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Senso e Significato. Teoria del riferimento linguistico

2023, Sfi Società Filosofica Italiana ISSN 1128-9082 - Comunicazione filosofica n. 50

This is the exposition of a theory that crosses the main puzzles related to the language to its reference, in order to define the conditions of reference of the language.

Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it Senso e Significato. Teoria del riferimento linguistico Vito J. Ceravolo Abstract This is the exposition of a theory that crosses the main puzzles related to the language to its reference, in order to define the conditions of reference of the language. Keywords Philosophy of language, Sense, Meaning, Names, Descriptions. Introduzione Attraversiamo i rompicapi legati alla parola e al suo riferimento. Tre sono i crocevia da cui ci snodiamo: Russell e il riferimento dei nomi propri a cose inesistenti; Kripke e il riferimento dei nomi propri e delle descrizioni definite; Conoscenza e la distinzione fra uguaglianza e identità. Non abbiamo ampi margini in cui non sembrare stranieri di un’altra lingua. Lo scarto giunge da codesta filosofia capace di accedere al mondo del sensibile (fenomeno), attraverso sensi e misure, e al mondo del sovrasensibile (noumeno), attraverso intuizioni. I due mondi sono da intendersi come verità distinte ma legate su piani diversi: la prima una verità sensibile soggettiva mutevole costruente discendente da essere vero a essere, l’altra una verità di ragione oggettiva stabile scoprente ascendente da essere a essere vero. Il mondo fenomenico è ciò che appare, quello noumenico è ciò da cui appare, di una medesima realtà, così che il noumenico possa essere analiticamente confermato per via mediata attraverso le sue conseguenze fenomeniche, in un rapporto intero-parti. I fenomeni sono esempi (mappe) dell’ordine in sé (territorio) da cui appaiono. L’ordine in sé è la ragione da cui le cose appaiono: la ragione è l’in sé (noumeno) delle cose. Da cui il seguente linguaggio. Dentro tali presupposti extralinguistici, il risultato linguistico disambigua alcune incomprensioni regnanti nell’attuale mondo del linguaggio, dove si trovano vaste aree di cui non se ne comprende il funzionamento. In particolare, nella presente Filosofia del linguaggio, affrontiamo i rompicapi legati al riferimento del linguaggio; quindi, sospendiamo i discorsi intorno alle condizioni di verità del linguaggio e alla stratificazione della sua struttura, per concentrarci − appunto − sulle sue condizioni di riferimento. La bibliografia si riferisce quasi totalmente al comparto note dove si sviluppa la quasi totalità della critica. In nuce resta prevalentemente la costruzione teorica. Simboli speciali: x = Riferimento del linguaggio, oggetto, senso, contenuto; A = Linguaggio, parola, nome, descrizione, enunciato, proposizione, predicato, significato, forma; 94 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it xA = x è A. A questo livello di analisi del linguaggio, uniformiamo e leggiamo la forma xA in maniera equivalente a come segue: − − − − A è il linguaggio L, la parola A, il nome n, la descrizione D, l’enunciato P, la proposizione p che si riferisce a x; x ha il predicato A; A significa x; A è la forma del contenuto x. 1. Esperimento mentale del Riferimento linguistico Prendiamo un oggetto x e chiamiamolo casa A in un linguaggio e home B in un altro linguaggio: x=A  x=B. Otteniamo uno stesso oggetto al quale possiamo riferirci attraverso linguaggi differenti; dove il riferimento è il rapporto fra parola e oggetto. Da cui abbiamo: − − Un oggetto costante, quello stesso riferimento davanti ai diversi linguaggi; Un soggetto variabile, quel particolare linguaggio con cui ci riferiamo a quell’oggetto. In questo caso i nomi casa e home hanno la stessa estensione, si riferiscono allo stesso oggetto; e che l’estensione delle due parole sia la stessa, noi ne abbiamo certezza perché siamo noi ad averle così definite nel nostro esperimento mentale, indi siamo certi che si riferiscono allo stesso oggetto, il quale resta la costante di riferimento dei due differenti linguaggi. Ma che cosa è questo oggetto di riferimento costante? Anzitutto una costante è per esempio la velocità della luce, la quale rimane la stessa indipendentemente dal suo mittente (sia che la luce venga emessa dal sole, da una lampadina o una candela, la sua velocità è sempre la stessa). Parimenti il nostro oggetto di riferimento è ciò che indichiamo costantemente sia emettendo il nome casa che il nome home. Cosa è invece questo soggetto linguistico variabile? Anzitutto è quel particolare linguaggio che usiamo per parlare dell’oggetto. Contriamo questo esperimento nelle parole di Frege opportunamente modificate1: − Il senso è l’oggetto di riferimento x del nostro linguaggio; Frege 1892 afferma che le componenti di un enunciato hanno un senso che ne determina il riferimento. Da egli ci distinguiamo perché definisce il senso come derivato dal pensiero mentre noi facciamo derivare il senso dall’oggetto e chiamiamo significato ciò che è derivato dal pensiero. È da riconoscere che Frege 2001 distingue il pensiero inteso come contenuto oggettivo (der Gedanke) dal pensare inteso come processo mentale (das Denken), attribuendo caratteri oggettivi al primo e soggettivi al secondo, ma fu sul finire della sua attività che ebbe da specificare la realtà in tre regni: mentale, materiale, pensiero. Così “intravedendo” il nostro oggetto in sé, sebbene la nomenclatura “pensiero” sia indice assieme di incomprensioni sull’oggetto in sé, di inopportune accezioni e devianze linguistiche, di errori consequenziali. Infatti, un pensiero in sé è per sua natura impersonale al contrario del pensiero che è per sua natura personale, suscitando cortocircuiti in cui le cose aventi pensiero hanno coscienza, o in cui i costituenti proposizionali sono i sensi, o in cui i sensi sono patrimonio comune che l’umanità si trasmette di generazione in generazione. Con la nostra nomenclatura invece si anticipa che possiamo pensare le cose perché le stesse hanno una ragione in sé per essere tali, il che non suscita alcuna coscienza personale dell’oggetto in sé e dice che i sensi sono ciò a cui si riferiscono i costituenti proposizionali, cioè la ragione (da cui emerge il senso) è la struttura in sé e le proposizioni (da cui emerge il significo) sono il nostro modo di segmentarla (di dirla), quindi i sensi non sono un patrimonio particolare che si trasmette bensì universale che resta, a trasmettersi di generazione in generazione sono invece i significati. È evidente che questa non è solo una chiarificazione linguistica, ma cambia la visione, giacché (come s’evince nel proseguo del presente studio) se il significato di una parola è anche l’uso che se ne fa, il senso di una parola è invece anche tutti i suoi possibili usi. E le altre differenze. 1 95 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it − Il significato è quel soggettivo linguaggio A che usiamo per parlare di quel riferimento. In linea alla nozione intuitiva di significato: quando qualcuno ci chiede il significato di un’espressione, possiamo rispondere dandogli, a nostro modo, il senso dell’espressione. 2. Senso e Oggetto Qual è l’oggetto del linguaggio? È il riferimento di cui parla. Ogni parola con significato ha un valore, un ordine; quindi, una ragione in sé da cui si dà: l’oggetto in sé è la ragione; la ragione è l’in sé (noumeno) delle cose. Da non confondersi (la ragione in sé) con la razionalità della mente: la prima è l’intero oggetto di conoscenza, con la sua unità della ragione; la seconda è una parte degli strumenti di conoscenza, con la sua pluralità conoscitiva. Quivi: dalla ragione in sé emerge il senso dell’oggetto x, dalla razionalità di per sé emerge il significato s che il soggetto attribuisce all’oggetto x. Più semplicemente: il senso di un enunciato è l’oggetto a cui si riferisce; il significato di un enunciato è il soggetto che lo esprime. Da tale emersione: l’oggetto del linguaggio, ciò a cui si riferisce il linguaggio, può essere immediatamente un senso x o mediatamente un significato s di un senso x. Pertanto: immediatamente o mediatamente, quando ci riferiamo a qualcosa tramite linguaggio, ci riferiamo al suo senso (di quella cosa) emerso dalla ragione in sé per cui è tale. Conseguentemente: tutti i riferimenti del linguaggio − gli oggetti espressi tramite linguaggio − hanno un senso per essere ciò che sono, indipendentemente che tale senso provenga dalla realtà, dall’immaginario o altro. xA  sxA L’enunciato A può riferirsi o al senso x o a un significato s di un senso x. Siamo qui fronte a enunciati A in cui possono comparire termini che non si riferiscono a oggetti x esistenti nella realtà, ma magari esistenti nel mondo del possibile (Pegaso) o dell’immaginario (√−1), o addirittura impossibili (10) e inesistenti. In questa logica libera, la forma A è distinta dal contenuto x e l’esistenza della forma A non implica l’esistenza del suo riferimento x. Motivo per cui dire “palla” non implica vi sia una palla; dire “Pegaso” è dire qualcosa di non reale nel nostro mondo tramite l’esistenza della forma linguistica “Pegaso” che invece esiste nel nostro mondo. Due esempi: (i) “Vulcano è un pianeta che orbita fra Mercurio e il Sole”. Se Vulcano effettivamente è tale allora la sua descrizione è vera altrimenti no. Quivi la forma dell’enunciato resta la stessa, ma a seconda di come effettivamente accade il suo riferimento, l’enunciato è vero oppure no. (ii) “Vulcano è quello”. Quivi la forma dell’enunciato resta la stessa, ma a seconda che il nome indichi il suo oggetto o altro, l’enunciato è vero oppure no. (iii) In entrambi i casi (connotativo e denotativo) conosciamo la forma dell’enunciato prima di sapere se è vero o no ovverosia riconosciamo la forma della descrizione e del nome indipendentemente dalla realtà del loro riferimento2 giacché, come vuole il Principio del contesto (cfr. Cap. 3), comprendiamo sia la struttura logica A=B in cui occorrono sia l’enunciato nome-descrizione che le emette. 