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SUL TRAVIAMENTO DI DANTE PDF

Rime giovanili e della "Vita Nuova", puntualmente chiosate da Manuele Gragnolati a così breve lasso di tempo dall'edizione critica di Domenico De Robertis e da quella doviziosamente commentata dal medesimo filologo, 1 ripropone la centralità del "libro" non scritto da Dante, insomma dello zibaldone poetico-sperimentale dalle falde del quale sarebbero via via scaturite la Vita Nuova, il Convivio con le sue canzoni dottrinali, la stessa Commedia, quanto meno per ciò che riguarda l'asse portante della historia, non della sola legenda, sanctae Beatricis.

DUE CANZONI, IL “TRAVIAMENTO” DI DANTE E LA GENESI DELLA COMMEDIA a Ovidio Capitani 1. La recente pubblicazione del commento di Teodolinda Barolini alle Rime giovanili e della “Vita Nuova”, puntualmente chiosate da Manuele Gragnolati a così breve lasso di tempo dall’edizione critica di Domenico De Robertis e da quella doviziosamente commentata dal medesimo filologo,1 ripropone la centralità del “libro” non scritto da Dante, insomma dello zibaldone poetico-sperimentale dalle falde del quale sarebbero via via scaturite la Vita Nuova, il Convivio con le sue canzoni dottrinali, la stessa Commedia, quanto meno per ciò che riguarda l’asse portante della historia, non della sola legenda, sanctae Beatricis. La Storia è stata quindi restituita, nell’ordinamento delle rime e nella volontà di includervi quelle accolte nel libello giovanile, da Teodolinda Barolini, sulla scia, non meno che di Michele Barbi, di Foster-Boyde (non appariscente, la Storia sopravviveva nondimeno nell’architettura complessiva della Rime commentate da Gianfranco Contini nel 1939 e più volte ristampate sino ai giorni nostri). Diverso il caso di Domenico De Robertis, ove il magistero filologico e lo scrupolo della inappuntabile trasposizione editoriale della oggettività dei testi nella loro documentata diffusione ha 1 DANTE ALIGHIERI, Rime giovanili e della Vita Nuova, a cura di Teodolinda Barolini, note di Manuele Gragnolati, Milano, Rizzoli, 2009 [BAROLINI]; ID., Rime, a cura di Domenico De Robertis, 3 voll., 5 tt., Firenze, Le Lettere, 2002 (Ed. Naz., II); ID., Rime, ed. commentata a cura di D. De Robertis, con cd-rom, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2005. 280 Marco Veglia indotto l’editore critico ad assumere il modello degli antichi canzonieri e, ciò facendo, a collocare fuori sede, e fuori tempo, una canzone come Lo doloroso amor, non computata da Boccaccio fra le “distese” e, come tale, relegata nel 2005 in coda quasi alla serie delle canzoni, addirittura dopo Amor, da che convien pur ch’io mi doglia, prima di Traggemi de la mente Amor la stiva, ricordata nel De vulgari eloquentia (II XI 5) ma non altrimenti attestata dalla tradizione manoscritta delle rime, e della canzone “babelica” ben degna, questa sì, d’esser stata forgiata da Dante, Aï faus ris. L’altra canzone, sulla quale vorrei brevemente soffermarmi è, accanto a Lo doloroso amor, appena ricordata, E’ m’incresce di me, anch’essa, come l’altra, testimone del periodo detto dell’amore “doloroso” di Dante ed esaminata ora, al pari dell’altra, in quattro commenti (Contini, BarbiMaggini, De Robertis, Barolini), benché all’ultimo in particolare io volga l’attenzione in queste pagine. Su E’ m’incresce di me rimando inoltre a quanto osservato da Enrico Fenzi in questo stesso convegno, ove ne ha mostrato il carattere di antefatto, forse non troppo remoto cronologicamente, della Vita Nuova. Dalle osservazioni di Teodolinda Barolini, che riprende efficacemente la linea critica inaugurata da Michele Barbi, si induce poi che Lo doloroso amor esprime, come E’ m’incresce di me, una fase nella quale Dante poté aver pensato a «una Vita Nuova cavalcantiana». Giova ascoltare, in proposito, le argomentazioni della studiosa della Columbia University:2 Mentre Foster-Boyde considerano Lo doloroso amor una canzone arcaica, legata stilisticamente a La dispietata mente ma non “specificamente cavalcantiana” (p. 72), io la considero fortemente cavalcantiana. Per di più, è una canzone alla cui matrice cavalcantiana vengono aggiunti elementi teologizzati, proprio come si è visto nel sonetto che la precede nel mio ordine, Ne le man vostre, e come si vedrà di nuovo nella canzone che la segue, E’ m’incresce di me, dove si troveranno elementi non solo teologizzati ma addirittura “vitanoveschi”. Infatti, le canzoni Lo doloroso amor ed E’ m’incresce di me sono legate ermeneuticamente e si prestano a un’interpretazione unitaria, come ha suggerito bene Barbi collocandole una accanto all’altra. Dati gli elementi tipici della Vita Nuova che si trovano in E’ m’incresce di me, queste canzoni suggeriscono una lettura basata sull’idea di un cammino poetico sperimentato e poi scartato. Mi è parso 2 BAROLINI, p. 269. Due canzoni 281 perciò importante offrire al lettore un commento che lega Lo doloroso amor, E’ m’incresce di me e Donne ch’avete intelletto d’amore, da cui si possa vedere in che modo Dante abbia cambiato strada per creare la svolta ideologica della Vita Nuova. Il grande interesse delle canzoni Lo doloroso amor ed E’ m’incresce di me sta proprio nel loro rapporto con la Vita Nuova: il testo da cui furono escluse e che la loro stessa esistenza aiuta a meglio comprendere. Queste canzoni dimostrano chiaramente che in un preciso momento della sua esperienza poetica Dante ha immaginato un percorso antitetico a quello poi da lui seguito nel libello. In base a queste canzoni si può capire che la fantasia dantesca abbia accarezzato l’idea di tracciare un’esperienza che si potrebbe definire una Vita Nuova cavalcantina. Poiché la Vita Nuova è dedicata a Cavalcanti, e poiché, del resto, la svolta francescana della «loda» conduce Dante, nella stesura del libello, a “virare” rispetto alle premesse cavalcantiane del libro e ad ancorarsi via via all’autorità del primo Guido, viene da pensare che il libello sia nato per rispondere, non senza difficoltà e tensioni interne, non solo a un’idea “nuova” dell’amore per Beatrice (nuova, appunto, perché non più ferale e perché scritta da un autore francescanamente renovatus), ma a un dovere dell’amicizia di Dante per Cavalcanti: dovere, quest’ultimo, che Dante ha continuato ad avvertire, con onestà intellettuale e con vero affetto d’amico, come imperioso durante la composizione del libro, persino quando le ragioni stesse della “loda” lo conducevano – s’è detto – ad appellarsi all’autorità del Guinizzelli a discapito del magistero del Cavalcanti (perché mai Dante avrebbe dovuto leggere il De amicitia di Cicerone, accanto alla Consolatio philosophiae di Boezio, nel percorso che conduce alla Vita Nuova, se non perché il “problema” da superare col libro era, a un tempo, d’amore e d’amicizia?). Il Convivio non sembra lasciare incertezze sul fatto che il libello, per quanto in maniera ancora incòndita, esibisca i frutti di quelle letture, l’una in tema d’amicizia, l’altra incentrata sulla definizione di una figura femminile, sapienziale, appunto boeziana, che, se nel 1294 giovava alla raffigurazione di Beatrice, nel trattato venne ad esser preziosa soprattutto per l’icona della “donna gentile” (Convivio II XII 1-4):3 3 D. ALIGHIERI, Convivio, a cura di Cesare Vasoli e D. De Robertis, in Opere minori, 2 voll., 3 tt., Milano-Napoli, Ricciardi, 1979-88, I, II. Convivio, 1988, pp. 201-203. 