Alessandro Amaducci Videoarte
Alessandro Amaducci Videoarte
Alessandro Amaducci Videoarte
ISBN 978-88-89908-99-0
Immagine di copertina:
frame dal video Black Data (2012) di Alessandro Amaducci
Alessandro Amaducci
Videoarte
Stor ia , autor i, l i ng u a g g i
k a p l a n
Note sulla reperibilità dei video e film citati
Per comprendere appieno questo testo è necessario visionare i video e i film ci-
tati. Per quanto le descrizioni testuali delle opere possano sostenere e chiarire
le analisi effettuate in questo libro, la visione diretta delle opere arricchisce e
completa la lettura del testo. La reperibilità in dvd delle opere citate è indicata
nelle note. Trattandosi di materiali in cui l’elaborazione delle immagini è una
componente importante, si consiglia di vederli nella migliore qualità possibi-
le, quella del dvd, appunto.
Per quanto riguarda invece la possibilità di visionare questi materiali sul web,
molti degli artisti citati, soprattutto quelli attivi negli ultimi dieci anni, hanno
dei siti o delle pagine YouTube o Vimeo dove i loro materiali sono liberamente
visionabili. Nelle note queste fonti sono citate solo nel caso in cui, soprattutto
per quello che riguarda YouTube e Vimeo, si tratta di pagine ufficiali.
Una fonte utile, soprattutto per le opere del cinema sperimentale, è l’ar-
chivio audiovisivo online fondato dal poeta e artista concettuale Kenneth
Goldsmith: http://ubu.com/
Sui portali video YouTube, Vimeo e Daily Motion la quasi totalità delle opere
di videoarte e di cinema sperimentale citate in questo libro sono visionabili in
pagine non ufficiali di appassionati per cui, per non incorrere in problemi di
violazione di copyright, non sono segnalate nelle note.
Indice
Introduzione 7
Capitolo 1 17
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte
Capitolo 2 61
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
Capitolo 3 145
La videoarte dagli anni Novanta a oggi
7
Introduzione
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Introduzione
Fin qui per quello che riguarda il termine video: ma perché videoarte? In
che senso il video e l’arte possono collaborare? Se per arte intendiamo, nella
maniera più generica possibile, ogni attività umana che usando in modo spe-
cifico una particolare tecnica riesce a produrre forme creative di espressione
estetica, comunicando allo spettatore temi, emozioni o tracce narrative più
specifiche, allora la videoarte è una forma di espressione estetica che creati-
vamente utilizza la tecnologia video. Scandaglia le sue possibilità linguisti-
che per realizzare una visione che scaturisce dalla fusione fra l’immaginario
dell’artista e le potenzialità delle tecnologie usate, per ipotizzare immaginari a
venire che possono essere in continuità o in discontinuità rispetto al passato,
ma che non prescindono dal fatto che essi scaturiscono da una dimensione
elettronica o digitale, con tutte le conseguenze del caso.
Le estetiche e i linguaggi che la videoarte, coerentemente con le scelte
tecnologiche adottate, ha sviluppato dalle sue origini a oggi rappresentano gli
argomenti principali di questo libro.
La videoinstallazione
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Introduzione
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Introduzione
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Introduzione
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Introduzione
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mente sul concetto di live, nel senso che trasforma il videoartista in un per-
former di immagini e in alcuni casi anche di suoni. Il vjing è una pratica che
deriva dal termine djing e consiste nell’accompagnare con un flusso di imma-
gini gestito dal vivo la performance musicale di un dj: in questo caso il per-
former video viene definito vj. Il live video rappresenta invece tutta quell’area
espressiva in cui le immagini vengono gestite dal vivo, con il performer video
presente, che si svincola dalle esigenze della dancefloor per produrre spetta-
coli audiovisivi autonomi, eseguiti in luoghi chiusi o aperti, e realizzati con
apparati tecnologici complessi e con punti di visione anche molto numerosi.
Il live video, volendo, è una sorta di trasformazione del concetto di videoin-
stallazione in una performance audiovisiva gestita dal vivo.
Mapping
Con mapping si definisce una vasta area di esperienze che si sta espandendo
molto velocemente nella quale le immagini sono proiettate direttamente su
superfici architettoniche (sia all’esterno sia all’interno) o su oggetti. Il termine
deriva da una nozione tecnica che riguarda la computer grafica, ma in sintesi
sta a significare che le immagini avvolgono l’oggetto sul quale vengono pro-
iettate in modo tale da sembrare una sorta di “seconda pelle”, una guaina fatta
di forme in movimento che aderisce alla superficie di riferimento. Il mapping
può determinare situazioni molto spettacolari, usando come superfici facciate
o interni di castelli, teatri, musei appena restaurati o strutture in disuso; ma
può anche rivolgersi a situazioni più intime, e lavorare su piccoli oggetti.
Dato l’alto tasso potenziale di spettacolarità, e dato che nella maggior
parte dei casi i mapping vengono effettuati su strutture urbane, quindi vissute
da una comunità, queste esperienze si rivolgono a un pubblico generico che
può essere invitato o colto di sorpresa, dal momento che, come la videoin-
stallazione, anche il mapping è una struttura che funziona per un periodo di
tempo variabile, da un giorno ad alcuni mesi, e che può essere pubblicizzata
come un evento con una data precisa o può essere una proiezione automatica
di immagini funzionante in determinate ore della giornata. Sovente le due
possibilità si combinano, nel senso che si comunica al pubblico l’inaugura-
zione del mapping, per poi lasciar funzionare il sistema autonomamente per
un certo periodo di tempo.
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Un ringraziamento particolare va a Eleonora Manca che ha curato la stesura
di alcune parti del primo capitolo e che è stata la prima lettrice del libro.
Capitolo 1
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Capitolo 1
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Le radici tecnologiche e culturali della videoarte
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Capitolo 1
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Capitolo 1
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Capitolo 1
Gli anni Sessanta e Settanta sono il punto d’arrivo di un’onda lunga che
inizia nel primo Novecento, il periodo delle grandi avanguardie artistiche
storiche: Astrattismo, Cubismo, Futurismo, Dadaismo, Surrealismo e i tanti
altri “ismi” che si sono sviluppati fra la Russia, l’Italia, la Francia, la Svizzera e
la Germania rappresentano la prima sfida linguistica a un’arte avvertita come
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Capitolo 1
poranea. L’opera d’arte non tratta più come oggetto privilegiato d’indagine
l’industrializzazione dell’immaginario, ma diventa essa stessa il prodotto di
una piccola industria. Warhol non dichiara di essere un’artista, ma una “mac-
china”, attratto dalle fotocopie, dalla serialità, dalla mancanza di originali.
L’arte è pura superficie, è una copia, è il risultato di un processo tecnologico:
si affida al caso o agli errori della macchina stessa.
Detto in questo modo la Factory potrebbe apparire un luogo poco affa-
scinante e un terreno poco fertile per creare un trend, ma siamo negli anni
Sessanta, e New York sta diventando la comunità degli artisti e degli eccessi,
tanto che si trasforma in una sorta di luogo aperto dove può succedere di tut-
to: feste principalmente, ma anche riparo per personalità eccentriche, dedite
alla sperimentazione delle droghe o della propria sessualità, e soprattutto asilo
per artisti alternativi o appartenenti allo show business, in una parola per
celebrità. Da Bob Dylan ad Allen Ginsberg, da Mick Jagger a Jim Morrison,
da Truman Capote a Salvador Dalí, da John Lennon a Yoko Ono, chiunque
abbia dedicato volontariamente o meno la propria vita al successo e all’eccesso
si ritrova a frequentare più o meno assiduamente la Factory.
Al di là delle produzioni seriali ben note anche a un pubblico non specia-
lizzato (Campbell Soup Can, o i ritratti postumi a icone celebri come Marilyn
Monroe o Elvis Presley), Warhol è attratto dal mondo musicale e viceversa: Da-
vid Bowie gli dedica una canzone e all’interno del grande calderone di incontri
della Factory nascono i Velvet Underground (la copertina del loro primo disco
è un’immagine di Warhol). Il suo look eccentrico, presente a più riprese nei
talk-show televisivi, e quello della gente che frequenta la Factory diventano il
simbolo di un’epoca, quindi comincia a essere esso stesso prodotto di massa. In
breve tempo la Factory comincia a “produrre” le sue personali star, come Edie
Sedgwick. Coerentemente Warhol intuisce che non è più necessario fabbricare
oggetti ma che quello che succede nella Factory può diventare di per sé un trend
commerciabile, e quindi trasformabile in una piccola Hollywood, dichiarando
di voler smettere di dipingere per realizzare solo film. Come si può intuire,
nel momento in cui si salda in maniera inscindibile la figura dell’artista con il
concetto di celebrità, la biografia diventa un elemento essenziale, tanto più se si
tinge di cronaca nera: al di là dei singoli destini (per lo più tragici) che molte su-
perstar della Factory subiscono, il tentato omicidio al quale Warhol sopravvive
miracolosamente nel 1968, da parte dell’attivista femminista Valerie Solanas,
accresce mediaticamente la fama dell’artista di origine slovacca, tingendo di
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Capitolo 1
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Capitolo 1
Non sono solo i fermenti artistici a trasformare gli Stati Uniti del dopoguerra
e in particolare New York in punti di riferimento per tutto il mondo della
cultura visuale, ma anche e soprattutto un movimento letterario chiamato
Beat Generation, un mix di sperimentazione linguistica applicata a racconti
spesso autobiografici di vite spericolate e al limite, esperienze all’insegna della
droga, della libertà sessuale, di scelte esistenziali alternative, di curiosità verso
le filosofie orientali, tutto modulato sui ritmi del jazz e del bebop: veloci,
sfrenati, senza controllo. Il romanzo di Jack Kerouac On the Road (1951) e il
componimento di Allen Ginsberg Howl (1956) diventano dei cult generazio-
nali. Il gruppo dei Beat è ricco di esperienze e di personaggi che diventeranno
icone, come quella dello sperimentatore di “paradisi artificiali” per eccellenza:
William Burroughs, autore di Naked Lunch (1959) e promotore della tecnica
del Cut-up, un sistema di scrittura casuale riferito al metodo dadaista che
gli viene suggerito dal poeta e pittore Brion Gysin, e che insieme applicano
anche in alcuni esperimenti cinematografici definiti Cut-up Movies. Gregory
Corso, Neal Cassidy, Loris Ferlinghetti e altri formano un gruppo che fra
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Le radici tecnologiche e culturali della videoarte
poesia e narrazione cambia la storia della letteratura anche grazie al fatto che
molti sono performer, si esibiscono in serate in cui leggono le proprie opere: i
cosiddetti reading. Il movimento della Beat Generation è protagonista di un
film sperimentale di Robert Frank e Alfred Leslie, Pull My Daisy del 1959.
L’unione fra letteratura ed evento performativo, approfondita soprattutto
da Allen Ginsberg che diventa un personaggio noto al pubblico, quasi un’ico-
na per le sue esibizioni e per il suo look eccentrico, fa parte anche dell’estetica
di un poeta sperimentale slegato dal gruppo Beat, John Giorno, che entra nel
mondo dell’arte contemporanea grazie a una serie di collaborazioni con artisti
visuali e con musicisti, fino alla formulazione del Giorno Poetry System, che
consiste in una serie di manifestazioni dove si cerca di attirare un’audience
meno legata al mondo letterario, come il Dial-a-Poem, un sistema attraver-
so il quale alcune poesie sono disponibili telefonicamente, o eventi musicali
in collaborazione con Robert Moog, l’inventore dell’omonimo sintetizzatore
elettronico. John Giorno è il protagonista di uno dei primi film di Andy
Warhol, Sleep (1963), dimostrando il fatto che sempre più le varie discipline
si incontrano grazie al desiderio di una serie artisti di vivere dentro una vera
e propria comunità allargata, andando al di là della logica dei gruppi e dei
manifesti delle avanguardie storiche.
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Capitolo 1
astratte. Oskar Fischinger, che vive il trapasso dal cinema muto a quello so-
noro, lega in un binomio inscindibile immagini astratte alla musica creando
un genere, il film astratto musicale, che avrà molta fortuna negli anni a venire
e che sopravvive, con altre tecnologie, ancora adesso.
Il pittore cubista Fernand Léger, in collaborazione con l’operatore america-
no Dudley Murphy, firma Ballet Mécanique (1924), con la musica di Georges
Antheil, sinfonia visiva in cui elementi metallici quotidiani ripresi nelle più sva-
riate maniere danzano insieme a frammenti del viso di Kiki de Montparnasse,
cantante, musa e modella di Man Ray e scandalosa “diva” della vita notturna
parigina di quegli anni. Capolavoro di montaggio, questo film, miscelando
immagini in cui si mostra l’antropomorfia di elementi industriali meccanici
associata a movimenti robotici del viso di Kiki, scandaglia il rapporto fra il
corpo e la macchina ipotizzando una sorta di nuovo Eros del futuro dominato
da meccanismi del desiderio in cui organico e inorganico trovano una sintesi
spiazzante. L’Eros è protagonista anche di due film intimamente surrealisti,
frutto della collaborazione fra Salvador Dalí e Luis Buñuel: Un chien andalou
(1927) e L’age d’or (1930). Sono opere in cui la narrazione cinematografica si
distorce a favore di una logica assurda, ricca di nonsense e di livelli simbolici,
debitrice della fascinazione nei confronti della psicoanalisi, in grado di pro-
durre immagini che rimangono indelebili per tutta la storia del cinema, come
la celebre sequenza d’apertura di Un chien andalou, il taglio dell’occhio che
violentemente invita il pubblico ad aprire la propria percezione alla visione e
non più solo alla superficie della realtà. Luis Buñuel continua a sperimentare
le possibili contaminazioni fra surrealismo e narrazione durante il suo periodo
“messicano”, per ritrovare una formidabile sintesi fra denuncia delle ipocrisie
della società e sperimentazione dei linguaggi nella trilogia che chiude la sua
filmografia: Le charme discret de la bourgeoisie (Il fascino discreto della borghesia,
1972), Le fantôme de la liberté (Il fantasma della libertà, 1974) e Cet obscur objet
du désir (Quell’oscuro oggetto del desiderio, 1977), film che rappresentano punti
di riferimento per molti artisti degli anni Settanta.
Man Ray produce una serie di film più intimi e personali, dove alcune delle
sue tecniche fotografiche (come le cosiddette rayographe, l’impressione dell’om-
bra degli oggetti direttamente sulla pellicola) vengono usate e riarticolate in
un immaginario che oscilla fra astrazione e referenzialità. Marcel Duchamp
produce un cortometraggio, Anémic Cinéma nel 1926, dinamizzando spirali in
bianco e nero alternate a scritte nonsense. Insomma, l’Astrattismo sperimenta il
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le interfacce della troupe, del set, dei produttori e dei distributori; che non
vuole creare una scuola ma un luogo in cui si possono ritrovare tutti coloro
che vogliono distruggere le regole del passato, che vogliono sfidare la censura,
che vogliono, in una parola, sperimentare un’idea intima, ma al contempo
rivoluzionaria di cinema.
La filmografia di Mekas oscilla fra la documentazione creativa, l’autobio-
grafia filmata e dei ritratti (o “schizzi antropologici” come li definisce lui) di
personaggi, soprattutto artisti come Andy Warhol, George Maciunas o Allen
Ginsberg, che sono fondamentalmente amici, ma anche piccole star del proprio
firmamento intimo, compagni di viaggio di un’avventura esistenziale e artisti-
ca. La documentazione del filmmaker lituano si rivolge essenzialmente a eventi
artistici importanti per la sua formazione, come lo spettacolo del Living Theater
The Brig, filmato nell’omonimo cortometraggio nel 1964 come se l’osservatore
fosse una sorta di visitatore, astante privilegiato della messa in scena, o il primo
concerto dei Velvet Underground inserito in Scenes from the Life of Andy Warhol
(rieditato nel 1990 da materiali degli anni Sessanta). Il tema fondamentale della
filmografia di Jonas Mekas è la memoria, o meglio la reminiscenza, come recita
il titolo di una sua opera, Reminiscences of a Journey to Lithuania (1971-72), testi-
monianza filmata del suo viaggio in Lituania per andare a trovare la madre. Si
tratta di una memoria di immagini interiori, che scardina il linguaggio cinema-
tografico producendo opere in cui la cinepresa è un vero prolungamento delle
emozioni dell’autore: in continuo movimento, istintiva, ignara della sedicente
correttezza della grammatica visiva. Anche il montaggio si articola attraverso
continui salti temporali, assolvendo più a una funzione ritmica che narrativa: i
flash bianchi della fine della bobina, che normalmente vengono cancellati, di-
ventano una cifra stilistica ripresa e copiata da molti, a significare che anche il
difetto, la sgranatura, l’imperfezione, tutto quello che potrebbe sembrare “ama-
toriale” celebra la presenza di un osservatore, del suo mondo interiore, della sua
irrefrenabile voglia di esprimersi.
Jonas Mekas è anche un infaticabile organizzatore: nel 1970 fonda l’Antho-
logy Film Archives, un archivio, ma soprattutto una sala di proiezioni, punto
di riferimento per molti artisti. È anche promotore di una serie di incontri fuori
dagli Stati Uniti in cui presenta materiale del New American Cinema, prin-
cipalmente in Italia (come il ciclo di proiezioni alla Galleria d’Arte Moderna
e all’Unione Culturale di Torino nel 1968 organizzate da Edoardo Fadini),
stabilendo una connessione molto forte fra questi due paesi, e determinando
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Capitolo 1
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La casa di distribuzione Criterion ha prodotto due dvd antologici della sterminata opera
di Brakhage: http://www.criterion.com/people/8216-stan-brakhage
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Capitolo 1
anni Duemila, come testimonia una delle sue ultime opere, Corpus Callosum
(2002), enigmatico viaggio della telecamera all’interno di un ufficio dove la-
vorano degli impiegati, e nel quale avvengono varie anomalie visive che fanno
emergere una realtà inquietante dietro l’apparente freddezza dell’ambiente.
In maniera parallela a questo magma di tensioni sperimentali prosegue
l’altra corrente del cinema d’avanguardia: il cinema astratto. L’animazione è
fin dalle sue origini la tecnologia privilegiata dagli artisti che scelgono di im-
mettere nel flusso del tempo le loro immagini non referenziali. E come tante
tecniche, quella del “passo uno” si trasforma, declinandosi di volta in volta in
modo diverso, a seconda delle scelte sperimentali dei registi che la adottano.
Len Lye (Leonard Charles Huia Lye)7, disegnatore, scultore e poeta, nasce
in Nuova Zelanda da una famiglia europea, ma il suo aperto riconoscimento
nei confronti dell’arte tradizionale maori e il fatto di venire “sorpreso” a vi-
vere in una comunità indigena inducono il governo coloniale neozelandese a
espellerlo dal paese. Lye si trasferisce inizialmente a Londra nel 1926 per poi
trasferirsi negli Stati Uniti negli anni Cinquanta. In Inghilterra conosce John
Grierson, il direttore del GPO Film Unit, l’ufficio che si incarica di produrre
i filmati promozionali del servizio postale inglese, lo UK General Post Office,
ma anche documentari e cinegiornali. Qui Len Lye sviluppa una tecnica già
adottata da Man Ray e da altri sperimentatori di “effetti speciali”: quella di
intervenire direttamente sulla pellicola graffiandola, disegnandola, applican-
dovi timbri e materiali semitrasparenti. Len Lye elimina la macchina da presa
per lavorare direttamente sulla materia pellicola, producendo una serie di
opere che sono chiamate anche scratch film, o direct animation.
Sul solco dell’estetica pop di Fischinger e consapevole del fatto che i film
che il GPO produce sono committenze nel senso più stretto del termine, Len
Lye trasforma l’estetica del cinema astratto in qualcosa di colorato, allegra-
mente musicato, ritmico, caotico e coinvolgente. Appassionato di musica jazz
e di musica da ballo, per Len Lye le immagini devono esplodere ritmicamente
davanti agli occhi dello spettatore in un magma cromatico incontrollabile
e matericamente variegato. Quello di Len Lye è un vero cinema “gestuale”,
dove l’azione dell’artista è evidente fotogramma per fotogramma, una sorta
7
I film di Len Lye sono disponbili nel dvd dal titolo Rhythms distribuito da RE:Voir;
http://revoirvideo.blogspot.it/2009/06/dvd-len-lye-rythms-pal-2400-euros.html
Il sito della Len Lye Foundation è il seguente: http://www.govettbrewster.com/Len-Lye/
Foundation
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classico, utilizzando due danzatori vestiti con i costumi canonici del balletto,
per trasformare i loro movimenti in flussi geometrici, moltiplicando la silhou-
ette dei loro corpi, annullando quasi la loro presenza fisica, per realizzare un
cortometraggio per certi versi allucinatorio; il più emozionale della filmogra-
fia di McLaren.
