Vai al contenuto

Discorso del bivacco

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Il discorso del bivacco è stato il primo discorso tenuto da Benito Mussolini, in veste di Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d'Italia, alla Camera dei deputati il 16 novembre 1922.

Il re Vittorio Emanuele III, dopo aver invano avanzato la proposta ad Antonio Salandra di formare un nuovo governo, il 30 ottobre 1922 aveva convocato Benito Mussolini a Roma per assegnargli il compito.[1]

Il 16 novembre 1922, Mussolini si recò alla Camera dei deputati per presentare la lista dei suoi ministri, la quale annoverava solo tre personalità fasciste: Alberto de' Stefani alle finanze, Giovanni Giuriati alle Terre liberate e Aldo Oviglio alla giustizia. Il capo del Governo decise inoltre di tenere nelle sue mani le cariche di ministro dell'interno e ministro degli esteri.[2]

In questa occasione pronunciò il "discorso del bivacco", così definito a causa del seguente celebre passo:

«Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli:
potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti.
Potevo, ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.»

Distintivo dei mutilati in guerra

Alle ore 14:30, in un'aula gremita di gente, fecero ingresso i primi deputati fascisti e gli onorevoli Luigi Facta e Giovanni Giolitti. Alle ore 15:00, dalla porta destra, entrò Mussolini con indosso la redingote, calzoni neri e ghette bianche. Portava all'occhiello dell'abito il distintivo dei mutilati in guerra e teneva arrotolato in mano il manoscritto del discorso.[3]

«Signori, quello che io compio oggi, in questa Aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza.»

Queste sono le parole con cui il capo del governo aprì il suo discorso. Sostituì quindi la classica formula di esordio "Onorevoli colleghi" con un semplice "Signori" e affermò di non gradire nessun atto di riconoscenza: durante l'enunciazione, infatti, si mostrò infastidito dagli applausi e dalle congratulazioni rivoltegli dagli ascoltatori. Poi proseguì:

«[...] Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo, perché ognuno lo sappia,
che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle «camicie nere»,
inserendola intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della Nazione.»

A seguito di tali affermazioni, dette con accentuato tono della voce, scoppiarono i primi forti applausi provenienti dai banchi fascisti e nazionalisti, i quali non si limitarono solo ad applaudire in modo fragoroso, ma urlarono anche: "Viva il Fascismo! Viva Mussolini!".

«[...] Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti.
Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria.
Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine,
io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo.
Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento
e costituire un Governo esclusivamente di fascisti.
Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.»

Queste parole crearono grande subbuglio all'interno dell'aula: ad insorgere furono soprattutto i socialisti. L'onorevole Giuseppe Emanuele Modigliani urlò "Viva il Parlamento!" e i socialisti approvarono vivamente. Così, i fascisti insorsero a loro volta slanciandosi verso i banchi degli oppositori. La calma tornò lentamente solo dopo l'intervento dei questori della Camera.[3]

«[...] Credo anche di interpretare il pensiero di tutta questa Assemblea e certamente della
maggioranza del popolo italiano, tributando un caldo omaggio al Sovrano, il quale si è rifiutato
ai tentativi inutilmente reazionari dell'ultima ora, ha evitato la guerra civile e permesso di immettere nelle
stracche arterie dello Stato parlamentare la nuova impetuosa corrente fascista uscita dalla guerra
ed esaltata dalla vittoria.»

Qui l'urlo "Viva il Re! Viva l'Italia!" si alzò fragoroso. L'ovazione rivolta al Re e gli applausi partirono dai banchi fascisti per poi propagarsi agli altri settori della Camera. A questo non presero parte i socialisti ed i repubblicani.

Mussolini, poi, continuò il suo discorso affrontando il tema della politica estera, facendo un particolare riferimento all'intesa con la Francia e l'Inghilterra, e la questione della politica interna, ponendo l'accento sull'economia, sul lavoro e sulla disciplina. Successivamente si soffermò sulla riorganizzazione delle Forze Armate affermando:[4]

«[...] Lo Stato fascista costituirà una polizia unica, perfettamente attrezzata, di grande mobilità e di elevato
spirito morale; mentre Esercito e Marina gloriosissimi e cari ad ogni italiano - sottratti alle mutazioni della politica parlamentare,
riorganizzati e potenziati, rappresentano la riserva suprema della Nazione all'interno ed all'estero.»

Questa invocazione fu seguita da una forte esultanza da parte dei fascisti, i quali urlano "Viva l'esercito! Viva la marina!". L'urlo fu ripetuto con grande entusiasmo da tutti i componenti della Camera fuorché i socialisti.

«Signori! Da ulteriori comunicazioni apprenderete il programma fascista, nei suoi dettagli e per ogni singolo dicastero.
Io non voglio, finché mi sarà possibile, governare contro la Camera: ma la Camera deve sentire
la sua particolare posizione che la rende passibile di scioglimento fra due giorni o fra due anni.»