282 Marco Veglia E però, principiando ancora da capo, dico che, come per me fu perduto lo primo diletto de la mia anima, de la quale fatta è menzione di sopra, io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non mi valea alcuno. Tuttavia, dopo alquanto tempo, la mia mente, che si argomentava di sanare, provide, poi che né il mio né l’altrui consolare valea, ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto di consolarsi; e misimi a leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio, nel quale, cattivo e discacciato, consolato s’avea. E udendo ancora che Tullio scritto avea un altro libro, nel quale, trattando de l’Amistade, avea toccate parole della consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, nella morte di Scipione amico suo, misimi a leggere quello. E avvegna che duro mi fosse ne la prima entrare ne la loro sentenza, finalmente v’entrai tanto entro, quanto l’arte di grammatica ch’io avea e un poco di mio ingegno potea fare; per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già vedea, sì come ne la Vita Nuova si può vedere. Se Guido, in altre parole, si vede recapitare in dono il libello (diverso, al fine, dalle aspettative di Cavalcanti, che infatti non lo approva), ciò accade perché egli, sin dal principio, se ne colloca effettivamente alla radice, con quei caratteri “dolorosi” che appunto le due canzoni escluse dalla Vita Nuova ampiamente attestano, secondo le acquisizioni, a mio giudizio definitive, della Barolini, circa la fase, poi tralasciata, di una Vita originariamente “cavalcantiana”. Devo del resto aggiungere che trovo arduo limitare l’attributo che qualifica la Vita dantesca del 1294 a un significato per lo più temporale, come vorrebbe Guglielmo Gorni in pagine ricche di spunti enunciati con la consueta e ammirevole subtilitas. Sin dall’esordio del libro, infatti, Dante racconta, ovvero rievoca e annuncia la novità inaudita, ed anzi il “miracolo” di Beatrice, di una Beatrice che, per essere diversa da quella di Lo doloroso amor, è appunto “nuova”, come nuova deve essere la scelta stilistico-ontologica da compiere per renderne, al meglio, la prodigiosa natura. Né ci spiegheremmo l’irritazione di Bonagiunta verso la mutata maniera di Guinizzelli, o l’enunciazione del Bonagiunta dantesco del Purgatorio, che tratta di «nove rime», ossia di una cesura poetico-storica tra la novità dantesca e tutto quello che, non per caso, rimase «di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo» (Purg. XXIV 49-57). Difficile, insomma, e criticamente non necessario formulare un’ipotesi di lavoro che, sia pur con acribia, eluda l’oggettiva soggettività della renovatio dantesca affidata al libello per Beatrice.4 4 Cfr. GUGLIELMO GORNI, “Vita nova”, libro delle “amistadi” e della “prima etade”, in Dante prima della “Commedia”, Firenze, Cadmo, 2001, pp. 133-47. Due canzoni 283 V’è piuttosto da osservare che i lettori non sempre si sono domandati rispetto a che cosa sia “nuova” la situazione poetica, come pure – ripeto – l’ontologia, della Vita. Grazie alla Barolini – a me pare - si diradano ora le nebbie intorno a questo aspetto cruciale, poiché la “teologizzazione” delle due canzoni Lo doloroso amor ed E’ m’incresce di me, se testimonia un “progetto” o un cammino poetico superato, più tardi, dalle scelte della «loda», ma già provvisto di elementi “vitanoveschi”, prova altresì che non genericamente, ma nei princìpi operativi e nella intentio auctoris di Dante, Guido stava, non meno della donna amata, alle fondamenta della Vita Nuova (quindi, ovviamente, della Commedia). Guido si attendeva allora, per amicizia, un’opera che testimoniasse l’uscita di Dante dall’avvilimento successivo alla morte di Beatrice: ma, forte com’egli era di personalità, e fiducioso nel proprio ruolo di leader, si immaginava che quell’opera, quale che fosse, gli tornasse gradita (teologizzata nel discorso amoroso, tutt’al più, ma non teologica certo), non spinosa e irritante come il libello che Dante gli fece recapitare sullo scrittoio. Inscindibili prima e dentro il libello, su piani che si faranno gradualmente inconciliabili per l’adozione, da parte di Dante, non già di una semplice metaforica teologico-sacrale, ma dell’asserita letteralità e storicità della consacrazione della donna, l’amico e Beatrice saranno nuovamente congiunti (ma su traiettorie vicendevolmente incompatibili) nel canto della Commedia più legato alla giovinezza poetica e alle scelte teologiche di Dante, il X dell’Inferno (dove la posta in gioco per il poeta, nella scelta di seguire Guido o la donna, sarà niente di meno che l’eresia). La densità del canto di Farinata, alla luce delle osservazioni di Teodolinda Barolini sul materiale escluso dal libello, può essere meglio compresa, specie se ci volgiamo a Lo doloroso amor, dove la posizione di Dante, in termini di ortodossia, è quanto meno discutibile (ermetico ma perentorio, Contini si è espresso sul carattere negativo dell’orientamento spirituale dantesco enunciato in quella canzone).5 Ciò – si badi – non testimonia affatto della prossimità cronologica della canzone al libello, sibbene, questo sì, della contiguità tematica del problema, espresso pure nella canzone, alla genesi della Vita e al passato, che Dante e Guido condivisero e sul quale si radica il fraintendimento di Cavalcante de’ Cavalcanti in Inf. X. Nel 5 D. ALIGHIERI, Rime, a cura di Gianfranco Contini, Torino, Einaudi, 1980 (I ed. 1939), pp. 69-70 n. Su questa chiosa di Contini ci fermeremo più innanzi. 284 Marco Veglia sesto cerchio, infatti, il presupposto del vecchio guelfo a colloquio con l’eccezionale viandante sarà una identità speculativa, a larghissimo orizzonte, del figlio e del pellegrino. In quest’ottica Lo doloroso amor è una delle rarissime testimonianze, ovviamente non omogenea alla Vita, di una fase “cavalcantiana” di Dante nella quale il problema della ortodossia si manifestava, se non marginale, certo “eluso” – come suggerirà Contini – in una poetica dell’amore tutta ancora segnata dall’impronta filosofica di Guido. Del pari, Lo doloroso amor, con l’immagine fatale di Beatrice, contraddittoria persino rispetto alla realtà del proprio nome («Per quella moro c’ha nome Beatrice», v. 14), testimonia che la questione dell’ortodossia aveva a che vedere con le implicazioni del magistero cavalcantiano che s’incuneava, secondo le acquisizioni della Barolini, nella genesi del libello, al modo stesso che, in tutta la sua perdurante efficacia, tale magistero riaffiorerà, superato ma non rinnegato, nel X dell’Inferno. L’equivoco del padre di Guido in Inf. X non testimonia del solo ardimento speculativo del figlio, ma, appunto, della condivisione storica di quell’ardimento da parte di Dante, in modo così profondo e diffuso, così noto e manifesto, che Cavalcante si stupisce che il figlio e l’amico, come un tempo in Firenze, così non procedano appaiati nell’oltremondo. Insomma, la meraviglia di Cavalcante denuncia, in pari tempo, l’orizzonte intellettuale del figlio e manifesta la serena, spontanea persuasione (tanto più significativa quanto più spontanea) che quell’orizzonte fosse pure quello di Dante, il quale del resto – come troppo spesso non notano gli studiosi della Commedia – non corregge affatto il suo interlocutore su quel passato, ma sul presente dell’oltremondo e sulla ragione che, dal seno stesso della giovinezza condivisa con Guido, lo avrebbe condotto nella «città del foco» e negli altri due regni. Il coinvolgimento del poetapersonaggio nel dramma degli epicurei (coi quali condivise evidentemente una visione del mondo che minacciò la sua devozione per Beatrice), dal momento che il distacco da quell’errore della giovinezza è prospettato come la causa prima del privilegio di attraversare il regno dei morti e di seguire Virgilio, non Guido, sulla via che conduce a Beatrice, ha pertanto a che vedere, ad litteram, con la genesi della Commedia, che, appunto, quel viaggio racconta e afferma nel suo carattere di esperienza autobiografica. Che Dante si sia trovato in quella condizione di spirito (incredulità, dubbio grave) è testimoniato poi dai rimproveri di Beatrice sulla cima del Purgatorio, così puntuali da collocare il principio dello smarrimento del poeta negli anni anteriori alla Vita, in un clima cultu- Due canzoni 285 rale e morale cavalcantiano del quale, una volta di più, possono offrire testimonianza Lo doloroso amor ed E’ m’incresce di me. 2. Secondo Purg. XXX-XXXI, Dante entrò nella selva poco tempo dopo la morte di Beatrice (anzi, poiché sino al primo «annovale» di quel lutto egli rimase fedele all’amata, vi entrò dopo il 1291). Vi rientrò, o meglio vi si riscoprì, non essendone mai forse del tutto uscito, nel 1300: «Pur ier mattina le volsi le spalle: / questi m’apparve, tornand’ïo in quella, e reducemi a ca per questo calle» (così Dante a Brunetto, Inf. XV 52-54). L’inizio del poema non rappresenta il principio dello smarrimento del poeta, come ad apertura di pagina molti lettori sono portati frettolosamente a credere, ma della sua risoluzione per grazia di Dio, per intervento di Beatrice e per opera di Virgilio. Se ancora fiorentino è il periodo scelto per fissare l’epoca dello smarrimento, fiorentine saranno state le cause, non meno prossime che remote, dell’ingresso nella «selva oscura». Su questo punto non possono cadere incertezze di sorta. Lo stesso esilio, come a suo tempo ammoniva Giuseppe Vandelli, non va messo nel novero dei caratteri della selva, dove il poeta entra prima di subirne il dramma.6 Se anche sappiamo che, dal 