La tecnica dello stop motion, detta anche pixilation, ovvero l’animazione
non più di disegni ma di oggetti, pupazzi o figure umane conquista un’area
di pubblico più adulta e adotta un linguaggio maggiormente sperimentale
attingendo sempre di più a estetiche neosurrealiste. Il principale promotore di
questo fenomeno è Jan Švankmajer9, scenografo e costruttore di marionette
nato a Praga che inizia a realizzare film nella metà degli anni Sessanta. Lavora
presso Laterna Magika, un teatro dove si eseguono performance multimediali
non verbali, frutto di una combinazione di danza, proiezioni di film ed effetti
luminosi, e dove si sperimenta il cosiddetto “teatro della luce nera”10, e più
tardi aderisce al Gruppo Surrealista Cecoslovacco. Švankmajer è un infati-
cabile creatore di cortometraggi ma anche e soprattutto di lungometraggi,
questi ultimi realizzati in larga parte in stop motion.
I suoi temi ossessivamente ricorrenti sono il cibo, il sesso, il cannibalismo,
lo scontro tra il maschile e il femminile, la modificazione dei corpi, il crinale
fra il mondo dell’inconscio e la cosiddetta realtà. Il linguaggio che adotta è
essenziale fino a risultare asettico: quasi mai parlate, se non con singole frasi
molto rumorose, le sue opere adottano un montaggio cadenzato, quasi ritua-
le, dove spesso si ripetono le stesse situazioni con piccole varianti; la messa
in scena è scarna, le scelte di ripresa sono di taglio quasi documentaristico.
9
Il sito dell’artista è: http://www.jansvankmajer.com/. I suoi cortometraggi si possono tro-
vare nel dvd Jan Švankmajer The Complete Short Films distribuito dal British Film Institute:
http://www.bfi.org.uk/blu-rays-dvds/jan-svankmajer-complete-short-films, mentre i suoi
lungometraggi sono disponibili in dvd in diverse edizioni.
10
Il “teatro della luce nera” o “teatro nero” è una particolare tecnica derivata dal teatro di
marionette giapponese Bunraku, sperimentata e sviluppata, tra gli altri, da Constantin
Stanislavski e Georges Méliès, e infine definita con questo nome da Jiri Srnec nel 1959 a
Vienna. Si basa sull’effetto ottico grazie al quale il pubblico non percepisce oggetti neri
posti su uno sfondo nero, in questo caso la scatola nera o black box del palco teatrale pri-
vo di scenografie. Sfruttando particolari effetti luminosi, come le lampade di wood che
emettendo una determinata frequenza illuminano solo alcuni colori, o semplicemente
utilizzando meccanismi e persone opportunamente coperti di nero che si confondono
con lo sfondo, si possono ottenere vari effetti visivi. Alcune risorse sul web sono http://
www.srnectheatre.com/bts/eng e http://www.blacktheatre.cz/en/
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questi strumenti diventano fra gli anni Sessanta e Settanta sempre più ma-
neggevoli e intuitivi da usare, tanto da scavalcare l’ambito musicale “colto”
per essere sempre più diffusi in ambito pop e rock. Il responsabile della com-
mercializzazione del sintetizzatore è l’ingegnere Robert Moog, che dà il suo
cognome a uno strumento progettato nel 1963 e che ottiene negli anni un
successo sempre più clamoroso, il moog appunto.
Da questo momento in poi la musica elettronica cambia, generando un
altro settore che conquista un pubblico più vasto, non solo appassionato alla
sperimentazione radicale che comporta un notevole impegno nell’ascolto: la
Minimal Music, la musica minimalista, rappresentata da musicisti sempre in-
seriti nell’area di New York come Terry Riley, La Monte Young, Steve Reich
e Philip Glass. In questo campo permane come scelta stilistica, tranne in rari
casi, la contaminazione fra acustico ed elettronico e dal punto di vista com-
positivo si lavora su proposte tonali, ritmiche, dove la continua ripetizione
di semplici frasi musicali realizzate con poche note invita l’ascoltatore a non
lasciarsi trasportare in tentazioni emozionali o descrittive, ma ad abbando-
narsi all’astrazione, a un universo ipnotico e primitivo, spesso ispirato dalle
musiche orientali, soprattutto indiana. In C del 1964 di Terry Riley viene
considerato il primo esempio di questo genere musicale, ma sono soprattutto
Steve Reich e Philip Glass a esportare il loro particolare stile negli spettacoli
di danza e teatro e soprattutto nel cinema.
Negli anni Settanta, grazie alla diffusione capillare di vari modelli di sin-
tetizzatori, nasce in Germania, proprio a Colonia, patria della sperimenta-
zione di Stockhausen, un genere come la Kosmische Musik, capitanato da
gruppi come Tangerine Dream o da solisti come Klaus Schulze che abban-
donano decisamente qualsiasi tentazione acustica per affidarsi totalmente alle
nuove macchine, proponendo lunghe suite musicali elettroniche dall’impian-
to sonoro “futuribile”, ma dal punto di vista compositivo tradizionale, con
un ritorno decisivo alla tonalità o al libero flusso di frequenze ipnotiche, che
trovano un inaspettato pubblico e un successo commerciale crescente, fino
ad arrivare alle proposte dei Kraftwerk che aprono le porte alla Dance Music
e alla Techno.
L’avvento del campionatore, primo passo verso la digitalizzazione del suo-
no, ovvero di una tastiera che può registrare suoni dall’esterno, fa progredire
ulteriormente l’ambito musicale, nel quale nascono interessanti ibridi fra speri-
mentazione e pop. Un esempio fra tutti è Laurie Anderson, poetessa, musicista
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Capitolo 1
ma soprattutto performer, che giovanissima, già agli inizi degli anni Settanta,
propone una serie di performance che la fanno conoscere nell’ambiente artisti-
co di New York e che le permettono di realizzare un sodalizio artistico con John
Giorno e William Burroughs. Lentamente la musica prende il sopravvento nel-
la sua attività artistica fino alla pubblicazione dell’album Big Science (siamo già
nel 1981) che inaugura una lunga serie di dischi che stanno in bilico fra speri-
mentazione elettronica e pop, e che conquistano un largo pubblico anche grazie
alla diffusione di una serie di video musicali e alle esibizioni live, veri e propri
spettacoli multimediali, tecnologicamente molto sofisticati.
Lo stesso si può dire per Brian Eno, “non-musicista” inglese, come lui stes-
so ama definirsi, inventore di una serie di generi musicali: l’Ambient Music
(la musica ambientale, ovvero flussi sonori che non pretendono nessun grado
di attenzione da parte dell’ascoltatore, ma che hanno la funzione di “tappeti
sonori” di accompagnamento), o la “Fourth World Music”, dove il “Quarto
mondo” sta a indicare un luogo utopico nel quale avviene la definitiva con-
taminazione fra la musica occidentale (elettronica) e quella orientale, e molti
altri “progetti musicali”, fondamentali per la musica, non solo elettronica,
dagli anni Ottanta in poi.
Fra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta anche i territori
del teatro e della danza vengono scossi da rivolgimenti linguistici.
Allan Kaprow nel 1959 presenta 18 Happenings in Six Parts presso la gal-
leria Reuben di New York, inaugurando il concetto di happening: un evento,
non necessariamente agito da persone, in cui accade qualcosa in uno spazio
per un determinato periodo di tempo. In questo caso si tratta di una sorta
di connubio fra action painting, mixed media e Land Art in cui un gruppo
di artisti compie una serie di performance da condividere con il pubblico, al
quale vengono date istruzioni su come comportarsi. Il concetto di interattivi-
tà con gli spettatori e la loro partecipazione attiva diventano temi costanti di
molto teatro d’avanguardia di questo periodo. Presentando i suoi happening
in luoghi non teatrali come le gallerie d’arte o altri spazi urbani o naturali,
Kaprow lega inscindibilmente il mondo performativo a quello dell’arte con-
temporanea, creando un ibrido difficilmente classificabile.
Sempre in questo periodo è attivo un gruppo teatrale fondato da Peter
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nel nome dello slogan “The Plot is the Revolution”, diventa, complice l’av-
vento dei movimenti del 1968, lo spettacolo simbolo di una generazione che
crea scompiglio a ogni rappresentazione costellata da tentativi di censura,
interventi della polizia e contestazioni del pubblico stesso.
Come anche in altre discipline artistiche, alle ondate rivoluzionarie se-
guono reazioni estetiche di segno opposto, che ragionano su altre modalità
di sperimentazione. Da questo punto di vista è importante segnalare, anche
per la sua attività come videoartista e autore di videoinstallazioni, l’opera
di Robert Wilson. Dotato di un’estetica più austera e affascinato più dalla
macchina che dal corpo, l’attività teatrale di Wilson è un ibrido fra l’idea di
happening e di spettacolo teatrale vero e proprio, dominato da tempi lun-
ghissimi, movimenti astratti del corpo e scenografie meccaniche anche molto
complesse. Spesso i suoi spettacoli hanno un intento biografico o sono dedi-
cati a personaggi famosi, come The Life and Times of Sigmund Freud del 1969,
o The Life and Times of Joseph Stalin del 1973 performance muta di dodici
ore, mentre spesso le sue opere sono realizzate per spazi non teatrali, come
KA MOUNTain and GUARDenia Terrace del 1972, evento di sette giorni
allestito sui monti Haft Tan in Iran.
L’opera più famosa di Wilson, su musica di Philip Glass e coreografie di
Lucinda Childs è Einstein on the Beach del 1976, performance teatral-musicale
di cinque ore in cui il pubblico è intenzionalmente lasciato libero di andarsene
e tornare quando vuole, attivando una modalità di fruizione da installazione e
non da spettacolo vero e proprio. Robert Wilson rappresenta il vertice dell’ibri-
dazione fra arti performative e visuali, e il modello di un artista “fluido”, attivo
in più campi dell’espressione artistica, tra cui anche la videoarte.
L’abbandono degli stilemi e soprattutto del repertorio della danza classica
è rappresentato da una serie di scosse che si agitano fra l’Europa (Francia e
Germania) e gli Stati Uniti, patria di Martha Graham e del Martha Graham
Center for Contemporary Dance, compagnia all’inizio esclusivamente femmi-
nile, fondata già nel 1926 a New York. Il rinnovato contatto col suolo anche
attraverso la dinamica della caduta, antagonista rispetto alla danza sulle punte,
l’enfasi sull’emotività del gesto, l’articolazione fra contrazione e rilassamento, la
presenza di corpi muscolari e non canonici che ballano rigorosamente a piedi
nudi e usano come centro dei movimenti il bacino, l’attenzione al rapporto fra
costumi e scenografie che rimandano a immaginari autoctoni e contemporanei,
sono tutti elementi che rendono Martha Graham protagonista della straordina-
58
Le radici tecnologiche e culturali della videoarte
ria spinta iniziale alla nascita di tante compagnie che negli Stati Uniti riscrivono
la storia della danza.
Merce Cunningham fonda nel 1953 la Merce Cunningham Dance Com-
pany e rappresenta insieme ad Alwin Nikolais, entrambi allievi di Martha
Graham, l’approccio più radicalmente antinarrativo e astratto della danza con-
temporanea. Fortemente influenzato dall’amicizia con John Cage e dall’idea
dell’aleatorietà, Cunningham impone ai suoi danzatori un metodo di “ristrut-
turazione delle improvvisazioni”, nel senso che fa improvvisare i suoi danza-
tori, a volte riprendendoli in video, mostra loro ciò che hanno fatto, sceglie i
momenti più interessanti e impone di ripetere il risultato ottenuto. Ma vuole
anche che le singole parti del corpo si muovano autonomamente, predilige la
contaminazione fra stili coreografici diversissimi, o riassembla casualmente
brani di vecchie coreografie, operando una sorta di operazione di riciclaggio
coreografico. Realizza spettacoli usando immagini in scena, aprendo la lunga
stagione dello spettacolo di danza multimediale, un terreno fertile ancora oggi,
sviluppa e commercializza un software di scrittura coreografica chiamato Life
Forms, ed è protagonista di molti film e di video di danza. In sintesi, diventa il
simbolo della nuova ricerca coreografica che collabora con gli artisti contempo-
ranei a lui vicini (John Cage, Sol LeWitt, Nam June Paik).
Alwin Nikolais ragiona su un fronte più fantasmagorico, proponendo
spettacoli in cui la figura del danzatore è spesso coperta completamente dal
costume e in cui la coreografia si fa sempre più robotica e meccanizzata. Le
complesse scenografie in cui si usano i più diversi apparati atti a creare illusio-
ni ottiche (luci specifiche, immagini, specchi, finte prospettive) trasformano
i suoi spettacoli in eventi multimediali di luci e colori, dove la presenza dei
danzatori quasi si distingue.
Ma ogni ribellione nutre altre rivolte, come abbiamo visto succedere in
tutte le arti nel crocevia degli anni Sessanta: Yvonne Rainer, danzatrice, co-
reografa e filmmaker, nel 1965 lancia un manifesto che è una serie di furiosi
“no” all’idea della spettacolarizzazione e ai grandi teatri, al virtuosismo, alla
stilizzazione, al coinvolgimento del pubblico, promuovendo il ritorno a una
maggiore quotidianità, all’assenza di costumi e scenografie, alla negazione
della durata classica degli spettacoli e proponendo pezzi di soli quattro mi-
nuti. Nasce la cosiddetta Post-Modern Dance anche perché i movimenti rap-
presentati da Graham, Cunningham e Nikolais vengono inseriti nella sigla
Modern Dance.
59
La Post-Modern Dance produce nomi come Trisha Brown, Twyla Tharp
e Lucinda Childs: ognuna a modo suo sviluppa dei metodi coreografici e crea
degli spettacoli che non si attengono rigidamente ai dettami del manifesto di
Yvonne Rainer, e che costituiscono di fatto il terreno fertile da cui nasce il vasto
movimento della danza contemporanea, con tutti gli inevitabili ritorni all’indie-
tro che questi fenomeni determinano. La Twyla Tharp Dance Company porta
il suo personale stile coreografico contaminato col pop a Broadway e soprattutto
al cinema, curando le parti danzate di un cult come Hair (Id., 1978) di Milos
Forman o realizzando il monumentale The Catherine Wheel (1981) con musiche
di David Byrne dei Talking Heads e con un notevole apparato scenografico
e multimediale. Lucinda Childs, “coreografa concettuale” dallo stile minimale
caratterizzato da piccoli gesti ripetuti e ricombinati con minime variazioni, cura
le coreografie di Einstein on the Beach di Robert Wilson. Insomma, in questi
anni il “gigantismo” e le scelte estremamente minimali si accavallano continua-
mente fino a generare una sorta di ritorno alla classicità tipico delle coreografie di
Carolyn Carlson, danzatrice e coreografa che fonde intimamente il suo stile con
le musiche di Philip Glass, creando quasi uno standard che ha fortuna ancora
oggi.
Questa ondata sperimentale investe anche l’Europa, soprattutto la Francia
dove si parla di Nouvelle Danse con coreografi come Jean-Claude Gallotta,
Maguy Marin, e tanti altri che si formano negli anni Ottanta e in Germania,
dove scoppia il “caso” di Pina Bausch e del suo Tanztheater, il teatro-dan-
za. Pina Bausch è direttrice artistica dal 1972 del Wuppertal Opera Ballet,
chiamato in seguito Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, diventando una
compagnia indipendente. Tornano la ricerca dell’emozione e di strutture
drammaturgiche paranarrative, ma lo stile coreografico è figlio delle tante
avanguardie che si sono succedute in questi anni: la ripetizione, soprattutto,
diventa il canone estetico dominante per azioni che hanno come tema quasi
costante la relazione e la memoria. Pina Bausch è un punto di riferimento
soprattutto in Europa e il teatro-danza ha una diffusione capillare in tutto il
mondo della coreografia.
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Capitolo 2
1
Il sito del Museo Vostell a Malpartida è: http://museovostell.gobex.es/vostell.htm
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Jean-Christophe Averty
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Capitolo 2
Una data certa per scandire l’inizio della videoarte monocanale è rappresentata
dalla produzione di un programma di una tv locale americana, la WGBH-TV
di Boston, dal titolo The Medium Is the Medium. Video Visionaries5, trasmesso
5
Una versione dvd del programma è disponibile nel catalogo della Electronic Arts
Intermix: http://www.eai.org/title.htm?id=1443. La EAI non è una casa di distribuzione
vera e propria, ma un archivio che vende o affitta il proprio materiale principalmente a
istituzioni e a singoli collezionisti con norme descritte sul sito.
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Capitolo 2
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
Ed Emshwiller
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Capitolo 2
Mates del 1972: in questo video compaiono i classici magmi colorati che co-
stellano molta della produzione monocanale del periodo, influenzata dalla
presenza di Paik nel laboratorio. Ma Emshwiller è interessato a far convergere
più tecnologie, perché l’opera, che usa ancora una volta la danza come vei-
colo principale della rappresentazione del corpo, è costituita da una serie di
ambienti tridimensionali molto semplici realizzati con una computer grafica
elementare. I danzatori, ripresi in chroma key, sono inizialmente spezzati e
quindi si vedono solo frammenti di corpi abitare gli ambienti tridimensionali
immersi nel magma indefinito e incontrollabile del flusso analogico. Solo alla
fine del video i danzatori compaiono a corpo intero, compiendo una serie di
evoluzioni all’interno degli ambienti descritti. I paesaggi fanno spesso riferi-
mento alle atmosfere della pittura metafisica e a volte all’immaginario della
fantascienza degli anni Cinquanta: i colori glaciali degli ambienti minimali
e i movimenti quasi robotici dei danzatori, in contrasto con la caoticità delle
immagini astratte, contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa. Scape-Mates
è sicuramente uno dei primi video monocanali della storia della videoarte a
mostrare scelte estetiche solide e una notevole cura tecnica.
Due anni dopo l’artista americano realizza Crossings and Meetings (1974),
dimostrando un’anima più concettuale e ironica allo stesso tempo. Sempre
riprese in chroma key, una delle possibilità tecniche più sperimentate in que-
sto periodo, una figura maschile e una femminile passeggiano distrattamente
attraversando lo schermo: all’inizio gli sfondi rigorosamente fissi sono degli
spazi interni che offrono una visione realistica del quadro totale, tuttavia man
mano che il video procede i corpi diventano linee elettroniche, gli sfondi su-
biscono vari interventi per scomparire del tutto mentre le figure, variamente
manipolate, ripetute, montate in modo discontinuo, si trasformano in magmi
colorati e astratti che riempiono lo schermo.
L’idea dell’attraversamento dello spazio è un tema che ricorre spesso nella
videoarte monocanale, insieme alla ritrovata possibilità, erede del cinema d’ani-
mazione, di poter considerare il personaggio e lo sfondo due dimensioni autono-
me e modificabili parallelamente. Crossings and Meetings è un piccolo saggio di
svelamento dell’inganno che impone al pubblico di rendersi conto della presenza
di un trucco, o più semplicemente di accettare il fatto che con l’elettronica sia il
corpo sia lo spazio acquistano nature differenti, profondamente artificiali, e che
non possono più apparire come elementi realisticamente rappresentati.
Ed Emshwiller prosegue la sua ricerca – che tende ad assemblare imma-
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
gini analogiche e contributi digitali – con il suo lavoro più riuscito e maturo:
Sunstone, del 1979. Realizzato presso il New York Institute of Technology
grazie a un finanziamento della Guggenheim Foundation, questo video te-
stimonia e anticipa una tendenza tipica della Computer Art: il legame fra
questa tecnologia e la grafica in generale tipica di quegli artisti che hanno
un curriculum da pittori o illustratori, come nel caso di Emshwiller. Il video
si basa su una serie di semplici, ma efficaci, animazioni intorno a una figura
costante: un viso a forma di sole, articolando una serie di suggestioni simbo-
liche che attingono a un immaginario archetipico che rimanda all’iconografia
dei tarocchi, dell’alchimia, delle culture orientali e dei segni primevi della
civiltà umana. Nella sua breve durata il video è un capolavoro di “sintesi” nel
senso anche tecnologico del termine. Dopo che l’immagine del sole forma un
cubo rotante con delle elaborazioni varie dell’astro stesso proiettate sulle facce
dell’oggetto tridimensionale, il video termina con il passaggio di una figura
umana che lascia dietro di sé delle scie colorate, quasi a celebrare la nascita di
un “uomo nuovo” partorito dal mondo del digitale. Apparentemente sempli-
ce, poetico e denso di suggestioni, Sunstone, è sicuramente uno dei capolavori
della videoarte monocanale di questi anni.