2 L’astronomo Le Verrier 1846 ipotizza che l’orbita di Mercurio è perturbata da uno sconosciuto pianeta più interno, a cui dà il nome Vulcano. Ritratteggiando Russell 1918 per il quale dobbiamo conoscere la forma dell’enunciato prima di sapere se è vero o falso: se un enunciato contiene il nome proprio Vulcano e Vulcano non esiste allora non è un nome proprio perché non è di nessuno, è solo una descrizione generale e non parla di nessun particolare individuo. Perciò Russell conclude che il nome deve essere una abbreviazione di descrizione, pena l’ignoranza sull’enunciato. Invece noi, nel nostro secondo esempio (ii) abbiamo mostrato, in maniera ostensiva senza descrizione, di riconoscere la forma del nome prima di sapere se è vero o falso, senza bisogno di attribuirgli descrizioni ma solo denotazione. Ciò aprirebbe alla possibilità che la forma di un nome proprio resti tale anche se si riferisce a un contenuto che non esiste o anche se viene usato erroneamente; così come in (i) la forma della descrizione resta descrizione anche se non descrive alcun oggetto esistente o anche se descrive erroneamente il suo oggetto. 96 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it Con tale distinzione forma-contenuto3: dall’esistenza della forma A (Es. L’attuale re di Francia) possiamo partire a conoscere se il suo contenuto x esiste nella Realtà, nelle Possibilità, nell’Immaginario etc. oppure no; dacché ciò che esiste può determinare cosa esiste e cosa no4, assieme alle seguenti Leggi di esemplificazione del riferimento: xA → x|x=RPI… Se l’enunciato A si riferisce a x, allora esiste un oggetto x tale che x è Reale o Possibile o Immaginario o… xAx=0 → xA=={} Se il riferimento x dell’enunciato A è nullo 0, allora il contenuto x non esiste x e la forma A è un insieme vuoto ={}. Abbiamo appena aumentato la realtà di uno degli assiomi fondamentali della logica classica: la Legge di esemplificazione dell’universale xA → A. Per la quale, in realtà aumentata, per ogni A che si riferisce a x, esiste A indipendentemente dall’esistenza di x (Es. Se x è niente A, allora x, allora esiste il nome niente A anche se non esiste l’oggetto niente x che indica). In tal modo l’esistenza di un nome A può essere interpretata, in date circostanze, come un individuo x inesistente: il niente non esiste! Si scioglie il rompicapo di Russell su come affermare qualcosa di qualcosa che non esiste: possiamo affermare di qualcosa x che non esiste x tramite enunciati A vuoti ={}. Chiamo enunciato vuoto A=={} quell’enunciare che non attribuisce alcun predicato al suo riferimento, negandogli qualsivoglia predicato (non esiste, non nero, non bianco, non alto etc.), predicandone l’impredicabilità, cioè affermando che veramente il riferimento x di quell’enunciato A non esiste in alcun mondo; al contrario di ciò che esiste in qualche mondo (che sia un mondo reale, possibile, immaginario etc.) a cui potremmo attribuire valori. Infatti, di una montagna d’oro esistente nel possibile (esemplificata nel mondo del possibile) potremmo dire che sarebbe ricca, mentre al niente inesistente in qualunque mondo non possiamo attribuire predicati. Ovvero: la montagna d’oro è esemplificata nel possibile come descrizione D, e che sia vero o no che vola dipende dalla detta descrizione; mentre è sempre vero che il niente assolutamente non ha descrizione, oppure relativamente può essere il niente di una donna che invece ha molte descrizioni. Ovverosia: le proprietà si esemplificano in qualche mondo, sono rappresentazioni di qualche mondo, mentre le non-proprietà non si esemplificano (Es. In “xA” la proprietà A non si esemplifica)5. Scendiamo nelle profondità dell’ontologia: l’essere si esemplifica in qualche mondo W={Reale, Possibile, Immaginario, …} oppure non è. L’esemplificazione avviene in forma A o in contenuto x o assieme. I mondi W… Già Strawson 1950 aveva avanzato una critica subordinata alla nostra, verso Frege e Russell. Li criticava per non aver distinto fra espressioni e uso, dove “L’attuale re di Francia” è un’espressione che non denota alcunché ma può esser usata per riferirsi a qualcuno. Non è però esaustivo porre una dimostrazione concreta a un problema astratto, perché il problema teorico rimane, anche se sappiamo come funziona la pratica. A questo livello di analisi del linguaggio, la pragmatica non entra in giuoco se non come aiuto di traduzione (cap. 11), per intime esigenze della traduzione stessa, e la traduzione come porta di ingresso ad ambiti di studio del linguaggio diversi da queste Condizioni di riferimento del linguaggio. 4 Principio di dimostrazione: con la proprietà A posso dimostrare se x ha la proprietà A oppure no, poiché il predicato A è attribuito all’oggetto x e l’oggetto x ha o non ha una istanza di quella proprietà A; quindi, di riflesso la proprietà A può essere usata per misurare la sua presenza o la sua mancanza in quell’oggetto x (Mio, «Principio di non contraddizione. Matematica e Teoria», Filosofia e nuovi sentieri, 3-10 aprile, 2022). 5 Russell 1918 afferma che non tutte le proprietà si esemplificano, in generale solo quelle che hanno un riferimento reale. Wittgenstein 1922 riecheggia che le proposizioni sono rappresentazioni di realtà. Noi ampliamo il campo proposizionale anche ai mondi non reali. 3 97 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it W={R, P, I, …} Il mondo W comprende i mondi del Reale, del Possibile, dell’Immaginario e gli altri6. …soddisfano l’intuizione leibniziana di situazioni alternative a quelle attuali, in cui le stesse cose di questo mondo − gli stessi nomi − soddisfano predicati diversi da quelli attuali e quindi hanno un valore di verità diverso (Es. Se Hegel non avesse scritto la sua logica non sarebbe vero che l’ha scritta). Kripke precisa che questi mondi alternativi non sono dati indipendentemente dai nostri strumenti di individuazione, ma siamo invece noi che su quell’individuo ipotizziamo alternativi mondi − fino a traslare ai più immaginari mondi… e con l’immaginario poter finanche annullare ogni predicato, dove le domande riguardanti il Nulla risultano plausibili finché la logica permette di risponderli tramite enunciati vuoti (Es. Se Heidegger avesse domandato il nulla non gli avrebbe ascritto qualità). In breve: ogni parola A si riferisce a un senso x (o a un significato s di un senso x) tramite il significato attribuito a quella parola. Così, se il senso è l’oggetto di riferimento della parola, il significato della parola è il nostro modo di coglierlo. 3. Significato e Parola Parola è significato, le parole incidono significati e non esiste significato senza parola a inciderlo, senza parola resta il senso7. Il significato viene attribuito alla parola a seconda del contesto in cui viene usata e a seconda che si tratti di un nome o una descrizione. Il contesto può essere o particolare o universale, restituendoci due Funzioni quantificatrici8 del significato: − − Significato del contesto particolare, parla di alcuni suoi riferimenti x, tratta di alcuni suoi casi (Es. Per Kant è bella la filosofia); Significato del contesto universale, parla di tutti i suoi riferimenti x, tratta di tutti i suoi casi (Es. Per tutti è bello ciò che piace). Ossia la parola acquista significato particolare o universale secondo il contesto in cui viene usata, e non le si può togliere il rapporto universale con le cose (Es. “Muro” in senso universale o “Leibniz” in tutti i mondi possibili)9 come non le si può togliere il rapporto particolare con alcune cose (Es. “Muro” della sala o “Leibniz” del mondo attuale). In senso quantistico la parola è in uno stato di attesa sia universale che particolare, con una certa probabilità di essere rilevata in un contesto universale e con una certa probabilità di essere rilevata in un contesto particolare. La disputa è quella dal fervore matematico: l’impossibile 0 è un mondo W? Lo mettiamo o no nell’insieme matematico con gli altri numeri? Pare esserci una stratificazione del problema oltre questo studio. 