1307, con Dante all’opera sul poema, la scelta del 1300 si pone, sul piano letterario, preziosissima per consentirgli di «profetizzare il passato», come ha scritto di recente Emilio Pasquini,7 con quella scelta egli ha tuttavia voluto indicarci, sul piano letterale e storico, che la natura dell’errore rappresentato nella «selva» è da ricercare nel periodo da lui trascorso in Firenze e culminato nel suo priorato (come il Bruni, del resto, aveva colto assai bene). Nella densità del suo simbolismo, Inf. I include perciò i fatti negativi germogliati, come zizzania, dal 1291 al 1300. Il mancato naufragio iniziale, il colle, 6 D. ALIGHIERI, La Divina Commedia, testo critico della Società dantesca italiana riveduto, col commento scartazziniano rifatto da Giuseppe Vandelli, aggiuntovi il rimario perfezionato di L[uigi] Polacco e l’indice de’ nomi proprii e di cose notabili, Milano, Hoepli, 2000 (rist. anast. della XXI ed.; I ed. 1943), p. 3: «Gli antichi interpreti sono concordi nel ritenere che la selva figuri lo stato di vizio e d’ignoranza dell’uomo. Alcuni a torto hanno creduto che figuri la miseria di D. privato d’ogni cosa più cara nell’esilio (D. nel 1300 era in patria); altri il disordine morale e politico in generale d’Italia e più specialmente di Firenze, od altro ancora» (n. al v. 2, mi ritrovai per una selva oscura). 7 Si veda EMILIO PASQUINI, Vita di Dante. I giorni e le opere, Milano, Rizzoli, 2006, pp. 33-35. 286 Marco Veglia le fiere, rappresentano un velo di impenetrabile mistero, disteso però con esattezza, nella sua estensione cronologica, lungo il decennio che precede la comparsa di Virgilio. Soltanto le indicazioni di Beatrice nell’Eden e, in diversa misura, le notizie che si inducono dal colloquio con Brunetto e da quello con Forese Donati, possono aiutarci a ben determinare il carattere e i tempi del “traviamento” del poeta. 3. Beatrice, a tal proposito, fornisce un chiaro terminus post quem della prima comparsa storica di quel medesimo errore. Ella, nel suo racconto, si lascia sfuggire l’ammissione di una contiguità temporale assai stretta («Sì tosto») fra la propria morte (1290) e il principio del tralignamento di Dante (Purg. XXX 124-26, «Sì tosto come in su la soglia fui / di mia seconda etade e mutai vita, / questi si tolse a me, e diessi altrui»). A chi dunque, a che cosa Dante si era deliberatamente votato? Nel “togliersi” da Beatrice («questi si tolse a me»), con un atto di volontà che lo inclinava al male; nel recedere scientemente dalla Teologia o dalla Grazia, scorgiamo la «prima radice» dell’errore di Dante, dalla quale cresce, lento, inesorabile, l’intrico della «selva oscura». Di più: non molto tempo era trascorso dalla morte della donna amata quando Dante si dedicò ad altri amori fallaci (Purg. XXX 127-32, «Quando di carne a spirto era salita, / e bellezza e vertù cresciuta m’era, / fu’ io a lui men cara e men gradita; / e volse i passi suoi per via non vera, / imagini di ben seguendo false, / che nulla promession rendono intera»). Tali “amori”, del resto, non appaiono soltanto eccessi o dismisure di passionalità, ma giudizi ingannevoli sul bene umano e sulla felicità («imagini di ben») destinati a lasciare inappagato il desiderio di beatitudine di colui che li aveva professati («che nulla promession rendono intera»). Come accade poi in Purg. XXXI 49-57 («Mai non t’appresentò natura o arte / piacer, quanto le belle bembra in ch’io / rinchiusa fui, e che so’ ’n terra sparte; / e se ’l sommo piacer sì ti fallio / per la mia morte, qual cosa mortale / dovea poi trarre te nel suo disio? / Ben ti dovevi, per lo primo strale / de le cose fallaci, levar suso / di retro a me che non era più tale»), così in Purg. XXX niente – poiché, nell’esegesi dantesca, «sempre lo litterale dee andare innanzi» – ci autorizza a spostare troppo dal 1290 il principio dello smarrimento di Dante, destinato a raggiungere il suo culmine dieci anni più tardi, tra vizi, come le fiere, compositi, e nei quali la lupa, che di tutti, in quanto avarizia, sarà il più grave, rimanderà piuttosto alla sfera della politica, dei temporalia, del «civil negozio», che non a quella, per dir così, di amori ancillari. Due canzoni 287 Resta il fatto che un tale smarrimento, riconosciuto dal viandante (Purg. XXXI 34-36, «Le presenti cose / col falso lor piacer volser miei passi, / tosto che ’l vostro viso si nascose») e avvinto ancora a epoca prossima alla morte di Beatrice (quindi, poco dopo il 1290), rappresentò un irretirsi di Dante nelle maglie di una coscienza terrena («le presenti cose», «le cose fallaci»), in una sordità od ostilità o indifferenza alle «ispirazion» celesti, insomma in una lontananza da Dio e dalla fede, che a tal segno spaventò Beatrice da indurla a scomodare la «parola ornata» di Virgilio e ad avviare, ciò facendo, l’ingranaggio del poema. Ascoltiamo Beatrice per avvederci della natura teologica, non semplicemente teologizzata, della “erranza” di Dante (Purg. XXX 133-145): Né l’impetrare ispirazion mi valse, con le quali e in sogno e altrimenti lo rivocai: sì poco a lui ne calse! Tanto giù cadde, che tutti argomenti a la salute sua eran già corti, fuor che mostrarli le perdute genti. Per questo visitai l’uscio de’ morti, e a colui che l’ha qua sù condotto, li prieghi miei, piangendo, furon porti. Alto fato di Dio sarebbe rotto, se Letè si passasse e tal vivanda fosse gustata sanza alcuno scotto di pentimento che lagrime spanda. È agevole notare che qui non si dà luogo alcuno a pargolette o ad altre novità di «breve uso». Il XXXI del Purgatorio concederà la scena alle conseguenze veniali della condizione spirituale che, nel XXX canto, è invece prossima, per Dante, al rischio di eterna perdizione. Dopo il passaggio nel Lete e la dimenticanza conseguente delle colpe commesse (Purg. XXXIII 97-99, «e se dal fummo foco s’argomenta, / cotesta oblivïon chiaro conchiude / colpa ne la tua voglia altrove attenta») apprendiamo, inoltre, che il riferimento al Lete stringe, in un sol «pentimento che lagrime spanda», l’errore sanato da Virgilio e quello obliato nell’Eden. La manchevolezza della «veduta» di Dante (Purg. XXXIII 82-84, «Ma perché tanto sovra mia veduta / vostra parola disïata vola, / che più la perde quanto più s’aiuta?»), la sua deplorevole tendenza centrifuga («colpa») a sviarsi da Beatrice («la tua voglia altrove attenta»), ottiene in risposta, dall’amata, l’affermazione secondo la quale la «via non vera» seguita da Dante, anti- 288 Marco Veglia tetica rispetto alla «dritta parte» della donna-Teologia (o donna-Grazia) e perciò orientata, come tale, «in contraria parte» (Purg. XXXI 47), non era qualcosa di esile, né di prettamente esistenziale o morale, ma una «caduta», per così dire, “strutturata”: essa era pertanto, spiega Beatrice, una «scuola», un movimento intellettuale, dove non v’era più spazio per la religione (Purg. XXXIII 85-93): «Perché conoschi», disse, «quella scuola c’hai seguitata, e veggi sua dottrina come può seguitar la mia parola; e veggi vostra via da la divina distar cotanto, quanto si discorda da terra il ciel che più alto festina». Ond’io rispuosi lei: «Non mi ricorda ch’i’ stranïasse me già mai da voi, né honne coscienza che mi rimorda». Le cause del traviamento, secondo ciò che abbiamo appena letto, condussero Dante ad aderire a una «scuola», a una «dottrina», a una «via» (ancora la «via non vera» di Purg. XXX 130), che il poeta condivise con altri intellettuali («vostra via»): soprattutto, ma non solo, con Guido Cavalcanti. Straniarsi perciò dalla Teologia, dalla Grazia, restare indifferenti alle ispirazioni celesti, confidare soltanto nella forza della ragione, con la sua «scuola» e la sua «dottrina», dubitare della fede e della giustizia di Dio (si pensi ai turbamenti enunciati da Dante in Par. XIX), delinea un quadro (ci stiamo sempre muovendo in ambito letterale) di miscredenza o di dubbio grave. Inoltre, le affermazioni di Beatrice ci ragguagliano su un dato spirituale nient’affatto vago. Dopo la sua morte, quando Beatrice è anima e non corpo, quando ella è spirito e non «belle membra», Dante imbocca un’altra strada e al fine si smarrisce. Domandiamoci, ora, quale categoria di peccatori attribuisca alla morte la cessazione della «presenza» di una persona («Quando di carne a spirto era salita...»), in questo caso di una persona amata. Domandiamoci quale categoria di peccatori trovi «men cara e men gradita» la vita dell’anima dopo la morte («... sì poco a lui ne calse!»), e