Nel 1980 Emshwiller partecipa con Lillian Schwartz alla realizzazione
degli effetti speciali di un film di fantascienza prodotto direttamente per la
televisione dal canale WNET, The Lathe of Heaven, tratto dall’omonimo ro-
manzo di Ursula K. Le Guin, che ha un enorme successo di pubblico e che
riceve l’Academy Award per gli effetti speciali, segno che le vie della speri-
mentazione e del mainstream spesso si incrociano.
7
Il sito postumo dell’artista è: http://www.paikstudios.com/
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Capitolo 2
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
zione delle interferenze del segnale video che contraddistingue l’estetica di Paik
e che segna uno spartiacque nella storia della videoarte.
La famosa installazione del 1963, 13 Distorted Tv Sets, che per molti in-
dica l’inizio della videoarte, è composta da tredici televisori posti in semicer-
chio, sintonizzati su alcuni canali televisivi, le immagini dei quali vengono
opportunamente deformate da alcuni stratagemmi molto semplici, come l’ap-
plicazione di campi magnetici sui televisori stessi. Tutto avviene “live”, sia la
trasmissione del segnale sia la sua manipolazione. Le interferenze interessano
molto a Paik per un motivo estetico più complesso della semplice volontà di
disturbare le immagini televisive “ufficiali” o della possibilità di generare im-
magini astratte e dinamiche. Per l’artista è importante che lo spettatore capi-
sca che nell’immagine elettronica “Non vi è nessuna verità”, che è il prodotto
di un processo tecnologico complesso il cui risultato finale è sì un’immagine
riconoscibile, ma totalmente artefatta, quindi diventa più interessante rendere
visibile il processo di formazione dell’immagine e non l’immagine. Paik vuo-
le sventrare la scatola-televisore per mostrare il suo interno fatto di circuiti, di
un tubo catodico, di valvole, in una parola di tecnologia.
Contemporaneamente è affascinato dalla possibilità che il televisore e
l’immagine elettronica, opportunamente manipolati, possano produrre im-
magini dominate dalla velocità, dal caos, dai colori puri, dall’imprevedibi-
lità: i risultati possono apparire kitsch, di cattivo gusto, senza controllo dal
punto di vista formale. Ma il suo progetto è proprio questo: aprire la scatola
chiusa della tecnologia e renderla “ridicola”, approfittare dei suoi difetti, de-
gli incidenti, dei malfunzionamenti, degli errori. Questo approccio fa parte
dell’altra linea estetica perseguita ossessivamente dall’artista coreano, e cioè
l’umanizzazione della tecnologia: Paik non è un apocalittico, e la sua estetica
si basa su un ottimismo nei confronti della tecnologia volutamente infantile
e al contempo coerente; la tecnologia deve diventare uno strumento a favore
dell’uomo, non deve fagocitarlo, quindi è inutile demonizzarla perché può
trasformarsi in un gioco, o in un giocattolo vero e proprio. Da qui deriva-
no l’ironia (nel senso etimologico del termine, ovvero di distruzione) a volte
demenziale, l’irriverenza classicamente dadaista che permea tutta l’opera di
Paik, che prende molto sul serio la missione di scardinare la funzione “ufficia-
le” della televisione, ma che non vuole essere preso sul serio.
Per l’artista coreano la videoarte ha un solo nemico: la televisione, non la
tecnologia televisiva. È una forma di espressione che si proietta oltre la tecno-
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Steina (1940) e Woody (1937) Vasulka8 sono una coppia di artisti che si sono
incontrati a Praga. Woody, dopo una formazione in ingegneria meccanica, stu-
dia cinema e televisione, mentre Steina, islandese di origine, violino e teoria
musicale; da sposati, si trasferiscono a New York nel 1964. Qui Woody realizza
documentari e lavora come montatore per una società di produzione di filmati
industriali. La loro vena creativa e il clima effervescente di New York portano
i due artisti a frequentare sempre di più il “popolo” del Greenwich Village, il
quartiere dell’arte americana. Insieme cominciano a sperimentare l’immagine
elettronica e Woody abbandona il suo interesse per il cinema. Nel 1971 affit-
tano la cucina in disuso del Mercer Arts Center e la trasformano in uno spazio
espositivo per il video e le arti performative: nasce The Kitchen9. Nei due anni
in cui i Vasulka dirigono il centro, The Kitchen ospita artisti come Hermann
Nitsch o organizza eventi come il Women’s Video Festival, e lascia in eredità
un luogo che, dislocato in un’altra sede, ospiterà mostre di artisti appartenenti a
differenti discipline come Bill Viola, Gary Hill, Robert Mapplethorpe, Lucinda
Childs, Steve Reich, Philip Glass, Brian Eno, Peter Greenaway e altri.
Dopo un periodo trascorso a sviluppare un laboratorio produttivo
e a insegnare presso il Center for Media Study at the State University
of New York, i Vasulka, oramai noti nel panorama videoartistico, nel
1980 si trasferiscono a Santa Fe, nel New Mexico, definitivamente lontani
dal centro nevralgico dell’arte americana, per aprire un laboratorio in cui
sperimentano intensivamente la tecnologia elettronica e digitale, e in cui
possono autoprodurre in tutto o in parte le loro opere, avendo comunque
come supporto quasi costante i contributi dal National Endowment for the
Arts e il New Mexico Arts Division. La sterminata produzione dei Vasulka
– che si articola in video monocanali, videoinstallazioni e spettacoli mul-
timediali – ha firme differenti: alcune sono di Woody, altre di Steina, altre
ancora di entrambi. Steina si concentra su uno strumento da lei definito
Machine Vision, un complesso apparato ottico-elettronico-meccanico fatto
di sfere specchianti e telecamere collegate a circuito chiuso con dei monitor,
tutti elementi posizionati su strutture rotanti, che indagano il rapporto fra
8
Il sito degli artisti è: http://www.vasulka.org/
9
Il sito della sede attuale di The Kitchen è: http://www.thekitchen.org/
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Lavori selezionati di entrambi gli artisti sono visionabili sul sito della Fondazione
Langlois: http://www.fondationlanglois.org/html/e/page.php?NumPage=422
11
Un esempio recente di una videoperformance di Steina è visibile al seguente link: ht-
tps://vimeo.com/31770607
12
Una compilation di video di Woody Vasulka è stata pubblicata nel dvd Woody Vasulka:
Virtual Mushrooming DVD (1969-1987), Ed. Národní filmový archiv, sito di riferimento:
www.nfa.cz
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Capitolo 2
stesso titolo uscito nel 1966 della studiosa inglese Frances Yates: un viaggio
che affronta il tema del collegamento fra le immagini e la memoria attraver-
sando la mnemotecnica dei retori latini, che immaginavano ipotetiche strut-
ture architettoniche all’interno delle quali dislocare le varie parti del discorso;
l’immaginifico “Teatro della memoria” progettato da Giulio Camillo Delmi-
nio, una biblioteca circolare fatta di settori semoventi ognuno contrassegnato
da immagini tematiche; la filosofia di Giordano Bruno che preconizza con il
concetto di pictura mentis quello che oggi noi chiameremmo immagine men-
tale; il teatro di Shakespeare, suggestioni junghiane e altri temi connessi.
Woody Vasulka prende spunto da queste riflessioni per creare il suo per-
sonale teatro della memoria, contaminato da elementi naturali e artificiali,
presenze umane e figure metafisiche. Il paesaggio montagnoso del New Me-
xico, rappresentato sia realisticamente sia come flusso libero e inarrestabile
di energia, diventa il palco privilegiato sul quale inserire strutture architet-
toniche che mostrano, come in una sorta di mapping virtuale, drammati-
che immagini d’archivio inerenti la storia più recente, soprattutto la Seconda
guerra mondiale, la Guerra di Spagna, la guerra nel Pacifico, e l’inevitabi-
le immagine-icona dello scoppio della bomba atomica. All’interno di que-
sta complessa geografia di immagini inserisce due personaggi simbolici: un
uomo e un angelo dorato, i quali si incontrano e scontrano durante tutto il
video. Le immagini dei ricordi personali dell’uomo si mescolano e collidono
in un corto circuito percettivo con quel catalogo audiovisivo della memoria
già fissato e immutabile delle immagini d’archivio, creando soluzioni visive
affascinanti. Il dialogo e lo scontro fra l’uomo, rappresentante la dimensione
terrena e fugace, e l’angelo, che scruta impassibile nel flusso non controllabile
del tempo le immagini più atroci del nostro passato, sono il filo conduttore
di tutto il video, esplicitato dalla scena in cui l’uomo fotografa in lontananza
l’angelo, provocando la sua reazione violenta.
Il tema del ricordo fissato, incastonato per sempre nel mezzo fotografico
e cinematografico, in contrasto con la memoria che si scioglie nel magma
del video, è un altro contenuto che attraversa tutta l’opera, il cui andamento
paranarrativo offre diversi temi, crea una struttura simile a un “saggio per im-
magini”, proponendo un approccio estetico e stilistico che miscela abilmente
istanze sperimentali, immaginario astratto, riprese dal vero ed esigenze di
contenuto, che sfuggono alla formula del documentario, della sperimenta-
zione pura e della narratività classica. Verso la fine dell’opera l’uomo tenta
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Capitolo 2
John Whitney
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giano sullo schermo, con un chiaro riferimento, soprattutto per la scelta musi-
cale (un brano ritmico africano), a Free Radicals (1958), una delle ultime opere
di Len Lye, e alle forme recursive e circolari di Whitney, rivedute e corrette però
da uno spirito più irriverente e dadaista. Van Deer Beck in questo periodo in-
segna Visual Arts in varie università americane e diventa sempre più conosciuto
in ambito artistico, sviluppando varie tecniche di presentazione delle sue opere,
dalle proiezioni sul vapore effettuate alla Guggenheim Foundation fino alla
realizzazione di Violence Sonata (1970) all’interno del programma Rockefeller
Artists in Television, opera composta da immagini preregistrate e mixate in
tempo reale con la ripresa della sistematica distruzione di un pianoforte, conce-
pita su due schermi e trasmessa su due canali televisivi diversi in cui si invita lo
spettatore a usare due televisori collegati ai rispettivi canali.
Lillian Schwartz
Lillian Schwartz (1927)15 è una delle prime donne a comparire in questa storia
della videoarte monocanale, e in particolare della Computer Art. Dopo una
breve carriera come autrice di sculture e installazioni mixed media, frequenta
il laboratorio di WNET dove effettua una serie di esperimenti di elaborazione
live del segnale video assistita dal computer, per approdare ai Bell Labs dove
diventa artist in residence e consulente artistica dal 1969 al 2002. Qui incontra
la tecnologia digitale della quale diventa sperimentatrice. Il corpus di opere di
Schwarz, che continua a produrre incessantemente ancora oggi, è veramente
sterminato. La prima produzione dell’artista americana è composta da video
non interamente realizzati in computer grafica, ma frutto di un abile mix fra
elementi naturali (soprattutto colori e liquidi versati su superfici trasparenti) e
semplici elaborazioni grafiche: il colore è molto importante nella videografia di
Schwarz così come il contrasto, ma anche l’ambigua somiglianza fra naturale
e artificiale, uno dei suoi temi preferiti. Con questo approccio sono realizza-
ti Pixillation (1971), e Mutations (1972), quest’ultimo arricchito da riprese di
luci al laser. Il binomio musica-immagini è qui rigorosamente elettronico: nel
primo compare un flusso di suoni di stampo rumoristico, mentre nel secondo
un brano del compositore Jean-Claude Risset. È inoltre presente una notevole
15
Il sito dell’artista è: http://lillian.com/, dove è visionabile gran parte della sua ricchis-
sima videografia.
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Capitolo 2
padronanza del senso del colore e del ritmo di montaggio: si tratta di opere di
breve durata in grado di tenere alta l’attenzione dello spettatore.
In altri casi l’artista americana squaderna le potenzialità dell’astrazione
2D digitale cercando forme che richiamano il flusso, la velocità, la pulsazione
dell’immagine, come in UFO’S del 1971, mentre Apothesis del 1973 scan-
daglia la possibilità di creare forme geometriche non facilmente definibili,
immerse nel nero e continuamente in trasformazione. Schwarz negli anni uti-
lizza diversi software e modalità di produzione, rimanendo fedele al concetto
di astrazione bidimensionale, e sperimentando anche sistemi di interattività
fra immagine analogica e digitale.
William Latham
Il passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta, per quello che riguarda la
Computer Art, segna l’ingresso del 3D e un rinnovato interesse nei confronti
dell’astrazione. E attesta anche un mutamento di approccio al digitale: se
prima abbiamo citato artisti che, in collaborazione con programmatori, si av-
vicinano al linguaggio dei computer per poi diventare autonomi, ora l’artista
è in prima persona un programmatore, in grado di scrivere o riscrivere il soft-
ware secondo le sue necessità. Cambia anche la modalità di creazione delle
immagini: se prima l’idea di fondo era quella di disegnare e di organizzare
delle forme grafiche, ora la gestione degli oggetti può essere affidata a sistemi
di autogenerazione casuale basati su semplici sistemi di intelligenza artificiale.
In questo caso l’artista non disegna più direttamente gli oggetti uno per uno,
ma crea un ambiente in cui i singoli elementi assumono dei comportamenti
guidati che conducono a risultati formali non prevedibili.
William Latham (1961)16 è un programmatore che lavora presso la divi-
sione inglese dell’IBM per la sezione grafica, per poi diventare il responsabile
di molte società di sviluppo di videogiochi e docente di varie università bri-
tanniche. Autore di fotografie digitali e di videoinstallazioni, produce pochi
ma significativi video monocanali, tra cui alcuni video musicali per il gruppo
techno The Shamen. Latham definisce la sua estetica col nome di Organic
Art, da cui deriva il termine più attuale Generative Art.
La sua opera più importante è A Sequence from the Evolution of Form, del
16
Il sito dell’artista è: http://doc.gold.ac.uk/~mas01whl/index.html
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
1986, un breve ma folgorante video in cui il titolo stesso indica una tempo-
ralità che il supporto non può visualizzare pienamente: quest’opera è una
sequenza, solo il frammento di un organismo in crescita perenne; all’osserva-
tore è concesso vedere solo l’abbozzo di una forma che ha una sorta di “vita
propria”, indipendente da qualsiasi supporto di registrazione. Una serie di
particelle dalla superficie metallica compie delle evoluzioni dal centro dello
schermo, immersa in un nero che qui ha il valore di una sorta di “notte dei
tempi”, un buio primordiale dal quale fuoriescono forme di vita elementari.
Rapidamente queste “cellule” cominciano ad agglomerarsi creando forme de-
finite: quando la struttura sembra completa, ruota su se stessa per farsi osser-
vare da tutti i lati, e a quel punto si disgrega, per permettere alle particelle di
crearne delle altre. Le forme che queste cellule generano in un processo con-
tinuo e potenzialmente infinito, sono relazionate alla struttura più semplice
della natura: la spirale. In realtà, fra riferimenti alla forma della conchiglia,
del DNA, del polipo, della stella marina eccetera, il mandala sembra ancora
un orizzonte simbolico citato quasi obbligatoriamente.
A Sequence from the Evolution of Form è una tappa importante per l’astrazione
animata, anche per la modalità di creazione e di gestione delle forme. Qui alle
singole particelle sono stati impostati dei parametri di aggregazione di disaggrega-
zione che fanno sì che di volta in volta creino forme differenti e non previste piena-
mente dal programmatore. La gestione del caso, in una sorta di ordine artificiale
che richiama la generazione di forme naturali, è una spinta stilistica che Latham
intuisce essere essenziale per l’estetica digitale ed è un’idea che verrà copiata, omag-
giata in vario modo per molti anni a seguire. Latham aggiunge anche una fascina-
zione in più tipicamente digitale: l’idea della superficie fredda, artificiale, metallica,
fatta di punti-sfere che si snodano e creano forme sinuose in continuo movimento.
Questo oggetto metallico si muove e cresce: in una parola, contraddittoriamente,
vive, e squaderna anche l’ambivalenza fra macrocosmo e microcosmo, intuita da
Whitney, ma qui pienamente visualizzata.
Yoichiro Kawaguchi
17
Il sito dell’artista è: http://www.yoichiro-kawaguchi.com/
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Capitolo 2
Gary Hill
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
dell’elettronica e del digitale sono i temi costanti e ossessivi delle sue opere.
Dal punto di vista stilistico Gary Hill oscilla tra la scoperta dell’astrazione
elettronica e il desiderio di lavorare con immagini referenziali, a volte accura-
tamente riprese, e con un approccio estetico simile al cinema sperimentale di
Michael Snow: crea uno stile unico che coniuga una visionarietà suggestiva
e una radicalità verticale che trasformano alcuni suoi video in opere struttu-
raliste, rigorosamente votate alla ricerca del linguaggio interno insito nelle
macchine. Gary Hill è anche un performer di reading, e la ricerca sulla voce
umana è un’altra traccia costante della sua opera.
L’artista comincia a produrre video già dalla data “fatale” del 1973, con
The Fall, semplice giustapposizione di elementi naturali e oggetti tecnolo-
gici. In seguito indaga le possibilità di manipolazione dell’immagine video
soprattutto per quello che riguarda i colori, le solarizzazioni e l’uso del nega-
tivo in modo tale da renderle quasi irriconoscibili, come in Mirror Road del
1976. Nel frattempo, grazie all’incontro con Steina e Woody Vasulka presso
il Center for Media Study di Buffalo (New York), anche Hill comincia a spe-
rimentare il mondo astratto dell’elettronica attraverso l’uso del feedback, del
Video Synthesizer e di quegli strumenti che fanno parte della prima ondata
di sperimentazione videoartistica.
La svolta estetica avviene nel 1977, quando l’attenzione verso il linguaggio
trascina Gary Hill su una sponda di ricerca personale: Electronic Linguistics
è un video in cui l’artista, che come molti altri ha un approccio all’immagi-
ne da musicista elettronico, indaga la somiglianza di alcuni suoni elettronici
con la voce umana, come per rintracciare uno spazio di linguaggio naturale
all’interno delle frequenze sonore. Dal punto di vista visivo semplici imma-
gini astratte in bianco e nero seguono il percorso dei suoni comportandosi
in maniera interattiva. Nel 1978 realizza Elements, dove una serie di disturbi
video vanno a sincrono con frammenti di frasi e parole disturbate elettro-
nicamente. Dal 1979 Gary Hill viene finanziato da diversi enti, dal Natio-
nal Endowments for the Arts, alla Rockefeller Foundation alla Guggenheim
Foundation, per cui anche dal punto di vista tecnico i suoi video acquistano
più maturità.
In Equal Time (1979) la ricerca sul collegamento fra linguaggio e imma-
ginario elettronico si affina attraverso una scelta anomala per i videoartisti
di questo periodo, ovvero l’uso della voce fuori campo: visivamente, due
semplici barre verticali scorrono sullo schermo incontrandosi e separandosi,
91
Capitolo 2
mentre due voci che recitano due testi diversi percorrono lo stesso spazio
sfruttando le possibilità dello stereo; nel momento in cui le due barre si in-
contrano le due voci in sincrono si trovano a recitare il medesimo testo, per
poi separarsi nuovamente. In Videograms (1980-1981) usa il Rutt-Etra Scan
Processor per produrre una serie di brevi episodi in cui semplici immagini
astratte vengono commentate da una voce fuori campo che recita con toni
freddi, testi paradossali come fossero poesie in prosa creando dei corto-
circuiti di senso con le immagini presentate. Gary Hill, al contrario dei
videoartisti precedentemente citati, non è ideologicamente schierato a favore
di un certo tipo di estetica elettronica, per cui ricorre a modalità stilistiche
tipicamente e classicamente cinematografiche, come la voce fuori campo,
creando un ibrido interessante fra Arte Concettuale, cinema sperimentale
e videoarte. Questa ricerca trova nuove formule in Processual Video (1980)
e Happenstance (Part One of Many Parts) (1982-83), splendida animazione
e rielaborazione di testi che diventano immagini elettroniche a metà fra
l’astratto e il referenziale.
