallazioni e installazioni mixed media. Nell’ambito della video-
arte realizzata completamente con mezzi digitali, o Computer Art, può essere
considerato il primo a negare radicalmente il valore del 3D a favore di un’estetica
che coniuga l’idea del collage con il dinamismo delle forme digitali.
Sulla soglia degli anni Novanta produce due video, Nights High Noon: an
Anti-Terrain (1988) e Neo Geo: An American Purchase (1989), entrambi soste-
nuti dall’Australian film Commission, dove l’idea di mappa delle immagini
e la tecnica del collage digitale si coniugano per elaborare sferzanti metafore
contro il concetto di globalizzazione e di mercificazione del mondo, inteso
come insieme di territori che sviluppano immaginari personali, difficilmente
“sintetizzabili”. Le fonti che Callas usa sono spesso immagini statiche, foto,
disegni, che vengono animati in modo parossistico, forzando la presenza di
un movimento che in origine non esiste. Icone e simboli sono scaraventati
in un vorticoso immaginario rigorosamente bidimensionale, lisergico e pop
che si muove con ritmo adrenalinico, mettendo a dura prova lo sguardo dello
spettatore che deve letteralmente inseguire le singole porzioni di immagini.
Le forme di Callas sono sempre pulsanti, o forse è meglio dire convulse, il-
luminate in maniera intermittente, compulsive. La musica è spesso ipnotica
e ossessiva.
L’immaginario della guerra e un senso generale di apocalisse imminente
sono i temi ricorrenti di un universo che apparentemente sembra innocuo nel
suo scorrere veloce, come una sorta di videogame anni Ottanta impazzito.
La sua opera più matura, Lost in Translation, del 1999, segna l’ingresso di
tecniche diverse (appare il 3D), di una differente calibrazione del ritmo delle
immagini, e un approfondimento dei temi sopracitati: tutti elementi che con-
corrono a rendere lo stile di Callas più inquietante, sottile e onirico.

Bériou

Bériou (1952)29, pseudonimo di Jean-François Matteudi, è autore di una serie


28
Il sito dell’artista è www.videoartchive.org.au/pcallas, dove sono visionabili brani di
alcuni suoi video.
29
La pagina Vimeo dell’artista è: www.vimeo.com/beriou

177
Capitolo 3

di video, come Ex memoriam (1992) e Tableau d’amour (1993), prodotti en-


trambi da Agave, Canal Plus e dal Centre International de la Cinématographie,
che sfruttano in modo intensivo l’idea del mondo come insieme di “campio-
ni” di immagini che vengono ricomposti secondo una logica apparentemente
tassonomica, ma nei fatti entropica. La mappa di immagini che viene esplo-
rata dalla camera virtuale può apparire anche ordinata, ma nel momento in
cui lo sguardo si avvicina per osservarne le singole componenti, il risultato è
la percezione di una sorta di caos incontrollabile. Il concetto di connessione
viene esplorato in tutte le sue articolazioni, dato che le singole immagini sono
sempre collegate fra di loro e provoca di volta in volta paradossali link di sen-
so e sorprendenti suggestioni che scavano sistematicamente nel concetto di
database come archivio non più impersonale, ma mnestico ed emozionale.
In Ex memoriam una serie di braccia, collegate come fossero un intricato si-
stema di tubi, porta l’osservatore in varie zone di questa bizzarra struttura in cui
spuntano delle mani che tengono fra le dita delle polaroid che si animano davanti
agli occhi dello spettatore. Tutte le fonti visive sono fotografie gestite digitalmente,
e il video è strutturato in un piano sequenza che sorvola le forme dall’alto, ferman-
dosi e posizionandosi di volta in volta per osservare che cosa succede nella polaroid;
alla fine del video la camera si alza per mostrare la mappa completa della struttura
prima esaminata nel dettaglio. Lo stile di Bériou sta in bilico fra il 2D e il 3D,
perché le sue costruzioni digitali assomigliano a bassorilievi animati. La complessa
architettura messa in atto dall’artista francese ricorda una rete neuronale costruita
con arti umani che mostrano ricordi, idee, emozioni e suggestioni sotto forma
di polaroid animate. Nell’albero della memoria confluiscono varie sorprese visi-
ve, rappresentate da semplici animazioni delle immagini contenute nelle polaroid
stesse.
I video di Bériou sono caratterizzati da una buona dose d’ironia: in Tableau
d’amour la missione di “fecondare la luna”, come viene esplicitato da una scritta
all’inizio, è rappresentata da una serie di immagini di corpi presi dalla sto-
ria dell’arte che, spuntando da vari settori di un’ipotetica mappa quadrettata,
danzano e si trasformano, copulando, per generare di volta in volta immagini
simboleggianti la vita. Ovviamente Bériou inventa, saccheggiando dalla storia
dell’arte, accoppiamenti singolari e bizzarri: questo video si aggiunge alla lunga
lista di opere che hanno espliciti riferimenti alla pittura.

178
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

Michel Bret

Michel Bret (1941)30, dopo aver compiuto studi di matematica e pratica di pit-
tura, viaggia fra il 1966 e il 1972 in Vietnam, Marocco e Venezuela nell’am-
bito di un progetto di cooperazione culturale. Tornato a Parigi incontra il
Groupe Art & Informatique de Vincennes à St Denis, un collettivo di teorici
dell’immagine digitale e della connessione fra arte e computer grafica, tra cui
Edmond Couchot, attivo presso l’Università di Paris VIII. Decide quindi di
iscriversi e dopo essersi laureato nel 1981 con Frank Popper, un importante
teorico delle connessioni fra arte e tecnologia, e dopo aver svolto il dottorato
diventa docente universitario e si inserisce nel gruppo sopracitato, insegnando
ma soprattutto producendo una serie di video in computer grafica grazie ai
laboratori di Paris VIII.
Come molti artisti interessati alla computer grafica, anche Michel Bret
tenta di entrare nel sistema della macchina per lavorare su potenzialità tec-
nologiche e linguistiche personali, evitando così l’uso dei software in com-
mercio. Inizialmente sviluppa un particolare modo di utilizzare le texture
definito automapping: la mappatura, ovvero il processo attraverso il quale un
modello tridimensionale viene “rivestito” con un’immagine bidimensionale,
qui viene usata sull’immagine intera che diventa una texture applicata su se
stessa più e più volte, creando degli effetti di recursività. Sviluppa inoltre un
suo personale software di computer grafica, chiamato Anyflo, e si interessa ai
sistemi di produzione generativa dell’immagine e ai processi di interattività.
Molte delle sue opere sembrano degli esperimenti in cui applica di volta in
volta le sue invenzioni informatiche su modelli che compaiono in tutte le sue
produzioni: una figura femminile realizzata con poligoni semplici che si esi-
bisce in una sorta di danza in loop, e una strana creatura con fattezze animali
su una bicicletta. Ma alcune delle sue produzioni si svincolano dalla funzione
puramente di test per diventare opere autonome e affascinanti dal punto di
vista visivo. Automappe del 1989 è un viaggio in un universo roccioso e li-
quido dove si aggirano creature animalesche incastrate a degli oggetti che si
riferiscono al movimento – biciclette, vele di navi, ali di aerei. La circolarità
e la recursività sono i temi costanti di questo video dove le figure descritte
30
Il sito dell’artista è: http://www-inrev.univ-paris8.fr/extras/Michel-Bret/cours/. La sua
pagina YouTube è: https://www.youtube.com/channel/UC_heYG7idAxByoRBfDx_-
KA, la sua pagina Daily Motion è: http://www.dailymotion.com/Michel_Bret

179
Capitolo 3

sembrano affogare nel flusso di immagini astratte, diventandone parte inte-


grante. La mappa di colori psichedelici e il rapido susseguirsi di invenzioni
visive conferiscono ai video di Michel Bret un’atmosfera suggestiva e ludica.
Sauté del 1989 riprende queste scelte stilistiche approfondendo lo studio dei
programmi generativi che determinano immagini liquide e gassose rivestite
di texture organiche che conferiscono alle forme un’ambigua natura.
Elorap del 1992 è il video più visionario e riuscito di Michel Bret: da un
magma di forme che ricorda un fondale marino emerge del plancton che
si trasforma in danzatrici rivestite di filamenti in continuo cambiamento,
accompagnate da una musica ritmica. Breve e coinvolgente, è anche l’ope-
ra in cui meglio si realizza il connubio fra astrazione e riferimenti a figure
riconoscibili che diventa la linea estetica comune di molti artisti dagli anni
Novanta in poi. Betezeparticules del 1994 e Mystère et boule de gomme del 1997
approfondiscono le scelte operate nei video precedenti, aggiungendo di volta
in volta elementi visivi che vanno a incastrarsi nell’intricato universo recursi-
vo dell’artista francese.