7 Senza parola non esiste significato e resta solo il senso? Oppure il significato può darsi anche senza parola? Riflettevo: ho colto un segno di Paul Grice mentre camminavo, ne ho acquisito il significato tramite la parola. Se non avessi avuto parola, avrei potuto intuirne il senso, come fanno gli animali. Gli animali però sono ambigui, alcuni sembrano avere “abbozzi” di pensieri che emettono grugniti e suoni come abbozzi di parole, proto-parole; quindi, potrebbero avere forme variamente capaci di significazione; come sembrano mostrare alcuni esperimenti. Le piante trasmettono significati o solo sensorialmente? Perché se anche le piante e la materia bruta comunicassero per significati allora il significato potrebbe darsi anche senza parola. Tutt’ora la forma di “intelligenza” manifesta dalle piante o dalle particelle, mi pare accadere non per significazioni ma sensorialmente. Per questo ho scelto di introdurre questo vincolo forte dell’esistenza dei significati solo su parola. Questo vincolo è scisso dal resto dell’opera e sprofonderebbe dove tutto è linguaggio non in quanto comunica significati bensì sensi a cui attribuire significati. Mentre non è scisso da quest’opera ed è innocuo il fatto che la parola generi significati, dove parole senza significato non sono parole ma un insieme di suoni, versi, grugniti e cose simili. 8 Richiamiamo agli operatori-quantificatori logici, rispettivamente  e , introdotti da Frege sul quadrato aristotelico delle opposizioni, e riguardanti l’estensione su cui è valido il predicato. 9 È Hegel a insegnarci che non si può togliere l’universale alla parola. 6 98 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it In senso filosofico, la parola è vera in questi specifici contesti: la realtà del mondo nel suo stabile absolutum (legge universale) e mutevole relatio (legge personale). La parola può essere un nome o una descrizione: − − Il nome è denotativo, indica immediatamente l’intero oggetto riferendosi al suo senso; La descrizione è connotativa, racconta i predicati ai quali riferire mediatamente un oggetto. L’unione fra nome-descrizione restituisce la Funzione di riferimento della parola: la parola si riferisce alla totalità del senso, in virtù di nomi, tramite significati parziali, in virtù di descrizioni. Sicché il significato, dentro un contesto universale (Es. Tutti i muri) o particolare (Es. Alcuni muri), può essere attribuito alla parola in guisa denotativa, come per i nomi, o in guisa connotativa, come per le descrizioni, restituendoci due Funzioni qualificatrici del significato: − − Significato denotativo immediato, indica l’intero riferimento, propriamente non descrive ma indica un oggetto (Es. Il nome “Napoleone” non descrive direttamente Napoleone a chi non lo sa, anche se descrive indirettamente l’imperatore francese del diciannovesimo secolo sconfitto a Waterloo); Significato connotativo mediato, descrive il riferimento nei suoi predicati, propriamente non indica ma racconta dei caratteri (Es. La descrizione “l’imperatore francese del diciannovesimo secolo sconfitto a Waterloo” non indica direttamente il suo oggetto a chi non lo sa, anche se indica indirettamente Napoleone che appartiene a tale descrizione). Il nome ha un significato denotativo, è una parzialità linguistica che indica intuitivamente un intero riferimento; indicare intuitivamente significa indicare l’intero10, significa indicare senza descrizione giacché descrivere è parzializzare. D’altro canto, la descrizione ha un significato connotativo che racconta predicati a cui poter associare nomi; si lega al modo di segmentare l’intero da parte del descrivente. Facciamone filosofia: il nome contatta metafisicamente l’interezza del mondo fuori, fuoco!; la descrizione segmenta ontologicamente il mondo dal nostro dentro, è caldo. Abbiamo così un nome che, in quanto indicante l’intero riferimento di cui è il nome, è sinonimo di tutte le sue possibili descrizioni o manifestazioni; rendendosi conseguentemente asintotico alle nostre relative descrizioni che sono di per sé parzializzanti e intese come sinonimi di qualche proprietà11. Questa parzialità descrittiva comporta che nel descrivere il nome lo si abbrevia necessariamente in qualche descrizione. Conseguentemente: ciò che si descrive di un nome è qualche suo aspetto anche se il nome indica il suo portatore in tutte le sue possibili descrizioni. Così persone diverse possono usare lo stesso nome sotto descrizioni diverse, fino a poter segmentare il mondo tramite ontologie differenti (Es. La tribù amazzonica Pirahã usa un sistema numerico basato su tre quantità: 1; 2; molti. Qualunque quantità maggiore di due è Principio di intuizione: ciò che l’intuito intende è immediatamente l’oggetto nella sua interezza, senza passare attraverso ragionamenti o altri schemi, manifestandolo non alla coscienza linguistica ma allo spirito. È la visione sovrasensibile e originaria del tutto, capace di cogliere l’essere nella sua interezza, e si riduce al concetto come visione sensibile e secondaria di alcuni aspetti del tutto, in misura dell’apparato psicofisico percipiente. Come sovrasensibile, la sua intensità di interazione (costante di accoppiamento) è uguale a 0, cioè non altera gli oggetti che osserva, un trapassamento trasparente (Mio, «Le tre meditazioni e l’accesso al mondo dell’invisibile», Filosofia e nuovi sentieri, 2 ottobre, 2022). 11 Frege 1892 afferma che il significato di ogni nome proprio è quello di una descrizione definita, ovvero ogni nome è sinonimo di qualche descrizione. Russell 1918 conviene che i nomi sono abbreviazioni di descrizioni. Searle 1958 dice che non c’è un’unica descrizione bensì un agglomerato di descrizioni che in qualche modo corrispondono a ciascun nome proprio. In generale, per queste teorie descrittiviste, un nome proprio abbrevia la descrizione che un parlante gli fa. Contrariamente a questi, noi definiamo il significato del nome come la descrizione di tutte le possibilità del riferimento di cui è il nome, ossia come sinonimo di tutte le sue possibili descrizioni e non come sinonimo di qualche sua descrizione. 10 99 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it espressa come molti. La loro struttura ontologica di segmentazione quantitativa del mondo si scandisce differentemente dal sistema numerico arabo). Per cui: la Funzione denotativa dei nomi è l’indicazione dell’intero, di tutte le sue possibilità; mentre la Funzione connotativa delle descrizioni è la predicazione di qualche aspetto dell’intero, di alcune sue possibilità. Ad ampliare il Principio del contesto di Frege12: è nel contesto linguistico che la parola acquista significato, e lo acquista in forma universale o particolare, denotativa o connotativa. Con tale distinzione intero-parti: possiamo riconoscere la forma di un nome senza conoscerne la descrizione (Es. Passami il blandto che sta sul tavolo) o senza che abbia una descrizione (Es. Il niente non è descrivibile finché ogni descrizione ne nega la descrivibilità per non descriverlo in qualcosa) o anche qualora abbia una descrizione erronea, fantastica etc. (Es. Giona, il profeta inghiottito da un grosso pesce). Oppure possiamo riconoscere la forma di una descrizione senza sapere quale sia l’oggetto a cui si riferisce (Es. Qual è l’oggetto di riferimento della descrizione “contemporaneamente finito e infinito senza con ciò contraddirsi logicamente”?) o senza che abbia un oggetto a cui riferirsi (Es. “gatto non gatto”) o anche qualora si riferisse a un oggetto erroneo, fantastico etc. (Es. Schmidt è l’autore del Teorema di incompletezza dell’aritmetica). 4. Nomi e Descrizioni Si scioglie il rompicapo di Kripke sulla denotazione dei nomi e sulla connotazione delle descrizioni: − Teoria del riferimento diretto dei nomi13 Frege 1879 Principio del contesto: «è solo nel contesto di un enunciato che una parola ha significato». Per cui, per comprendere le parole occorre anzitutto comprendere gli enunciati che le contengono e la struttura logica degli stessi. 13 Nel mio precedente studio sul linguaggio (Linguaggio e noumeno) ero stato attratto a credere che il nome si riferisse direttamente all’oggetto tramite un criterio fisso (nucleo di proprietà) preso a campione con cui lo indicava in tutti i mondi possibili. Kripke stesso, parlando di una «porzione di sostanza», non negava la possibile esistenza di proprietà per il criterio preso a campione, diceva però che non era quantomeno certo che tali proprietà fossero conosciute. Ho preferito abbandonare la proposta di «porzione di sostanza» a fronte di un riferimento non empirico a un campione dell’oggetto, bensì metafisico all’interezza dell’oggetto. D’altronde per Kripke stesso aveva senso pensare che le cose avessero proprietà modali in sé, indipendentemente dal modo in cui le si descriveva, con relative espressioni a cui non si associava alcuna descrizione: i nomi propri e generali. È comunque non limpido cosa sia il riferimento nella teoria di Kripke, il quale ha proposto la Teoria del riferimento diretto dei nomi propri. Putnam e Kripke affermano che qualcosa del genere è ripetibile anche per i nomi generali. J.S. Mill dice che alcuni nomi propri hanno denotazione ma non connotazione, mentre i nomi generali hanno connotazione. Frege e Russell si oppongono a Mill in merito ai nomi propri ma lo seguono per quanto riguarda i nomi generali. Russell estremizza che i nomi sono abbreviazioni di descrizioni e non hanno alcun senso fregeano e visto che sono descrizioni non si tratta veramente di nomi. Kripke rifiuta il descrittivismo radicale di