Around and About del 1980 mostra l’altro versante della ricerca di Gary
Hill: al suono di un testo recitato in maniera monotona, una serie di immagini
raffiguranti oggetti di un ambiente domestico viene montata su ogni singola
parola. L’effetto finale è che il monologo produce le immagini in continui slit-
tamenti di senso. Le immagini sono talmente brevi da risultare delle fotografie,
e gli oggetti sono illuminati in maniera curata: si avverte la presenza di un set,
ma al contempo Hill affina una delle tecniche di montaggio che utilizzerà più
spesso: l’uso delle tendine e delle finestre che vanno a destrutturare sempre più
le immagini “correttamente” riprese.
In Primarily Speaking (1981-1983) due finestre centrali, inserite in sfondi
astratti che richiamano (come le barre di colore) la presenza tecnologica della
televisione, ospitano immagini sincronizzate a due voci che creano uno dialo-
go stralunato. In questo video compaiono altre scelte tipiche della videografia
di Hill: alcuni oggetti sono posti in un contesto quotidiano, solitamente rife-
rito all’interno di una stanza, mentre altri vengono isolati e mostrati come og-
getti presenti in uno studio fotografico; in altri casi ci sono immagini realiz-
zate in stop motion, o montate in maniera talmente frammentata e veloce da
sembrare un’animazione. L’evidenza dell’artificio visivo e la tessitura astratta
dei testi di Hill concorrono sempre di più a costruire una struttura che rap-
porta la voce all’immagine e che rende la prima la vera “regista” del video.
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
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Capitolo 2
fino al finale in cui il suo corpo nudo, circondato da escrementi, che pronun-
cia fonemi senza senso, giace in una stanza bianca sulle pareti della quale
sorgono, gigantesche, le lettere del testo di Blanchot. Questo lungo viaggio
segnato dalla catastrofe è guidato da un altro protagonista del video: l’acqua,
un’immagine che ricorre ossessivamente in molte opere di videoartisti, come
Fabrizio Plessi e Bill Viola, non più il flusso dell’elettronica, ma l’elemento
naturale che più di tutti le somiglia. La discesa del corpo del protagonista
nell’acqua, qui visualizzata con uno scarto di montaggio tipicamente surrea-
lista (Hill casca da una tavola imbandita trascinando con sé la tovaglia e tutti
gli oggetti appoggiati, e a stacco vediamo il suo corpo tuffarsi nell’acqua) è un
altro elemento visivo che ritorna spesso in artisti differenti.
Anche in questo caso, come in Primarily Speaking, la dimensione indivi-
duale dell’artista è rappresentata da spazi chiusi, domestici, scorci di stanze,
o da situazioni esterne chiaramente “scenografate”, come la ripresa notturna
in cui Hill corre in un bosco, mentre le situazioni visive più oniriche, come
la sequenza della cena (ripresa da una carrellata circolare che sembra non fer-
marsi mai e in cui compaiono personaggi che vengono definiti dalle singole
parole che pronunciano) si presenta come un set quasi teatrale: non a caso
questa scena sfocia in una sorta di performance dionisiaca in cui vengono
distrutti vari oggetti.
Hill prosegue la sua fortunata attività ancora oggi, realizzando videoin-
stallazioni, sculture e installazioni con diversi media, relazionandosi costan-
temente con il tema del linguaggio in rapporto alle nuove tecnologie.
Robert Cahen
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
20
Il video è visionabile al seguente link di Vimeo: https://vimeo.com/66317849
21
Il video è visionabile sul sito di Grand Canal: http://grandcanal.free.fr/video_80_03.html
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Capitolo 2
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
con la rappresentazione del corpo danzante: Parcelle de ciel del 1987 e Solo del
1989. Il primo, prodotto dall’INA e da La Sept, un canale televisivo via satellite
che in seguito diventerà ARTE (che offre uno spazio di visibilità inusitato per la
sperimentazione video francese), trasforma i corpi dei danzatori in ectoplasmi
elettronici, complici gli effetti dello scan processor, ma anche del rallentatore
che crea scie di ritardo visivo sull’immagine e del montaggio che puntualizza
la coreografia, fermando addirittura l’immagine. Quasi lo stesso discorso vale
per Solo, prodotto dal canale televisivo spagnolo RTVE per la serie El arte del
video, su coreografia di Bernardo Montet, dove le evoluzioni di un danzatore
in un’arena da corrida deserta vengono continuamente rallentate, interrotte,
mandate all’indietro, fino alla dissoluzione finale in cui tutta l’immagine viene
distorta come se fosse riflessa su uno schermo deformante. Cahen sperimen-
tando il fermo immagine rivela un altro possibile e contraddittorio “passaggio”
di stato dell’immagine video, ovvero il ritorno a una natura primordiale, pre-
tecnologica, fotografica, di glaciazione dell’istante e del movimento.
Le committenze per Cahen diventano sempre più numerose e variegate:
nel 1988 The Kitchen gli commissiona un video su musica di John Zorn, il
post-jazzista “rumorista” di New York, Le deuxième jour, un omaggio musica-
le al cinema di Jean-Luc Godard, che Cahen svolge evitando accuratamente
di citare le opere del grande cineasta francese, ma approfondendo un tema
che si rivela sempre più pregnante per la sua estetica: la rappresentazione del
paesaggio, soprattutto quello urbano. Le deuxième jour è un esempio interes-
sante di video musicale “d’artista”, dove le immagini di New York sono la
struttura visiva portante per una serie di incastri visivo-musicali attenti a non
ricadere nel cliché della sincronicità o del puro accompagnamento.
Fra i partner produttivi dei video di Cahen compaiono sempre più spes-
so, oltre all’INA, dei canali televisivi: gli anni Ottanta e in parte Novanta,
soprattutto in Francia ma anche in Inghilterra, in Germania e parzialmente
in Italia, testimoniano un interesse piuttosto attivo da parte di alcune realtà
televisive per la sperimentazione audiovisiva.
La maggiore visibilità che Cahen ottiene grazie a una committenza te-
levisiva è rappresentata da una proposta dell’INA e del canale FR 3 che vo-
gliono “svecchiare” i cosiddetti “intervalli televisivi”. Nasce Cartes postales
vidéo (1984-86) in collaborazione con Alain Longuet e Stéphane Huter, una
serie di cartoline di varie città del mondo, presentate come immagini fisse di
30’’ nelle quali a un certo punto, inaspettatamente, si muove qualcosa: o un
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Capitolo 2
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
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Capitolo 2
Bill Viola
Bill Viola (1951)22, come molti altri videoartisti già citati, ha un bagaglio di
studi artistici e soprattutto musicali: fa parte dell’Ensemble Rainforest del
compositore David Tudor, allievo di John Cage, e gli studi sulla musica elet-
tronica e in generale le collaborazioni con altri musicisti sono elementi im-
portanti per l’estetica del videoartista americano. Dal 1974 al 1976 è direttore
tecnico di Art/Tapes/22 di Firenze, una delle prime gallerie (diretta da Maria
Gloria Bicocchi) a offrire agli artisti la possibilità di produrre video (in Italia,
negli stessi anni, esiste un’altra realtà simile, il Centro Videoarte di Palazzo dei
Diamanti a Ferrara, nato nel 1972, dove nasce e si sviluppa l’opera di Fabrizio
Plessi). Grazie a una serie di finanziamenti da quegli enti culturali già citati (le
fondazioni Guggenheim e Rockefeller) Bill Viola viaggia nelle Isole Solomon, a
Java, a Bali, in Giappone, documentando il più possibile con la sua telecamera,
per poi tornare a New York come artist in residence presso il Lab di WNET/
Thirteen. Nel 1977 è chiamato dall’artista e curatrice Kira Perov a presentare
un programma sulla videoarte alla Trobe University a Melbourne, in Australia.
I due si sposano l’anno successivo e compiono insieme una serie di viaggi nel
Sahara, in Tunisia e in Giappone, dove si fermano per un anno e mezzo e dove
Bill Viola studia buddhismo con il maestro Daien Tanaka, mentre è artist in
residence presso la Sony Corporation, primo artista occidentale a essere scel-
to dalla grande industria giapponese. Tornati negli Stati Uniti agli inizi degli
anni Ottanta, fondano il Bill Viola Studio, diretto da Kira Perov, fotografa che
assiste assiduamente il marito non solo nella realizzazione delle opere video
(sia monocanali sia installazioni), ma anche nella documentazione fotografica,
sperimentando tecnologie in grado di stampare su carta frame da video. Kira
Perov diventa col tempo anche curatrice e organizzatrice di alcune grandi mo-
stre del marito.
Come si può notare dalle brevi biografie degli artisti presi in considerazio-
ne, la logica del “gruppo” tipica degli anni Sessanta si scioglie gradualmente a
favore dell’artista solitario che innesta delle collaborazioni con altre realtà, ma
22
Il sito dell’artista è: http://www.billviola.com/. Bill Viola Works è un cofanetto di Raro
Video curato da Bruno di Marino contenente tre opere di Bill Viola: Hatsu Yume (First
Dream), 1981, I Don’t Know What It Is I Am Like (1986) e The Passing (1991) (http://www.
rarovideo.com/Page.asp/id=401/A501=1497/bill-viola-works. Nel 2010 le Éditions à voir
hanno editato, a cura di Bill Biola e Kira Perov, il dvd Selected Works: 1976-1981.
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
che non fa più parte di una “comunità”. Anche dal punto di vista tematico,
i contenuti diventano meno “collettivi”, poco riferiti al mezzo televisivo o a
un contesto di ribellione sociale o politica, ma diventano più privati, si rife-
riscono principalmente all’io dell’artista e alla sua sfera esperienziale, quasi
esistenziale, che assume come mezzo privilegiato il viaggio.
Bill Viola è autore di video monocanali e di videoinstallazioni, e fin da
subito si contraddistingue per uno stile visivo semplice e diretto che lo porterà
al successo internazionale. Dopo una esplorazione dell’astrazione elettronica
con il video Information, realizzato nel 1973, un anno affollato di opere prime
di molti videoartisti, il primo video monocanale già significativo per la sua
personale estetica è The Reflecting Pool (1977-1979). In questo video è chiaro
l’uso che Bill Viola fa del proprio corpo nella prima fase della sua produzione
monocanale: da un lato c’è un richiamo forte all’idea performativa, alla tra-
dizione tipica della Body Art di considerare il corpo dell’artista come l’unico
“agente” possibile del quadro dell’immagine, dall’altro questo riferimento si
scioglie a favore di una sorta di “presenza” che compie dei gesti minimi o che,
come spesso accade nei video successivi, quasi non agisce, ed è seduta su una
sedia, in una situazione meditativa e contemplativa. In questo caso l’azione
di Bill Viola è minima: compie un salto come per tuffarsi in una piscina qua-
drata immersa nel verde. Il corpo è fermato a mezz’aria grazie a un fermo im-
magine, mentre al di sotto di questa dimensione congelata, la vasca riflette lo
scorrere del tempo con eventi vari, increspandosi, illuminandosi più o meno
di raggi di sole, rispecchiando sagome di persone che si avvicinano e si allon-
tanano. Lentamente il fermo immagine di Bill Viola svanisce fra le fronde, e
il suo corpo nudo riemerge dalla piscina e si allontana nel bosco.
Bill Viola non è interessato all’astrazione dell’elettronica e alla manipolazione
dell’immagine che svela l’interno della macchina video: è alla ricerca di altri
“interni”, ovvero dell’interiorità spirituale che pure appartiene al video, grazie
alla sua capacità di catturare un tempo dell’immagine potenzialmente infinito.
Preferisce usare la tecnologia per nasconderla, o per creare paradossi spazio-tem-
porali che conducono lo spettatore verso una sorta di consapevolezza che non
riguarda solo le questioni classiche della “verità” dell’immagine, ma del grado
di esperienza personale che l’immagine può dare. La manipolazione del tempo
e dello spazio serve a rappresentare un’immagine simbolica molto semplice, e i
passaggi di stato che il protagonista deve attraversare per concluderla e viverla
appieno: il battesimo, uno dei temi visivi più ricorrenti nella sua videografia.
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Capitolo 2
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
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Capitolo 2
Dal punto di vista sonoro, Viola usa quasi sempre l’audio in presa diretta,
i rumori delle azioni e alcune semplici elaborazione degli stessi: una scelta
“anti-musicale” presente in quasi tutta la sua videografia, eccetto per alcune
committenze di cui si parlerà in seguito. Anthem (1983), prodotto dalla Ro-
ckefeller Foundation, Sony Corporation e American Film Institute, indaga
ulteriormente l’immaginario oscuro e perturbante del videoartista america-
no: l’inno a cui il titolo si riferisce è l’urlo di una bambina giapponese in
piedi nella hall di uno spazio buio. Questo suono rallentato e velocizzato
fa da substrato a tutto il video, che è un montaggio abile e ben calibrato di
varie immagini volte a scatenare delle sensazioni inquietanti nello spettatore:
operazioni chirurgiche, ambienti industriali notturni, serpenti che entrano
dentro a tronchi d’albero, associate a immagini diurne in netto contrasto con
le precedenti (bagnanti al sole, complessi industriali di perforazione, interni
d’ospedale). In Anthem si riprende deliberatamente la tradizione del montag-
gio analogico delle avanguardie cinematografiche, innestando delle associa-
zioni, talora violente, fra le immagini, la gran parte delle quali richiama l’idea
della penetrazione, del taglio, dell’intrusione della tecnologia. È un video
che testimonia l’interesse per le immagine mediche che incontreremo anche
nella videografia di Peter Greenaway, ma è soprattutto la visualizzazione di
una natura minacciosamente dominata dalla macchina, con corpi in bilico
fra la vita e la morte, in balia di strumenti che tagliano, curano e scrutano il
loro interno.
L’estetica di Bill Viola abbandona sempre di più la vocazione manipolato-
ria tipica della videoarte monocanale, ricercando nelle immagini una qualità
fotografica da “bella immagine”, con l’intervento di luci curate, recuperando
il valore del set e adottando soluzioni di montaggio tradizionali. Man mano
che il videoartista americano produce le sue opere (così come avviene anche
per Gary Hill) e che la tecnologia video comincia a garantire una certa defi-
nizione, si avverte il ritorno a una estetica più cinematografica, tanto che le
sue opere, degli anni Ottanta e Novanta, aprono un confine a volte ambiguo,
in bilico fra videoarte e cinema d’avanguardia formando un ibrido linguistico
che potremmo definire “cinema sperimentale elettronico”. La consapevolezza
di usare tecnologie video lo spinge comunque a interrogarsi sul mezzo più che
altro dal punto di vista percettivo, ovvero di come la tecnologia video interpreta
il mondo, il suo spazio, il suo tempo. La distanza dall’estetica della televisione
non consiste più nello “spaccare” la macchina e usare l’elettronica indagando
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
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Capitolo 2
sguardo, la loro percezione del mondo; una lunga zoomata dentro l’occhio di
una civetta introduce la parte in cui Bill Viola, seduto in un interno buio, sta
osservando antichi libri con immagini anatomiche del cervello. La dimensio-
ne mentale del protagonista del video è rappresentata da una serie di riflessi
del suo corpo che si diffondono in tutto l’ambiente, grazie a bicchieri, specchi,
finestre, gocce d’acqua. Il protagonista ha un piccolo monitor nel quale osser-
va riprese di rituali estremi in cui alcune persone si perforano il viso con aghi
molto lunghi. Il suo habitat domestico, mentre si sta cibando di un pesce su
una tavola spartanamente imbandita, si anima di presenze animali: un gatto,
una lumaca, un pulcino che nasce da un uovo, un elefante, presenze primitive
che cominciano a popolare il suo universo. L’atmosfera è contemplativa: tutto
avviene lentamente e le immagini procedono ritualmente con un montaggio
semplice, come in perenne attesa di qualcosa. Improvvisamente, anticipato
dall’immagine di un cane lupo che al rallentatore sembra aggredire l’osser-
vatore, comincia un montaggio ritmico scandito da una serie di battiti in cui
si intravedono immagini di denti di animali, paesaggi abbandonati, flash di
puro colore che introducono una lunga sequenza in cui, accompagnate da una
musica ritmica e ipnotica, appaiono a tutto schermo le immagini intraviste
nel monitor citate prima. Dal fondo marino dell’inizio del video emerge un
pesce che viene trasportato sulla terraferma e lì, lentamente, si decompone.
L’accettazione del “passaggio di stato” deve avvenire attraverso la conoscenza
del dolore e la consapevolezza della morte: bisogna quindi abbandonarsi a un
senso primitivo dell’esistenza che però può essere comunicato anche dalla tec-
nologia e dal “suo” sapere, dalla sua capacità di interpretare, anche in maniera
visionaria, il mondo.
The Passing del 1991 è il video più emotivo e più connesso al tema del le-
game inscindibile fra vita e morte. Prodotto dal National Endowments for the
Arts e dal canale televisivo ZDF, nasce dalla vicinanza temporale tra la morte
della madre di Bill Viola e la nascita di suo figlio: un passaggio fra vita e morte
(o viceversa) che è il tema cardine di tutta l’opera. Girato interamente con tele-
camere a raggi infrarossi (strumenti molto sensibili in grado di poter riprodurre
con molta chiarezza immagini notturne), è un viaggio autobiografico nel buio,
nel mistero della vita e della morte, associate allo stato di veglia e di sonno.
Qui Bill Viola costruisce una sorta di “mitologia metafisica dell’io” simile a
certe esperienze cinematografiche di Stan Brakhage, e in alcuni punti, come la
scena della nascita del figlio, sembra quasi fare delle citazioni dirette al filmma-
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
Klaus Vom Bruch (1952)23 fra il 1975 e il 1976 è allievo di John Baldessari,
esponente dell’Arte Concettuale presso il California Institute of the Arts, stu-
dia filosofia all’Università di Colonia fra il 1976 e il 1980, e diventa docente
di Media Arts in varie università tedesche. Come quasi tutti i videoartisti qui
trattati, è autore sia di video monocanali sia di videoinstallazioni.
Realizza video dalla metà degli anni Settanta riprendendo la pratica del
23
Il sito dell’artista è: http://www.kvb.com/, la sua pagina YouTube è: https://www.you-
tube.com/user/djbruch, mentre la sua pagina Vimeo, più ricca di contributi, è: https://
vimeo.com/user8759686
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Capitolo 2
non essere usata dai videoartisti che si concentrano sul televisore come og-
getto e sulla generazione delle immagini in tempo reale. La diretta provoca
un rinnovato interesse nei confronti del tempo, che col video può diventare
potenzialmente infinito, discostandosi in maniera radicale dal concetto di
durata, insito nella tecnologia e nel linguaggio cinematografici. L’immagine
elettronica non solo esiste “di per sé”, ma può durare per sempre, innestando
vertigini percettive basate su un’idea di fruizione ipnotica. Come per ciò che
riguarda la formazione dell’immagine, anche la diretta può essere “capovolta”
linguisticamente ed essere usata come materiale duttile da elaborare, cosa
che avviene in molte videoinstallazioni. Con la tecnologia si può giocare: se
l’immagine elettronica è un magma fluido in perenne movimento, può anche
essere costantemente manipolabile, e da qui deriva una sorta di “estetica della
metamorfosi” tipica della videoarte degli esordi.
L’avvento delle telecamere, inizialmente in bianco e nero e con una defi-
nizione scarsa, diffonde anche in questo caso il desiderio di sfruttare le “man-
canze” della tecnologia a favore di un aumento di consapevolezza estetica.
Dalle riprese della macchina video allora si cerca di evidenziare e manipolare
ulteriormente proprio la bassa definizione delle sue forme che appaiono di
natura fragile, fantasmatica, indefinita, umbratile, trasparente, a confermare
da un lato l’impossibilità di questa tecnologia di rappresentare in maniera
naturalistica il mondo, essendone un’interpretazione artificiale altamente for-
malizzata, dall’altro l’appartenenza di queste forme al regno della mente, del
sogno e della memoria. Alcuni hanno chiamato questa tendenza “estetica del-
la bassa definizione”, che si perpetua anche nel momento in cui la tecnologia
video acquista tecnicamente negli anni una maggiore risoluzione.