non creda e non presti ascolto ad «argomenti» che provengano dall’oltremondo. Non resta che guardare ai fatti nella loro nuda verità. Il racconto stesso del Convivio si fa, a questo punto, più chiaro, nelle sue stesse strategie di onesta dissimulazione: rispetto a quale problema rappresentava una soluzione, per Dante, la frequentazione di scuole di religiosi e di dispu- Due canzoni 289 tazioni di filosofanti? A quale male suonava rimedio (contraria contrariis curari...), un “corso”, oggi diremmo, di filosofia e di teologia dogmatica? Chi, se non colui che s’era allontanato dalla fede, necessitava di una risposta teologica strutturata, di una restauratio della propria religiosità? Allo stesso modo, se la salvezza di Dante poteva essere ottenuta solo con l’esperienza diretta, in carne ed ossa, perfino tattile, dell’oltremondo (ricordiamo: «Tanto giù cadde, che tutti argomenti, / a la salute sua eran già corti, / fuor che mostrarli le perdute genti»), quale problema, se non un’incredulità sconfinante nella miscredenza, la diretta esperienza e il muoversi «sensibilmente» (Inf. II 15) nel regno di Dio potevano al fine sanare? La pagina del Convivio che racconta di «scuole» e «disputazioni» (II XII 5-7) lascia filtrare tutto il trasporto, tutto l’entusiasmo di Dante per una dedizione alla filosofia che «cacciava e distruggeva ogni altro pensiero». Come il Tommaso evangelico, Dante poté evitare la dannazione vedendo e toccando con mano le eterne verità, ascoltando e attraversando «le perdute genti», salendo il monte dell’espiazione, approdando al viaggio – arditamente in corpore – tra i cieli, sino alla candida rosa e alla visione di Cristo.8 Dal momento che il poeta non colse, nell’ultimo decennio della sua vita in Firenze, la distanza fra la strada degli uomini e quella di Dio («Perché... veggi vostra via...»), egli si trovò a necessitare di profezie sul proprio destino, inviluppato in una condizione di miopia conoscitiva che coincide di fatto, sia detto con molta semplicità e senza la minima concessione a interpretazioni mistificanti, con quella degli eretici del sesto cerchio infernale. La condizione dell’agens, il quale pensa perfino che Farinata possa trovarsi in Paradiso (Inf. VI 77-84) e non dissimula la venerazione e «affezion» (Inf. XVI 60) per una generazione intera di magnanimi dannati, domanda chiarimenti sul proprio futuro per l’ovvia ragione che in quella condizione Dante non può attingere con le proprie forze alcuna certezza sull’avvenire (al pari, vien subito da aggiungere, degli epicurei). Dall’incontro con Virgilio in poi, il pellegrino progredisce quando presta fede a ciò che non vede, quando cioè si dimostra in grado di superare la condizione di incredulità che lo distin- 8 Cfr., su questo aspetto, MARCO VEGLIA, Dante leggero, in AA.VV., Da Dante a Montale. Studi di filologia e critica letteraria in onore di Emilio Pasquini, a cura di Gian Mario Anselmi - Bruno Bentivogli - Alfredo Cottignoli - Fabio Marri - Vittorio Roda - Gino Ruozzi - Paola Vecchi Galli, Bologna, Gedit, 2005, pp. 123-47. 290 Marco Veglia gue nella «selva» e che lo accomuna del resto al «duca» finalmente sottratto alla sua lunga fiochezza. Virgilio, in effetti, già nel II canto si rivela insufficiente a guidare Dante alla salvezza. E Dante, con un paradosso che paradosso non è, comincia a fidarsi di Virgilio e di sé quando prende coscienza che non il poeta latino da solo, ma il poeta con l’aiuto di Beatrice e della «corte del cielo» si sono mossi all’aiuto suo. Sicché, non primariamente la grandezza, ma la grandezza di Virgilio ripensata nel limite storico e speculativo della sua figura umana e letteraria diviene la garanzia, per Dante, s’intende per un Dante che deve del pari avvedersi del proprio limite per recuperare il senso e la direzione ultima della propria grandezza, di poter conseguire infine l’agognata «salute». Appare chiaro, pertanto, che l’agens fiorentino non è in grado, né lo sarà sino alla conseguita purificazione edenica, di leggere oltre il proprio presente: se ne avesse avuto facoltà, non avrebbe necessitato di un viaggio di redenzione e noi, semplicemente, non avremmo avuto la Commedia. Il discorso del cataro e capo ghibellino della famiglia degli Uberti (Inf. X 100108) descrive quindi la situazione stessa di Dante, il quale solo da Beatrice (sarà in verità Cacciaguida) conoscerà il proprio cammino (Inf. X 127-32): «La mente tua conservi quel ch’udito hai contra te», mi comandò quel saggio; «e ora attendi qui», e drizzò ’l dito: «quando sarai dinanzi al dolce raggio di quella il cui bell’occhio tutto vede, da lei saprai di tua vita il vïaggio». Non par dubbio che questa di Dante-personaggio sia la medesima condizione conoscitiva dei suoi interlocutori. Il protagonista che rovina «in basso loco», verso la «trista conca» dell’Inferno, abbisogna di profezie perché egli, come gli epicurei, come il suo Guido di un tempo, come lo stesso Virgilio «ribellante» a Dio e lampadoforo (per altri, non per sé), non crede, o non crede con sufficiente fermezza, specie al principio del viaggio nella «selva», nella vita futura.9 La centralità del canto X nell’in- 9 Di là da ogni dubbio, il Dante di Inf. I-II è un Dante incredulo, senza fede in Dio e con poca, ormai nulla fede in sé: egli soltanto crede, dapprima, nella parola di un dannato, di un uomo che fu «ribellante» alla legge di Dio (Virgilio); poi, si avvede della temerarie- Due canzoni 291 tero percorso della Commedia sta allora, oltreché nelle ragioni ora accennate, nella ribadita indissociabilità di Guido e di Beatrice, del nodo dell’uno e del mistero dell’altra, del bivio che ne separa le icone e, al centro di quel bivio, nel dramma religioso, non vagamente culturale o poetico, di un Dante smarrito. Ho altrove osservato la correlazione tematica e la rispondenza e simmetria strutturale fra i canti X-XI dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso, nonché la completa mancanza di casualità nel ritorno, in quelle situazioni (dove sempre è coinvolta la superbia dell’intelletto illuso della propria autosufficienza) del retaggio francescano.10 Poiché, come tutti sappiamo, il cielo del Sole presenta la liberazione di Dante, grazie a Beatrice e al Santo di Assisi, dai «difettivi silogismi» della più alta cultura e dottrina del tempo (dalla capziosità dei quali è immune la «luce etterna» di Sigieri di Brabante), non è inverosimile affatto che, in quel beneficio del francescanesimo evocato da Dante con la precisa funzione di remedium alla pretesa autonomia dell’intelletto umano, si possa scorgere in filigrana un riferimento al beneficio, un tempo ricavato da Dante (tra il 1292 e il 1294) dalla frequentazione di dispute filosofiche e dell’ambiente di Santa Croce in Firenze. Comunque sia, Beatrice giovò a «sciogliere» Dante, secondo l’esordio di Par. XI 1-12, da quelle dottrine e situazioni «temporali» che gli facevano «in basso batter l’ali» (con quel volo rasoterra che esattamente impediva, al Dante “pennuto” redarguito nell’Eden, di cogliere l’alto volo della parola di Beatrice). Un passo come l’esordio di Par. XI non soltanto suggerisce, ma spiega come, al superamento del retaggio cavalcantiano, giovò a Dante in particolare il milieu di Santa Croce, con frutti che al tempo della Vita Nuova si identificavano nella tematica della «loda» e che, nel tempo, specie dopo l’esilio, si identificarono nella “povertà” e nel recupero del profetismo, all’incrocio tà, anzi della follia di quella medesima fiducia. Solo quando, in Inf. II, si accorgerà del limite, dell’insufficienza di Virgilio, Dante si affiderà completamente a lui (e quel limite sarà appunto la consapevolezza che non le sole forze di Virgilio, ma la loro “inadeguatezza” così nobile da suscitare la fiducia di Beatrice, ha contribuito a salvare il poeta fiorentino). Da notare è anche l’intelligenza di Beatrice. Chi poteva persuadere Dante se non colui che ne avesse condiviso la situazione? Un incredulo giovò così, come strumento provvidenziale scelto nella «corte del cielo», a un incredulo, sicché Virgilio salvò Dante. 10 Cfr. M. VEGLIA, Per un’ardita umiltà. L’averroismo di Dante tra Guido Cavalcanti, Sigieri di Brabante e San Francesco d’Assisi, in “Schede Umanistiche”, n.s., XIV (2000), 1, pp. 67-106. 292 Marco Veglia tra l’Olivi e i fermenti non sopiti di un gioachimismo sempre fervido e austero. 