Russell e torna a Mill sui nomi propri (più o meno) anche se non lo accetta per quanto riguarda i nomi generali. Io accetto Putnam e Kripke coi dovuti accorgimenti e critico quanto segue: la distinzione fra nomi propri denotanti e generali connotanti, sembra forviata dal conoscere una descrizione del nome generale blandto, come se (classica obiezione al descrittivismo) l’oggetto x avesse delle caratteristiche presenti nel nome A con cui dire che quel nome lo descrive. Effettivamente poi, possono anche accadere nomi che portano caratteristiche presenti nell’oggetto (Es. Asciugacapelli) quindi nomi che dicono qualcosa del loro riferimento, descrivendone o imitandone la natura, ma queste sono particolari occorrenze del nome non il suo modo generale di essere (Es. Altre occorrenze possono essere, per esempio, i nomi-massa tipo oro e ciò non significa che tutti i nomi siano nomi-massa, e l’oro non porta caratteristiche del suo riferimento associate al nome). Socrate nel Cratilo (438d-439b) estremizza che lo studio dei nomi non dà conoscenza sulla natura dei loro referenti; anche se noi sappiamo che in taluni casi questa conoscenza c’è (Es. Triangolo), in altri casi è sbagliata (Es. L’analisi etimologica della parola atomo dà una descrizione falsa dell’oggetto divisibile atomo a cui si riferisce), in altri casi ancora (Menone 385ab-433) la convenzione che lega il nome al suo riferimento è arbitraria ed è possibile cambiare arbitrariamente un nome con un altro (Es. Chiamare uomo il cavallo e cavallo l’uomo), in altri casi invece (Blasi 2016) si evidenzia una statistica relazione fra suono emesso e aspetto descritto. Tutto ciò non sembra incidere, o comunque mantiene viva, la funzione ricognitiva della parola: distinguo i 12 100 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it Il nome si riferisce all’intero riferimento di cui è il nome, cioè gli si riferisce indipendentemente dal carattere attuale del riferimento ma interamente per tutte le sue possibilità14. Così da designare lo stesso riferimento in tutti i mondi possibili. È quindi un designatore rigido poiché indica quel riferimento in qualunque modo accada, ed è asintotico poiché qualunque descrizione se ne faccia è una parzializzazione dell’intero riferimento indicato. Il nome può indicare o un oggetto x, allora il nome A denota l’oggetto x in qualunque sua possibilità (Es. Il nome Darwin indica Darwin in tutti i mondi possibili), o può indicare il significato s di un oggetto x, allora il nome A denota qualunque oggetto x con quel significato s (Es. Il nome animale indica tutti gli oggetti animali). I nomi A che denotano x sono nomi propri xA, i nomi A che denotano s sono nomi generali sxA. Nel caso dei nomi propri non esistono descrizioni preferenziali a definirli giacché il contributo dei nomi propri è il loro riferimento alle totali possibilità di x e non a qualche sua descrizione D; mentre nel caso dei nomi generali non esistono oggetti preferenziali a manifestarli giacché il contributo dei nomi generali è il loro riferimento ai totali oggetti x con quel significato s e non a qualcuno di essi x. − Teoria del riferimento indiretto delle descrizioni15 La descrizione segmenta mondi, mediando proprietà a cui riferire un nome in maniera contingente o necessaria. La proprietà contingente x→x AA è quella per cui x può esistere con o senza A (Es. Il triangolo x è sul tavolo A ma avrebbe potuto essere altrove A). La proprietà necessaria x→xA è quella per cui x non può esistere in alcun modo senza A (Es. Il triangolo x ha necessariamente tre lati A). È quindi un designatore fluido perché potrebbe variare al variare del suo riferimento (Es. La descrizione di triangolo x è ora caduto a terra B e non più sul tavolo A) oppure potrebbe variare il suo riferimento al variare di quest’ultimo (Es. Se il triangolo x non è più sul tavolo A, allora la descrizione A ora si riferisce ad altro), anche se in altri casi potrebbe riferirsi rigidamente a x per qualunque modo di x (Es. Il triangolo ha sempre tre lati). Le descrizioni che si riferiscono contingentemente a x sono a posteriori, cioè possiamo conoscerle dopo aver conosciuto nomi, propri e generali, come denotanti e le descrizioni, definite e indefinite, come connotanti. Concludo chiarendo che quel mio precedente studio sul linguaggio (Linguaggio e noumeno) riguarda la possibilità di lettura dell’in sé (cfr. Infra Cap. 6) ed è quindi assente dal punto di vista della Filosofia del linguaggio, e di cui questa Filosofia del linguaggio corregge gli errori e assorbe il resto. 14 Principio di oggetto: l’oggetto in sé, noumeno, esiste nell’insieme sovrapposto di tutte le sue possibilità (Es. Il gatto di Schrödinger, nella scatola in sé, e sia vivo che morto). È solo quando entra in una relazione (Es. Si apre la scatola) che appare in una delle sue possibilità, relativamente a come viene relazionato. Ogni possibilità dell’oggetto è un aspetto dell’oggetto, e in quanto aspetto può apparire, al contrario dell’oggetto in sé invisibile nella sua interezza. L’invisibilità dell’oggetto in sé è data a chi non abbia un’energia infinita per cogliere sensibilmente e simultaneamente tutte le sue possibilità (Es. Vivo e Morto assieme) (Mio, «Percepire il mondo», Filosofia e nuovi sentieri, 24 ottobre, 2021). 15 Un caposaldo della filosofia empirista del Novecento, di cui Rudolf Carnap fu il principale rappresentate, sovrappone la distinzione kantiana fra analitico e sintetico con la distinzione leibniziana fra necessario e contingente e fra a priori e posteriori; negando le verità sintetiche a priori che Kant attribuiva anche alle verità matematiche; così definendo esclusivamente solo due tipi di possibilità della conoscenza: (i) verità analitiche necessarie a priori, da cui la conoscenza della forma logica; (ii) verità sintetiche contingenti a posteriori, da cui la conoscenza della sensazione empirica. Assumo codesta sovrapposizione empirista e la sviluppo; ma le aggiungo (iii) la conoscenza immediata dell’intuizione pura, con cui rispondere a quelle proposizioni impedite a un diretto rilievo cognitivo e a dirette condizioni empiriche di verità, potendosi dare solo per via puramente intelligibile da condizioni metafisiche di verità rilevabili indirettamente dalle loro conseguenze empiriche (Es. “Dio esiste?”, “Dove stiamo andando?”). Oltremodo spicciola è la critica empirista alle verità sintetiche a priori di Kant, la qual critica si ferma al fatto che esse dipendono dal linguaggio da cui si danno, così accantonandole nel gregge delle verità analitiche senza accogliere la problematicità kantiana. Effettivamente l’enunciato 3+2 non contiene il 5 nell’analisi dei suoi termini, poiché contiene due numeri distinti 3 e 2 uniti da una relazione di somma; il 5 si trova invece anticipando le conseguenze dei dati analizzati, cioè non è contenuto nei termini analizzati ma consegue da essi. Quindi la verità 5 di 3+2 non è sintetica a priori perché dipende da una analisi e non da una sintesi, e non è neppure genuinamente analitica a priori perché non si trova nell’analisi benché prevedibile da essa. Tuttalpiù è una verità analitica con sintesi a priori perché dal priore 3+2 il posteriore è necessariamente 5. Il problema è affrontato al cap. 8. 101 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it i fatti, sintetizzando i contenuti x a cui si associano (Es. Possiamo sapere se un triangolo x è isoscele A, equilatero B o scaleno C, osservandolo). Le descrizioni che si riferiscono necessariamente a x sono a priori, cioè possiamo conoscerle prima di conoscere i fatti, analizzando le forme A entro cui si danno (Es. Possiamo sapere che un triangolo x ha tre lati, dall’analisi del significato della parola triangolo). I nomi denotano un intero, indipendentemente che siano propri o generali. Le descrizioni connotano aspetti di un intero, indipendentemente che siano definite o indefinite. Su Kripke16: il nome proprio A riferisce lo stesso oggetto x in qualunque mondo possibile, il nome generale B riferisce tutti i possibili oggetti x con un dato significato s, e la descrizione D non sempre riferisce lo stesso oggetto x in tutti i mondi possibili. In entrambi i significati di nome-descrizione, il significato è quel particolare linguaggio con cui emettiamo quell’oggetto; a volte tramite denotazione, altre tramite connotazione. Come tale, al contrario del senso costante, si parla di significato variabile. 