Se il video non può, o non deve, produrre immagini realistiche, allora
qualsiasi forma pur definita deve essere manipolata: in questo caso quell’este-
tica della metamorfosi applicata al segnale puro o al palinsesto televisivo viene
utilizzata per forzare la fuoriuscita della trama, del “rumore”; operazione age-
volata da un bagaglio di effetti speciali (solarizzazioni, negativi, effetti di mo-
saicizzazione, comparsa di scie sui movimenti) che hanno origini nella ricerca
fotografica e cinematografica, e che per il video non sono affatto considerabili
“speciali” ma connaturati all’essenza liquida della sua tecnologia. Con l’av-
vento del colore si cerca di “preservare” la colorimetria fredda o eccessivamen-
te calda del video, senza preoccuparsi di eventuali risultati kitsch o forzati
dal punto di vista cromatico: di nuovo, si può o si deve giocare con il sistema
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Capitolo 2
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Per quello che riguarda la Computer Art invece si può dire che la ricerca
sull’astrazione diventa la struttura portante sulla quale si articolano diversi
approcci al mezzo tecnologico e differenti scelte stilistiche. L’avvento del 3D e
del metodo generativo applicato all’immagine di sintesi determina l’avvicina-
mento dell’idea di astrazione alla visualizzazione di qualcosa di riconoscibile,
un’interpretazione digitale di forme naturali o viventi. L’estetica del simula-
cro e l’idea dell’immagine come oggetto non collimano con il desiderio di
gestire forme riconoscibili, e la computer grafica astratta per tutti gli anni Set-
tanta risiede nei laboratori informatici in grado di fornire le strumentazioni
necessarie ad artisti dalla formazione tradizionale (pittura astratta, disegno,
cinema astratto), che con l’avvento del 3D si trasformano in ingegneri infor-
matici in grado di gestire in prima persona i software usati. La Computer
Art, al contrario della videoarte, negli anni Sessanta e Settanta non ha un
“nemico estetico” al quale contrapporsi, ma sviluppa liberamente il proprio
linguaggio astratto anche perché dal punto di vista tecnologico le macchine
usate si esprimono al meglio con quelle scelte stilistiche.
Gli anni Ottanta e soprattutto Novanta determinano in modo rapido
una serie di bruschi mutamenti: l’avvento dei personal computer, la diffusio-
ne della cultura e dell’industria dei videogiochi, il sempre più vivo interesse
dell’industria cinematografica e televisiva per i cosiddetti effetti speciali, con
la rinascita di generi come la fantascienza e il fantasy. L’interfaccia utente dei
computer diventa sempre più grafico e iconico, e bisogna ammettere che l’uti-
lizzo delle finestre, oramai diventato di uso comune, ha origine nel linguaggio
dell’elettronica, in particolare di una certo tipo di televisione e di videoarte
monocanale. I videogiochi e l’industria dell’intrattenimento televisivo e ci-
nematografico puntano tutto sulla ricerca del verosimile, la computer grafica
è invece vista in una logica di sostituzione del set e/o degli attori, quindi da
questa tecnologia si pretende il massimo del realismo, con la relativa diffusio-
ne di software che operativamente rispondono a questa esigenza. E se anche
alcuni teorici insistono sul fatto che, sia o no realistica, un’immagine digitale
è pur sempre un simulacro, improvvisamente molti artisti si trovano di fronte
a un’estetica di origine industriale che conquista fette sempre più ampie di
consenso e di pubblico, insomma uno standard con o contro il quale pren-
dere posizione. Generalizzando, di fronte a questo fenomeno si creano varie
correnti: chi sostiene che la simulazione fotorealistica può essere comunque
uno strumento di sperimentazione da ribaltare in vario modo; chi si oppone
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Capitolo 2
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
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Capitolo 2
per alcuni, di una diaspora per altri, di un certo tipo di linguaggio audiovisi-
vo che si diffonde dai video musicali alla televisione fino al cinema.
Se l’estetica videoartistica diventa un punto di riferimento per registi di
video musicali come David Mallet e molti altri, la lista dei videoartisti che
collaborano a vario titolo con MTV o che vengono coinvolti in progetti chia-
ramente videomusicali sono tanti, e alcuni di questi sono nomi già noti mentre
altri verranno approfonditi più avanti: Zbigniew Rybczynski, John Samborn,
Joan Logue, William Wegman, Peter Callas, Robert Cahen, Bill Viola per il
tour And All That Could Have Been (2002) dei Nine Inch Nails, Tony Oursler
per David Bowie. Anche la Computer Art viene coinvolta da questo processo di
assimilazione con autori come Rebecca Allen per i Kraftwerk, Dean Winkler
per Peter Gabriel e Laurie Anderson, William Latham per The Shamen.
Su versanti musicali più “colti”, Laurie Anderson lega la propria attività di
musicista multimediale a un immaginario elettronico che molto, quasi tutto,
deve a quello videoartistico, così come bisogna citare tutta la produzione vi-
deomusicale dei The Residents, vero crocevia di sperimentazioni audiovisive,
la collaborazione fra Nam June Paik e Ryuichi Sakamoto, e Brian Eno che
sdogana l’idea della videoinstallazione classica (quella fatta con i monitor per
intenderci) a uso e consumo di un pubblico di massa nel momento in cui cura
il gigantesco allestimento multimediale del tour degli U2 Zoo TV (1994), e
infine la videografia di Björk. Senza dimenticare anche la stretta connessione
fra videodanza e videomusica, che si incarna nella figura della musicista Kate
Bush, e nelle collaborazioni fra David Bowie e i La La La Human Steps,
Twyla Tharp e David Byrne nella versione video dello spettacolo Catherine
Wheel (1983) dove compaiono immagini digitali di Rebecca Allen, e fra il
coreografo e autore di videodanza Philippe Decouflé e i New Order.
Senza dimenticare, per quello che riguarda l’animazione sperimentale, Jan
Švankmajer e i Brothers Quay che collaborano con MTV per la realizzazione di
alcune sigle e firmano alcuni video musicali, inaugurando una lunga stagione di
collaborazione fra un certo tipo di animazione e il settore videomusicale. Solo per
citare uno degli esempi più significativi di questo processo bisogna ricordare TV
Interruptions (1993) del videoartista inglese David Hall (1937)25, pioniere della vi-
deoarte inglese specializzato nell’evidenziare l’artificialità e l’autoreferenzialità del
linguaggio televisivo. Nel 1976 realizza This Is a Television Receiver commissionato
25
Il sito dell’artista è: http://www.davidhallart.com/index.html
116
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
dalla BBC per il programma Arena Video Art, dove le immagini e l’audio di un
anchorman inglese vengono progressivamente distrutti diventando puro disturbo.
Precedentemente aveva avuto la fortuna di “sfondare” il palinsesto televisivo (in
questo caso scozzese) con una serie di brevi intervalli: 7 TV Pieces (1971), titola-
to anche TV Interruptions 1971, interruzioni appunto (realizzate in pellicola per
motivi tecnici) che si interrogano e giocano sulla natura della televisione. TV In-
terruptions del 1993 consta di cinque episodi straordinari per potere di sintesi e
per le illusioni visive messe in atto: ogni episodio ha un titolo in cui si gioca con
la parola TV. Così ExtaseeTV mostra una serie di televisori che al rallentatore si
sfracellano sul soffitto di uno spazio neutro; WithouTV è una carrellata virtuale
che letteralmente “buca” degli schermi di televisori posizionati in un deserto
che trasmettono l’immagine del deserto medesimo; in ReacTV un televisore che
oscilla come un pendolo mostra topi che si trasformano in colombe che spiccano
il volo. Vere e proprie “pillole di pensiero” in video che ironicamente demonizza-
no proprio in televisione il mezzo televisivo.
Gianni Toti
26
Il sito postumo dell’artista è: http://www.lacasatotiana.it/giannitoti/, con la relativa
pagina YouTube: https://www.youtube.com/user/casatotiana/
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Capitolo 2
delle avanguardie e nella tecnologia video come canali possibili per trasmettere
una cultura “alta” a un pubblico eterogeneo come quello televisivo.
Gigantismo e ipertrofia del linguaggio sono le sue scelte costanti mentre
il tema preferito di tutti i suoi video è uno solo: la Rivoluzione – linguistica,
artistica, storica, sociale. Nel suo primo video del 1980, Per una videopoesia.
Concertesto e improvvideazione per mixer, memoria di quadro e oscillo-spettro-
vector-scopio, compare il termine “videopoesia” che può essere considerato, al
pari della videodanza, uno dei sottogeneri della videoarte monocanale che
per il videoartista è intrinsecamente legato al concetto di poesia sonora e di
“declamazione” del testo: il rapporto con la musica è essenziale e assume i
contorni di una vera e propria colonna sonora, spesso realizzata con fram-
menti di brani di musica classica, apparentemente in contrasto con il suo im-
maginario “futuribile” ma in grado di creare universi audiovisivi affascinanti,
dominati da un senso di entusiastica fiducia nell’utopia.
Dopo aver realizzato, sempre all’interno del Settore Ricerca e Sperimenta-
zione Programmi della RAI, altre opere definite “Videopoemetti” (in teoria de-
stinate a occupare gli interstizi del palinsesto televisivo sotto forma di intervalli
creativi), il videoartista romano crea il video dove si squadernano in maniera
più matura le sue linee di ricerca: SqueeZangeZaúm del 1988, prodotto da RAI
3 e Istituto Luce, definito nei titoli di testa “VideoPoemOpera”, dedicato al
linguaggio “transmentale” del poeta futurista Velimir Chlébnikov, lo Zaúm ap-
punto, un iper-linguaggio ricco di simbolismi sonori, in grado di trascendere il
senso comune della parola per creare un insieme linguistico nuovo e moderno.
Il video, lungo un’ora e quaranta minuti, si snoda attraverso varie fasi e alterna
differenti linee di ricerca: da un lato il riutilizzo di materiale cinematografico,
riferito prevalentemente agli anni Venti e agli esperimenti di Dziga Vertov, che
viene rielaborato elettronicamente attraverso strategie stilistiche che moltipli-
cano l’immagine al suo interno, creando geometrie tridimensionali sulle quali
scorrono le immagini; dall’altro il ricorso massiccio alla postproduzione video
che ricolora, disturba, distorce le immagini che diventano insiemi astratti in
dialogo con immagini di feedback rielaborati; la creazione di immagini solide le
cui superfici sono formate da magmi astratti; l’utilizzo di riprese dal vero come
una danzatrice con un costume da scheletro a incarnare la “mortemorfosi” evo-
cata dalle poesie di Chlébnikov. Il tutto fluisce dirompente di fronte agli occhi
dello spettatore come un insieme epico di idee, di suggestioni, di “rivoluzioni”
estetiche, al suono della musica di Valerij Voskobojnikov e della voce di Toti
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
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Capitolo 2
(1999) e La morte del trionfo della fine (2003), il suo ultimo video. Planetopolis,
della durata di due ore, è un video frutto di elaborazioni complesse di materiale
girato in America Latina, in Russia e in altri paesi, miscelato con immagini d’ar-
chivio, che descrive, con un’estetica che sempre più restituisce le forme astratte, il
rischio di abitare “impoeticamente” il mondo, e che diventa una sorta di sinfonia
urbana elettronica dai toni cupi e preoccupati per il futuro del pianeta.
Gramsciategui ou le poesimistes è forse il video più riuscito, anche per la sua
capacità di sintesi, di tutta l’estetica totiana. Nel titolo si fa riferimento a due
personaggi: Antonio Gramsci da un lato e dall’altro Josè Carlos Mariátegui,
filosofo e politico peruviano vissuto negli anni Venti, uno dei primi pensatori
marxisti dell’America Latina, detto anche l’Amauta e protagonista della tri-
logia totiana citata in precedenza. L’inizio epico del video è completamente
astratto, e sembra un omaggio elettronico alla sequenza dello Stargate di 2001:
Odissea nello spazio di Stanley Kubrick: cerchi rossi invadono lo schermo, li-
nee sottili e fuochi artificiali compongono una sorta di Big Bang primordiale
di immagini in bilico fra macrocosmo e microcosmo, spirali di DNA e forme
recursive. La collaborazione fra immagini elettroniche e computer grafica 3D
è uno dei segni distintivi della videoarte degli anni Novanta, e infatti questa
introduzione accompagna lo spettatore a osservare la ricostruzione in 3D del
Monumento alla Terza Internazionale di Vladimir Tatlin, le pareti del quale
ospitano immagini d’archivio di Gramsci e Mariátegui. Da qui in poi il video
è un susseguirsi vorticoso di simboli: il monumento di Tatlin viene associato
alle piramidi Maya, attraversato da un enorme serpente in computer grafica,
simbolo del dio Kukulkan, il serpente che scala la piramide per diventare un
uccello. Riprese dal vero di una civetta che cerca di afferrare un topo vengo-
no immerse in un ambiente astratto, insieme ad alcune riprese d’archivio di
Gramsci visto di schiena che cammina zoppicante.
Nonostante la complessità tecnologica del lavoro, nel quale compare molta
computer grafica 3D, l’idea di fluidità e di ritmo viene efficacemente svilup-
pata e compaiono scelte di montaggio scarnificate, come il loop, e un’ulteriore
attenzione al rapporto con la musica. In questo video c’è un’atmosfera più
drammatica, e scelte stilistiche e cromatiche più controllate che avvinghiano
lo spettatore tenendo sempre alta la sua attenzione, grazie a una calibrazione
di tempi e di attese perfettamente calcolata. Il video è dedicato alla moglie
pittrice, Marinka Dallos, morta nel 1992, ed è forse il più emozionale della
videografia di Toti, che però nel finale non rinuncia a delineare una prospet-
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
tiva “in avanti”, perché ricompare al centro dello schermo e immersa nel nero,
la “figurina” zoppicante di Gramsci, che non smette mai di camminare, quasi
un saluto a tutte le persone care che si potrebbero reincontrare nella dimen-
sione della memoria.
Robert Wilson
Come si noterà anche per gli autori citati in seguito, chi inizia a realizzare
video negli anni Ottanta arriva da un percorso artistico differente dai vide-
oartisti della prima ondata: molti hanno un background cinematografico o
teatrale, e l’approdo al video diventa una tappa necessaria della loro estetica, a
testimoniare il fatto che il linguaggio videoartistico sta proliferando non solo
in televisione. Robert Wilson (1941)27 è un nome che abbiamo già conosciuto
nel paragrafo dedicato al teatro, e il suo incontro col video certifica la sua
curiosità artistica e l’attenzione che ha nei confronti della tecnologia.
Prodotto dal Centre Georges Pompidou, dall’INA e dalla ZDF, Wilson
realizza nel 1978, alle soglie degli anni Ottanta quindi, Video 50, una colle-
zione di brevi video di 30’’, nei quali compaiono come performer, fra gli altri,
Lucinda Childs e Wilson stesso. L’idea degli intervalli “artistici” in questi
anni è molto sfruttata, anche se in questo caso la committenza non è televisi-
va. Si tratta di veri e propri sketch dominati da uno spirito surreale e svilup-
pati visivamente in due modi: da un lato, set evidentemente posticci ed este-
tizzanti al limite del kitsch, dall’altro situazioni create in chroma key, dove
i soggetti hanno come sfondo immagini rigorosamente fisse. Wilson ribalta
l’immaginario patinato hollywoodiano e televisivo ragionando su un sistema
di immagini che oramai il pubblico riconosce come meta-testuali e lavoran-
do anche sui generi: la suspence di un telefono che squilla, il romanticismo
dell’incontro di due amanti in un interno borghese, il thriller di una rapina,
tutte situazioni costellate da immagini dominate da un radicale nonsense,
come personaggi che bofonchiano fonemi senza senso, una signora che si sie-
de, una sedia appesa per aria, un uomo con una valigetta nera che lentamente
vuole tuffarsi in una cascata. Alcune situazioni, come le ultime descritte, sono
ricorrenti e fungono da intervalli dentro agli intervalli. Il video è dominato
da un’atmosfera di sospensione e si ha la sensazione di assistere alla messa in
27
Il sito dell’artista è: http://www.robertwilson.com/
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Capitolo 2
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
con il pop, e nel 1991 realizza una sorta di video musicale d’artista dal titolo
Mr. Bojangles’ Memory Og On Fire, prodotto da Arcanal e dal Centre Georges
Pompidou, in due versioni monocanali e una come videoinstallazione. Le due
versioni monocanali sono identiche dal punto di vista visivo, ma presentano due
colonne sonore diverse. Mr Bojangles’ è il titolo di una canzone country di Jerry
Jeff Walker, dedicata a un anonimo performer di strada di New Orleans, chia-
mato Mr. Bojangles in riferimento alla figura del noto attore e ballerino di tip
tap di colore Bill “Bojangles” Robinson. Qui l’estetica di Robert Wilson arriva
al suo apice: il chroma key viene usato per mimare goffamente l’immaginario
degli effetti speciali cinematografici, i set si riducono a pattern monocromatici,
il mondo della finzione deflagra mettendo sullo stesso piano uomini preistorici,
aviatori della Prima guerra mondiale, fanciulle assassinate, e uno stralunato Mr.
Bojangles con un cappello enorme sul quale danzano i personaggi prima citati.
Con Robert Wilson la ricerca metalinguistica “classica” della videoarte
monocanale non si rivolge quindi solo al mezzo tecnologico in sé, ma all’im-
maginario mediatico e iconografico che nel frattempo si sta addensando di
stimoli sempre più complessi: pittura, fotografia, teatro, televisione, cinema
e il video musicale vengono trattati non come materiali da riciclare ma da
ripensare, da osservare al microscopio per coglierne la struttura e ribaltarla.
Zbigniew Rybczynski
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Capitolo 2
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diale frutto della collaborazione fra USA e URRS che consiste nell’entrare
letteralmente dentro le sequenze del celebre film Bronenosec Potëmkin (La
corazzata Potëmkin, 1926) di Sergej Ejzenštejn, in particolare nelle immagini
della sequenza della Scalinata di Odessa.
Dopo che la guida ha brevemente presentato per nome le comparse del
film originale, prestando particolare attenzione al bambino nella carrozzina,
i turisti sono lasciati liberi di girovagare dentro l’ambiente del film. Ne nasce
una serie di piccoli eventi, molti dei quali strutturati come vere e proprie gag
iconoclastiche che trascinano i protagonisti del video, in un climax narra-
tivo ben calibrato, nella più totale confusione nel momento i cui i cosacchi
cominciano a sparare sui manifestanti. Scene di panico, dialoghi concita-
ti, ma anche la più totale indifferenza: i turisti americani sfoderano enormi
hamburger e fotografano da vicino i cadaveri. Dentro la carrozzina delle ce-
leberrima scena cade uno stereo che trasmette musica rap; una giornalista
tenta invano di intervistare, durante il massacro, un regista piuttosto borioso,
John Kane Jr., perché ha conosciuto Ejzenštejn a Hollywood, che viene da lui
descritto come il re del cinema d’avanguardia europeo ma senza un soldo in
tasca; una coppia tenta di girare delle scene per un video porno; un esaltato
attivista anti-americano cerca di vendere segreti militari agli attori del film,
e via dicendo.
La guida che ha introdotto il gruppo di americani e che ora si è trasfor-
mata in un cosacco, quindi in un finto personaggio in bianco e nero, si rende
conto, man mano che procede l’azione, di non avere più la situazione sotto
controllo. Si era raccomandata di non interagire con gli attori, ma stanno
accadendo degli inevitabili contatti fra le due dimensioni: i turisti americani
si sporcano del sangue (nero) degli attori del film; gli stivali dei cosacchi, che
a volte appaiono enormi rispetto alle dimensioni del corpo degli americani,
colpiscono proprio quell’attivista che tanto cerca di aiutarli. Ma l’evento che
la guida disperatamente non controlla e non capisce è il finale: improvvisa-
mente il bambino della carrozzina “passa dall’altra parte” e si trasforma in
un bimbo vero, che piange a terra vicino alla carrozzina rovesciata. La guida
viene imperiosamente richiamata in regia dalla voce di John Kane Jr., che
poco prima era svenuto dall’emozione ed era stato portato via in barella, per
entrare, con il ritratto di Lenin sotto il braccio, nello studio televisivo deserto,
a guardare il bambino che nel frattempo è diventato sorridente e divertito, e
a chiedersi disperato: «E ora cosa devo fare?».
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
che qui viene coniugata creando un cortocircuito fra idea di fluidità (il tem-
po reale delle riprese) e di discontinuità (il montaggio in diretta). L’artificia-
lità del rapporto corpo-spazio imposto dal chroma key, che in questo caso si
affina perché i soggetti sono immessi in uno spazio “già costruito”, quello di
un film del passato, immutabile, non gestibile direttamente, in una parola
artificiale; nonostante le composizioni finali siano prospetticamente coe-
renti e i personaggi sembrino veramente abitare il film, gli americani sono
troppo colorati e troppo illuminati, sono una superficie bidimensionale evi-
dentemente attaccata alle sontuose scene in bianco e nero del film, sono il
risultato di un collage: artificio su artificio, finzione su finzione, immagina-
rio su immaginario, in un labirinto di specchi. È tutto dichiarato ed è tut-
to falso, come viene esplicitato dalla guida che all’inizio del video illustra
come funziona lo studio televisivo e sale delle scale invisibili dicendo: «Sono
reali, ma invisibili, questo è l’ultimo grido della tecnologia» (le scale ci sono,
ovviamente, ma non sono “presenti”, non hanno nessuna materialità fisica).