Correnti Magnetiche

Correnti Magnetiche nasce nel 1985 a Milano dall’incontro del pittore e archi-
tetto Mario Canali con i musicisti elettronici Riccardo Sinigaglia31 e Adriano
Abbado, quest’ultimo anche filmmaker astratto. Correnti Magnetiche si pre-
senta come luogo della sperimentazione della computer grafica, e come uno
spazio aperto a collaborazioni con vari talenti creativi. Negli anni in cui que-
sto gruppo è attivo ne fanno parte, oltre agli artisti già citati, Flavia Alman,
Angelica Nascimento, Sabine Reiff, Francesca Barilli e Stefano Roveda per la
parte visiva, e Tommaso Leddi per la parte musicale.
L’idea dell’interazione fra musica e immagini è oramai ben radicata nella
produzione in computer grafica internazionale, e si riflette nelle opere del
gruppo milanese, che da esiti decisamente astratti si inoltra nella ricerca tipica
degli anni Novanta della combinazione fra astratto, referenziale e memoria
pittorica. In Gates (1987) Mario Canali sfoggia la sua abilità nel creare loop
visivi ipnotici e suadenti attraverso l’uso di immagini geometriche semplici.

31
La pagina Youtube del musicista ospita una playlist dei video di Correnti Magnetiche:
https://www.youtube.com/playlist?list=PLF8F074A9BEE7120D.

180
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

In tutta la produzione di Correnti Magnetiche prevale la scelta dell’estrema


pulizia dell’immagine e un’attenzione particolare alle combinazioni cromati-
che delle forme usate. In particolare nei video di Mario Canali il “feticismo
per l’oggetto”, tipico di molta computer grafica, si trasforma nella visualizza-
zione di forme che ricordano giocattoli virtuali rimandando a un’atmosfera
ludica.
Flavia Alman è l’artista più legata al rapporto con la pittura e all’integra-
zione fra grafica 3D e 2D: Citazioni (1988) e Puzzle Museum (1989) anticipano
di qualche anno l’estetica diffusa che considera il video digitale e la grafica in
stretto rapporto con la storia dell’arte, in particolare con la pittura di Hiero-
nymus Bosch. Citazioni è un breve collage in movimento in cui alcuni dipinti
celebri del pittore olandese vengono messi in collegamento con forme astratte
tridimensionali. Puzzle Museum è invece un video scanzonato e ironico dedica-
to alla strega del folklore russo, la Baba Yaga, rappresentata come una capanna
con le zampe di gallina inseguita da una farfalla con degli occhi sulle ali, che si
aggira impertinente in un museo d’arte contemporanea scombinando i quadri
che incontra al suo passaggio.
I video più maturi e interessanti del gruppo milanese sono prodotti negli
anni Novanta. Enigmatic Ages (1991), opera premiata in molti festival, è fir-
mata da Flavia Alman nella prima parte (Enigmatic) e da Mario Canali nella
seconda (Ages). Flavia Alman costruisce il viaggio nelle forme dell’arte con-
temporanea di un archeobatterio dotato di una doppia natura: la contrappo-
sizione fra astratto e referenziale, materia e antimateria si risolve nell’imma-
gine di un volto che in realtà assomiglia molto a una maschera che si dibatte
freneticamente in due dimensioni contrapposte. Mario Canali affronta per la
sua parte la questione della rappresentazione del corpo: una forma umanoide
composta di vari frammenti di materia si prepara a correre per superare un
muro; saltato l’ostacolo, l’umanoide si volta, ma un pezzo di parete si stacca
e lo schiaccia. L’ambiente è appena abbozzato: si intravedono solo pannelli,
come fossero enormi quadri, a suggerire lo spazio in cui si muove la figura
umana, realizzata con un modello semitrasparente con delle figure astratte
mappate sul corpo. Ritorna il nero dello sfondo e l’articolazione fra 2D e 3D
viene utilizzata in maniera più consapevole. Le due parti non sono slegate:
il nucleo tematico fondante è il passaggio, anche traumatico, che consiste
nell’accettazione di un cambio di materia. Passaggio di tecnologie, passaggio
di estetica. Nel video è particolarmente efficace il rapporto con la musica, che

181
Capitolo 3

nelle opere del gruppo milanese è sempre un’abile combinazione di sperimen-


tazione sonora elettronica e gradevolezza d’ascolto.
Intorno alla metà degli anni Novanta il gruppo si scioglie e Mario Canali
si dedica alla realizzazione di videoinstallazioni interattive.

Alexander Rutterford

Alexander Rutterford (1970)32 è un artista che intensivamente lavora sulle


diverse facce che l’astrazione può assumere e sulla riconoscibilità di forme
interne al linguaggio della tecnologia e che oramai tutti conoscono. Lavora
in campo videomusicale e pubblicitario, ma è nel primo settore che l’artista
inglese riesce a preservare la sua autonomia creativa.
Monocodes (2000) è un video autoprodotto in grafica bidimensionale
dove tutta l’animazione concorre a evocare la forma del codice a barre. Nel
video musicale Gantz Graf, del 2002 per il gruppo elettronico Autechre, il
protagonista è un assemblaggio meccanico che muta forma in continuazio-
ne, assumendo le sembianze di una parabola satellitare, di un insieme di
pistoni in movimento, di un agglomerato di neon fluorescenti, o di armi
futuribili. Anche la sua superficie appare in perenne metamorfosi: metal-
lica, trasparente, liquida; l’oggetto protagonista, più che una costruzione
artificiale, sembra una forma animale che si muove in maniera selvaggia
andando perfettamente a sincrono con ogni singolo suono del brano elet-
tronico che è fortemente sincopato e rumorisitico. Tutta l’opera è presentata
come una schermata di computer con scritte laterali che analizzano dati
incomprensibili, come se qualcuno dall’esterno stesse controllando questa
“creatura” meccanica per studiarla e analizzarla. Visivamente affascinante,
il video restituisce anche un’atmosfera di inquietudine di fronte a una si-
tuazione visiva che appare quasi un esperimento o un test, non si capisce se
militare o di altra natura.
In altre opere, sempre committenze musicali, come Verbal (2002) per
Amon Tobin e Go to Sleep (2003) per il gruppo Radiohead, Rutterford lavora
sul concetto di astrazione in modo più sottile, andando a sondare un tema
che rappresenta il cuore di un certo tipo di sperimentazione digitale 3D. In

32
Alcuni video dell’artista sono visionabili alla pagina Vimeo di Joyrider Films: www.
vimeo.com/joyrider

182
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

questo caso i protagonisti sono corpi e ambienti chiaramente riconoscibili


come tali, ma fatti di oggetti semplici che esplicitano la loro natura “poligo-
nale”. Dato che la computer grafica interpreta il mondo come insieme di og-
getti, questi video squadernano una visione del mondo squisitamente digitale,
con un atteggiamento simile a quello di Nam June Paik, per il quale nel video
«Non c’è affatto verità». Sotto questo aspetto è interessante la situazione visi-
va, chiaramente metaforica, realizzata in Go to Sleep: una folla, impegnata a
passeggiare nervosamente per strada e concentrata sul proprio mondo, non si
accorge che attorno gli edifici, rappresentati con una struttura architettonica
elegante e un po’ antica, esplodono crollando al suolo. Subito dopo i palazzi
risorgono dalle macerie, come se implodessero, per ricomporsi, ma l’architet-
tura è completamente cambiata: sono grattacieli freddi, squadrati, asettici, le
persone continuano a camminare indifferenti, ognuno impegnato a parlare al
cellulare o a evitare i passanti.