5. Trasformazioni nomi-descrizioni Fra le descrizioni distinguiamo altresì quelle generali e individuali: − − La descrizione generale xA yA è quella per cui per ogni x che ha proprietà A esiste almeno un y che ha proprietà A; La descrizione individuale xA yA è quella per cui per ogni x che è A non esiste alcun y che è A. La descrizione generale designa diversi oggetti x tramite intensioni del genere A. Cioè prende l’oggetto x lo descrive D e generalizza la descrizione D ad altri oggetti y che portano quella stessa descrizione D. Questo processo di generalizzazione è in grado di spacchettare nomi rigidi (Es. Giordano Bruno) in descrizioni (Es. Filosofo) che designano altri nomi (Es. Baruch Spinoza). Col cosiddetto processo di generalizzazione parliamo della possibilità di trasformare nomi A in descrizioni D; da cui la possibilità di usare i nomi in guisa anche connotativa e fluida (Es. Non è un parmenideo). La descrizione individuale designa un oggetto x in tutti i mondi tramite estensioni dell’individuo x. Cioè prende l’oggetto x lo descrive D e individualizza la descrizione D a nessun altro oggetto y, così da riconoscere x tramite D. Questo processo di individuazione è in grado di distillare descrizioni fluide (Es. Statua di pietra) in nomi generali sxA (Es. Pietra) che designano tutti i possibili oggetti x che sono s. Col cosiddetto processo di individuazione parliamo della possibilità di trasformare descrizioni D in nomi generali sxA; da cui la possibilità di usare le descrizioni in guisa anche denotativa e rigida (Es. Il Sacro Romano Impero)17. È Kripke 1980 ad avviare il cammino della differenziazione fra nomi propri e descrizioni definite: i nomi propri denotano sempre lo stesso individuo; le descrizioni definite a volte denotano sempre lo stesso individuo (Es. Il successore di 8 è il quadrato di 3 in tutti i mondi possibili) altre volte denotano individui diversi (Es. Non in tutti i mondi possibili la stella del mattino è anche la stella della sera). 17 È Donnellan 1966 a evidenziare il cammino della differenziazione fra uso attributivo (connotativo) e uso referenziale (denotativo) delle descrizioni. Pone l’accento sul fatto che la teoria di Russell non tiene conto di quei casi in cui le descrizioni sono usate in maniera denotativa e non attributiva (connotativa). I casi più evidenti sono quelli in cui la descrizione è usata come titolo ed è scritta in maiuscolo: Il Sacro Romano Impero; The Greatfull Dead (nome di un gruppo rock); etc. Altri casi meno evidenti sono L’assassino di Smith usato per denotare chi ha commesso l’assassinio indipendentemente da quale che sia la descrizione dell’assassino. Altresì distingue fra referente del parlante e significato del parlante, con una sorta di “referente effettivo” che segna una distanza linguistica-concettuale da noi (che abbiamo il senso e il significato) da cui anche le altre differenze. 16 102 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it Questo comporta che i nomi e le descrizioni hanno una certa possibilità di trasformarsi reciprocamente gli uni nelle altre, pur sotto la loro distinzione iniziale. Il processo di generalizzazione è una equivalenza innocua, donde facilmente a una descrizione rispondono più oggetti (Es. Alla descrizione “alto e biondo” rispondono diversi individui) e donde può afferrare una descrizione di un oggetto e riferirla ad altri oggetti. Il processo di individuazione è una differenziazione progressiva, donde è difficile trovare un nucleo di proprietà che identificano un oggetto in maniera univoca (Es. La proprietà “successore di 8” identifica in maniera univoca 9), mentre è facile trovare le proprietà che lo differenziano da un altro oggetto (Es. Se diciamo che l’acqua è un liquido incolore insapore dissetante, sappiamo − con la Terra gemella di Putnam − che a queste proprietà possono essere associate altre cose oltre l’acqua, ma se prendiamo una di queste altre cose la sappiamo distinguere dall’acqua o esse ci appaiono come la stessa cosa). Oltre a questa ricerca del valore individuale tramite differenziazioni progressive, il processo di individuazione può afferrare una descrizione D di qualche oggetto x e trasformarla in un nome generale sxA con cui indicare tutti gli oggetti x portatori di quel significato s. 6. Senso e Costanza Con l’analisi sinora raccolta, possiamo continuare l’esperimento mentale del capitolo 1. Si è detto che la ragione in sé, od oggetto x, è la costante di riferimento dei diversi linguaggi A che la emettono. E come costante: l’interferenza dei linguaggi non altera le verità di ragione che emette quando sono le stesse. Cioè esistono diversi modi di dire ugualmente la stessa ragione senza alterarne il senso. Per esempio: − − − − Casa; Home; Maison; Kass. Nel qual elenco si evidenzia un medesimo oggetto ad accumunare tutte le forme linguistiche che lo emettono, un legame attraversato da una varietà linguistica, senza esserne intaccato, dacché costante di tutti i linguaggi. Orbene: la vedete in questi linguaggi home e casa la medesima ragione emessa? Certo che non potete vederla, è sovrasensibile, eppur il sensibile urla che è lì. Ci dice: diversi linguaggi possono parlare ugualmente della stessa ragione, similmente a quando 3+2 e 10/2 definiscono con operazioni ed elementi diversi lo stesso 5. Cioè: ciò che possono avere in comune i diversi linguaggi è il senso (ragione in sé) che esprimono, mentre rimane propria dei linguaggi la guisa con cui esprimerlo. 7. Significato e Variabilità Per quanto l’oggetto di riferimento x di due diversi linguaggi A e B possa essere lo stesso; tuttavia, ogni diverso linguaggio lo emette differentemente. Esempio: − Poesia: Soldati (di G. Ungaretti) Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. 103 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it − Prosa: i soldati cadono con la stessa facilità con cui cadono le foglie d’autunno dagli alberi. È evidente come la capacità evocativa della poesia di Ungaretti abbia un trascinamento soggettivo di tutt’altra mole in confronto a quello della prosa, pur descrivendo lo stesso oggetto. Riconosciamo così che la forma A con cui si esprime un contenuto x impatta sul suo significato, costruendo mondi fenomenici corrispondentemente diversi. Da qua ogni diverso linguaggio, per le diverse guise che gli sono proprie, evoca e si muove su certe direzioni e sintesi piuttosto che altre, ossia ha modi differenti di percepire e pensare, immagini e affettività e intenzionalità differenti; o come notava Jakobson: la lingua di un popolo ne influenza i valori e giudizi (Es. In tedesco la parola “ponte” è femminile e suscita caratteri tipicamente femminili, come dolce, elegante, aggraziato, mentre in spagnolo “ponte” è maschile è suscita caratteri tipicamente maschili). Ricordiamo: ogni linguaggio è metaforicamente una terra, con la sua particolare radioattività e ambiente, capace di plasmare il linguista e favorire lo sviluppo di alcune parole e concetti; pur laddove il riferimento di cui parla possa essere il medesimo di altri linguaggi. Distinguiamo: alle differenze di significato A corrisponde una differenza del valore cognitivo, mentre alle differenze di senso x corrisponde un differente oggetto di riferimento. Vediamolo: 8. Identità e Uguaglianza Cosa vuol dire che diversi linguaggi A e B hanno lo stesso riferimento x, la stessa estensione, lo stesso senso? Anzitutto, per proprietà transitiva, comporta che essi sono uguali fra loro: x=A  x=B → A=B. L’uguaglianza comporta che in determinati contesti, A e B possono essere intercambiati, ma non all’infinito, poiché solo ciò che è identico A=A è intercambiabile all’infinito, mentre ciò che è uguale A=B è intercambiabile soltanto in determinati contesti (Es. 3+2 non è intercambiabile con 4+1 dove vi è il divieto di usare la cifra 4). Ossia due dicesi uguali A=B nei contesti in cui sono intercambiabili, dicesi identici A=A se intercambiabili all’infinito. Con questo linguaggio, parole co-referenziali (con lo stesso riferimento) non garantiscono la loro sostituibilità salva veritate quando la loro co-referenzialità è data da un rapporto di uguaglianza A=B per il quale − appunto − le parole sono sostituibili salva veritate solo in determinati contesti. Al contrario del rapporto di identità A=A che ammette la sostituibilità salva veritate per qualunque contesto all’infinito, così come vuole la legge dell’identità. Nel caso dell’uguaglianza A=B, quindi, sostituendo il termine A con B, in alcuni contesti l’enunciato potrebbe risolversi nel passaggio dalla verità alla non verità (Es. Dall’uguaglianza “9=il numero dei pianeti” non possiamo dire che il termine A è sempre uguale al termine B, non sono congiuntamente compatibili all’infinito), da cui il noto Argomento dello scivolamento del contesto: “se cambiando contesto un enunciato da vero diventa non vero, allora l’enunciato dipende largamente dal contesto”. Diversamente dall’identità A=A dove sostituendo A con A, in qualunque contesto essa si trovi, l’enunciato mantiene il proprio valore. Ossia: la sostituibilità degli identici è prerequisito irrinunciabile, ma vale appunto solo per ciò che è identico mentre per ciò che uguale vale solo in dati contesti. Da cui saltiamo sull’identità degli indiscernibili di Leibniz: è indiscernibile ciò che è uguale a se stesso A=A, mentre è discernibile ciò che è uguale ad altro A=B: Identità A=A Es. Espero=Espero; Uguaglianza A=B Es. Espero=Fosforo. 