La fragilità dell’immagine video qui diventa la sua forza trasformandosi in
qualcosa di estremamente flessibile, che entra nelle pieghe del film, slitta
senza peso, è qualcosa di liquido che imbeve le maglie inflessibili delle im-
magini cinematografiche, e può assumere qualunque forma, come dimostra
il fatto che la guida si “tramuta” in cosacco.
Un’idea di cosa può diventare la tecnologia quando dialoga con l’arte
è rappresentata da un altro affascinante video, The Fourth Dimension del
1988, prodotto da una serie di realtà importanti come Canal Plus, RAI
3, Alive from Off Center/KTCA, Ex Nihilo e The Kitchen. Qui non c’è
nessuna storia e nessun dialogo, e si svela l’anima più sperimentale (ma pur
sempre comunicativa) del regista polacco: due figure nude, un uomo e una
donna – riferimento ad Adamo ed Eva – stanno in piedi da soli in ambienti
diversi, lei in una stanza non arredata con finestre che mostrano cieli “alla
Magritte” e il tronco di un albero al suo fianco, lui su un palco teatrale,
davanti alla scenografia di un ambiente marino. I personaggi e gli ogget-
ti sono coinvolti da metamorfosi spiraliformi che durante tutto il video
creano effetti sorprendenti. I personaggi mutano atteggiamento nel corso
dell’opera assumendo di volta in volta ruoli simbolici differenti: si vestono,
si avvicinano sempre di più per incontrarsi alla fine, di nuovo nudi, abbrac-
ciati e circondati da strutture al neon, coinvolte anch’esse dalla mutazione
sinusoidale, giochi di luce geometrici che si riferiscono alla figura della spi-
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Capitolo 2
La gestione stessa del dialogo si conforma alla liquidità dello spazio artificiale
creato in chroma key, come nella scena in cui due personaggi che parlano sono
seduti su dei lunghissimi tavoli, e ogni battuta corrisponde a un “clone” molti-
plicato del medesimo personaggio, in modo tale che si creano delle vere e pro-
prie “sfilate” di corpi iterati, a ognuno dei quali è affidato un frammento della
battuta. Lo spettatore ha la sensazione di assistere alla strana “diretta” di uno
spettacolo teatrale paradossale, in cui i corpi sembrano marionette robotiche
perfettamente sincronizzate in un mondo in continua metamorfosi.
Toccante, drammatico e poetico, questo video rappresenta il vertice
dell’estetica di Rybczynski, l’opera più rigorosa e meno accomodante nei con-
fronti dei gusti di un ipotetico pubblico generico, anche se tutta la videografia
del regista polacco contribuisce a diffondere in maniera decisiva l’approccio
sperimentale all’immagine elettronica mutuato dalla ricerca videoartistica e a
proiettarlo su un versante mediatico di estrema visibilità. Il suo stile diventa
un trend per molti, non solo in campo televisivo ma anche cinematografico,
come testimonia la video-filmografia di Michel Gondry, e questo dato è l’en-
nesima dimostrazione che la proliferazione del linguaggio della videoarte in
contesti meno settoriali oramai è un processo inarrestabile.
Peter Greenaway
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Capitolo 2
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Il dvd è distribuito da Films Media Group: http://www.films.com/search.
aspx?q=greenaway
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Capitolo 2
Nel 1991 Greenaway realizza M Is for Man, Music and Mozart (a volte
indicato più brevemente come Not Mozart), un video coprodotto da Avro,
BBC e Dutch Cultural Broadcasting Promotion Fund, un’opera che rappre-
senta una sorta di “chiusura del cerchio” del rapporto fra l’estetica del regista
gallese e la videoarte perché è un video musicale di danza, e un altro capola-
voro di sintesi fra la ricerca degli anni Ottanta e le tecnologie che mutano il
panorama audiovisivo degli anni Novanta. Omaggio divertito e irriverente a
Mozart, il video si dipana raffigurando una serie di divinità vestite di stracci e
assise su un emiciclo dorato mentre tentano di costruire con vari materiali un
essere umano, il quale si trasforma in un danzatore che attraverso le sue evo-
luzioni richiama vari modelli pittorici di corpi umani. Qui la collaborazione
fra Greenaway ed Eve Ramboz si fa decisiva: i trattamenti dell’artista francese
trasformano parti del video in veri e propri disegni in movimento, densi di
citazioni pittoriche; le cornici delle finestre diventano parte integrante di un
ordito visivo in perenne bilico fra rappresentazione naturalistica dell’imma-
gine e grafica in movimento. Si avvicina l’era del compositing.
Il riferimento alla pittura, e l’accostamento delle possibilità manipolatorie
dell’immagine elettronica a quelle del pittore è una posizione nota all’inter-
no dell’estetica di molti videoartisti, ognuno con la sue personali varianti: per
Greenaway in questo video è importante, grazie alla possibilità di integrare ani-
mazione digitale con le riprese dal vero, fare un passo avanti e non solo riferirsi
all’universo pittorico, ma simularlo direttamente. La massiccia trasformazione
grafica dell’immagine permette al regista gallese – senza ricorrere al chroma
key, una tecnica che egli non ama usare – di inserire i corpi che si muovono
in uno spazio astratto, fatto di segni in movimento (come accade nell’ultima
parte, un lungo “solo” dell’uomo costruito dagli dèi, trasformati in spettatori,
dove il danzatore si esibisce sommerso da strati di pennellate, disegni, grafici,
dai quali emergono a volte frammenti del suo corpo, ritagliati e duplicati, a
sottolineare alcuni momenti del suo movimento, in una interessante ambiva-
lenza fra immagine statica e dinamica). Greenaway, insomma, ricostruisce lo
spazio dell’immagine rendendolo una “pagina bianca” da riempire di immagini
e segni grafici.
Forte di questa esperienza, il regista gallese sempre nel 1991 dirige un
film, Prospero’s Books (L’ultima tempesta), tratto dal testo di William Shake-
speare The Tempest, che rappresenta non solo il titanico sforzo tecnologico di
miscelare due supporti (pellicola e alta definizione analogica) per realizza-
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Dean Winkler
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Capitolo 2
Rebecca Allen
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Il sito dell’artista è: http://rebeccaallen.com/, dove è visionabile gran parte della sua
produzione video.
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
re delle silhouette più o meno precise che richiamano figure umane o loro
dettagli, soprattutto visi. Ciò che l’artista mostra non è quindi quello che
potrebbe essere il risultato finale di un oggetto modellato, con delle texture
definite, ma la struttura del modello stesso, che assurge al ruolo di immagine
autosufficiente a comporre una forma. Parlando col linguaggio della videoar-
te monocanale, è lo stesso discorso del disvelamento delle immagini astratte
che risiedono “dentro” le forme definite che appaiono in televisione: si mostra
l’interno della tecnologia, il suo processo, non solo per rivelarne l’artificialità,
ma per attestare che quella è l’estetica della macchina sulla quale poter o, in
alcuni casi, dover lavorare. Allo stesso tempo, nella misura in cui Rebecca Al-
len decide di donare texture rigorosamente anti-naturalistiche ai suoi sogget-
ti, i suoi visi e i suoi corpi denunciano una forma poligonale che poco ha che
fare con un’interpretazione realistica del mondo, bensì con una traduzione
geometrica della natura.
Il primo esempio, già affascinante, è la partecipazione di Rebecca Allen
alla realizzazione del video di danza di Twyla Tharp The Catherine Wheel del
1982, con musiche di David Byrne. La protagonista del video, Santa Cateri-
na, è realizzata con una computer grafica semplice, a “fil di ferro” appunto,
e duetta insieme ad alcuni danzatori in carne e ossa, presentandosi come un
corpo vuoto, leggero, delineato da semplici segni grafici che non costruiscono
un vero e proprio scheletro ma una sorta di schizzo, di forma appena abboz-
zata che però ha un peso, e, muovendosi in perfetta sincronia con i danzatori,
denuncia una fisicità paradossale.
Produrre immagini di questo tipo negli anni Ottanta significa investire
molto in tecnologia, e i centri, pur importanti, che Allen frequenta da soli non
bastano a garantire una continuità di ricerca, e quindi è nel mercato video
musicale che l’artista americana trova terreno fertile e committenze adeguate
per poter proseguire la sua personale sperimentazione. In Smile (1983) per
Will Powers e Tod Rundgren, immagini di danzatori di break-dance vengo-
no imitate da silhouette di figure umane digitali in stile Bauhaus: la danza
e il riferimento a stili grafici appartenenti alla storia dell’arte cominciano a
essere i due elementi più usati da Rebecca Allen e da molta computer grafica
di questi anni.
Rebecca Allen si impone sia nel campo videomusicale sia in quello artistico
con Adventures in Success (1983) per Will Powers, Robert Palmer e Sting, un
videomusicale che viene premiato in vari festival ed esibito in alcuni musei e
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Capitolo 2
gallerie americani, uno dei primi “successi digitali” di MTV. Non è intera-
mente realizzato in computer grafica, ma presenta scelte variegate: brevi scene
riprese dal vero, animazioni in stile cartoon gestite in digitale che anticipano di
molti anni quello che avverrà al cinema nell’epoca post-Disney, e immagini in
computer grafica vere e proprie che lavorano su un’icona che Rebecca Allen usa
sempre di più, quella della maschera metallica che diventa volto umano.
Il video che proietta il lavoro di Rebecca Allen in un ambito di visibilità
internazionale mettendo d’accordo pubblico e addetti ai lavori è Musique Non
Stop per i Kraftwerk: contrariamente ai lavori precedenti in cui alcune scel-
te stilistiche sono legate a inevitabili ragioni di committenza, qui la musica
elettronica fredda e robotica del gruppo tedesco si combina perfettamente
con le forme create dall’artista americana, inventando una sorta di “estetica
techno”, in voga ancora oggi. I visi dei quattro musicisti sono trasformati
in cloni digitali “alla” Rebecca Allen in un video che mostra l’evoluzione
del processo: dalle foto dei musicisti reali, alla loro interpretazione a “fil di
ferro”, fino alla simulazione finale dove diventano delle statue poligonali che
cantano le brevi frasi della canzone. Ritorna lo sfondo nero, che tante volte
abbiamo incontrato in queste produzioni, ovvero quello spazio primordiale
dal quale nascono immagini ancora primitive ma piene di fascino futuristico.
Anche questa opera diventa un successo nella programmazione di MTV e in
una serie di mostre, rassegne specializzate e festival.
L’artista americana alterna lavori su committenza videomusicale ad altri
di natura più autoriale: nel 1987, su un brano musicale di Peter Gabriel, rea-
lizza Behave, dove uno stormo di uccelli, costruito con una grafica essenziale,
vola su immagini dal vero delle strade di New York. L’opera usa un sistema
di intelligenza artificiale che permette ai singoli oggetti, senza essere animati
uno per uno, di “comportarsi” (da qui il titolo) in modo coerente. È il primo
video creato quasi interamente in computer grafica ad avvalersi della tecnolo-
gia dell’alta definizione analogica.
Nel 1989 viene contattata dal canale spagnolo RTVE per realizzare
un’opera da inserire nella serie El arte del video: Steady State è un’opera ancora
in tecnica mista, dove i movimenti di due danzatori reali – il cui corpo è
spersonalizzato da una tuta che li ricopre totalmente – sono reinterpretati da
una serie di oggetti semplici che va a comporre una sorta di geografia urbana
asettica. Nel 1990 è autrice dell’impianto scenografico video per lo spettacolo
Mugra della Fura dels Baus, a testimoniare l’interesse del mondo della danza
140
La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
e del teatro nei confronti del lavoro di Rebecca Allen che è anche autrice di
perfomance multimediali. Nel 1993 realizza Twisted Turtle, opera commis-
sionata da Nam June Paik per una sua videoinstallazione.
L’artista americana comincia a interessarsi alla rappresentazione dell’ambiente,
che spesso si risolve nella figura del labirinto, un’altra icona costante nella cultura
digitale. In Theme of Secrets (1985), per Peter Baumann (ex Tangerine Dream) ed
Eddie Jobson, inaugura un’altra linea estetica, quella dei paesaggi minimali fatti
di oggetti posati su superfici desertiche o marine, riprendendo iconografie ricono-
scibili che vanno dal Surrealismo alla pittura metafisica, e aprendo un altro fronte
possibile alla vasta tendenza di questi anni che associa l’estetica video alla pittura.
In Laberint del 1992, commissionato dalla televisione catalana TVC e Animatica,
su musica di John Paul Jones, lo spazio diventa un labirinto: realizzato in tecnica
mista rappresenta il vertice dell’estetica di Rebecca Allen. Protagonisti sono due
figure, una femminile e una maschile, che entrando nel dedalo digitale di Barcel-
lona si trasformano in un androgino: il simbolo più chiaro ed efficace dell’unione
fra artificiale e naturale che determina una forma ibrida.
L’evoluzione estetica di Rebecca Allen si può dividere in varie tappe: dalla
scelta di evidenziare la struttura del modello, alla volontà di visualizzare le for-
me non ancora complete e quindi mostrare la loro natura poligonale, fino alla
realizzazione di immagini relazionate soprattutto agli ambienti che appaiono
formalmente realistiche nella misura in cui lo spettatore le accetta come disegni
tridimensionali, e non come copie verosimili della realtà. L’alternanza dell’uso
di corpi digitali graficamente abbozzati e corpi reali spersonalizzati rappresenta
la volontà di unire due mondi che necessitano l’uno dell’altro per creare una
“realtà di mezzo”, un androgino fatto di natura e macchina.
Rebecca Allen oggi concentra la sua attività nella realizzazione di videoin-
stallazioni interattive e di sistemi di generazione dell’immagine basati su pro-
grammi di intelligenza artificiale.
Brian Eno
Brian Eno (1948)36, allievo di Roy Ascott, artista e teorico visionario dell’ar-
te cibernetica, dopo aver fatto studi artistici in cui viene influenzato dalla
pittura minimalista, diventa un famoso musicista elettronico, progettista so-
36
Il sito del musicista è: http://brian-eno.net/lux/
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Capitolo 2
Entrambi i video sono ora disponibili nel dvd Brian Eno 14 Video Paintings, Ed. Opal/
37
Upala Music.
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La videoarte fra gli anni Sessanta e Ottanta
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L’adozione del formato verticale e la decisione di distribuire questi video
ambienti in vhs, ora in dvd, come oggetti liberamente utilizzabili e non da
visionare in una galleria, contribuiscono a trasformare lo spettatore nel pro-
prietario di una piccola “videoinstallazione a schermo singolo”, da utilizza-
re quando vuole, da posizionare dove vuole, in una parola: personalizzabile.
L’umanizzazione della tecnologia passa anche da qui. E se l’idea di diffondere
questo nuovo modo di usare la televisione, ignorando la distribuzione del
mercato dell’arte e tentando di trovare una strada non elitaria, non ha molto
successo anche per questioni di carattere pratico e tecnico – in quegli anni
gli apparecchi televisivi sono pesanti o ingombranti e non tutti posizionabili
sul lato corto –, Brian Eno prevede l’uso che si farà dei monitor piatti degli
anni Novanta e una tendenza tipica della videoarte presente nel settore e nel
mercato dell’arte contemporanea.
Questa è la sua intuizione più importante: fondere il concetto di video
monocanale con quello di videoinstallazione, ossia affidare al video mono-
canale il compito di intraprendere una modalità di fruizione tipicamente da
videoinstallazione, unendo in una osmosi estetica e stilistica i due ambiti.
144
Capitolo 3
Gli anni Novanta rappresentano, sotto molti punti di vista (tecnologico, di-
stributivo e infine estetico), un periodo di cambiamento piuttosto radicale nel
panorama produttivo audiovisivo in genere, e videoartistico in particolare.
Per digitale, lo ripetiamo, non si intende solo lo sviluppo delle tecnologie
preposte all’animazione, ovvero alla computer grafica, ma anche e soprattutto
alla gestione digitale della produzione di un video, quindi l’avvento di teleca-
mere in alta definizione, e la possibilità di montare ed elaborare le immagini
tramite computer: quello che viene definito editing non lineare e tutta la fase
di postproduzione e di compositing delle immagini.
La fine della tecnologia analogica pone un problema pratico al mondo della
videoarte: la conservabilità delle opere, soprattutto delle videoinstallazioni. Un
video monocanale si può riversare da un formato all’altro, a patto che il nastro
sia ben conservato, una videoinstallazione realizzata con monitor che non esi-
stono più pone dei problemi difficilmente risolvibili. Il mercato dell’arte è il
primo a subire ripercussioni da questo fenomeno: se i collezionisti, già incerti
sull’acquisto dei video monocanali (grazie alla formula delle copie firmate e
numerate) si sono trovati a combattere con continui cambi di formato dei nastri
non facilmente conservabili, ora la diffidenza nei confronti del dvd o del for-
mato digitale in genere è ancora più alta a causa della loro facile duplicabilità.
Le edizioni in dvd vendute a prezzo contenuto o la presenza sul web di opere
importanti di videoartisti famosi come Woody Vasulka, Gary Hill o Bill Viola
testimoniano il fatto che il video monocanale nel giro di pochi anni perde quasi
completamente il suo valore nel mondo del mercato dell’arte.
Per le videoinstallazioni il discorso è simile, anche se meno drastico: da
un lato un’istituzione con il Museum of Moving Image di Londra non riesce
a conservare alcune videoinstallazioni di Nam June Paik perché non esiste
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Capitolo 3
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
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Capitolo 3
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
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Capitolo 3
dai corpi muti di figure in perenne metamorfosi, con la testa o parti del corpo
di animali, vestiti con assemblaggi di abbigliamento di epoche diverse, con il
viso dipinto come fossero guerrieri tribali, coperti completamente da un folto
pelo eccetera. L’icona della maschera torna in maniera prepotente nella video-
grafia dell’artista americano: il folklore soprattutto americano, reinterpretato
visivamente, è una delle tante fonti visive dalle quali attinge per comporre le
sue opere dal ritmo quasi rituale, scandito da scene rappresentanti bizzarri riti
di passaggio, iniziazioni sessuali, mutamenti di stato.
I riferimenti linguistici che Barney evoca, oltre a quelli legati alla sua per-
sonale estetica, vanno dal cinema di David Lynch e di David Cronenberg,
al cinema surrealista, al teatro e alla videografia di Robert Wilson, mentre
scorre sottotraccia in quasi tutti i suoi video, come nel cinema di Lynch, una
sorta di nostalgia per l’immaginario degli anni Cinquanta, per le atmosfere
ingenue e fatate del musical, per un’epoca di divi che non esiste più e che
Barney in qualche modo vuole ricostruire in una mitologia personale in cui
simboli, spazi ed epoche diverse collidono in un non-luogo in cui si possa
ancora credere all’esistenza di creature a metà fra l’umano e l’animale, divi-
nità ctonie, iper-corpi magici. Con lo stesso approccio è realizzato uno degli
ultimi video, Drawing Restraints 9 (2005), ritratto rituale dell’incontro con la
musicista islandese Björk.
Insieme a questo processo stilistico e di contenuto, si verifica qualcosa di
più sostanziale, l’ennesima “mutazione” che incide sulla modalità di distribu-
zione della videoarte sotto forma di videoinstallazioni. L’intuizione di Brian
Eno, e cioè fondere l’idea del video monocanale con la modalità di fruizione
da installazione nella formula del “video quadro” diventa un trend sempre più
ricorrente, quasi uno standard, compresa la scelta del formato verticale. Que-
sto anche perché l’avvento dei monitor piatti e del formato del 16:9 offrono
a questa idea il suo naturale compimento: il “video quadro” ora può essere
“appeso al muro”, esattamente come un quadro tradizionale o una foto, con
tanto di cornice.
Da questo momento in poi, per quello che riguarda l’ambito galleristico,
distinguere il video monocanale dalla videoinstallazione non ha più molto
senso. Sono produzioni in cui si articolano dei set dove il referente raramente
viene rielaborato, per cui si ristabilisce il primato del profilmico, di ciò che
sta davanti alla telecamera. Svapora sempre di più l’idea di montaggio: esat-
tamente come nelle opere di Brian Eno, il “video quadro” impone la presenza
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Capitolo 3
Pipilotti Rist
4
Il sito dell’artista è: http://www.pipilottirist.net/
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Capitolo 3
da fiori sgargianti, da frutti che compaiono anche fisicamente suoi corpi stessi.