4. Sin qui, s’è potuto comprendere che le implicazioni cronologiche dei rimproveri di Beatrice hanno ancorato l’inizio del “traviamento” di Dante ad epoca anteriore al libello e hanno avvinto per ciò stesso il “traviamento”, come sua causa, alla nascita della «selva oscura». La datazione della Vita al 1294, che è ormai un punto fermo degli studi danteschi, consente di ricavare ulteriori indicazioni, specie quando tale datazione venga posta in rapporto, come pur si deve, con la chiarezza letterale dei colloqui di Dante con Brunetto e Forese, i quali vissero e operarono e morirono nei tempi che precedettero e seguirono la composizione del libello. Per prima cosa, a voler esemplificare quanto si dice, possiamo additare il significato complementare delle indicazioni temporali di Inf. XV 49-51 («Là su di sopra, in la vita serena, / [...] mi smarri’ in una valle, / avanti che l’età mia fosse piena») e del «mezzo del cammin» di Inf. I 1, poiché, come la prima indicazione riporta il lettore al decennio anteriore al 1300 («avanti che l’età mia fosse piena»), così la seconda, mentre conduce alla primavera dell’anno della plenitudo temporis, afferma, del pari, che Dante si “ritrovò” («mi ritrovai») nella selva, nella quale era perciò entrato (in esteso: «mi ritrovai per una selva oscura», Inf. I 2) innanzi alla primavera del 1300: per giunta, egli vi era entrato con una gradualità così lenta e inesorabile da riuscire quasi inavvertita alla sua coscienza (Inf. I 10-12, «I’ non so ben ridir com’ i’ v’entrai, / tant’era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai»), con una concatenzazione di peccati che andavano dalla lussuria alla superbia alle passioni e ai vizi della politica, e che tuttavia approdavano – cosa, questa, che non riusciamo a comprendere se non prestiamo fede alla lettera del racconto – alla negazione di Dio e della sua «verace via»: colui, infatti, che si trova quasi nella voragine infernale, che sta per sdrucciolarvi proprio quando si illude di uscirne, deve avere in parte almeno condiviso il presupposto dell’esistenza dell’Inferno, che è appunto la negazione di Dio o l’incredulità verso la religione. Il fatto stesso, poi, di discorrere della «vita» condivisa da Dante e da Forese e di trattarne in funzione del periodo di smarrimento che in diversi tempi avrebbe suscitato la Vita Nuova e la Commedia, implica una diversa idea della composita genesi di quelle due opere. Le doti morali e intellettuali che Dante aveva mostrato in giovinezza, riconosciute anche da Brunetto all’altezza del 1293 (che è l’anno della sua morte), con parole che esprimono un’evidente contemporaneità fra il rammarico del mae- Due canzoni 293 stro per la propria dipartita e il riconoscimento – espresso col gerundio presente – del fulgore e anzi del prodigio dell’allievo che, ad ora ad ora, ne ascoltava gli insegnamenti (Inf. XV 58-60, «e s’io non fossi sì per tempo morto, / veggendo il cielo a te così benigno, / dato t’avrei a l’opera conforto»), se vengono affiancate alle critiche di Beatrice in Purg. XXX, testimoniano che il profilo del “traviamento” fu assai grave, tanto più grave anzi quanto più, per natura, per inclinazione astrale e per grazia divina, Dante si presentava coi caratteri del prescelto, dell’eletto, quasi, secondo il Convivio, come un «Iddio incarnato» (IV XXI 10). La gravità di quello smarrimento si scandì in varie fasi: poiché, iniziatosi con la morte della donna, nel 1293 esso dava ormai segni di ragguardevole ripresa, tanto che Brunetto scorgeva Dante («veggendo», ovvero ‘mentre vedevo’), in quell’anno, che guarda caso coincide con quello della gestazione o stesura del libello, approdato a un tal grado di eccellenza da essere quasi visibile segno della benignità del cielo nei suoi confronti (a questa stagione pare quindi da riferirsi, mentre Brunetto era ancor vivo e ne poteva ricordare il pregio, il periodo evocato nel celebre passo di Convivio II XII 5-7). Beatrice (Purg. XXX 109-26) così si esprime sulle virtù prodigiose di Dante, manifeste piuttosto prima che dopo la sua morte, e sulla sua drammatica fase di “caduta”, posteriore al 1290, solo per poco interrotta dalla rinascita rappresentata nella Vita Nuova: Non pur per ovra de le rote magne, che drizzan ciascun seme ad alcun fine, secondo che le stelle son compagne, ma per larghezza di grazie divine, che sì alti vapori hanno a lor piova, che nostre viste là non van vicine, questi fu tal ne la sua vita nova, virtüalmente, ch’ogne abito destro fatto averebbe in lui mirabil prova. Ma tanto più maligno e più silvestro si fa ’l terren col mal seme e non colto, quant’elli ha più di buon vigor terrestro. Alcun tempo il sostenni col mio volto: mostrando li occhi giovanetti a lui, meco il menava in dritta parte volto. Sì tosto come in su la soglia fui di mia seconda etade e mutai vita, questi si tolse a me, e diessi altrui. 294 Marco Veglia Dante, quindi, si fece «maligno» e «silvestro», quasi perduto. Benché il libello giovanile cada all’interno del decennio di lenta costituzione della «selva», esso non fu bastevole a ricondurre il poeta sulla «diritta via». La Vita Nuova rappresentò quindi una prima ripresa dal male e dall’errore, ma non sortì effetti durevoli. Dopo tutto, Beatrice non afferma che le ispirazioni celesti, da lei stessa ottenute col pregare Dio per la salvezza di Dante e la sua illuminazione spirituale, fossero inutili o sterili, ma che esse riuscissero insufficienti a serbare Dante (se non «alcun tempo») nel giusto cammino: in effetti, ella “rivocò” Dante dall’errore («il sostenni col mio volto...»), ma il poeta non si mostrò saldo nel percorrere la via divina. Ricordiamo Purg. XXX 133-35: Né l’impetrare ispirazion mi valse, con le quali e in sogno e altrimenti lo rivocai: sì poco a lui ne calse! Una tale situazione è quindi posteriore all’«annovale» del 1291. Comunque si vogliano intendere i famosi «trenta mesi» e l’«alquanto tempo» del Convivio, non credo si possa negare che l’apice dello smarrimento si ebbe tra l’estate del 1291 e il principio del 1292, quando è possibile che il poeta, conscio della propria condizione, argomentasse di risanarsi leggendo, prima d’altro, i testi che gli parevano più giovevoli al suo stato, il De amicitia e la Consolatio. Poi, vennero «vocaboli d’autori e di scienze e di libri», vennero scuole e disputazioni, con frutti che, nel libello, s’intravedono «quasi come sognando». Sarei quindi propenso a ritenere che, dove la critica ha voluto ravvisare due distinti momenti di “traviamento” dantesco, l’uno dottrinario-poetico, l’altro esistenziale (testimoniato dalla tenzone con Forese), la Commedia non consenta alcuna esegesi di questo tipo (ne scaturisce pertanto una diversa interpretazione, en passant, della cosiddetta “rimenata” di Guido Cavalcanti a Dante). In effetti, poiché Virgilio giunge una sola volta, sino a prova contraria, a salvare Dante, la confessione di Dante a Forese, a proposito della vita che essi condivisero, risuona in tutta la sua chiarezza (Purg. XXIII 115-33): ... «Se tu riduci a mente qual fosti meco, e qual io teco fui, ancor fia grave il memorar presente. Di quella vita mi volse costui che mi va innanzi, l’altr’ier, quando tonda vi si mostrò la suora di colui», Due canzoni 295 e ’l sol mostrai; «costui per la profonda notte menato m’ha de’ veri morti con questa vera carne che ’l seconda. Indi m’han tratto sú li suoi conforti, salendo e rigirando la montagna che drizza voi che ’l mondo fece torti. Tanto dice di farmi sua compagna che io sarò là dove fia Beatrice; quivi convien che sanza lui rimagna. Virgilio è questi che così mi dice», e addita’lo; «e quest’altro è quell’ombra per cuï scosse dianzi ogne pendice lo vostro regno, che da sé lo sgombra». Va rilevato che il sintagma «Pur ier mattina» di Inf. XV 52 si allinea con quello, «l’altr’ier», appena letto in Purg. XXIII 119, sicché il “traviamento”, che è unico e non doppio, composito e non semplice, né culturale né esistenziale soltanto, è qui determinato con precisione temporale rispetto alla morte di Forese (1296) e sempre in rapporto al soccorso del cantore dell’Eneide, il quale giunge, anni più tardi, a sanare quel problema iniziato nel primo lustro dell’ultimo decennio del Duecento. Dunque, fra il 1291 e il 1296 si verificò lo smarrimento che, successivo alla scomparsa di Beatrice, assunse una robustezza e gravità, vorrei dire, gnoseologica, rispetto alla quale la Vita Nuova rappresentò una prima, ma ancor parziale nel 1294, risposta di Dante. Del pari, poiché appunto Virgilio è l’antidoto a ciò che Beatrice