104 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it Risaliamo le intemperie matematiche per disambiguare ciò che è uguale da ciò che è identico18: 2+3 e 6−1 sono uguali in quanto estensionalmente equivalenti al risultato 5 ma non sono identici in quanto sono intensionalmente non equivalenti nella costituzione (gli elementi 2,3,+ non sono identici agli elementi 6,1,−). In questo caso parliamo di uguaglianza fra A e B rispetto al risultato V dell’enunciato P: due stati A e B possono essere permutati indistinguibilmente in P se sono invarianti rispetto a P, cioè se non ne cambiano il valore V. In questa uguaglianza in P, le funzioni degli elementi A e B possono anche subire cambiamenti a patto di non modificare il valore V di P. Ciò permette di equivalere, sotto certi aspetti, anche cose non identiche fra loro (Es. 3 e 2 si equivalgono a 4 e 1 sotto l’aspetto dell’addizione), e ciò si chiama uguaglianza, diversa dall’identità: − − La nozione di uguaglianza A=B è un’equivalenza sotto gli aspetti e contesti presi in considerazione; La nozione di identità A=A è un’equivalenza sotto tutti gli aspetti e contesti, assieme estensionali al risultato e intensionali nella costituzione. Si scioglie il rompicapo filosofico di Fosforo A non identico a Espero B, giacché uguali per uguale riferimento estensionale “Venere” e diversi per diversa descrizione intensionale “A=stella del mattino” e “B=stella della sera”. In questo caso l’uguaglianza A=B è un fatto contingente, dove la stella del mattino non necessariamente è anche la stella della sera. Non tutte le uguaglianze sono però contingenti , alcune infatti sono necessarie ฀, e lo sono sotto la seguente Legge delle quattro forme dell’uguaglianza A=B: Unidirezionale estensionale A฀BA per cui da A necessariamente B e da B contingentemente A (Es. 3+2=5 dove da 3+2 si dà estensionalmente 5 mentre da 5 può darsi intensionalmente o 3+2 o 4+1 etc); Unidirezionale intensionale AB฀A per cui da A contingentemente B e da B necessariamente A (Es. H2O=Acqua dove da H2O può darsi estensionalmente o il ghiaccio o l’acqua o il vapore, mentre dall’acqua si dà intensionalmente H2O); Bidirezionale necessaria A฀B฀A per cui da A necessariamente B e da B necessariamente A (Es. Triangolo=TreLati dove se è un triangolo ha necessariamente tre lati e se ha tre lati è necessariamente un triangolo); Bidirezionale contingente ABA per cui da A contingentemente B e da B contingentemente A (Es. Merini è una poetessa ma poteva non esserlo e una poetessa potrebbe non essere Merini). Mentre l’identità A=A è sempre necessaria A฀A฀A: A è sempre identico ad A salvo perdita di A medesimo AA→A. Diciamo propriamente che una cosa A è possibile solo se ha identità A=A→A mentre non è possibile se non ha identità AA→A: l’identità è la possibilità dell’oggetto, l’uguaglianza la sua predicazione. Indi l’informazione dell’enunciato A=A è capitale alla possibilità di A, mentre l’informazione dell’enunciato A=B potrebbe essere facoltativa alla sua possibilità: l’informazione dell’identità è ridotta alla possibilità A=A→A, l’informazione dell’uguaglianza è aumentata alla descrizione A=B→AB (Es. L’identità 5=5 non aggiunge nulla al L’identità in matematica è intesa come uguaglianza tra due espressioni algebriche con risultato uguale, sempre coincidenti nella soluzione, dove le soluzioni di una espressione sono sempre le stesse dell’altra. Credo questo sia il segno più incisivo della confusione perpetrata fra uguaglianza e identità. La matematica, infatti, chiama identico ciò che si equivale allo stesso risultato pur sotto distinguibili espressioni. Tale confusione matematica si è diffusa e radicata in ogni sapere, fino a esplodere nel Linguaggio dove non si sa più come coerentizzare l’idea che Fosforo ed Espero siano identici e non solo uguali. Questa confusione è il fatto di non intendere la nozione di identità come uguaglianza assieme estensionale al risultato e intensionale nella costituzione. 18 105 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it valore di 5, mentre l’uguaglianza 5=3+2 aggiunge al valore di 5 la sua risultanza come somma fra 3 unità e 2 unità). Parrebbe allora che l’uguaglianza A=B si ponga cognitivamente a metà fra ciò che è identico A=A e ciò che è diverso AC, portando caratteri a tratti di uno e a tratti dell’altro. Entriamo nel dettaglio: 9. Parole e Uguaglianza Caratterizziamo il rapporto di uguaglianza fra parole, sotto sei importanti forme: (1) Traducibilità I termini casa A e home B sono uguali e quindi intercambiabili nel nostro esperimento mentale, ma se facessimo un gioco in cui poter utilizzare solo parole senza h, allora casa non sarebbe più intercambiabile con home. Mentre la parola casa è identica alla parola casa, pertanto possono intercambiarsi in qualsiasi contesto all’infinito (ovunque vi è la parola casa essa può essere intercambiata con la parola casa). In questo caso i nomi A e B indicano lo stesso oggetto x benché in lingua diversa. Qui parliamo di traducibilità fra distinte parole A e B con uguale riferimento x e uguale descrizione D. (2) Complementarietà Fosforo la stella del mattino A ed Espero la stella della sera B si riferiscono allo stesso pianeta Venere x. Quindi Fosforo ed Espero sono uguali e intercambiabili in alcuni contesti, ma non sono identici quindi non sono intercambiabili in tutti i contesti, giacché, in questo caso, Fosforo si dice alla mattina mentre Espero alla sera. Così, benché entrambi si riferiscano a Venere, lo fanno presentandolo in modo diverso, uno alla mattina e l’altro alla sera. In questo caso i nomi A e B si riferiscono a diverse descrizioni D (stella del mattino e stella della sera) emerse dallo stesso oggetto x (Venere): indicano descrizioni diverse. Di conseguenza il nome Fosforo A, in quanto designatore di stella del mattino, emerge come nome generale sxA di stella del mattino; il fatto che quella stella sia Venere, è solo un fatto contingente, un modo possibile di Fosforo; il fatto che Fosforo sia un nome generale maiuscolo, richiama ai nomi generali dei popoli antichi (Es. Gli Etruschi, i Longobardi) scritti in maiuscolo, e anche il maiuscolo è un fatto contingente all’esempio19. Qui parliamo di complementarietà fra distinte parole A e B con uguale riferimento x e diverse descrizioni DADB. L’alternativa, in Borghini 2010, genera una serie di assurdità. Consiste nel considerare Fosforo ed Espero come nomi propri. Subito critichiamo che allora, conseguentemente da codesta filosofia, entrambi i nomi indicano lo stesso oggetto Venere in tutti modi possibili, tale per cui Fosforo dovrebbe indicare Venere anche la sera, ampliando la sua descrizione anche in Fosforo=Stella della sera, e potendo altresì perdere la sua descrizione in FosforoStella del mattino laddove Venere cambiasse sufficientemente orbita. E benché ciò restituisca l’identità Fosforo=Espero come necessaria, altresì comporta ipotizzare verità necessarie conoscibili solo a posteriori, dove Fosforo=Espero è una verità conoscibile solo epistemologicamente con osservazioni e calcoli astronomici. In questo modo si conciliano tre grandi ambiguità in un’ambiguità ancora più grande: (i) l’ambiguità fra uguaglianza A=B e identità A=A; (ii) L’ambiguità di verità necessarie a posteriori; (iii) L’ambiguità dell’intuizione e della realtà, dove Fosforo viene effettivamente nominato per indicare la stella del mattino e dove il fatto che tale stella sia Venere è una contingenza scoperta successivamente. Noi invece preferiamo annichilire queste tre ambiguità, parlando sia di nomi propri Venere in grado di denotare oggetti x, sia di nomi generali Fosforo in grado di denotare gli oggetti x con significato s. Rimane comunque a discrezione del parlante decidere cosa fare del nome Fosforo qualora la stella del mattino diventasse un’altra (se Venere x non fosse più né la stella del mattino A né quella della sera B). 19 106 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it (3) Sinonimia I termini casa A e abitazione B sono sinonimi in quanto al riferimento x, hanno descrizioni simili, e quindi possono essere intercambiati in alcuni contesti, ma non sono identici e quindi non possono intercambiarsi in tutti i contesti (Es. Una statistica in cui si chiede la casa in cui effettivamente si abita; o una domanda sui sinonimi spigola-branzino che chiede in che area marina vivono i primi e in quale i secondi). In questo caso i nomi A e B potrebbero indicare lo stesso oggetto x dove non è necessaria una specificazione. Qui parliamo di sinonimia fra distinte parole A e B con possibile uguale riferimento x e simili descrizioni DADB. (4) Iperonimia Il termine italiano neve A e i termini groenlandesi qanik (neve nell’aria) B e aput (neve per terra) C sono uguali in quanto alla descrizione neve D e qua intercambiabili, ma non sono identici e quindi non sono intercambiabili in tutti i contesti. In questo caso le parole groenlandesi sono più specifiche di quella italiana che le include. Qui parliamo di iperonimia fra distinte parole A e B, C con uguale riferimento generale xA e diverso riferimento particolare xBxC, e dissimili descrizioni DA={DBDC}. (5) Somiglianza I termini limone A e banana B sono uguali in quanto alla descrizione giallo D e quindi possono essere intercambiati in questo contesto giallo, ma non sono identici e quindi non possono intercambiarsi in tutti i contesti. Qui parliamo di somiglianza fra distinte parole A e B con diversi riferimenti xAxB e, in alcune parti, con uguale descrizione D. (6) Nononimia Il termine tedesco ausdifferenzieren A non ha un corrispettivo termine B in italiano dove può essere reso solo attraverso la descrizione “automatizzazione attraverso differenziazioni” D. Quindi A e D sono uguali e possono essere intercambiati in dati contesti, ma non sono identici e