Rist fa riferimenti espliciti a un certo erotismo innocuo degli anni Settanta legati
alla cultura hippy, e il tema della natura si fa più presente. L’artista svizzera cura
anche la realizzazione dell’accompagnamento sonoro dei suoi video, realizzando
improbabili e ironiche cover con strumenti elettronici dai suoni decisamente
fuori moda o registrando con la sua voce cantilene infantili.
Mutaflor del 1996, autoprodotto, è forse il video più esplicito e al contem-
po più poetico della sua produzione: Pipilotti Rist, nuda e accovacciata su un
pavimento dove è sparsa della frutta, guarda vero l’alto come ad accogliere
un ipotetico osservatore. Attraverso un movimento del suo corpo ripetuto
all’infinito, la telecamera si avvicina alla sua bocca e, tramite una dissolven-
za incrociata, si allontana dal suo ano, riprendendo una mela stretta tra le
gambe. Il video ha un ritmo ipnotico e innesta un’allegoria semplice che di
nuovo richiama la naturalità delle funzioni del corpo legate al suo istinto più
primitivo: nutrirsi. Ma è anche una stralunata interpretazione dell’idea di
loop e una metafora della soggettiva e dell’inclusione dello spettatore dentro
al gioco infantile e scherzoso attivato dal corpo dell’artista svizzera, e l’enne-
sima declinazione della traccia tematica costante delle sue opere: un “ritorno
all’umano” che non è certamente l’umanizzazione della tecnologia di Paik,
ma una decisiva riconsiderazione dell’elemento naturale e sessuale all’interno
delle immagini. Un ritorno alle origini simbolizzato nella scelta di un’estetica
che si raffigura come anti-moderna, riferita a una situazione primitiva, larva-
le, uno “stato nascente” che non vuole o non riesce a svilupparsi oltre.
Pipilotti Rist è autrice anche di un film girato in HD, Pepperminta del 2009,
dove un bizzarro personaggio femminile, Pepperminta, evidentemente l’alter ego
dell’artista, tenta di convincere il mondo ad abbandonarsi alla gioia dei colori. Il
discorso della “disintegrazione” elettronica dell’immagine non viene mantenuto,
ma appaiono molte elaborazioni di sovrapposizione dell’immagine e di modifi-
che del colore che lo rendono un’esperienza psichedelica. Gran parte del girato di
quest’opera, rielaborato in vario modo, fa parte del bagaglio visivo di alcune sue
videoinstallazioni più recenti.
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
5
Il video è visionabile al seguente link: http://laurentine.arscenic.tv/medias/films/article/
parabolic-people-sandra-kogut?lang=fr
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Capitolo 3
la musica eccetera) e dal punto di vista stilistico sono un saggio delle possibilità
iperboliche del montaggio elettronico che ragiona sulla simultaneità: il quadro
viene costantemente impaginato da finestre, tendine, interventi grafici, scritte,
interpretando il caos anche linguistico, la babele visiva e sonora nella quale siamo
immersi.
Nei primi anni di attività del Centre molti video sono realizzati combi-
nando riprese dal vero con interventi grafici 2D o 3D, in linea con l’approccio
combinatorio, tipico del lavoro di compositing, che diventa una delle scelte
stilistiche più approfondite negli anni Novanta. Cathy Vogan6, esperta in
postproduzione e collaboratrice di Dominik Barbier che fonda la sua per-
sonale casa di produzione Fearless, realizza in collaborazione con il CICV
alcune opere che hanno come tema costante il tempo. Methuselah (1993), pro-
dotto da Fearless e dal British Council, è il commovente ritratto del danzato-
re ultraottantenne Ernest Berk: il suo corpo nudo viene visualizzato mentre
danza circondato da immagini sovrapposte di tronchi secolari e viene intar-
siato continuamente da elementi grafici di orologi che scandiscono il tempo.
Il danzatore, accovacciato in uno spazio nero racconta della sua sessualità,
della vecchiaia, di come il suo corpo sia mutato e di come sia ancora in grado
di danzare: questo video può essere considerato un capolavoro nel genere
della videodanza.
Prima della sua collaborazione con Fearless e il CICV Vogan realizza
un altro video di danza, Electronic Kamasutra (1989), opera sul rapporto
fra sessualità e oggetti inusuali, dove si libera la sua essenza stilistica fat-
ta di immagini veloci e coloratissime, accostamenti di situazioni visive che
tendono a trasformare il quadro in un magma caotico di forme, collegando
l’estetica della videoarte combinatoria al linguaggio del video musicale. The
Synchronizer (1997), coprodotto da Fearless, prosegue e affina questa ricerca
alimentandola con il contributo di interventi di computer grafica e di una
notevole padronanza della postproduzione. Il tema del video è il desiderio
nell’era digitale: organizzato come uno stralunato show televisivo che vede la
partecipazione come attore di David Larcher, quest’opera è un mix vorticoso
di immagini video, fotografiche, 3D e rielaborate graficamente inerenti l’an-
sia dell’adeguamento causato dalle nuove tecnologie; la sincronia fra uomo e
6
Il sito dell’artista è: http://vogania.com/. La sua pagina YouTube è: http://www.youtube.
com/user/NOTAMARKinc. La sua pagina Vimeo è: https://vimeo.com/user8412228.
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Capitolo 3
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Il sito della compagnia è: http://www.nncorsino.com/en/
11
Un frammento del video è visionabile al seguente link: http://www.unesco.org/archi-
ves/multimedia/index.php?s=films_details&pg=33&id=118#.U_Jkp6M4KVg
158
La videoarte dagli anni Novanta a oggi
sti. Los lobos12 del 1996 di Francisco Ruiz De Infante (1966)13 è un lavoro
che tenta la durata cinematografica dei 90’, in bianco e nero, sul tema delle
paure dell’infanzia: i lupi a cui si fa riferimento nel titolo, animali selvag-
gi che popolano la mente e che non muoiono mai. L’artista spagnolo, che
cura anche l’accompagnamento sonoro, crea un’opera dominata dal nero
e dal buio, dove semplici immagini (molte delle quali riprese non inten-
zionalmente per il video) vengono montate e rimontate, sovrapposte con
altre situazioni in loop, creando nello spettatore un vero e proprio stato
d’ansia. Topi, insetti, paesaggi notturni, maschere, mani e volti di bambini
sono solo alcuni dei protagonisti di questo lungo viaggio nella notte di un
inconscio infantile che non riesce a svegliarsi dal suo stato in bilico fra la
veglia e il sogno.
Irit Batsry14 realizza nel 1993 Traces of a Presence to Come15, coprodotto da
La Sept/Arte e dal Centre International de la Cinématographie con il supporto
di Guggenheim Foundation, Jerome Foundation, The Experimental TV Cen-
ter, Owego, Academy of Media Arts, DAP, Ministère de la culture, Film/Video
Arts: imponente riflessione sull’incontro, sulla perdita e sull’identità. L’artista
israeliana lavora sulla rarefazione dell’immagine, sulla perdita del colore e su
rallentamenti estremi che ghiacciano le immagini. Le forme si trasformano in
macchie nere in movimento, quadri quasi astratti, fragili, trasparenti, come se da
un momento all’altro le forme potessero perdersi, allontanarsi dall’osservatore.
La produzione del CICV rappresenta la sintesi e il compimento dell’este-
tica della videoarte elettronica che va dagli anni Sessanta fino agli anni Ot-
tanta, con una nascente estetica digitale che ancora si interroga sulla propria
natura, una sorta di ponte rispetto alle esperienze di cui parleremo più avanti.
A causa di un’endemica mancanza di fondi e di un cambiamento repentino
della politica culturale francese il Centre è costretto a chiudere nel 2004 e
a oscurare il suo sito, lasciando dietro di sé scarsa documentazione visibile
dell’immenso lavoro fatto. La maggior parte degli artisti attiva nel CICV,
12
Il video è visionabile al seguente link: http://entremon.blogspot.com.es/2012/11/els-
llops-aquells-animals-ferotges-dels.html
13
Il sito dell’artista è: http://www.ruizdeinfante.org/
14
Il sito dell’artista è: http://www.iritbatsry.com/. La sua pagina Vimeo è: http://vimeo.
com/user5795312
15
Un brano del video è visionabile al seguente link: http://www.exquise.org/video.
php?id=3436&l=uk
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Capitolo 3
Marc Caro
16
Alcuni video dell’autore sono raccolti nel dvd Made in Caro, Ed. Cinemalta.
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Capitolo 3
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
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Il sito dello studio è www.alamaison.fr
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Capitolo 3
I video di Christian Boustani sono disponibili alla pagina Vimeo di Gilles Boustani:
18
www.vimeo.com/user1257990
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
quadro I coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck qui serve a far comprendere le possi-
bilità del digitale di “sfondare” la bidimensionalità svelando altri mondi.
A Viagem (1998), prodotto da D&D Audiovisuais per il padiglione porto-
ghese dell’Expo 1998, è un video ispirato alla vicenda reale di una spedizione
di gesuiti portoghesi in Giappone. Tutto l’ordito visivo è schiacciato su un
mondo piatto, dominato dal colore oro che non riesce ad avere una prospetti-
va reale, e qui l’omaggio a Rybzynski è piuttosto esplicito. Ma anche in questi
universi il punto di vista può viaggiare su un immaginario “asse di profondi-
tà” per scovare l’interno stesso delle immagini (altra ossessione della video-
arte elettronica), costituito da altri set e da altre situazioni visive, che svelano
mondi dentro ad altri mondi, in un labirinto potenzialmente infinito.
Chi più consapevolmente opera all’interno di questa estetica che ri-costruisce
per de-costruire è sicuramente Alain Escalle (1967)19, un artista che non solo la-
vora con produzioni monocanale ma anche, raramente, con videoinstallazioni,
spesso versioni multi schermo dei suoi video a schermo singolo. Come Boustani
e Ramboz, anche Escalle, pur recuperando una logica “da set”, costruisce le sue
architetture visive intorno al movimento di corpi, al lavoro di compositing e al
rapporto con la musica: per Boustani i corpi sono pure figure agenti, per Escalle
invece, il più delle volte, danzatori consapevoli del valore “narrativo” del proprio
movimento. D’après le naufrage (1994), Le conte du monde flottant (2001) e il re-
centissimo Le livre des morts (2013) costituiscono un gruppo di opere affascinanti
e nodali: un chiaro slancio in avanti del linguaggio della videoarte monocanale
digitale alla ricerca di un pubblico più vasto e meno specializzato dell’ambito stret-
tamente artistico. Escalle trasforma tutte le fonti visive usate in figure grafiche,
facendo diventare i suoi video veri e propri quadri in movimento. Se in Boustani
il girato non viene coinvolto nella rielaborazione grafica delle immagini, in Escalle
tutto diventa pittorico, a discapito anche della qualità dell’immagine o della sua
definizione: l’importante è amalgamare il più possibile tutte le componenti coin-
volte in un universo visivo che dichiara uno stile. In particolare Le conte du monde
flottant, prodotto da Mistral Film e dal Centre National de la Cinématographie, è
un’opera fondamentale per la storia della videoarte monocanale. Il video è dedicato
allo scoppio della bomba atomica a Hiroshima, e il titolo si riferisce al fatto che il
mondo perde il suo equilibrio dopo tale evento. L’opera prende come pretesto, per
19
Il sito dell’artista è: http://www.escalle.com/.La pagina Vimeo è:www.vimeo.com/alai-
nescalle, mentre alcuni lavori sono disponibili in dvd distribuiti da AE Studio.
165
Capitolo 3
la gestione del flusso delle immagini, i ricordi di un vecchio che all’epoca di quegli
eventi era un bambino: tutto è quindi filtrato dalla sua memoria che affastella si-
tuazioni metaforiche, suggestioni, visioni nebulose e infantili. E infatti tutto avvie-
ne in un clima sospeso, dove si alternano vari episodi in cui compaiono personaggi
ricorrenti che si incontrano alla fine del video: una suonatrice di Koto, un guerriero
samurai, il bambino protagonista del video e altri. Lo scoppio della bomba atomica
viene evocato da una deflagrazione di elementi grafici, il mondo che “galleggia”
viene raffigurato da una serie di danzatori nudi che barcollano frastornati men-
tre subiscono varie metamorfosi corporee, le conseguenze delle radiazioni sono
descritte come una pioggia che distrugge le immagini. Tutta l’opera è costellata
da invenzioni visive in cui la performatività del corpo inserito in uno spazio rico-
struito digitalmente gioca un ruolo essenziale nella gestione delle emozioni e nella
scansione degli eventi. Dal punto di vista formale il video rappresenta il vertice di
quella linea antirealistica che utilizza il chroma key per inventare dei mondi e non
per riprodurli fedelmente. Il filtro della memoria del bambino giustifica il pieno
trattamento delle immagini che, anche quando appaiono nitide, denunciano sem-
pre un intervento digitale sui contorni o sui colori, o sono disturbate da interventi
grafici astratti. Tutto il video gioca su una sensazione di tridimensionalità prospet-
tica che è un’illusione data dal trattamento delle immagini, che anche quando
sono realizzate in computer grafica 3D appaiono come dei disegni o dei dipinti,
evitando così qualsiasi “tentazione” fotorealistica.
Questa “scuola” francese, oltre a influenzare il mondo videoartistico, tocca
profondamente il mondo audiovisivo e in particolare quello cinematografico,
dimostrando come, a partire dagli anni Novanta, alcuni settori audiovisivi
tradizionalmente poco impermeabili si connettano a vicenda.
Rosto A.D.
20
Il sito dell’artista è: http://www.rostoad.com/. La sua pagina Vimeo è: https://vimeo.
com/studiorostoad
21
Il sito del progetto è: http://www.rostoad.com/menu.html
166
La videoarte dagli anni Novanta a oggi
gia di video22 prodotta con il supporto del Netherlands Film Fund: Beheaded
(1999), Anglobilly Feverson (2001), e Jona Tomberry (2006). In queste opere
Rosto A.D. traspone l’immaginario grottesco e oscuro del fumetto online,
operando diverse strategie stilistiche: da un lato simula col digitale l’utilizzo
di tecniche d’animazione tradizionali, dall’altro miscela riprese dal vero, so-
prattutto corpi umani ai quali sostituisce il viso realizzando delle maschere
digitali, con sfondi in grafica 2D o 3D, amplificando il senso di irrealtà di
Escalle. Rosto spesso si autoritrae in maniera deforme, seguendo una linea
tipica della videoarte elettronica.
E se in alcune parti delle sue opere esistono un dialogo e l’apparenza di
una trama, il tutto si scioglie in ampie parti musicali in una formula che
Rosto definisce “opere rock videomusicali”. Il video più riuscito della serie è
senza dubbio Jona Tomberry, in gran parte in bianco e nero, realizzato con
un’abile miscela di 3D e live action, dove l’immaginario dell’artista olandese
si squaderna in tutta la sua inquieta pienezza. Il tema del transito da un am-
biente all’altro attraverso specchi e vetri che si frantumano, collegato al tema
dell’accecamento, che sono costanti in questo video, rappresentano anche la
volontà di rendere indefinito e drammaticamente ambiguo il rapporto fra
rappresentazione animata di una realtà inconscia e l’identità stessa dell’im-
magine digitale. Vedere “in digitale” significa attraversare la materia degli og-
getti, e scoprire la loro vita interiore, come il sole a forma di pupilla che scruta
le azioni dell’intera opera. Viceversa, la computer grafica è uno straordinario
strumento per dare materia oggettiva alla propria vita interiore senza filtri di
alcun genere, anzi rischiando la perdita della vista.
La dimensione della morte viene inevitabilmente scandagliata da una tecnolo-
gia che “dà vita” alle forme, e in questo caso l’ultimo passaggio, il trapasso, non è
altro che un mutamento di sostanza: infatti Jona, il bambino anfibio apparente-
mente ucciso all’inizio del video, ricompare a colori fra le braccia di Tomberry, una
strega umanoide fatta di rami e tronchi d’albero, e canta una struggente canzone
in cui dichiara di non avere paura di nulla. Il passaggio di materia è un tema che
l’estetica digitale sfrutta costantemente: in questo video da un paesaggio semide-
sertico e brullo si passa a un ambiente sottomarino (di nuovo compare l’acqua
come elemento che riempie gli ambienti e rende leggeri gli oggetti) dentro al quale
22
La trilogia è distribuita in dvd da Chaletpointu: http://www.chaletpointu.com/dvd-
collection.php
167
Capitolo 3
risiedono altri ambienti che rispondono a leggi fisiche proprie, ma ben coscienti di
essere frutto di un artificio.
Un elemento costante degli interni visualizzati in questo video è la presen-
za visibile di faretti posizionati per illuminare la scena: i luoghi sono dei veri
e propri set. Tutto appare finto in maniera dichiarata, come le maschere par-
lanti indossate dai personaggi, o i piccoli cloni di Rosto A.D. che si attaccano
al cappotto nero del doppio gigantesco dell’artista olandese, un personaggio
che poi scaraventa queste piccole copie di sé dentro uno specchio circolare,
per favorire l’ennesimo passaggio al successivo episodio della serie. Anche
nei video musicali Thee Wreckers: No Place Like Home (2009) o nel film The
Monster of Nix (2011), Rosto persegue la sua particolare estetica di fusione fra
videoarte, cinema d’animazione ed estetica digitale.
Dave McKean
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
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Capitolo 3
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
artificiale ad avere un peso, mentre quella naturale diventa una presenza fanta-
smatica, trasparente.
Forte di tutta l’esperienza acquisita, Dave McKean realizza un lungome-
traggio prodotto in HD e distribuito direttamente in dvd, Mirror Mask del
2005, dove la sua estetica visiva, oramai matura e consapevole, serve a visua-
lizzare la sceneggiatura di una fiaba per adulti sul tema del doppio scritta da
Neil Gaiman.
Édouard Salier
24
Il sito dell’artista è: http://www.edouardsalier.fr/. La pagina Vimeo dell’artista è www.
vimeo.com/edouardsalier
171
Capitolo 3
sciuto si addentra nei meandri di una serie di corridoi, dietro le porte dei quali
si nascondono situazioni visive sempre più inquietanti. Se la videoarte elettro-
nica ha scandagliato il rapporto fra immagine, memoria e sogno, quella digitale
sembra addentrarsi sempre di più nel mondo dell’inconscio, come se ritenesse il
mondo delle idee e il mondo degli oggetti digitali due dimensioni molto vicine.
Il trapasso dalla realtà al sogno e al territorio della memoria, un tema tipico
della videoarte elettronica, qui diventa il passaggio da una realtà virtualmente
concreta – reinterpretata dall’oggetto digitale che si è collegato direttamente,
senza filtri – al pensiero che l’ha generata. Insomma, fra immagine e l’idea
dell’immagine non c’è quasi più differenza, per questo il digitale può dare for-
ma a mondi puramente mentali, legati a una dimensione sempre più interiore. 4
è un altro punto fermo nella costruzione di un’estetica videoartistica digitale.
Salier è ovviamente anche interessato all’idea del piano sequenza, come in
Splitting the Atom (2010), video musicale per i Massive Attack, dove la camera
percorre uno spazio urbano in via di distruzione come se fosse una foto tri-
dimensionale, un attimo congelato ma “visitabile” dalla soggettiva in movi-
mento che lo esplora in tutte le direzioni. Lo stile di Salier è dichiaratamente
grafico, in bilico fra l’evidenza dell’artificialità della costruzione digitale e la
verosimiglianza di ambienti e personaggi che a volte diventano degli autentici
cartoon bidimensionali, catapultando lo sguardo dello spettatore in un co-
smo attraversato da tecniche diverse, da modi diversi di guardare il mondo.
E quando Salier tenta la strada della computer grafica fotorealistica, lo fa per
creare metafore sociali provocatorie, come in Civilization (2011), per il gruppo
Justice, dove una mandria di bisonti deve fuggire da una serie di enormi statue
di figure religiose che si abbattono al suolo.
Joan Pueyo
25
Il sito dell’artista è: http://www.joanpueyo.com/
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
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Capitolo 3
Kurt D’Haeseleer
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Il sito dell’artista è: www.kurtdhaeseleer.com, dove sono visionabili numerosi video.
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
Marco Brambilla
27
Il sito dell’artista è: www.marcobrambilla.com
175
Capitolo 3
del compositing sperimentale è RPM (2011), dove alcune immagini che ri-
chiamano l’epica della velocità della gare di Formula Uno sono ricombinate
in un tunnel visivo che ricorda, in un ennesimo omaggio che già abbiamo
incontrato molte volte nella storia della videoarte, il finale di 2001: Odissea
dello spazio di Stanley Kubrick.