afferma nell’Eden e, insieme, a ciò che il viandante rivela a Forese («Virgilio è questi che così mi dice», v. 130), e poiché, ripetiamo, il poeta di Enea viene una sola volta in soccorso a Dante, v’è da riunire in un sol problema quelle esperienze ‘devianti’ che solitamente si distinguono, col porre erroneamente da un lato l’abbattimento per la morte dell’amata, dall’altro l’ingaglioffarsi in pessime compagnie coll’amico della giovinezza dissipata. È pur vero che non possiamo sapere, sul piano documentario, se «quella vita» (Purg. XXIII 118), anteriore com’è al 1296, si sia consumata prima della Vita Nuova, quindi prima del 1294, o tra il 1294 e 1296, cioè tra la Vita Nuova e la morte di Forese. Senonché, l’assenza di documenti trova forse un parziale rimedio in altre osservazioni, le quali poi – a me pare – ci consentono di acquisire ragionevoli, benché solo indiziarie, certezze. Dal momento che, in effetti, dal 1295 si conta l’ingresso di Dante nella vita politica, e quella medesima dissipatezza condivisa con Forese, un po’ come ammoniva 296 Marco Veglia saggiamente Michele Barbi a proposito delle intemperanze passionali che sarebbero presupposte dalle “petrose”,11 non è affatto da sopravvalutare, ed è difficile inoltre conciliare l’impegno strenuo e il «sentir morale» di Dante politico con un Dante che, se fosse coevo, sarebbe stato nel frattempo dedito, con Forese, a diletti di picciol affare, ne potrebbe conseguire che la “devianza” con Forese sia da collocare prima della Vita nova e a ridosso della morte di Beatrice, quindi prima della dedizione alla filosofia e della frequentazione, anch’essa tale da imporre un certo contegno (pubblico e privato), delle scuole dei religiosi e delle disputazioni dei filosofanti. A ciò si aggiunga che lo stesso strenuo esercizio delle “petrose”, nel vivo dell’esperienza politica di un Dante già autore di larga parte delle canzoni destinate più tardi al Convivio, non sembra disporsi a un’agevole convivenza con la “tenzone” con Forese Donati. Se questo è vero, tutte le tracce a nostra disposizione indicherebbero che la “rimenata” di Guido sia anteriore al libello, poiché i due problemi cui essa tradizionalmente si crede rispondere (risolti entrambi, secondo Purg. XXIII e XXX, dall’arrivo di Virgilio) sono da collocare prima della morte di Forese e dopo il primo anniversario della morte di Beatrice. A questo punto, la “rimenata” apparirebbe forse, se non come il verosimile antefatto, qua talis, della entusiastica dedica della Vita Nuova a Guido Cavalcanti (che si augurava con quel sonetto di rivedere Dante posizionato, diciamo così, al proprio livello), quanto meno come l’esempio tematicamente più stringente di quell’entusiasmo dantesco e dell’auspicio cavalcantiano presupposto da quel medesimo fervore. Eppure, la via scelta da Dante per riscattare la propria «vile vita» lo portò a battere una via che, mentre lo riconduceva, e sempre più lo avrebbe ricondotto, a Beatrice, lo poneva risolutamente «in contraria parte» rispetto all’amico prediletto. Di qui il «nodo» di Inf. X. La memoria retrospettiva di Dante, nella risposta «così piena» al padre di Guido, andrà a cogliere il bivio che si era creato non solo fra Guido e Beatrice, ma fra due amici i quali, sino alla dipartita della donna, avevano condiviso una medesima «scuola» e una medesima «dottrina». Verrebe quasi da domandarsi se l’ordine, nel quale la Commedia dispone, in sequenza, Forese, le «nove rime» e l’incontro con Guinizzelli e con Arnaut Daniel, da Purg. XXIII a Purg. XXVI (ma si potrebbe muovere 11 MICHELE BARBI, Problemi di critica dantesca. Prima serie (1893-1918), Firenze, Sansoni, 1975 (I ed. 1934), p. 35. Due canzoni 297 dalla definizione di un nuovo amore, non più cavalcantiano, in Purg. XVIII, sino alla scomparsa di Virgilio – nel quale, come mostrai anni fa,12 molti sono i tratti di Guido Cavalcanti – in prossimità della comparsa di Beatrice), non lasci forse filtrare la traccia di una sequela che fu anche nella storia, ovvero nelle esperienze che precedettero la Vita Nuova. L’impressione, forse indimostrabile, è che i canti XVIII-XXVII del Purgatorio raccontino in filigrana, da nuova ma coerente prospettiva, la vicenda centrale del libello del 1294, dalla «loda» alla «mirabile visione”. Entro un simile quadro, del resto, parrebbe meno misterioso anche il lascito culturale dell’autore del Tresor al suo allievo di un tempo. Quale che fosse, infatti, l’«opera» di Dante cui Brunetto avrebbe gioiosamente prestato «conforto», essa dové riferirsi e temporalmente collocarsi nel fervore filosofico e speculativo che precede, fra il 1293 e il 1294, la stesura della Vita Nuova. 5. Un semplice argomento deve ora indurci a riprendere a mano, sia pur brevemente, il dossier delle due canzoni anteriori alla Vita Nuova. Quando, nella composizione del libello, Dante si trovò a dover esprimere il proprio tributo a Beatrice, egli non poté che eliminare, dall’officina del libro, la canzone più ostentatamente contraria alla natura salvifica della donna amata (Lo doloroso amor 1-14): Lo doloroso amor che mi conduce a ffin di morte per piacer di quella che lo mio cor solea tener gioioso m’ha tolto e toglie ciascun dì la luce ch’avean gli occhi miei di tale stella, che non credea di lei mai star doglioso, e ’l colpo suo, c’ho portato nascoso, omai si scopre per soperchia pena, la qual nasce del foco che m’ha tratto di gioco, sì cch’altro mai che male non aspetto; e ’l viver mio – omai de’ esser poco – fin a la morte mia sospira e dice: “Per quella moro c’ha nome Beatrice”. 12 M. VEGLIA, “Lucerna ardens”: appunti su Cavalcanti, Virgilio e il problema del “disdegno”, in “Italianistica”, XXVI (1997), 1, pp. 9-21. 298 Marco Veglia I primi versi («Lo doloroso amor che mi conduce / a ffin di morte per piacer di quella»), come ha mostrato la Barolini, echeggeranno in Inf. V 103-106 («Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona; / Amor condusse noi ad una morte»). Alla leggerezza di Paolo e Francesca, trascinati dalla «bufera infernal», riconducono inoltre i versi sulla condizione fragile, esile, di Dante (Lo doloroso amor 15-28): Quel dolce nome che mi fa il cor agro tutte fïate ch’i’ lo vedrò scritto mi farà nuovo ogni dolor ch’io sento; e della doglia diverrò sì magro della persona, e ’l viso tanto afflitto che qual mi vederà n’avrà pavento. E allor non trarrà sì poco vento che non mi meni, sì ch’io cadrò freddo; e per tal verrò morto, e ’l dolor sarà scorto co ll’anima che se n girà sì trista, e sempre mai co llei starà ricolto ricordando la gioia del dolce viso a che nïente par lo paradiso. La presenza di questa canzone nelle filigrane del secondo cerchio infernale sta a dimostrare, se non altro, che l’assolutezza di questo amore fatale per Beatrice, così possente da risultare nulla rispetto alla «gioia del dolce viso» della donna (rispetto alla quale «nïente par lo paradiso»,) rimase nella mente di Dante, e vi rimase per esprimere una condizione nella quale l’inferno delle loves labour’s lost, inteso come pena e sofferenza, coincide con il «carcere» eterno. Michele Barbi, in un articolo apparso negli “Studi Danteschi”,13 riprodotto in chiusura del commento a verbo di E’ m’incresce di me nell’edizione Barbi-Maggini,14 osservava che Dante ebbe «diversi sentimenti» e «diversi propositi» nel raccogliere le rime per Beatrice: quello che, se- 13 M. BARBI, Per chi e quando sia composta la canzone “E’ m’incresce di me”, in “Studi danteschi”, XIX (1935), pp. 97-116. 14 D. ALIGHIERI, Rime della “Vita Nuova” e della giovinezza, a cura di M. Barbi e Francesco Maggini, Firenze, Le Monnier, 1956 [BARBI - MAGGINI], pp. 244-56. Due canzoni 299 condo il poeta, non concordava coi nuovi suoi intendimenti, ricevette «lo sfratto»:15 Non è infatti soltanto E’ m’incresce che sta in contrasto col racconto e con le più alte idealità della Vita Nuova: lo stesso avviene nel sonetto Ne le man vostre, ove tutto s’appunta sullo «spirito che more», e sul desiderio di veder gli occhi di cui la donna è tanto avara; e più, nella canzone Lo doloroso amor, dove è fatta espressa menzione di Beatrice e dove pure il poeta è tratto a morte «per piacer di quella che soleva tener gioioso il suo cuore», avendogli ella tolto, e togliendogli ciascun dì, la luce dei suoi occhi, contro ogni sua aspettativa [...]. Abbia o non abbia il poeta messo in rilievo nella Vita Nuova questo suo momento doloroso con la sua vera cagione, non vuol dire che non possa esserci stato: intendo dire nell’animo e nella fantasia del poeta, non nella realtà della vita esteriore [...]