L'oratore espose questa frase aumentando notevolmente il tono della voce, lasciando trapelare che avrebbe potuto fare a meno della Camera e che da un momento all'altro avrebbe potuto decidere di eliminarla, a seconda se essa si fosse mostrata accondiscendente o resistente. A tali affermazioni i socialisti reagirono approvando in senso ironico, mentre tutti gli altri componenti dell'aula, eccetto i fascisti, risultarono sorpresi e sconcertati.

«[...] Così Iddio mi assista nel condurre a termine vittorioso la mia ardua fatica.»

Mussolini concluse il suo discorso con un'invocazione a Dio. La conclusione fu accolta da forti applausi da parte di fascisti, nazionalisti e liberali, mentre il resto della Camera restò in silenzio. Coloro che avevano mostrato approvazione durante l'enunciazione del discorso si recarono subito al banco del Governo per stringere la mano di Mussolini e congratularsi. L'onorevole però, non gradendo i complimenti così come annunciato al principio del suo discorso prese alcuni fogli e fece finta di leggere. Così i deputati che si erano affollati intorno a lui si allontanarono prontamente.[3]

Subito dopo Mussolini tenne un discorso identico presso il Senato, ma premettendo che "tutta la prima parte delle dichiarazioni che poco fa ho letto alla Camera dei Deputati non riguardano minimamente il Senato (...). Non devo usare, nei confronti del Senato, il linguaggio necessariamente duro che ho dovuto tenere nel confronto dei signori deputati"[5].

Numerosi deputati furono amareggiati e delusi per la brutalità con la quale il capo del Governo aveva voluto colpire la Camera. Terminata la seduta, i socialisti, ovvero quelli che si sentirono più colpiti dalle parole di Mussolini, si rivolsero all'onorevole Giolitti invitandolo a prendere le difese del Parlamento, ma egli oppose un cortese rifiuto, dichiarando: "Questa Camera ha il Governo che si merita".[3]

In molti, quindi, meditarono di dimettersi, ma allo stesso tempo pensarono che un progetto di dimissione collettiva potesse aggravare la situazione.[3]

Il giorno dopo, unico in una platea di oppositori silenti, forse sbigottiti dalla violenza verbale del discorso del futuro duce, gli rispose il vecchio leader socialista Filippo Turati, che pronunciò un discorso altrettanto duro e veemente, di condanna del capo fascista e di denuncia dell'ignavia dei parlamentari delle altre forze politiche, poi divenuto noto con il titolo "Il Parlamento è morto" o "Il bivacco della Camera".[6][7]

Affermò Turati:

«[...] La Camera non è chiamata a discutere e a deliberare la fiducia; è chiamata a darla; e, se non la dà, il Governo se la prende. È insomma la marcia su Roma, che per voi è cagione di onore, la quale prosegue, in redingote inappuntabile, dentro il Parlamento. Ora, che fiducia può accordare una Camera in queste condizioni? Una Camera di morti, di imbalsamati, come già fu diagnosticata dai medici del quarto potere? [...] Si ebbe l'impressione di un'ora inverosimile, di un'ora tolta dalle fiabe, dalle leggende; quasi direi un'ora gaia dopo che, dicevo, il nuovo Presidente del Consiglio vi aveva parlato col frustino in mano, come nel circo un domatore di belve - oh! Belve, d'altronde, deh quanto narcotizzate! - e lo spettacolo offerto delle groppe offerte allo scudiscio e del ringraziamento di plausi ad ogni nerbata [...]»

Riferendosi poi alla richiesta di Mussolini di modificare la legge elettorale per garantire alla lista più votata un enorme premio di maggioranza (che diverrà poi la cosiddetta "Legge Acerbo", dal nome del parlamentare fascista che la propose), il che avrebbe comportato il rinvio della data delle elezioni per consentire l'approvazione della nuova legge, disse:

«So bene, onorevoli colleghi, che la cagione del compromesso — che sarà breve, e quindi inutile, che la Camera inutilmente accetterà — è che le elezioni turbano molti interessi personali, e di gruppi, e di camarille, e da troppi rettori quindi si innalza il grido: averte a me calicem istum. Anche perché non sono molti i quali credano — oh, certo a torto; ma la gente è tanto diffidente ! — che le elezioni, sotto il dominio vostro, dati i precedenti che vi condussero al Governo, assicureranno la libertà elettorale, ossia saranno vere elezioni [...]»

Una voce all'estrema destra: «Vi piacerebbero quelle del 1920

Turati: «Non le abbiamo fatte noi.»