quindi non possono intercambiarsi in tutti i contesti. Qui parliamo di nononimia di una parola A con nessun’altra parola B ma solo con descrizioni D, con le quali ha uguale riferimento x e simili significati sAsD (denotativo sA e connotativo sD). Parrebbe che il rompicapo Fosforo-Espero possa essere interpretato come caso di nomi complementari, ma anche come caso di iperonimia Venere={FosforsoEspero}, di sinonimia FosforsoEspero in merito a Venere, di somiglianza fra nomi con riferimenti particolari diversi (mattino e sera) e descrizioni in parte uguali (Venere). Se ciò fosse attendibile, allora il tipo di equivalenza A=B potrebbe dipendere dagli aspetti presi in considerazione in un dato contesto, dalla segmentazione ontologica D compiuta sul mondo x. Questa è una esemplificazione di alcuni casi di uguaglianza fra parole, le quali uguaglianze si giocano fra le estensioni delle parole all’oggetto esterno x di riferimento e le loro intensioni alle descrizioni interne D del linguaggio. Ovvero: sono le tensioni delle parole al riferimento e alle descrizioni, a decidere quali sono diverse e quali uguali, fino alla perfetta e indistinguibile coincidenza dell’identità casa A con casa A; dove poco vale marchiare A e A con un segno per distinguerle, perché il segno ne cambierebbe l’identità, e dove poco vale anche provare a distinguerle per posizione, perché di principio non si può distinguere se quella di destra è ancora quella di 107 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it destra o si sono invertite o se ci sono altre A in luogo di quelle o… basti perderne la traiettoria per non distinguere più qual è una A e qual è l’altra A20. 10. Senso e Significato Dove s’annida la variabilità delle equivalenze fra parole (traducibilità, complementarietà, sinonimia, iperonimia, somiglianza, nononimia)? La ragione in sé come senso della parola copre ogni enunciato, da quelli assertori a quelli interrogativi, imperativi, ottativi, sino al loro suono e metrica. Di conseguenza il significato di un enunciato non è solo ciò che esprime ma anche i segni di forza, metrica, suono… con cui lo esprime. Di conseguenza parole diverse possono avere significati uguali quando esprimono la stessa ragione, ma non possono avere significati identici poiché la esprimono con segni diversi. Anche semplicemente perché, come direbbero i poeti, la sostituibilità assoluta fra non-identiche parole è impedita dal fatto che il rapporto «significato-significante e referente extralinguistico» è irripetibile per ogni parola. Ossia senza poesia sarebbe chi affermasse che distinte parole A e B sono intercambiabili senza nessun risvolto significativo, mentre poesia sarebbe affermare che indistinguibili parole A e A sono sostituibili salva veritate all’infinito. Ogni enunciato ha così un significato irripetibile dipeso anche dalla concomitanza di questi tre segni prosodici21: − − − La forza con cui lo si esprime, energia e impatto della parola. Tra cui interrogativi ed esclamativi, dichiarativi e intonazioni. Consiste nel variare l’altezza dei suoni, relativamente alle intenzionalità della comunicazione; La metrica con cui lo si esprime, ritmo e velocità della parola. Tra cui pause parentesi virgolette, divisioni e unioni. Consiste in allitterazioni, regolarità e battiti sillabici per unità di tempo, relativamente alle affettività della comunicazione; Il suono con cui lo si esprime, colore e sapore della parola. Tra cui accentuazioni e toni, organizzazioni vocali e consonantiche. Consiste in intensità e altezze, livello del tono delle singole sillabe, relativamente alle immagini della comunicazione. Il senso pertanto s’annida nel significato anche attraverso i segni prosodici di forza, metrica e suono della parola, capaci di stabilire le intenzionalità e le affettività del parlante e di generare L’identità in fisica quantistica è intesa come equivalenza intensionale nella costituzione: due particelle sono dette identiche se hanno lo stesso stato energetico interno. In questi casi le particelle sono indistinguibili internamente e quindi, in dati contesti, sostituibili salva veritate. La questione sorge quando siffatte particelle occupano posizioni estensionali diverse, magari una all’Orsa Minore e l’altra ad Alfa Centauri: non è chiaro come disbrigare la questione, forse su due strade. (1) Esse, per stato interno equivalente, potrebbero essere trattate alla stregua di parole identiche come casa e casa: dove le stesse lettere sono interpretate come stato interno uguale. Allora sarebbe da considerare la possibilità di sdoppiamento dell’identità AA=A→A non solo a livello concettuale (verbale) ma anche fisico (particelle), con la stessa identità posizionata su più luoghi contemporaneamente, laddove si riconsiderasse lo spazio alla stregua del mio stare simultaneamente su posizioni diverse quali affaticato (Orsa Maggiore) ma felice (Alfa Centauri). Con queste sovrapposizioni fisiche e mentali su differenti posizioni, la distanza potrebbe essere non uno stato estensionale proprio delle particelle, ma lo spazio un effetto macroscopico. (2) Se invece si considerasse la differenza di posizione come stato estensionale proprio delle particelle, allora potrebbero essere trattate alla stregua della teoria del caos: stato iniziale uguale con diversi possibili risultati finali; dove casa A e home B sono interpretate come stati estensionali differenti con intensione allo stesso oggetto x. Il rompicapo, ad ora, non mi ha generato assurdità né in una (1) né nell’altra ipotesi (2), e giunti fin qui, non è in grado di inficiare la nostra teoria. Il rompicapo viene sospeso. 21 La prosodia linguistica, da cui i tratti prosodici anche chiamati tratti soprasegmentali, riguarda principalmente gli accenti, toni, intonazioni, unioni, pause, ritmi, tempi, flussi delle parole. Tradizionalmente è un termine della metrica classica, poi usato dai latini per riferirsi agli aspetti di accentuazione e quantità di sillabe, per infine giungere a noi come parte della linguistica che studia l’intonazione, il ritmo, la durata e l’accento del linguaggio parlato. 20 108 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it immagini che vanno a fondersi col significato. Essi non rientrano nell’espressione dell’enunciato ma nel modo in cui viene espresso22: − − L’espressione dell’enunciato riguarda i segni verbali espliciti di cui si compone, lettere parole; Il modo espressivo dell’enunciato riguarda i segni prosodici impliciti di cui si compone, forza metrica suono. Le espressioni si manifestano contemporaneamente ai loro modi espressivi, giacché ogni espressione è emessa in qualche modo, che la supporta e le è primordiale. Basti immaginare una Scala evolutiva dei segni, coi segni verbali in cima sopra i segni prosodici, sul gradino in cui i segni linguistici emergono dall’essere impliciti (prosodici) a espliciti (verbali): un’emersione segnica. Si ha qua un’apriorità del modo espressivo sull’espressione, pragmaticamente immaginabile come una laringe (modo) che media l’emissione di ciao (espressione). Da cui potremmo immaginare che anche alcuni animali potrebbero avere modi impliciti di esprimersi (prosodici) senza però sfociare in espressioni esplicite (verbali). E che in fondo ogni cosa ha una ritmica e un suono tramite cui comunica il proprio stato, seppur non con segni linguistici ma naturali. Distinguiamo, su Aristotele23: i segni naturali sono collegati a inferenze naturali; i segni linguistici sono collegati a funzioni psichiche. Come in un’orchestra: la musica della natura, sopra cui il canto prosodico accompagna la lira verbale. Come per le espressioni verbali, la sostituzione di un modo espressivo con un altro potrebbe cambiare il valore V dell’enunciato P, a seconda del grado di uguaglianza che ha con il modo che va a sostituire e del contesto in cui lo sostituisce. Per esempio, vediamo alcuni enunciati in cui la sostituzione dei modi espressivi (segni prosodici) non ne altera il significato: dichiarativo Austin è andato in città; in forza Austin è andato in città!; in metrica Austin, è andato in città; in suono Austin è andato in urbe. Per controparte vediamo enunciati in cui la sostituzione dei modi espressivi (segni prosodici) ne altera il significato: in forza Austin è a andato in città?; in metrica Ho mangiato, la nonna era felice / Ho mangiato la nonna, era felice; in suono Ancòra sulla riva del fiume / Àncora sulla riva del fiume. Le espressioni verbali e i loro modi espressivi sono segni del campo semantico, sono cioè entrambi proprietà contenute nell’enunciato, indicatori linguistici che l’enunciato contiene; sebbene i primi, i segni verbali, sono espliciti, mentre i secondi, i segni prosodici, sono impliciti (Es. 22 È Austin 1962 ad avviare la distinzione tra significato di un enunciato e il modo in cui viene espresso. Nella sua Teoria degli atti linguistici, chiama questi modi espressivi “atti linguistici” (illocutionary act) con “forza illocutoria” (illocutionary force fregeana). Identifica i seguenti indicatori di forza: il modo e il tempo del verbo, i verbi modali, certi avverbi e connettivi, l’intonazione o la punteggiatura. Egli contrappone la forza illocutoria al significato locutorio, portando tali atti a uscire dal campo locutorio in quanto validi solo se il loro proferimento è un compiere atti. In questo modo l’atto linguistico si qualifica come fatto pragmatico non dipendente unicamente dalla semantica. Egli comunque lascia non chiaro il rapporto dell’atto illocutorio e del suo significato con la verità. Molto ha fatto il dibattito sul tema. Noi invece ancora, a questo livello di analisi, non siamo neppure usciti come atti, ma siamo ancora nel campo semantico. Per di più non distinguiamo neppure fra significato e suo modo, ma fra espressione verbale e modo espressivo dell’enunciato che concorrono a determinarne il significato. 