. Nella Vita Nuova Dante preferisce altra rappresentazione, altre cagioni? Avrà avuto le sue ragioni, e sta a noi cercarle... Lo “sfratto” imposto al versante cavalcantiano più acceso comporta alcune rapide osservazioni. Innanzi tutto, si può osservare che il ‘problema’ di Lo doloroso amor e di E’ m’incresce di me appare come una sovversione del giusto amore, che ordinatamente conduce, invece, una creatura ad amare un’altra creatura per amore di Dio. Se, rispetto al «viso» di Beatrice, niente vale il «paradiso» e niente cura il poeta del trovarsi all’inferno (purché alla bellezza della donna egli possa pensare e di quella appagarsi), allora l’ordo amoris, che è la gradatio stessa dell’amore, è minacciato o negato. Questo concetto, pur nelle sue radici agostiniane, troverà la sua espressione nel francescanesimo e nel concetto stesso di «loda». Non è casuale che, su linguaggio propriamente francescano, venga tramata la definizione dell’amore in Purg. XVII, con una coerenza che approderà all’ultimo canto della Commedia. Ascoltiamo ancora la Barolini:16 Questi temi culmineranno nel Paradiso: quando Dante scrive di Beatrice «Se quanto infino a qui di lei si dice / fosse conchiuso tutto in una loda» (Par. XXX 16-17), sta evocando un cammino lessicale che si estende indietro nel tempo, alle prime rime di lode; e quando scrive che 15 Ivi, p. 247. 16 Cfr. ancora il commento della BAROLINI, p. 309, nell’introduzione a Donne ch’ave- te. 300 Marco Veglia la bellezza di Beatrice è tale «che solo il suo fattor tutta la goda» (Par. XXX 21), sta tornando alla mise-en-scène di Donne ch’avete. Col “traviamento”, e coi testi che ce ne danno testimonianza, Dante si trovò quindi agli antipodi di quell’ascesa creaturale che, nel poema, lo condurrà, per amore della creatura Beatrice, «loda di Dio vera», a giungere al cospetto del Creatore, attraverso un cammino iniziato ai tempi della Vita Nuova. Il travaglio dei «pensamenti», che nel libello conduce il poeta a stabilire la rispondenza della lingua (quindi della lingua poetica) alla realtà creaturale, enunciata attraverso il motto giuridico «Nomina sunt consequentia rerum», agisce esattamente sul punto contrario a quello di Lo doloroso amor, che, invece, enuncia a chiare lettere la contraddizione fra i due ordini di realtà, linguistica e storico-creaturale: «Per quella moro c’ha nome Beatrice». La dialettica tra passato e presente, tra “vecchia” e “nuova” Beatrice, non potrebbe essere più limpida. L’eventuale sopravvivenza della Beatrice fatale avrebbe negato la possibilità stessa non solo del libello, ma, via via, del poema. Sul “nodo” creaturale occorrerebbe del resto indugiare, se non altro per ribadire che il centro della svolta dantesca della Vita Nuova consiste, primariamente, nel recupero della “creaturalità” di Beatrice, come pure in un approccio all’Amore centrato non più sul sentimento, in sé considerato, oppure sulla gioia o sul dolore di colui che lo prova ed esprime poeticamente, ma sulla oggettiva e positiva natura della donna amata, res sacra che richiede, come tale, una lingua poetica rinnovata. In una simile prospettiva si capisce bene che ogni componimento non omogeneo a una strategia compositiva così ambiziosa dovesse coerentemente essere sacrificato. Soprattutto, doveva essere immolato quel versante dell’esperienza poetica di Dante dove, come accade in Lo doloroso amor al massimo grado, è non solo il poeta ad essere diverso, non solo l’Amore a presentarsi difforme da quello del libello, ma appunto Beatrice a campeggiare diversa, contraria, all’icona del libro del 1294. Nella Vita Nuova sarebbe rimasta, invece, la sola storia di questo cammino speculativo e letterario, con le sue premesse poetiche e amicali, disposta in forma di premessa e giustificazione della scelta della «loda». Sul piano della “natura” di Beatrice, inoltre, non è difficile intendere che la proclamata corrispondenza fra nomina e res, ottenuta nella Vita Nuova con l’itinerario che conduce alla «loda», dimostra come Dante, diciamo fra il 1292 e il 1294, lavorasse a rovesciare gli assunti, e gli errori (non solo esistenziali, ma teologici: tanto più gravi in quanto nutriti, Due canzoni 301 a loro volta, di un linguaggio teologizzato) documentati da Lo doloroso amor e confermati più tardi, con severa chiarezza retrospettiva, dal discorso di Beatrice nell’Eden. Quando, nel Purgatorio (XXXI 52-54), la donna si mostrerà sdegnata del fatto che una «cosa mortale», quindi una creatura, avesse potuto suscitare in Dante un allontanamento da lei e, al contempo, una aversio a Deo («e se ’l sommo piacer sì ti fallio / per la mia morte, qual cosa mortale / dovea poi trarre te nel suo disio?»), ciò accadrà perché l’orizzonte nel quale Beatrice stessa concepirà l’amore di Dante nei suoi confronti sarà quello, evidentemente, del creaturalismo francescano. Diverso, invece, ciò che accade nella Vita Nuova con l’immagine di Beatrice (Donne ch’avete 43-50):17 Dice di lei Amor: «Cosa mortale come esser po’ sì adorna e sì pura?». Poi la riguarda, e fra sé stesso giura che Dio ne ’ntenda di far cosa nova. Color di perle ha quasi, in forma quale convene a donna aver, non for misura: ella è quanto de ben po’ far natura; per essemplo di lei beltà si prova. Quanto più Dante amava Beatrice come pegno dell’opera di Dio, tanto più gli era aperta la strada che l’avrebbe condotto alla Commedia. 6. La seconda canzone dell’amor “doloroso” presenta anch’essa diversi problemi, che possiamo solo in parte accennare, non senza la ripresa di un aspetto almeno della canzone precedente. Gianfranco Contini, che ravvisava in E’ m’incresce di me i tratti di una «dolorosità programmatica», in chiosa a Lo doloroso amor si opponeva all’interpretazione autorevole di un illustre dantista come Bruno Nardi, non per attenuare, ma per accentuare i risvolti storico-speculativi del «nodo» teologico del testo. Il passo, al quale Contini si riferisce, è quello ove Dante si dichiara indifferente all’approdo in inferno, pur ch’egli possa rammentare e in sé contemplare la bellezza di Beatrice (Lo doloroso amor 29-42):18 17 18 Ivi, p. 313. Per le citazioni rimando sempre all’ed. BAROLINI, pp. 283-84. Questa la spiegazione nel commento Barbi - Maggini: «Pensando a ciò che gli ha fatto provare Amore, 302 Marco Veglia Pensando a quel che d’amor ho provato, l’anima mia non chiede altro diletto, né il penar non cura il quale attende; ché poi che ’l corpo sarà consumato se n’anderà l’amor che m’ha sì stretto co·llei a Quel ch’ogni ragione intende; e se del suo peccar pace no i rende partirassi col tormentar ch’è degna, sì cchè non ne paventa, e starà tanto attenta d’inmaginar colei per cui s’è mossa, che nulla pena avrà che ella senta; sì cche se ’n questo mo[n]do i’ l’ho perduto, Amor ne l’altro me n darà tributo. Poco fa, come non sarà sfuggito al lettore, abbiamo notato che, per Dante, rispetto alla bellezza del «viso» di Beatrice pareva nulla lo stesso «paradiso». Ora, s’è appena visto, la questione tocca l’inferno. Ripercorriamo la nota di Contini: La separazione analitica dell’anima e la celebrazione assoluta dei valori amorosi dovevano indurre naturalmente gli stilnovisti a proporsi la situazione del giudizio divino. E in fatto la canzone guinicelliana che fondò il dolce stile, Al cor gentil, si chiude già sopra questo temibile quanto singolare redde rationem (Donna, Dio mi dirà: Che presumisti?, Siando l’anima mia a lui davante...). In ipotesi, il novissimo potrà anche essere, come qui in Lo doloroso amor, l’inferno: tanto, il ricordo di madonna riuscirà a cancellarne le pene, non varrà meno del paradiso. Il passo ne l’anima non chiede altro diletto; appunto perché la gioia che nasce da tal pensiero è tanto grande, da appagarla; né cura il castigo che s’aspetta da Dio per i suoi peccati [...]