Giunta: «Le faremo col manganello!» (Vivi rumori — Commenti alla estrema sinistra — Vivaci proteste del deputato Salvadori che abbandona l'Aula — Applausi alla estrema sinistra — Commenti) [..]

Turati:

«[...] Voi avete parlato [...] anche del suffragio universale come di un giocattolo, che si deve pur concedere a questo stupido e impaziente bambino che è il popolo, perché se ne balocchi a sazietà [...]. Per noi — a differenza e in contrasto diametrale con ciò che voi avete proclamato — per noi codini e "lamentevoli zelatori del supercostituzionalismo" il suffragio universale, libero, rispettato, efficace (e con ciò diciamo anche la proporzionale non adulterata, senza cui il suffragio è un inganno e una sopraffazione); per noi il suffragio universale, malgrado i suoi errori, che soltanto esso può correggere, è la sola base di una sovranità legittima; — ma che dico legittima ? — di una sovranità che possa, nei tempi moderni, vivere, agire, permanere […] Indire subito le elezioni, risparmiandosi la farsa di questa convocazione della Camera, era il vostro dovere! Né noi avevamo ragione alcuna di temerle [...]. Ma ciò, lo comprendo perfettamente, vi faceva perdere tempo [...]»

Mussolini: «Naturale!»

Turati:

«[...] e voi avete molta fretta. [...] Chiedete i pieni poteri [...] anche in materia tributaria; il che significa che abolite il Parlamento, anche se lo lasciate sussistere, come uno scenario dipinto, per il vostro comodo. Gli chiedete di svenarsi. Vi obbedirà [...]»

Al termine si tennero le votazioni sulla fiducia: il Governo di Mussolini ottenne alla Camera 306 voti favorevoli (tra cui De Gasperi, Giolitti e Gronchi), 116 contrari (socialisti unitari, socialisti massimalisti, repubblicani e comunisti) e 7 astenuti. Al Senato la maggioranza fu ancora più alta: 196 voti favorevoli e 19 contrari.[8]

Mussolini pronunciò il suo discorso senza degnare dello sguardo l'assemblea dinanzi a lui. Il linguaggio arrogante e spesso minaccioso, la voce secca e l'atteggiamento di esplicita prevaricazione contribuirono a rendere più incisive le frasi espresse. La ritmica del discorso e la scelta dei suoni suggeriscono una "logica ritmica" che avrebbe predominato su quella semantica, con un certo effetto attrattivo sugli interlocutori. Dalle sue frasi, inoltre, emerge che l'opposizione non era concepita come possibile. Mussolini parlava del presente e del futuro come determinazioni naturali: esprimeva i suoi concetti come certezze valide per il presente come per il futuro del Governo. Tale atteggiamento era finalizzato ad accrescere la fiducia nei suoi sostenitori. È degna di nota la presenza di espressioni metaforiche, le quali, in questo discorso come nell'intera propaganda mussoliniana, si ponevano come strumento linguistico per spingere gli ascoltatori all'azione.[9]

  1. ^ Giorgio Dell'Arti, Il fascismo giorno per giorno, su Cinquantamila giorni - Corriere della Sera.it. URL consultato il 27 aprile 2024 (archiviato dall'url originale il 30 settembre 2011).
  2. ^ Remigio Izzo, "Mussolini: duce si diventa", Gherardo Casini Editore, 2010, Roma, ISBN 9788864100142 p. 104.
  3. ^ a b c d e Il "duro linguaggio" di Mussolini alla Camera, su archiviolastampa.it.
  4. ^ Remigio Izzo, "Mussolini: duce si diventa", Gherardo Casini Editore, 2010, Roma, ISBN 9788864100142 p. 106.
  5. ^ Atti Parlamentari, Senato del Regno, LEGISLATURA XXVI - SESSIONE 1921-22 - DISCUSSIONI - TORNATA DEL 16 NOVEMBRE 1922, p. 3999.
  6. ^ cfr. "Il Parlamento è morto". Discorso pronunziato alla Camera dall'on. Filippo Turati il giorno 17 novembre 1922 sulle Comunicazioni del Governo, in "Critica Sociale", a. XXXII, n. 22, 16-30 novembre 1922, p. 339-349.
  7. ^ Vedi anche Atti Parlamentari, Camera dei deputati, Discorsi, XXVI legislatura, Tornata del 17 novembre 1922, pp. 8425-8435.
  8. ^ Remigio Izzo, "Mussolini: duce si diventa", Gherardo Casini Editore, 2010, Roma, ISBN 9788864100142 p. 107.
  9. ^ Fedel Giorgio, "PER UNO STUDIO DEL LINGUAGGIO DI MUSSOLINI", in "Il Politico", vol. 43, no. 3 (1978), pp. 467–495.

Voci correlate

[modifica | modifica wikitesto]

Altri progetti

[modifica | modifica wikitesto]