Lynn Fox

Lynn Fox è un collettivo di grafici composto da Patrick Chen, Bastian Glasser


e Christian McKenzie che si è sciolto nel primo decennio del Duemila. Come
Lynn Fox il gruppo elabora uno stile unico che abilmente miscela astrazione e
referenzialità, in cui forme bidimensionali e tridimensionali possono coesiste-
re nell’articolare un immaginario a metà fra il disegno surrealista e una biz-
zarra realtà subacquea, dove gli oggetti sono leggeri e le forme pseudo-umane
possono muoversi danzando. Just a Phase, The Warmth e Sick Sad Little World
33
sono tre opere realizzate nel 2003 come accompagnamento visivo di alcuni
live del gruppo Incubus, che in modo esemplare riarticolano il concetto di
“pittura in movimento”.
Il loro stile è un’affascinante miscela di computer grafica 3D e 2D, con
forti richiami a stili architettonici onirici (Sant’Elia, Gaudí), al Liberty, all’Art
Déco, e alla cosiddetta nouvelle vague del fumetto francese, rappresentata da
autori come Philippe Druillet, Caza e Jean Giraud (Moebius). Anche il mon-
do visivo dei Lynn Fox è una commistione fra astratto e referenziale, ma con
degli scarti stilistici notevoli rispetto all’estetica di Rutterford. L’ambivalenza

33
I visual per il gruppo Incubus sono disponibili nel dvd Incubus Alive at Red Rocks Ed.
Epic/Immortal

183
Capitolo 3

fra bidimensionalità e tridimensionalità è più forte, spesso gli elementi grafici


poggiano su superfici piatte, come se fossero dei fogli di carta, le texture usate
richiamano materiali come la gomma o dei tessuti e lo stile è decisamente
riferito a tendenze grafiche o pittoriche del passato. Anche nella loro video-
grafia compaiono personaggi fissi: creature a metà fra il corpo femminile e
quello degli insetti, e animali sottomarini inventati, simili a plancton o pesci
semitrasparenti. In quasi tutti i loro video, gli elementi e i personaggi si com-
portano come fossero sott’acqua, nonostante questo elemento non sia espli-
citato a livello visivo. Il loro universo è una sorta di bolla spazio-temporale,
dove tutto fluttua in una specie di liquido amniotico.
Sick Sad Little World è in assoluto il video più riuscito della serie, soprat-
tutto dal punto di vista stilistico. L’inizio già presenta una scelta formale par-
ticolare: nonostante il pezzo musicale sia molto ritmato, le immagini mostra-
no la lenta crescita di forme astratte pseudo-organiche e semitrasparenti che
conferisono un effetto ipnotico e immersivo. Compaiono stormi di farfalle e
strutture circolari concentriche che ospitano la danza delle figure femminili
descritte prima che devono affrontare l’invasione di goffi marchingegni simili
a carri armati. Una creatura femminile guida un nugolo di farfalle a distur-
bare i carri armati che, per tutta risposta, fanno comparire, lontani nel cielo,
una serie di sagome di aerei neri che si avvicinano rapidamente. Le protago-
niste del video salgono sui carri armati e trattengono in mezzo alle loro cosce
i cannoni, dai quali esplode un liquido nero che si diffonde nell’ambiente e
crea una sorta di danza astratta che coinvolge elementi liquidi, architettonici,
le figure femminili, e gli stormi di farfalle che neutralizzano gli oggetti mili-
tari. Rapidi movimenti di camera e un montaggio serrato rendono quest’ulti-
ma parte concitata ed emozionante. Dal punto di vista del montaggio i Lynn
Fox alternano l’idea della continuità a un accurato equilibrio di stacchi che
sezionano ritmicamente l’azione.
Il video gioca su un abile ventaglio di interpretazioni: da un lato viene
visualizzata la trasformazione della volontà di distruzione in atto creativo, ma
anche, forse, la violenza apparente che la natura impone a certe dinamiche
procreative, un tema svolto più chiaramente in un video musicale realizzato
per Björk, Nature Is Ancient, del 2002, dove la nascita di un feto dalle fattezze
della cantante islandese avviene grazie all’invasione di una creatura a metà fra
l’insetto e il batterio, che ferisce violentemente una placenta semitrasparente
sospesa in un fondo marino. Ma ci sono anche riferimenti a un ordine mec-

184
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

canico che vuole distruggere la natura organica, e in generale al fatto che al


femminile viene demandato il compito di preservare la vita. I Lynn Fox sono
anche gli autori di interessanti visual per il tour del 2003 di Björk 34, dove le
scelte sopra descritte vengono realizzate con una computer grafica decisamen-
te più realistica, ma dove compaiono anche interessanti manipolazioni della
figura del corpo.
Con i Lynn Fox la computer grafica che combina astrazione e referenzia-
lità conquista uno stile. Lo fa riferendosi a modelli formali del passato, ag-
giungendo l’ennesimo tassello al rapporto fra videoarte e pittura, anche se in
questo caso è più evidente che nell’infinito possibile del digitale le categorie di
passato, presente e futuro possono miscelarsi in una dimensione atemporale
in cui si fondono tradizioni formali di epoche diverse.

Videomusica e videoarte negli anni Novanta

Anche il settore videomusicale, dopo la grande stagione sperimentale de-


gli anni Ottanta, subisce una sorta di cambio di marcia. MTV è diventa-
ta un’emittente importante con redazioni sparse in tutto il mondo, il punto
di riferimento della discografia mondiale; il suo palinsesto originariamente
monotematico, completamente dedicato ai video musicali, cede il passo a
una programmazione generalista, dove compaiono programmi di intratte-
nimento, cartoon, telegiornali eccetera. MTV ora pretende un maggior con-
trollo sulla qualità dei prodotti trasmessi, imponendo l’uso della pellicola e
consegnando la produzione dei video musicali ad agenzie pubblicitarie o a
case di produzione vicine al mondo cinematografico in grado di gestire la
realizzazione di opere inevitabilmente più costose. Rybczynski è uno dei po-
chi registi a combattere questa tendenza, difendendo l’uso dell’elettronica e
sperimentando l’alta definizione analogica, ma senza successo. Bisogna aspet-
tare gli anni Duemila quando l’HD si impone come formato alternativo alla
pellicola anche per la programmazione di MTV, e non solo per le produzioni
cinematografiche.
Nel frattempo si diffonde l’uso dell’animazione tradizionale e della computer
grafica, mentre dal punto di vista linguistico prevalgono due linee: quella nar-

34
I visual per il tour di Björk sono visionabili al seguente link: http://www.bjork.fr/
Lynn-Fox,451

185
Capitolo 3

rativa, l’idea cioè che il video musicale debba essere una sorta di cortometraggio
con un plot; e quella musical, dove il video musicale assorbe il linguaggio della
danza e della performance live o registrata del musicista o del gruppo. Nono-
stante l’esistenza di tutte le combinazioni del caso, a volte anche interessanti,
la spinta innovativa degli anni Ottanta sembra in qualche modo fermarsi negli
anni Novanta, a parte alcune lodevoli eccezioni. Anche in campo videomusicale
il passaggio dall’era analogica a quella digitale non è indolore.
Bisogna aspettare la fine degli anni Novanta e le soglie del Duemila per-
ché nasca una nuova generazione di registi che infonde una ventata di spe-
rimentazione linguistica, pur restando nei parametri stilistici e di formato
imposti da MTV: Michel Gondry, Spike Jonze, David Fincher, Jonathan
Glazer, Mark Romanek, Chris Cunningham e Floria Sigismondi. Molti di
questi registi approdano, con più o meno successo, al cinema – segno che i
settori audiovisivi si stanno contagiando sempre di più – e i due registi, fra i
tanti che si potrebbero citare, più contaminati dall’estetica sperimentale della
videoarte digitale sono Michel Gondry e Chris Cunningham.