. Ed ecco perché e come non cura il castigo che s’attende: consumato il corpo, l’anima non sola a presentarsi al suo giudice; sarà con lei l’amore che ha sì stretto il poeta in questa vita; e se Dio non le perdona i suoi peccati, si partirà, sempre con quell’amore, dalla presenza divina per andare a patire i tormenti dei quali è stata giudicata degna: sì che non ne paventa, e starà tanto concentrata (attenta) nell’immaginare la donna, per la crudeltà della quale s’è mossa, s’è partita (da questa vita), ch’ella non sentirà nessuna delle pene assegnatele dalla giustizia eterna. Par dunque al poeta che se Amore l’ha privato in questo mondo della ricompensa dovuta al suo servire (tributo), gliela largisca nell’altra vita, poiché gli porge tal mezzo da non sentire le pene dell’inferno» (BARBIMAGGINI, p. 260). Due canzoni 303 rammenta uno celeberrimo della canzone Donne ch’avete (... alcun ... che dirà ne lo inferno: “O mal nati, Io vidi la speranza de’ beati”), dove si volle vedere a torto una preallusione al viaggio della Commedia: è, come rilevò il Mazzoni, l’estrema e più disperata ipotesi, riferita a un uomo indeterminato, neppur necessariamente a Dante; ma la speranza è che non po’ mal finir chi l’ha parlato. Che ivi inferno e dannazione valgano semplicemente perdita della beatitudine per la dipartita della donna, come intende il Nardi (Dante e la cultura medievale, p. 41), non regge appunto al lume del nostro passo, dove si parla di giudizio divino e d’una dannazione elusa, con iperbole che non cura le formule dell’ortodossia. Da un lato, le due canzoni sono di indubbia antichità; dall’altro, dal 1292 i loro temi e problemi ritornano attuali per un Dante smarrito (non per accoglierli tali e quali, ma per superarli), redarguito dall’amico Cavalcanti, desideroso di rinnovarsi, di essere degno nuovamente dell’amico e di Beatrice. La «situazione del giudizio divino» era stata evocata, in effetti, nel redde rationem che chiudeva Al cor gentil, vero antefatto, in tema di «lode», della svolta dantesca affidata a Donne ch’avete e all’intera Vita Nuova (con la differenza capitale che il limite invalicabile per il primo Guido diviene, per Dante, il punto di partenza del suo viaggio). Nella situazione di Lo doloroso amor abbiamo invece un’anima che non si curerà della detrusione all’Inferno perché continuerà a compiacersi e appagarsi d’aver contemplato e goduto la bellezza di Beatrice. In E’ m’incresce, benché si permanga in una condizione di amore doloroso, mortale, troviamo già elementi che, con Donne ch’avete, segneranno di contro la svolta dantesca, non meno della nascita di una Beatrice intesa quale «cosa nova» (Donne ch’avete 46), intorno alla quale costruire una narrazione provvidenziale della presa di coscienza di quella medesima novità: appunto, la Vita Nuova. «Le canzoni Lo doloroso amor ed E’ m’incresce di me», ha osservato in merito Teodolinda Barolini, «sono spie di un dramma interiore: fanno capire che la strada che Dante fece per arrivare alla Beatrice della Vita Nuova fu tutt’altro che scontata».19 In questo cammino, E’ m’incresce di me presenta alcuni degli elementi caratteristici del libello (E’ m’incresce 56-70). Essa è la canzone che, pur testimoniando ancora un momento del problema “cavalcantiano” di Dante, ne offre nondimeno, al proprio interno, una possibile soluzione, 19 BAROLINI, p. 291. 304 Marco Veglia o alcuni indizi per una sua soluzione. La comparsa di Beatrice, la sua venuta «nel mondo» (v. 57), il «libro della mente» (v. 59, poi ancora «libro» al v. 66), la presenza partecipe di Dio (v. 70), il quale prova per Dante quello che Dante prova per sé (se al poeta «incresce» di sé, leggiamo che «or ne ’ncresce a quei che questo mosse»), il rivolgersi alle «donne» («donne gentili a cui i’ ho parlato», v. 73, e «I’ ho parlato a voi, giovani donne», v. 85): sono tutti fili che legano E’ m’incresce di me a Donne ch’avete intelletto d’amore. E sono, diremmo con linguaggio filologico, errori separativi rispetto a Lo doloroso amor. Un fatto simile suggerisce che, nel riprendere a mano Lo doloroso amor, con tutta la costellazione ad essa omogenea di testi “dolorosi”, per risolverne la rischiosa sopravvalutazione dell’amore sino al punto di non curare l’ortodossia, Dante deve aver ragionato su quella sorta di palinsesto che gli era offerto da E’ m’incresce di me. Di lì, insomma, occorreva partire, e dalle certezze che gli diede una testo come Donne ch’avete. La teologizzazione, che si riscontra in E’ m’incresce, della nascita di Beatrice e del suo rapporto con Dante potevano e dovevano, dopo la prova di Donne ch’avete, da collocare intorno al 1292, condurre lontano, alla teologia, alla Commedia. Per sua parte Donne ch’avete, in un’ottica di «loda», ristabiliva e riaffermava la natura salvifica di Beatrice e del suo «nome»; E’ m’incresce offriva a Dante la prova che solo interpretando la storia del proprio amore per Beatrice, e raccontandone i momenti provvidenzialmente significativi, egli avrebbe conferito a quello stesso amore il luogo giusto nella sua vita e nella sua opera. Come avvenne. Il «libro della mente», nell’atto stesso in cui diviene il contesto ordinato, unitario, percorribile sotto diverse rubriche, dell’amore per Beatrice, fa di quest’ultimo, in E’ m’incresce di me, qualcosa di diverso rispetto all’amore documentato dalla fase “cavalcantiana” del giovane amico di Guido. Il pensiero distintivo della Vita Nuova sarebbe stato, lascio ancora la parola a Teodolinda Barolini, «un nuovo inizio, sia nel testo sia nella vita»,20 il superamento cioè della dimensione individuale, quindi edonistica, dell’amore: Donne ch’avete è perciò una «lirica d’amore dettata non dal desiderio di possedere ma dal desiderio di lodare».21 Non diverso riesce dunque il libello scaturito dall’attrito fra quella canzone, i testi ad 20 21 Si ricorra ancora al cappello introduttivo a Donne ch’avete: BAROLINI, p. 301. Ivi, pp. 303-304. Due canzoni 305 essa affini e quelli ad essa fortemente, pericolosamente contrari. L’incredulità, l’indifferenza di Dante alle ispirazioni celesti (presente in Lo doloroso amor), si dilegua in Donne ch’avete. Nella quale ultima, a tacer d’altro, ci troviamo dinanzi a un passo che non dissimula ma addita, nella sua evidenza, un legame con Lo doloroso amor (Donne ch’avete 15-28): Angelo clama in divino intelletto e dice: «Sire, nel mondo si vede maraviglia ne l’atto che procede d’un’anima che ’nfin qua su risplende». Lo cielo, che non have altro difetto che d’aver lei, al suo segnor la chiede, e ciascun santo ne grida mercede. Sola Pietà nostra parte difende, che parla Dio, che di madonna intende: «Diletti miei, or sofferite in pace che vostra spene sia quanto a me piace là v’è alcun che perder lei s’attende, e che dirà ne lo inferno: O mal nati, io vidi la speranza de’ beati». Rispetto a Lo doloroso amor, la svolta, pur limitando il discorso al solo «inferno» (che ovviamente non è la cantica del poema) è ormai compiuta: prima, in Dante, v’era indifferenza; ora, invece, v’è la consapevolezza che anche all’inferno si possa riconoscere la novità, il miracolo di Beatrice. Non escluderei che, secondo la prassi della composizione di Dante, quale è stata dimostrata da Emilio Pasquini,22 gli ultimi versi riportati siano stati scritti per richiamare e correggere, in un’ottica di «figuralismo interno» all’opera del poeta, quelli di Lo doloroso amor. Comunque sia, dalle rampogne di Beatrice in Purgatorio abbiamo tratto alcune indicazioni per riesaminare i problemi offerti da alcuni testi che precedono il libello dedicato a Guido Cavalcanti. Ne è emersa una cronologia del “traviamento” meno approssimativa di quanto al solito si creda, e, soprattutto, si è potuta cogliere la grave natura, sostanzialmen- 22 E. PASQUINI, Dante e le figure del vero. La fabbrica della “Commedia”, Milano, Bruno Mondadori, 2001. 306 Marco Veglia te “epicurea”, della colpa di Dante, il suo carattere, o la sua conseguenza, teologica. Un filo diretto parrebbe congiungere allora i nodi spirituali e i testi del 1291-1294 alla scena dell’Eden, le canzoni Lo doloroso amor ed E’ m’incresce di me (con, ovviamente, Donne ch’avete) alla genesi della Vita Nuova e, più tardi, della stessa Commedia. Marco Veglia Dipartimento di Italianistica Università degli Studi di Bologna ABSTRACT Two Canzoni, Dante’s Straying and the Origin of “Commedia” The essay focuses on Dante’s “traviamento”. In Purg. XXX Beatrice places Dante’s straying after the first annovale of her death. In Purg. XXIII Dante says that Virgil saved him from the unkind life that he had lived with Forese Donati (who died in 1296). The “traviamento” is thus referred to a time that probably includes also the period before Vita Nuova. The two early canzoni E’m’incresce di me and Lo doloroso amor can be considered as evidences of a real straying preceding the writing of the booklet; in those texts, indeed, Dante does not seem to believe in the sacred character of Beatrice, showing himself almost indifferent to Heaven and Hell.