In queste esperienze visive il cinema è veramente diventato un sample, un
campione, quasi un pretesto che non ha più il valore nostalgico della citazio-
ne, da utilizzare a favore di un’estetica digitale che macina voracemente tutto
per creare mondi caotici, complessi, veloci, che divorano il concetto di spazio
e di tempo con la loro ipertrofia.
Marco Brambilla lavora indifferentemente nel mercato dell’arte contem-
poranea e in altri settori audiovisivi, accettando committenze dal panorama
musicale (Power del 2010 per Kanye West, dove si riprendono le modalità del
compositing per creare un mondo mitologico) e dal mondo della moda, Ghost
(sempre del 2010 per il sito www.models.com, semplice serie di sovrapposi-
zioni effettuate sulle immagini sovraesposte e rallentate del primo piano di
una modella che urla) e Hugo Boss Kino (2012), un omaggio alla continuità
simulata di Rybczynski, per i profumi di Hugo Boss, senza dimenticare uno
spot per la Jaguar, Jaguar Machines (2013), e un cinematic trailer realizzato
interamente in computer grafica 3D per il videogioco Spec Ops (2009), tutte
committenze nelle quali riesce a sperimentare ulteriormente la tecnologia di-
gitale e a consolidare il suo stile.
La Computer Art negli anni Novanta sviluppa due estetiche che sono stretta-
mente connesse e che cercano di svincolarsi dalla posizione secondo la quale
l’astrazione sia l’unica via da percorrere per allontanarsi dall’approccio della
simulazione fotorealistica. La prima tendenza sviluppa un’area di ricerca che
nega radicalmente la necessità del 3D per indagare, o riscoprire, le possibilità
del 2D e di quel genere di computer grafica che oggi si definisce motion gra-
phics; la seconda invece tenta di sviluppare l’idea dell’astrazione per lavorare
su un’estetica liminale fra astrazione e referenzialità. Anche in questi anni la
Computer Art è musicale: il binomio musica e immagini per questo settore è
oramai inscindibile.
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
Peter Callas
Bériou
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Capitolo 3
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
Michel Bret
Michel Bret (1941)30, dopo aver compiuto studi di matematica e pratica di pit-
tura, viaggia fra il 1966 e il 1972 in Vietnam, Marocco e Venezuela nell’am-
bito di un progetto di cooperazione culturale. Tornato a Parigi incontra il
Groupe Art & Informatique de Vincennes à St Denis, un collettivo di teorici
dell’immagine digitale e della connessione fra arte e computer grafica, tra cui
Edmond Couchot, attivo presso l’Università di Paris VIII. Decide quindi di
iscriversi e dopo essersi laureato nel 1981 con Frank Popper, un importante
teorico delle connessioni fra arte e tecnologia, e dopo aver svolto il dottorato
diventa docente universitario e si inserisce nel gruppo sopracitato, insegnando
ma soprattutto producendo una serie di video in computer grafica grazie ai
laboratori di Paris VIII.
Come molti artisti interessati alla computer grafica, anche Michel Bret
tenta di entrare nel sistema della macchina per lavorare su potenzialità tec-
nologiche e linguistiche personali, evitando così l’uso dei software in com-
mercio. Inizialmente sviluppa un particolare modo di utilizzare le texture
definito automapping: la mappatura, ovvero il processo attraverso il quale un
modello tridimensionale viene “rivestito” con un’immagine bidimensionale,
qui viene usata sull’immagine intera che diventa una texture applicata su se
stessa più e più volte, creando degli effetti di recursività. Sviluppa inoltre un
suo personale software di computer grafica, chiamato Anyflo, e si interessa ai
sistemi di produzione generativa dell’immagine e ai processi di interattività.
Molte delle sue opere sembrano degli esperimenti in cui applica di volta in
volta le sue invenzioni informatiche su modelli che compaiono in tutte le sue
produzioni: una figura femminile realizzata con poligoni semplici che si esi-
bisce in una sorta di danza in loop, e una strana creatura con fattezze animali
su una bicicletta. Ma alcune delle sue produzioni si svincolano dalla funzione
puramente di test per diventare opere autonome e affascinanti dal punto di
vista visivo. Automappe del 1989 è un viaggio in un universo roccioso e li-
quido dove si aggirano creature animalesche incastrate a degli oggetti che si
riferiscono al movimento – biciclette, vele di navi, ali di aerei. La circolarità
e la recursività sono i temi costanti di questo video dove le figure descritte
30
Il sito dell’artista è: http://www-inrev.univ-paris8.fr/extras/Michel-Bret/cours/. La sua
pagina YouTube è: https://www.youtube.com/channel/UC_heYG7idAxByoRBfDx_-
KA, la sua pagina Daily Motion è: http://www.dailymotion.com/Michel_Bret
179
Capitolo 3
Correnti Magnetiche
Correnti Magnetiche nasce nel 1985 a Milano dall’incontro del pittore e archi-
tetto Mario Canali con i musicisti elettronici Riccardo Sinigaglia31 e Adriano
Abbado, quest’ultimo anche filmmaker astratto. Correnti Magnetiche si pre-
senta come luogo della sperimentazione della computer grafica, e come uno
spazio aperto a collaborazioni con vari talenti creativi. Negli anni in cui que-
sto gruppo è attivo ne fanno parte, oltre agli artisti già citati, Flavia Alman,
Angelica Nascimento, Sabine Reiff, Francesca Barilli e Stefano Roveda per la
parte visiva, e Tommaso Leddi per la parte musicale.
L’idea dell’interazione fra musica e immagini è oramai ben radicata nella
produzione in computer grafica internazionale, e si riflette nelle opere del
gruppo milanese, che da esiti decisamente astratti si inoltra nella ricerca tipica
degli anni Novanta della combinazione fra astratto, referenziale e memoria
pittorica. In Gates (1987) Mario Canali sfoggia la sua abilità nel creare loop
visivi ipnotici e suadenti attraverso l’uso di immagini geometriche semplici.
31
La pagina Youtube del musicista ospita una playlist dei video di Correnti Magnetiche:
https://www.youtube.com/playlist?list=PLF8F074A9BEE7120D.
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
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Capitolo 3
Alexander Rutterford
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Alcuni video dell’artista sono visionabili alla pagina Vimeo di Joyrider Films: www.
vimeo.com/joyrider
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
Lynn Fox
33
I visual per il gruppo Incubus sono disponibili nel dvd Incubus Alive at Red Rocks Ed.
Epic/Immortal
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Capitolo 3
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
34
I visual per il tour di Björk sono visionabili al seguente link: http://www.bjork.fr/
Lynn-Fox,451
185
Capitolo 3
rativa, l’idea cioè che il video musicale debba essere una sorta di cortometraggio
con un plot; e quella musical, dove il video musicale assorbe il linguaggio della
danza e della performance live o registrata del musicista o del gruppo. Nono-
stante l’esistenza di tutte le combinazioni del caso, a volte anche interessanti,
la spinta innovativa degli anni Ottanta sembra in qualche modo fermarsi negli
anni Novanta, a parte alcune lodevoli eccezioni. Anche in campo videomusicale
il passaggio dall’era analogica a quella digitale non è indolore.
Bisogna aspettare la fine degli anni Novanta e le soglie del Duemila per-
ché nasca una nuova generazione di registi che infonde una ventata di spe-
rimentazione linguistica, pur restando nei parametri stilistici e di formato
imposti da MTV: Michel Gondry, Spike Jonze, David Fincher, Jonathan
Glazer, Mark Romanek, Chris Cunningham e Floria Sigismondi. Molti di
questi registi approdano, con più o meno successo, al cinema – segno che i
settori audiovisivi si stanno contagiando sempre di più – e i due registi, fra i
tanti che si potrebbero citare, più contaminati dall’estetica sperimentale della
videoarte digitale sono Michel Gondry e Chris Cunningham.
Michel Gondry
35
Il sito del regista è: www.michelgondry.com. Alcuni suoi video sono raccolti nel dvd
The Work of Director Michel Gondry, Ed. PALM.
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
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Capitolo 3
Chris Cunningham
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Il sito del regista è: www.chriscunningham.com. Alcuni suoi video sono raccolti nel
dvd The Work of Director Chris Cunningham, Ed. PALM.
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
della frenesia” del video, fa riferimento a una tecnologia “sporca”, che non fun-
ziona correttamente: il video analogico, appunto. Ma i riferimenti pop servono
al regista inglese per incanalare altre estetiche: il cyberpunk, la performatività
corporale estrema di una certa neo Body Art e la cultura post-human che pon-
gono l’accento sulle metamorfosi del corpo come metafore di un cambio radi-
cale e violento di “formato”. L’icona del corpo martoriato o mostruosamente
“de-evoluto” delle sue opere denuncia la primordiale e violenta presenza di un
elemento fatto di carne e sangue in un’epoca che si dichiara iper-tecnologica:
è la primeva forza della natura che urla (come in Come to Daddy del 1997 per
Aphex Twin) in un mondo fatto di televisori, una forza che mostrando le sua
fragilità può anche servire come denuncia del rifiuto del diverso, come in Afrika
Shox (1998) per Letfield e Afrika Bambaataa, dove un uomo di colore perde
letteralmente pezzi del suo corpo nelle strade di una New York indifferente
Ma può essere un corpo liquido, immerso in un fluido che non si vede,
come quello del bambino galleggiante in Only You (1998) per i Portishead o ro-
botico, ma intriso di desiderio, come in All Is Full of Love (1999) dove due cloni
digitali di Björk collegati a delle macchine che le fanno muovere si baciano in
un’atmosfera glaciale. Anche la tecnologia rappresentata da Cunningham muta
sostanza perché è piena di liquidi: suda, produce latte, emette sostanze vitali.
L’acqua, come per tanti videoartisti già citati, è un elemento costantemente
rappresentato nei suoi video musicali, così come un altro tema ricorrente è l’in-
fanzia: essere bambini significa lottare con il mondo degli adulti, come viene
rappresentato dalla super-eroina manga che si esibisce in perfette mosse di arti
marziali in Come on My Selector (1998) per Squarepusher.
Lo stile dell’artista inglese fa breccia nel mondo dei video musicali come
radicalmente disturbante: montaggi adrenalici, immagini difettose, fotografia
livida e monocromatica servono a visualizzare presenze mostruose, situazioni
inquietanti e un immaginario che provocano spesso operazioni di censura da
parte dei programmatori di MTV, e che rendono inevitabilmente ancora più
famoso il regista inglese, circondato da un’aura di artista maledetto.
Cunningham, all’apice del suo successo come regista di video musicali e di
spot pubblicitari, cerca altri ambiti che possano lasciarlo libero di esprimersi al
meglio, e incontra il proprietario della galleria di Londra Anthony D’Offay che
gli commissiona nel 2000 due opere: Flex e Monkey Drummer, esibite in una
collettiva presso la Royal Academy of Arts e presentate, insieme a All Is Full of
Love sotto forma di videoinstallazione a tre schermi, alla Biennale di Venezia
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Capitolo 3
nel 2001. È la prima volta che un regista di video musicali entra nel “santuario”
dell’arte contemporanea presentando, tra le altre cose, un video musicale.
Flex rappresenta due corpi nudi, uno maschile e uno femminile, interpre-
tati da due danzatori, immersi nell’acqua “invisibile” cara a Cunningham,
che si esibiscono in una serie di performance che nello svolgimento del video
si trasformano da movimenti di danza contemporanea in atti sessuali espliciti
e momenti di lotta feroce. La musica di Aphex Twin contribuisce a rendere
claustrofobico e inquietante il video, che gioca sulle dinamiche stilistiche già
citate prima che qui si mostrano in tutta la loro pienezza e consapevolezza.
Monkey Drummer è invece un’inquadratura fissa su una creatura biomeccani-
ca: un robot con la testa di scimmia e arti umani collegati da elementi mecca-
nici si esibisce in una performance musicale dal ritmo sostenuto e sincopato,
sempre su musica di Aphex Twin.
La permanenza di Cunningham nel mondo delle gallerie d’arte dura poco,
e nel 2005 realizza un video monocanale distribuito in dvd dalla Warp Re-
cords, la casa discografica di musica elettronica in cui è presente Aphex Twin,
dal titolo Rubber Johnny, prodotto da Warpfilms, Black Dog e RSA Films. Qui
Cunningham scandaglia ancora più a fondo il suo immaginario oscuro e infan-
tilmente perverso, prendendo, forse non a caso, in esame non più corpi altrui
ma il proprio. Questo video si attesta come il più tecnologicamente interessante
nella produzione dell’artista inglese, e quello in cui l’autonomia, stilistica e di
mezzi, raggiunge il massimo livello. Cunningham si trasforma in un disabile
macrocefalo costretto su una sedia a rotelle: apparentemente abbandonato in
una specie di cantina, ha come sola compagnia un cane. Ma in realtà, non
sappiamo bene se nei suoi sogni o nella realtà, diventa una specie di eroe da
videogioco che evita e contrattacca rapidamente una serie di raggi luminosi che
provengono dal fuori campo. Nel frattempo assume cocaina e diventa sempre
più veloce, tanto da sbattere la testa su delle superfici trasparenti, perdendo
letteralmente brandelli di carne. Ogni tanto un personaggio adulto, che si com-
porta come un padre crudele, apre la porta dello scantinato per rimproverare
Rubber Johnny, ma appena questi rimane da solo il gioco ricomincia.
Tutto girato con telecamera e raggi infrarossi e musicato da un brano di
Aphex Twin, il video affronta ancora una volta il tema della deformazione del
corpo. Come spesso avviene nei video di Cunningham, compaiono il tema della
prigionia e della lotta dei diversi, dei “mutati”, contro il mondo delle persone
“normali”. A prima vista disturbante e violento, in realtà questo strano supere-
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
roe-disabile ci mostra come il mondo della fantasia, che può essere anche crude-
le, è pur sempre un gioco che può salvarci dall’orrore del mondo degli adulti.
La feroce carica d’irrisione che il regista inglese opera sul proprio corpo
sfiora il tema del suicidio: più che un avatar visionario, Rubber Johnny sembra
un’allucinata visione post-mortem dell’artista, come se il suo, a volte macabro,
interesse per la mutazione avesse avviluppato il suo stesso corpo, senza via di
ritorno, senza alcuna possibilità di fuga, rappresentando anche, inevitabil-
mente, il punto di non ritorno per l’estetica stessa di Cunningham: l’ultima
mutazione possibile. E in effetti Rubber Johnny, nonostante tutto, rimane
chiuso nello scantinato, forse per sempre. Questo video può essere considera-
to uno dei più lucidi esempi di videoarte monocanale digitale.
Cunningham prosegue le sue sperimentazioni, dopo aver tentato invano
di sviluppare un progetto cinematografico tratto dal celebre romanzo di Wil-
liam Gibson Neuromancer, in un altro ambito che non può essere approfon-
dito in questa sede per ragioni di spazio, ovvero la performance video “live”,
spesso in compagnia di Aphex Twin.
Fra le tante contaminazioni estetiche che la videoarte innesta nel mondo au-
diovisivo, il cinema occupa un posto particolare. Se negli anni Novanta molta
produzione videoartistica, che si muove nel circuito dell’arte contemporanea
e che sceglie la videoinstallazione come mezzo d’espressione, sempre di più
a schermo singolo, assimila il linguaggio cinematografico classico, alle soglie
degli anni Duemila accade – come in tutti i processi di osmosi – anche il con-
trario: nel momento in cui alcune produzioni cinematografiche adottano il
formato digitale (HD ma non solo) come sostituto della pellicola, molti regi-
sti cinematografici seguono estetiche tipiche della videoarte. Peter Greenaway
è già stato citato come regista esemplare, una sorta di ponte di collegamento
fra videoarte e cinema, ma ci sono anche altre esperienze significative.
Mike Figgis realizza nel 2000 Timecode, quattro piani sequenza che ven-
gono incasellati in altrettanti riquadri in modo tale che possano essere per-
cepiti come eventi simultanei: di fatto lo sono, perché l’opera è registrata in
diretta, andando a recuperare così un approccio tipico delle origini della vi-
deoarte, ovvero la sperimentazione del concetto di tempo reale, associato alla
vocazione combinatoria (l’utilizzo delle finestre) del montaggio.
191
Capitolo 3
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La videoarte dagli anni Novanta a oggi
dove il digitale si presenta sempre di più come una sorta di crocevia fra una
dimensione finzionale e un’altra puramente mentale e astratta dello statuto
dell’immagine in movimento.
Ma ci sono anche nuove generazioni che sperimentano le ibridazioni fra
cinema sperimentale e videoarte, come il regista danese Anders Rønnow
Klarlund che realizza nel 2012 The Secret Society of Fine Arts, un’affascinante
opera che usa solo immagini fotografiche digitalmente rielaborate. Il riferi-
mento diretto è il film di Chris Marker La Jetée del 1967, un cortometraggio
di fantascienza costruito con immagini fisse. Il regista danese non si limita a
ragionare sul “falso movimento” derivato dall’uso di fotografie per realizzare
un film, ma opera una serie di interventi sull’immagine, ora nascosti ora
chiaramente visibili, che si rifanno alla sperimentazione digitale degli anni
Novanta. Il film viene presentato anche in situazioni più simili a una videoin-
stallazione, ossia su più schermi.
L’esempio più straordinario che dimostra come il linguaggio della video-
arte stia penetrando sempre di più all’interno di produzioni in digitale rivolte
al circuito cinematografico è senz’altro Enter the Void di Gaspar Noè, del
2009.
Gaspar Noè (1963)37 è sceneggiatore, montatore, produttore e regista di
origine argentina attivo in Francia. Realizza programi televisivi, video mu-
sicali e al momento tre lungometraggi: Seul contre tous (1998), Irréversible
(2000), e Enter the Void (2009). I suoi temi sono quasi sempre la solitudine,
il nichilismo, la rappresentazione di situazioni o personaggi al limite. Il suo
stile è caratterizzato da un uso particolarmente complesso dei movimenti di
macchina, che ricorda la libertà di ripresa tipica di una certa computer grafi-
ca, soluzioni di montaggio innovative, come in Irréversible dove la narrazione
è data da lunghe sequenze senza stacchi, montate in ordine cronologico in-
verso, e da riferimenti alla cultura visiva horror e pornografica. Enter the Void
è il primo film che il regista francese realizza in HD, compiendo una vera
fusione “alchemica” fra le istanze della videoarte elettronica, digitale e del
cinema sperimentale.
In questa grande e affascinante metafora del passaggio da uno stadio all’al-
tro, che coinvolge evidentemente un discorso sullo statuto dell’immagine di-
gitale, gli attori si trasformano in pure immagini, performer che diventano
37
Il sito, non ufficiale, ma denso di materiali è: http://www.letempsdetruittout.net/
193
parte integrante di un’architettura visiva apparentemente realistica che man
mano si sgretola sempre di più, cambia sostanza, incontra la dimensione del
digitale fatta di pura luce. Il tema della rinascita può anche essere letto come
l’inizio di un nuovo modello di audiovisivo, dove sperimentazione e narra-
zione possono incontrarsi grazie alle capacità manipolatorie dell’immagine
digitale, qui trattata nella totalità delle sue potenzialità espressive. Immagini
dal vero, alterazioni digitali, compositing e animazione sia 2D sia 3D, condi-
visione fra immagini dal vero e forme puramente astratte, sono tutti elementi
che vengono miscelati in modo da creare un universo visivo allucinatorio, in
bilico costante fra l’oggettività e la soggettività di uno sguardo che arriva “da
un altro mondo”.
Enter the Void rappresenta a tutti gli effetti un mirabile esempio di video-
arte monocanale digitale portato sul grande schermo, un’ibridazione estetica
perfettamente riuscita che apre le porte all’immaginario audiovisivo speri-
mentale del futuro.
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orizzonti
Giaime Alonge, Uno stormo di Stinger. Autori e generi del cinema americano
Giulia Carluccio (a cura di), America oggi. Cinema, media, narrazioni del nuovo
secolo
Alessandro Faccioli, Leggeri come in una gabbia. L’idea comica nel cinema italiano
Anton Giulio Mancino, Il processo della verità. Le radici del film politico-indiziario
italiano
Anton Giulio Mancino, Schermi d’inchiesta. Gli autori del film politico-indiziario
italiano
Paolo Noto, Dal bozzetto ai generi. Il cinema italiano dei primi anni Cinquanta
Valentina Re, Leonardo Quaresima (a cura di), Play the Movie. Il DVD e le nuove
forme dell’esperienza audiovisiva
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