Michel Gondry

Michel Gondry (1963)35, appassionato di cinema d’animazione ed ex batte-


rista del gruppo francese Oui Oui, realizza alcuni video musicali per il suo
gruppo che vengono notati da Björk. Fra i due comincia una lunga collabora-
zione che rende Gondry, per un certo periodo di tempo, il regista “ufficiale”
della musicista islandese.
La sua estetica può essere descritta come una versione digitale di quella
di Zbigniew Rybczynski. Nei suoi video le tecnologie digitali (low tech e
high tech) giocano un ruolo fondamentale nel creare spazi paradossali nei
quali il movimento del corpo e la sua stessa sostanza cambiano di forma;
ricompare la moltiplicazione della figura del performer, come in Come into
My World (2002) per Kylie Minogue, insieme alla duplicazione parossi-
stica degli elementi del paesaggio architettonico visti da una finestra di
un treno che vanno a tempo di musica, come in Star Guitar del 2002 per
i Chemical Brothers. In Gondry convivono due anime tecnologiche: da

35
Il sito del regista è: www.michelgondry.com. Alcuni suoi video sono raccolti nel dvd
The Work of Director Michel Gondry, Ed. PALM.

186
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

un lato usa il digitale, il chroma key, il compositing e anche la computer


grafica 3D, come in Yoga (1997) per Björk, per creare spazi virtuali in cui
l’elemento della circolarità e della continuità, reale o simulata, giocano un
ruolo importante; dall’altro usa effetti ottici e set esplicitamente posticci,
con scenografie di cartapesta, esplicitando un’estetica di tipo teatralizzante
e utilizza tecniche d’animazione classica come la stop motion. Il digitale
assorbe tutto: l’analogico e la pellicola, le rispettive tecniche e visioni del
mondo. La convivenza di tutti questi approcci tecnologici crea un’estetica
stralunata, da teatro dell’assurdo, da gioco infantile.
Gondry approfitta del ritorno alle dinamiche del musical per usare il cor-
po del danzatore come elemento di attraversamento, anche questo un tema
visivo caro a Rybczynski. Esemplare da questo punto di vista un video nel
quale non mancano citazioni nostalgiche dell’era dell’analogico, come il feed-
back e i disturbi video, Let Forever Be (1997) per i Chemical Brothers, dove
una ragazza che vive costantemente divisa fra il mondo della realtà e quello
dei sogni passa, con degli effetti di transizione che moltiplicano parti delle
immagini, da una dimensione all’altra, fino alla confusione totale fra i due
mondi. La realtà è rappresentata da immagini video poco definite, mentre il
regno del sogno da riprese effettuate in pellicola dove la protagonista si mol-
tiplica in sette danzatrici identiche, che rielaborano creativamente oggetti e
gesti della sua vita quotidiana.
Un’altra dimensione variamente sperimentata è il tempo nelle sue dinami-
che di continuità e sincronia: in Sugar Water (1996) per Cibo Matto lo scher-
mo diviso in due mostra due piani sequenza in cui le due performer del grup-
po sono seguite dalla telecamera mentre compiono un percorso che le porta
fuori di casa per incontrarsi fatalmente in un incidente stradale: in un riqua-
dro l’azione va in forward, mentre nell’altro va in reverse, ma le coincidenze
di eventi fra le due dimensioni, paradossalmente, rimangono inalterate.
L’uso del video viene anche esplicitato come elemento scenografico “a vi-
sta”, come le videoproiezioni che riformulano narrativamente lo spazio usate
in Dead Leaves and the Dirty Ground (2002) per i White Stripes. Il cantante
del gruppo torna a casa dopo un viaggio per scoprire che il suo appartamento
è stato distrutto dai partecipanti a una festa organizzata dalla sua ragazza: le
videoproiezioni effettuate sui muri e su ogni angolo dell’appartamento, veri e
propri mapping, svelano al protagonista che cosa è successo in ogni stanza.
Tutta la videografia di Michel Gondry è intrisa di riferimenti, volontari

187
Capitolo 3

o no, all’esperienza videomusicale e videoartistica degli anni Ottanta, rifor-


mulata attraverso l’intervento del digitale. E non è un caso che il secondo
film mainstream dell’artista francese, Eternal Sunshine of the Spotless Mind
(Se mi lasci ti cancello) del 2004, nonostante sia costruito su una struttura
narrativa classica, non abbandoni questo tipo di estetica che serve a rappre-
sentare l’interno della mente del protagonista viene ribadita e approfondita,
tra elaborazioni in stop motion e trattamenti digitali, in maniera più libera e
consapevole nel recentissimo L’ écume de jours (Mood Indigo – La schiuma dei
giorni) del 2013.

Chris Cunningham

Chris Cunningham (1970)36 è un artista inglese che comincia la sua carriera


come disegnatore, fotografo, scultore e costruttore dei cosiddetti “prosthetics”,
letteralmente protesi, sculture che possono servire come costumi particolari, o
sostituire parti di corpi o diventare dei manichini interi, o modelli in scala di
oggetti scenografici utilizzati come effetti speciali per il cinema. Cunningham
lavora alla realizzazione della corazza del personaggio del protagonista del film
Judge Dredd (Dredd – La legge sono io) di David Cannon del 1995, degli ef-
fetti speciali di Nightbreed (Cabal) di Clive Barker del 1990 e di Alien 3 (Id.,
1992) di David Fincher. La sua cultura visiva è quindi intrisa dell’immaginario
del fumetto, della fantascienza e dell’horror. Viene anche chiamato da Stanely
Kubrick per realizzare alcuni modelli per la realizzazione di A.I.-Artificial
Intelligence (A.I- Intelligenza artificiale), ma quando nel 2001 la produzione
passa a Steven Spielberg, Cunningham ha già intrapreso la strada della realiz-
zazione di video musicali, spot pubblicitari, videoinstallazioni e video di natura
più autoriale.
L’artista inglese combina un’estetica cinematografica dichiaratamente neo
horror con l’ossessiva presenza del disturbo video, del drop, dell’inceppamento
dell’immagine analogica. Anche in questo caso siamo in un regime dichia-
ratamente vintage ma con un’atmosfera molto diversa da quella nostalgica e
infantile di Pipilotti Rist: il malfunzionamento della macchina, che giustifica
in alcuni casi l’utilizzo di un ipermontaggio adrenalinico, tipico dell’“estetica

36
Il sito del regista è: www.chriscunningham.com. Alcuni suoi video sono raccolti nel
dvd The Work of Director Chris Cunningham, Ed. PALM.

188
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

della frenesia” del video, fa riferimento a una tecnologia “sporca”, che non fun-
ziona correttamente: il video analogico, appunto. Ma i riferimenti pop servono
al regista inglese per incanalare altre estetiche: il cyberpunk, la performatività
corporale estrema di una certa neo Body Art e la cultura post-human che pon-
gono l’accento sulle metamorfosi del corpo come metafore di un cambio radi-
cale e violento di “formato”. L’icona del corpo martoriato o mostruosamente
“de-evoluto” delle sue opere denuncia la primordiale e violenta presenza di un
elemento fatto di carne e sangue in un’epoca che si dichiara iper-tecnologica:
è la primeva forza della natura che urla (come in Come to Daddy del 1997 per
Aphex Twin) in un mondo fatto di televisori, una forza che mostrando le sua
fragilità può anche servire come denuncia del rifiuto del diverso, come in Afrika
Shox (1998) per Letfield e Afrika Bambaataa, dove un uomo di colore perde
letteralmente pezzi del suo corpo nelle strade di una New York indifferente
Ma può essere un corpo liquido, immerso in un fluido che non si vede,
come quello del bambino galleggiante in Only You (1998) per i Portishead o ro-
botico, ma intriso di desiderio, come in All Is Full of Love (1999) dove due cloni
digitali di Björk collegati a delle macchine che le fanno muovere si baciano in
un’atmosfera glaciale. Anche la tecnologia rappresentata da Cunningham muta
sostanza perché è piena di liquidi: suda, produce latte, emette sostanze vitali.
L’acqua, come per tanti videoartisti già citati, è un elemento costantemente
rappresentato nei suoi video musicali, così come un altro tema ricorrente è l’in-
fanzia: essere bambini significa lottare con il mondo degli adulti, come viene
rappresentato dalla super-eroina manga che si esibisce in perfette mosse di arti
marziali in Come on My Selector (1998) per Squarepusher.
Lo stile dell’artista inglese fa breccia nel mondo dei video musicali come
radicalmente disturbante: montaggi adrenalici, immagini difettose, fotografia
livida e monocromatica servono a visualizzare presenze mostruose, situazioni
inquietanti e un immaginario che provocano spesso operazioni di censura da
parte dei programmatori di MTV, e che rendono inevitabilmente ancora più
famoso il regista inglese, circondato da un’aura di artista maledetto.
Cunningham, all’apice del suo successo come regista di video musicali e di
spot pubblicitari, cerca altri ambiti che possano lasciarlo libero di esprimersi al
meglio, e incontra il proprietario della galleria di Londra Anthony D’Offay che
gli commissiona nel 2000 due opere: Flex e Monkey Drummer, esibite in una
collettiva presso la Royal Academy of Arts e presentate, insieme a All Is Full of
Love sotto forma di videoinstallazione a tre schermi, alla Biennale di Venezia

189
Capitolo 3

nel 2001. È la prima volta che un regista di video musicali entra nel “santuario”
dell’arte contemporanea presentando, tra le altre cose, un video musicale.
Flex rappresenta due corpi nudi, uno maschile e uno femminile, interpre-
tati da due danzatori, immersi nell’acqua “invisibile” cara a Cunningham,
che si esibiscono in una serie di performance che nello svolgimento del video
si trasformano da movimenti di danza contemporanea in atti sessuali espliciti
e momenti di lotta feroce. La musica di Aphex Twin contribuisce a rendere
claustrofobico e inquietante il video, che gioca sulle dinamiche stilistiche già
citate prima che qui si mostrano in tutta la loro pienezza e consapevolezza.
Monkey Drummer è invece un’inquadratura fissa su una creatura biomeccani-
ca: un robot con la testa di scimmia e arti umani collegati da elementi mecca-
nici si esibisce in una performance musicale dal ritmo sostenuto e sincopato,
sempre su musica di Aphex Twin.
La permanenza di Cunningham nel mondo delle gallerie d’arte dura poco,
e nel 2005 realizza un video monocanale distribuito in dvd dalla Warp Re-
cords, la casa discografica di musica elettronica in cui è presente Aphex Twin,
dal titolo Rubber Johnny, prodotto da Warpfilms, Black Dog e RSA Films. Qui
Cunningham scandaglia ancora più a fondo il suo immaginario oscuro e infan-
tilmente perverso, prendendo, forse non a caso, in esame non più corpi altrui
ma il proprio. Questo video si attesta come il più tecnologicamente interessante
nella produzione dell’artista inglese, e quello in cui l’autonomia, stilistica e di
mezzi, raggiunge il massimo livello. Cunningham si trasforma in un disabile
macrocefalo costretto su una sedia a rotelle: apparentemente abbandonato in
una specie di cantina, ha come sola compagnia un cane. Ma in realtà, non
sappiamo bene se nei suoi sogni o nella realtà, diventa una specie di eroe da
videogioco che evita e contrattacca rapidamente una serie di raggi luminosi che
provengono dal fuori campo. Nel frattempo assume cocaina e diventa sempre
più veloce, tanto da sbattere la testa su delle superfici trasparenti, perdendo
letteralmente brandelli di carne. Ogni tanto un personaggio adulto, che si com-
porta come un padre crudele, apre la porta dello scantinato per rimproverare
Rubber Johnny, ma appena questi rimane da solo il gioco ricomincia.
Tutto girato con telecamera e raggi infrarossi e musicato da un brano di
Aphex Twin, il video affronta ancora una volta il tema della deformazione del
corpo. Come spesso avviene nei video di Cunningham, compaiono il tema della
prigionia e della lotta dei diversi, dei “mutati”, contro il mondo delle persone
“normali”. A prima vista disturbante e violento, in realtà questo strano supere-

190
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

roe-disabile ci mostra come il mondo della fantasia, che può essere anche crude-
le, è pur sempre un gioco che può salvarci dall’orrore del mondo degli adulti.
La feroce carica d’irrisione che il regista inglese opera sul proprio corpo
sfiora il tema del suicidio: più che un avatar visionario, Rubber Johnny sembra
un’allucinata visione post-mortem dell’artista, come se il suo, a volte macabro,
interesse per la mutazione avesse avviluppato il suo stesso corpo, senza via di
ritorno, senza alcuna possibilità di fuga, rappresentando anche, inevitabil-
mente, il punto di non ritorno per l’estetica stessa di Cunningham: l’ultima
mutazione possibile. E in effetti Rubber Johnny, nonostante tutto, rimane
chiuso nello scantinato, forse per sempre. Questo video può essere considera-
to uno dei più lucidi esempi di videoarte monocanale digitale.
Cunningham prosegue le sue sperimentazioni, dopo aver tentato invano
di sviluppare un progetto cinematografico tratto dal celebre romanzo di Wil-
liam Gibson Neuromancer, in un altro ambito che non può essere approfon-
dito in questa sede per ragioni di spazio, ovvero la performance video “live”,
spesso in compagnia di Aphex Twin.

La videoarte al cinema: Enter the Void

Fra le tante contaminazioni estetiche che la videoarte innesta nel mondo au-
diovisivo, il cinema occupa un posto particolare. Se negli anni Novanta molta
produzione videoartistica, che si muove nel circuito dell’arte contemporanea
e che sceglie la videoinstallazione come mezzo d’espressione, sempre di più
a schermo singolo, assimila il linguaggio cinematografico classico, alle soglie
degli anni Duemila accade – come in tutti i processi di osmosi – anche il con-
trario: nel momento in cui alcune produzioni cinematografiche adottano il
formato digitale (HD ma non solo) come sostituto della pellicola, molti regi-
sti cinematografici seguono estetiche tipiche della videoarte. Peter Greenaway
è già stato citato come regista esemplare, una sorta di ponte di collegamento
fra videoarte e cinema, ma ci sono anche altre esperienze significative.
Mike Figgis realizza nel 2000 Timecode, quattro piani sequenza che ven-
gono incasellati in altrettanti riquadri in modo tale che possano essere per-
cepiti come eventi simultanei: di fatto lo sono, perché l’opera è registrata in
diretta, andando a recuperare così un approccio tipico delle origini della vi-
deoarte, ovvero la sperimentazione del concetto di tempo reale, associato alla
vocazione combinatoria (l’utilizzo delle finestre) del montaggio.

191
Capitolo 3

La cosiddetta “video pittura” penetra in molte produzioni pensate per la


sala e il compositing creativo, antinaturalistico, permette, come è stato già
evidenziato, a Dave McKean, fumettista e grafico, di realizzare Mirror Mask
(2005), l’estetica del trio francese (Ramboz, Boustani, Escalle) viene richia-
mata in produzioni come L’Anglaise et le Duc (La nobildonna e il duca) di Éric
Rohmer, Vidocq di Pitof e Moulin Rouge di Baz Luhrman, tutti prodotti nel
2001, fino al più recente The Mill and the Cross (I colori della passione) di Lech
Majewski del 2011, opera che in questo elenco veste i panni di un autenti-
co plagio creativo dell’estetica del video Brugge di Boustani. Partendo dallo
stesso approccio Robert Rodriguez, un regista non certo noto per le sue ansie
sperimentali, riesce a produrre un capolavoro come Sin City (2005), una sorta
di Steps degli anni Duemila, un saggio sull’uso antirealistico del chroma key.
Il passaggio dal formato pellicola a quello digitale apre una vera e propria diga
dalla quale fuoriescono varie tensioni sperimentali, la maggior parte delle
quali riconducibile alla tradizione videoartistica.
Il digitale permette anche di far avverare sogni che la tecnica cinemato-
grafica non può gestire, come la possibilità di girare un film interamente in
soggettiva e in piano sequenza: si tratta di Русский ковчег (Arca russa, 2002) di
Aleksandr Sokurov. E anche qui, in qualche modo, entra in gioco il concetto di
diretta: tutto avviene in un regime di continuità spazio-temporale che fa sem-
brare il “film” una sorta di ripresa in tempo reale di uno spettacolo teatrale in
cui il pubblico è l’astante privilegiato, che viene a sua volta osservato da alcuni
personaggi che interloquiscono con il protagonista guardando direttamente in
macchina, usando quindi uno stilema tipicamente televisivo.
Cineasti nati con un forte impianto estetico sperimentale salutano l’av-
vento delle tecnologie digitali come una sorta di liberazione: David Lynch
o Lars Von Triers sondano un modo nuovo del loro “fare cinema”. Non è
casuale che David Lynch produca in digitale una sorta di anti-sitcom, Rabbits
(2002), riscoprendo il piano sequenza, che anche in questo caso ha la fun-
zione di una ripresa integrale, con camera fissa, di un evento performativo.
Questi registi attenti al passaggio dalla pellicola al digitale, usando quest’ul-
timo come formato privilegiato, adottano approcci estetici simili ai videoar-
tisti delle origini: riconsiderano alcune dinamiche tipicamente televisive per
ribaltarle e usarle per sperimentare nuove vie narrative (in questo caso), che,
di fatto, non portano alla costruzione di nessuna storia vera e propria, esat-
tamente come succede in INLAND EMPIRE (Id., 2006, di David Lynch),

192
La videoarte dagli anni Novanta a oggi

dove il digitale si presenta sempre di più come una sorta di crocevia fra una
dimensione finzionale e un’altra puramente mentale e astratta dello statuto
dell’immagine in movimento.
Ma ci sono anche nuove generazioni che sperimentano le ibridazioni fra
cinema sperimentale e videoarte, come il regista danese Anders Rønnow
Klarlund che realizza nel 2012 The Secret Society of Fine Arts, un’affascinante
opera che usa solo immagini fotografiche digitalmente rielaborate. Il riferi-
mento diretto è il film di Chris Marker La Jetée del 1967, un cortometraggio
di fantascienza costruito con immagini fisse. Il regista danese non si limita a
ragionare sul “falso movimento” derivato dall’uso di fotografie per realizzare
un film, ma opera una serie di interventi sull’immagine, ora nascosti ora
chiaramente visibili, che si rifanno alla sperimentazione digitale degli anni
Novanta. Il film viene presentato anche in situazioni più simili a una videoin-
stallazione, ossia su più schermi.
L’esempio più straordinario che dimostra come il linguaggio della video-
arte stia penetrando sempre di più all’interno di produzioni in digitale rivolte
al circuito cinematografico è senz’altro Enter the Void di Gaspar Noè, del
2009.
Gaspar Noè (1963)37 è sceneggiatore, montatore, produttore e regista di
origine argentina attivo in Francia. Realizza programi televisivi, video mu-
sicali e al momento tre lungometraggi: Seul contre tous (1998), Irréversible
(2000), e Enter the Void (2009). I suoi temi sono quasi sempre la solitudine,
il nichilismo, la rappresentazione di situazioni o personaggi al limite. Il suo
stile è caratterizzato da un uso particolarmente complesso dei movimenti di
macchina, che ricorda la libertà di ripresa tipica di una certa computer grafi-
ca, soluzioni di montaggio innovative, come in Irréversible dove la narrazione
è data da lunghe sequenze senza stacchi, montate in ordine cronologico in-
verso, e da riferimenti alla cultura visiva horror e pornografica. Enter the Void
è il primo film che il regista francese realizza in HD, compiendo una vera
fusione “alchemica” fra le istanze della videoarte elettronica, digitale e del
cinema sperimentale.
In questa grande e affascinante metafora del passaggio da uno stadio all’al-
tro, che coinvolge evidentemente un discorso sullo statuto dell’immagine di-
gitale, gli attori si trasformano in pure immagini, performer che diventano

37
Il sito, non ufficiale, ma denso di materiali è: http://www.letempsdetruittout.net/

193
parte integrante di un’architettura visiva apparentemente realistica che man
mano si sgretola sempre di più, cambia sostanza, incontra la dimensione del
digitale fatta di pura luce. Il tema della rinascita può anche essere letto come
l’inizio di un nuovo modello di audiovisivo, dove sperimentazione e narra-
zione possono incontrarsi grazie alle capacità manipolatorie dell’immagine
digitale, qui trattata nella totalità delle sue potenzialità espressive. Immagini
dal vero, alterazioni digitali, compositing e animazione sia 2D sia 3D, condi-
visione fra immagini dal vero e forme puramente astratte, sono tutti elementi
che vengono miscelati in modo da creare un universo visivo allucinatorio, in
bilico costante fra l’oggettività e la soggettività di uno sguardo che arriva “da
un altro mondo”.
Enter the Void rappresenta a tutti gli effetti un mirabile esempio di video-
arte monocanale digitale portato sul grande schermo, un’ibridazione estetica
perfettamente riuscita che apre le porte all’immaginario audiovisivo speri-
mentale del futuro.

194
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204
Indice dei nomi citati

Abbado, Adriano 180 Barilli, Francesca 180


Abe, Shuya 72 Barker, Clive 188
Abramović, Marina 36 Barney, Matthew 149, 150
Acconci, Vito 36 Barthes, Roland 35
Afrika Bambaataa 189 Bartlett, Scott 64
Ahtila, Eija-Liisa 148 Baruchello, Gianfranco 42, 46
Aitken, Doug 148 Bass, Saul 84
Albers, Josef 29 Batsry, Irit 159
Alexandr, Hackenschmied 39 Baumann, Peter 141
Alighieri, Dante 131, 132, 136 Bausch, Pina 60
Allen, Rebecca 32, 36, 37, 41, 72, 75, 77, Beck, Julian 57, 67, 77, 86, 87, 90
78, 116, 138-141 Bene, Carmelo 42
Alman, Flavia 180 Berg, Alban 53
Anderson, Laurie 55, 77, 78, 116, 137, Berio, Luciano 53
142 Bériou (pseud. di Jean-François Matteudi)
Anger, Kenneth (pseud. di Kenneth Wil- 177-178
bour Anglemeyer) 43, 44, 75 Berk, Ernest 156
Antheil, Georges 29, 38 Beuys, Joseph 33, 78
Aphex Twin 189, 190, 191 Bicocchi, Maria Gloria 100
Arp, Hans 39 Birkin, Jane 66
Artaud, Antonin 57 Björk 116, 150, 184, 185, 186, 187, 189
Ascott, Roy 141 Blake, William 103
Atlas, Charles 76 Blanchot, Maurice 93, 94
Autechre 182 Bongiovanni, Pierre 155
Averty, Jean-Christophe 65, 66, 98 Boss, Hugo 176
Boulez, Pierre 54
Baird, John Logie 17 Bourgeois, Louise 29
Balanchine, Georges 29 Boustani, Christian 162-165, 192
Baldessari, John 35, 107 Boustani, Gilles 164
Barbier, Dominik 156, 157 Bowie, David 32, 116, 142

205
Indice dei nomi citati

Bowles, Paul 39 Chlébnikov, Velimir 118


Brakhage, Stan 42, 43, 106 Chomón, Segundo de 65
Brambilla, Marco 175-176 Christo e Jeanne-Claude 34
Brando, Marlon 43 Cibo Matto 187
Brecht, Georges 34 Clarke, Shirley 43, 69
Bret, Michel 179-180 Clark, Michael 136
Breton, André 29 Cobb, Richard 133
Brown, Trisha 60 Cocito, Alessandro 98
Bruno, Giordano 82 Cocteau, Jean 39
Buñuel, Luis 29, 38, 39 Congdon, William 30
Burroughs, William 36, 46, 56 Conner, Bruce 46, 47
Byrne, David 47, 116, 139, 142 Connors, Betsy 77
Corsino, Nicole 158
Cage, John 33, 40, 53, 54, 59, 71, 75-78, Corsino, Norbert 158
100 Corso, Gregory 36
Cahen, Robert 94-99, 112, 116, 146, Couchot, Edmond 179
155 Courbet, Gustave 119
Callas, Peter 116, 177 Cronenberg, David 150
Campus, Peter 62 Cross, Doris 83, 192
Canali, Mario 180-182 Crowley, Alesteir 43
Cannon, David 188 Cuba, Larry 85
Capote, Truman 32 Cunningham, Chris 186, 188-191
Cardiff, Janet 148 Cunningham, Merce 54, 59, 76, 78, 86
Carlson, Carolyn 60, 69
Caro, Marc 160-161 D’Agostino, Peter 62
Carroll, Lewis 52 Dalí, Salvador 29, 32, 38, 65, 66, 162
Cassavetes, John 43 Dallos, Marinka 120
Cassidy, Neal 36 Da Vinci, Leonardo 30, 128
Caza (pseud. di Philippe Cazaumayou) Davis, Douglas 69, 197
183 Dean, James 43
Cézanne, Paul 122 Dean, Tacita 148
Chagall, Marc 29 Decouflé, Philippe 116, 160
Chemical Brothers 186, 187 De Kooning, Willem 30
Chen, Patrick 183 Delminio, Giulio Camillo 82
Childs, Lucinda 58, 60, 79, 121 De Montparnasse, Kiki (pseud. di Alice
Chion, Michel 96, 99 Prin) 29

206
Indice dei nomi citati

Deren, Maya (pseud. di Eleanora Deren- Gainsbourg, Serge 66


kowskaia) 39, 40, 69 Gallotta, Jean-Claude 60
DEVO 47, 142 Garrin, Paul 77
D’Haeseleer, Kurt 174 Gaudí, Antoni 183
Di Marino, Bruno 62, 100, 123 Gelber, Jack 57
Disney, Walt 27 Genesis 142
D’Offay, Anthony 189 Genet, Jean 39
Druillet, Philippe 183 Ghezzi, Enrico 46
Duguet, Anne-Marie 47 Gielgud, John 132
Dylan, Bob ( pseud. di Robert Allen Zim- Gillette, Frank 62
merman) 32 Ginsberg, Allen 32, 36, 37, 41, 72, 75,
77, 78
Eggeling, Viking 37 Gioli, Paolo 42
Emshwiller, Ed 69- 71, 76, 137 Giorno, John 37, 44, 56
Eno, Brian 47, 56, 79, 116, 141-144, Giraud, Jean 183
150, 151 Gladstone, Barbara 149
Erben, Karel Iaromír 52 Glasser, Bastian 183
Ernst, Max 29, 39, 65, 66 Glass, Philip 55, 58, 60, 78, 79, 137
Escalle, Alain 162, 164-165, 167 Glazer, Jonathan 186
Godard, Jean-Luc 97, 131
Fadini, Edoardo 41 Godfrey, John 74
Faithfull, Marianne 43 Goldsmith, Kenneth 4
Feldman, Morton 53 Gondry, Michel 130, 186-187
Ferlinghetti, Loris 36 Gordon, Douglas 148
Figgis, Mike 191, 199 Graham, Dan 62, 63
Filliou, Robert 34 Graham, Martha 58
Fincher, David 186, 188 Gramsci, Antonio 120, 121
Fischinger, Oskar 37, 38, 48 Greenaway, Peter 79, 104, 130-136, 191
Flynt, Henry 34 Grierson, John 48, 49
Forman, Milos 60 Grifi, Alberto 46
Frank, Robert 33, 37, 62, 179 Guggenheim, Peggy 29, 30
Fripp, Robert 142 Gysin, Brion 36
Froese, Dieter 62
Hall, David 116
Gabriel, Peter 78, 116, 137, 140, 142 Hammid, Alexandr (vedi Hackenschmied,
Gaiman, Neil 168, 171 Alexandr) 39

207
Indice dei nomi citati

Hausmann, Raoul 33, 39 Kosuth, Joseph 35


Higgins, Dick 34 Kraftwerk 55, 116, 140
Hill, Gary 79, 90-93, 102, 104, 112, 119, Kubota, Shigeko 34, 77
145-147 Kubrick, Stanley 85, 120, 176, 188
Hitchcock, Alfred 84, 148
Hoffmann, Hans 29, 122 La Barbara, Joan 80
Holm, Hanya 29 La La La Human Steps 116
Huelsenbeck, Richard 39 La Monte, Thornton Young 33, 55
Huter, Stéphane 97 Larcher, David 156, 157
Lasseter, John 27
Incubus 183 Latham, William 88-90, 116, 136
Le Corbusier (pseud. di Charles-Edouard
Jaffrenou, Michel 98 Jeanneret-Gris) 29
Jagger, Mick 32, 43 Leddi, Tommaso 180
Jarry, Alfred 65 Léger, Fernand 29, 38, 39
Jeunet, Jean-Pierre 160 Le Guin, Ursula K. 71
Jobson, Eddie 141 Lennon, John 32, 128, 153
Johns, Jasper 31 Leslie, Alfred 37
Johnson, Ray 35 Letfield 189
Jones, John Paul 141 LeWitt, Sol 33
Jonze, Spike 186 Lichtenstein, Roy 31
Ligeti, György 33
Kac, Eduardo 115 Lischi, Sandra 94
Kafka, Franz 52, 129 Logue, Joan 116
Kahlo, Frida 29 Long, Richard 35
Kaprow, Allan 56, 67, 72, 77, 86 Longuet, Alain 97
Kawaguchi, Yoichiro 89, 90, 136 Luhrman, Baz 192
Kennedy, John F. 46 Lye, Len (pseud. di Leonard Charles Huia
Kentridge, William 148 Lye 48-50, 87
Kerouac, Jack 36 Lynch, David 122, 150, 192
Kisling, Moïse 29 Lynn Fox 183-185
Klarlund, Anders Rønnow 193
Klein, Yves 33 Maciunas, George 33, 34, 41, 62, 72
Knowlton, Ken 86 Mac Low, Jackson 34
Koenig, Gottfried Michael 54 Maderna, Bruno 53
Kogut, Sandra 155 Majewski, Lech 192

208
Indice dei nomi citati

Malevič, Kazimir 33 Muñoz, Maria 173


Malina, Judith 57, 77
Mallet, David 116 Nappi, Maureen 137
Manca, Eleonora 15 Nascimento, Angelica 180
Man Ray (pseud. di Emmanuel Rudzitsky) Neshat, Shirin 148
29, 38, 48 Neuman, Bruce 62
Mapplethorpe, Robert 79 New Order 116
Marclay, Christian 148 Nico (pseud. di Christa Päffgen) 45
Marcuse, Herbert 35 Nikolais, Alwin 59
Mariátegui, Josè Carlos 120 Nine Inch Nails 116
Marin, Maguy 60 Nitsch, Hermann 36, 79
Marker, Chris 193 Noè, Gaspar 193
Massive Attack 172 Nono, Luigi 53
Masson, André 29 Norstein, Yuri 163
Matta, Roberto Sebastian 29
McHale, John 31 Oldenburg, Claes 31, 86
McKean, Dave 168, 169, 170, 171, 192 Ono, Yoko 32, 34, 128
McKenzie, Christian 183 Orlovsky, Peter 78
McLaren, Norman 49, 50, 51 Orwell, George 78, 137
McLuhan, Marshall 17, 67, 75 Oui Oui 186
McQueen, Steve 149 Oursler, Tony 116
Mekas, Jonas 39-44, 75, 78
Méliès, Georges 51, 65, 160 Paganini, Niccolò 129
Mendieta, Ana 36 Paik, Nam June 34, 59, 62, 64, 67-77, 78,
Minogue, Kylie 186 80, 81, 83, 112, 114-116, 132, 141,
Modotti, Tina 29 145, 146, 152-154, 161, 163, 183
Mondrian, Piet 29 Pallenberg, Anita 43
Monroe, Marilyn (pseud. di Norma Jeane Palmer, Robert 139
Mortenson) 32, 46 Pane, Gina 36
Montet, Bernardo 97 Pastore, Luca 98
Moog, Robert 37, 55 Patella, Luca 42
Moorman, Charlotte 72, 75, 78 Penderecki, Krzysztov 33
Morrison, Jim 32 Peret, Benjamin 29
Morris, Robert 33 Perov, Kira 100, 107, 201
Mozart, Wolfgang Amadeus 134 Phillips, Tom 131
Müller, Heiner 157 Piene, Otto 67

209
Indice dei nomi citati

Piscator, Erwin 57 Ruiz, Raoul 131, 159


Pistoletto, Michelangelo 42 Rundgren, Tod 139
Pitof 192 Rutterford, Alexander 182-184
Plessi, Fabrizio 62, 94, 100, 133 Ruttmann, Walter 37
Pollock, Jackson 30, 49 Rybczynski, Zbigniew 116, 123-131, 135,
Popper, Frank 179 146, 185-187
Powers, Will 139
Presley, Elvis 32 Sakamoto, Ryuichi 77, 116
Pueyo, Juan 172, 173 Salier, Édouard 171, 172
Samborn, John 78, 116, 137
Quay, Stephen 52, 116, 123 Sant’Elia, Antonio 183
Quay, Timothy 52, 116, 123 Satie, Éric 142
Schaeffer, Pierre 53, 94
Rainer, Yvonne 59, 60, 86 Schier, Jeffrey 80
Ramboz, Eve 133-135, 162-165 Schifano, Mario 42
Rauschenberg, Robert 31 Schneemann, Carolee 36
Reich, Steve 55, 79 Schönberg, Arnold 29, 53
Reiff, Sabine 180 Schulz, Bruno 52
Reinardt, Ad 33 Schulze, Klaus 55
Residents, The 115, 116 Schumann, Peter 57
Restany, Pierre 77 Schwartz, Lillian 71, 87
Richter, Hans 29, 37, 39, 40 Schwitters, Kurt 39
Riley, Terry 33, 47, 55 Seawright, James 67, 68
Risset, Jean-Claude 87 Sedgwick, Edie 32, 45
Rist, Elizabeth Charlotte Pipilotti 147- Shakespeare, William 82, 134, 136, 169
148, 152, 153, 154, 188 Shamen, The 88, 116
Rivera, Diego 29, 30 Sigismondi, Floria 186
Robinson, Bill “Bojangles” 123 Sinigaglia, Riccardo 180
Rockefeller, Nelson 29 Siqueiros, David Alfaro 29
Rodriguez, Robert 192 Smith, Harry 43
Rohmer, Éric 192 Smith, Jack 43, 44
Romanek, Mark 186 Smithson, Robert 35
Rosto A.D 166-168 Snow, Michael 47, 91, 105
Rothko, Mark 30 Sokurov, Aleksandr 192
Roveda, Stefano 180 Solanas, Valerie 32
Roxy Music 142 Spielberg, Steven 188

210
Indice dei nomi citati

Squarepusher 189 Velvet Underground, The 32, 41, 45


Srnec, Jiri 51 Vertov, Dziga 118
Stanislavski, Constantin 51 Viola, Bill 79, 93, 94, 100-107, 112, 116,
Stella, Frank 33 133, 145,-147, 151, 158, 163
Stieglitz, Alfred 29 Vogan, Cathy 156, 157
Sting (pseud. di Gordon Sumner) 139 Vogel, Amos 39
Stockhausen, Karleinz 53-55, 71, 72 Vom Bruch, Klaus 107, 108, 111
Stravinskij, Igor 29 Von Trier, Lars 192
Švankmajer, Jan 51, 52, 116, 123 Vostell, Wolf 33, 61, 62, 64, 71

Tadlock, Thomas 67 Walker, Jerry Jeff 123


Talking Heads 60, 142 Warhol, Andy 31, 32, 33, 37, 41, 43-46,
Tambellini, Aldo 64, 67 75
Tanaka, Daien 100 Webern, Anton 53
Tangerine Dream 55, 141 Wegman, William 116
Tanguy, Yves 29 West, Kanye 176
Tatlin, Vladimir 120 White Stripes 187
Taylor-Wood, Sam 151 Whitney, James 84
Tharp, Twyla 60, 116, 139 Whitney, John 84, 85, 87, 89
Thompson Twins 78 Wilson, Robert 58, 60, 121-123, 150,
Tobin, Amon 182 151
Toti, Gianni 117-120, 124, 155 Winkler, Dean 78, 116, 136, 137
Trumbull, Douglas 85 Wittgenstein, Ludwig 35
Tudor, David 53, 100 Wyatt, Robert 142
Turrell, James 35
Xenakis, Iannis 53
U2 116, 142
Uchida, Hideo 72 Yalkut, Jud 64
Ulay (pseud. di Frank Uwe Laysiepen) 36 Yates, Frances 82
Ultravox 142
Zorn, John 97
Van Deer Beck, Stan 67, 86-87, 90
Varèse, Edgar 53, 107
Vasulka, Steina 64, 79- 83, 91, 112, 146,
Vasulka, Woody 64, 79,-83, 84, 145, 146,
151

211
orizzonti

Giaime Alonge, Uno stormo di Stinger. Autori e generi del cinema americano

Giulia Carluccio, Scritture della visione. Percorsi nel cinema muto

Giulia Carluccio (a cura di), America oggi. Cinema, media, narrazioni del nuovo
secolo

Alessandro Faccioli, Leggeri come in una gabbia. L’idea comica nel cinema italiano

Luca Malavasi, Realismo e tecnologia. Caratteri del cinema contemporaneo

Anton Giulio Mancino, Il processo della verità. Le radici del film politico-indiziario
italiano

Anton Giulio Mancino, Schermi d’inchiesta. Gli autori del film politico-indiziario
italiano

Andrea Martini (a cura di), L’antirossellinismo

Ilario Meandri, Andrea Valle (a cura di), Suono/immagine/genere

Paolo Noto, Dal bozzetto ai generi. Il cinema italiano dei primi anni Cinquanta

Valentina Re, Leonardo Quaresima (a cura di), Play the Movie. Il DVD e le nuove
forme dell’esperienza audiovisiva
Stampato da Digital Print Service – Segrate

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