23 La distinzione semiotica fra segni non naturali e naturali è presente fin da Aristotele (De. Int., 16a3-8) il quale distingue, da una parte, l’espressione linguistica chiamata voce per la quale non usa la parola segno, ma simbolo indicante un segno non naturale ma convenzionale, connesso non naturalmente ma mentalmente. Dall’altra parte distingue i segni non linguistici, legati a ciò di cui sono segni per inferenze naturali. Seguono gli Stoici che delineano una teoria del linguaggio e una teoria del segno non linguistico, ma è con Agostino (De Magistro, capp. 1 e 2) che le due categorie vengono unificate sotto un’unica categoria chiamata signum la quale riporta i segni linguistici (convenzioni) sotto il modello dei segni non linguistici (inferenze), fino a giungere alla costituzione della disciplina semiotica, o scienza dei segni, fatta risalire modernamente intorno a Saussure 1916 e Peirce 1931: il primo inverte Agostino e riconduce i segni non linguistici sotto il modello dei segni linguistici; il secondo compie una classificazione dei segni. Raggiungiamo Grice 1989 che rispolvera e mette in luce la distinzione fra segni non naturali (linguistici) e segni naturali, ulteriormente distinguendo i segni linguistici fra quelli che dicono esplicitamente e ciò che invece dice implicitamente. 109 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it Il segno prosodico virgola non si dice esplicitamente nel parlato ma può essere trascritto). Entrambi sono percettivamente rilevanti, capiti e accettati, nella formazione del significato; elementi semantici di definizione del significato. La deriva è che allora anche due traducibili nomi casa A e home B, pur riferendosi allo stesso x, pur denotandolo totalmente, pur portando la stessa descrizione, pur non cambiando il valore di verità dell’enunciato che li emette, ciò nonostante, non danno lo stesso identico contributo all’enunciato P, giacché contribuiscono con differenti forze, metriche, suoni; in questo caso differenze semantiche iperreali in merito al valore V di P, poiché non ne cambiano la verità, ma pur sempre differenze sensibili (Es. Gli artisti sovente cambiano il nome proprio in un nome d’arte per trasmettere una differente informazione di sé, un’informazione che l’altro nome non trasmette, pur dove la sostituzione fra i due nomi non cambia la verità dell’artista). In questi casi sostituendo A con B cambia di fatto la funzione dei termini interni a P senza però cambiarne il valore di verità. In generale riscontriamo questo: Il valore semantico del nome A non si esaurisce completamente nel valore di verità dell’enunciato, perché se la verità del nome è il soggetto A, il riferimento del nome è invece l’oggetto x. Quindi non può esaurirsi completamente neppure nell’oggetto x, in quanto porta i valori soggettivi del proprio linguaggio A. Allora: il nome si esaurisce completamente in una data configurazione fra l’oggetto riferito x (costante) e la verità del soggetto A (variabile). Esattamente, con Kripke e Frege opportunamente modificati, attribuiamo al nome un doppio valore semantico: senso e significato. Il senso di un enunciato passa attraverso le condizioni di riferimento. Il significato di un enunciato passa attraverso le condizioni di verità. Così, avendo il nome un significato, e avendo in questo articolo trattato le condizioni di riferimento del linguaggio, dovremmo per ciò attribuire un qualche valore di verità pure ai nomi più insoliti. Le condizioni di verità vogliono un capitolo apposito, quindi ci sospendiamo. 11. Traduzione Un carattere del senso è di porsi come intermediario nella traduzione fra linguaggi diversi; così la traduzione fra diversi linguaggi avviene in un linguaggio terzo rispetto a quelli di partenza e d’arrivo: la ragione in sé, od oggetto in sé portatore di senso. Si veda: sia L la raccolta di tutte le lingue e x la ragione espressa o elemento di traduzione. Per quale che sia il numero di linguaggi e le loro presunte incompatibilità, le ragioni che essi esprimono, laddove le medesime, sono conformi. Tale conformità è la costanza del senso che garantisce l’isomorfismo linguistico, in particolare il fatto che tutti i concetti possono essere espressi in tutte le lingue: se un linguaggio chiama A il concetto x e un altro linguaggio lo chiama B, entrambi emettono lo stesso concetto, hanno la stessa estensione, esprimono la medesima ragione in sé. Su cui richiamare il Principio di effabilità di J.J. Katz: Ogni proposizione può essere espressa da qualche enunciato in qualsiasi lingua. Nel nostro esperimento mentale abbiamo stralciato a monte le obiezioni quineane sulla traduzione, avendo noi certezza che A e B hanno la stessa estensione. Ciò nonostante, passiamo dallo stato di isolamento del nostro esperimento alla relazione con altri parlanti, dove si scioglie il rompicapo di Quine immergendoci nel suo linguaggio. Quine afferma: il comportamento di assenso alla traduzione, ovvero il fatto che A e B siano uguali, è dubitato dal fatto che possiamo fare molte ipotesi sulla corretta traduzione di una parola. Le ricerche di Wittgenstein24 ne amplificano lo scetticismo: non c’è modo di distinguere Wittgenstein 1922 permea la traduzione sul riferimento tramite relazioni formali necessarie. Questa necessità è fallimentare e Wittgenstein abbandona completamente il riferimento per avvicinarsi a Carnap 1934, il quale pone come perno della traduzione un insieme di relazioni formali che le parole intrattengono fra loro. Ma anche qua 24 110 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it l’intenzione di significare una cosa da quella di significarne un’altra tramite la semplice esibizione del campione, il quale non basta a distinguere i diversi modi di intendere la parola. Allora immaginiamo per esempio un bambino che cerca di comprendere a quale oggetto si riferisce la parola “rabbit” dettagli dalla madre: Al pelo? Al bianco? Al coniglio? A delle orecchie attaccate su una testa di un corpo che cammina a quattro zampe ma può stare anche su due? A quel cesto o a tutti cesti in cui stanno pelosi bianchi viventi? etc. In questo caso l’assenso della madre è compatibile con diverse ipotesi, così il bambino deve cercare di afferrare l’ipotesi più adeguata alla traduzione attraverso sperimentazioni ed esperienze sia di tipo fisico, tentativi ed errori, sia di tipo concettuale, comprensioni e intuizioni, con la possibilità di poter escludere le ipotesi inadeguate. Quine continua: per quanto accurate possano essere le nostre verifiche, rimangono comunque un’infinità di ipotesi di traduzione che non è possibile escludere tutte una a una. Rispondiamo, da tre ottiche: − − − Matematicamente, eliminate le possibilità principali di traduzione, le rimanenti sono ipotesi talmente bizzarre e remote da non turbare la correttezza statistica del sistema di traduzione, probabilità talmente infinitesime da non accadere naturalmente mai se non all’infinito (Teoria dei grandi numeri), o probabilità che tendono via via a essere sempre più piccole fino a “sparire” oltre a un dato limite inferiore (Algebra degli infinitesimi), od oscillazioni logicamente attendibili sotto una soglia in cui non sono più apprezzabili (Legge di Planck). Ciò sottende che oltre una data soglia di controllabilità, le restanti ipotesi di traduzione vengono escluse in massa, appiattite come in un’unica costante di fondo da cui potrebbero sì generarsi eventi anomali, ma con una probabilità trascurabile; Evolvendo, se la natura è economica, al di là dell’inganno di un Genio maligno, allora anche il linguaggio ruota intorno a un numero di parole sufficienti, a cui richiamare il Principio di pertinenza di Sperber&Wilson che elabora gli stimoli più pertinenti nell’ambiente al fine di ricavare la maggior informazione al minor costo. Ciò sottende che oltre una data segmentazione delle possibili traduzioni, il costo energetico per concatenare il significato della parola al suo riferimento tramite l’esibizione del campione, a causa di un campione non adeguato al ricevente, esorbita le possibilità naturali di ricezione del significato, rinchiudendo l’indeterminatezza quineana in un campo iperreale, o come dice J.J. Katz, una lacuna di vocabolario piuttosto che una deficienza del linguaggio; Linguisticamente, prendiamo i manuali di traduzione di Quine costruiti disponendo le parole in modo da essere compatibili con le nostre. Le disposizioni plausibili possono essere innumerevoli, ma se associamo un uso o un comportamento C a queste disposizioni, alcune di esse vengono estromesse per implausibilità, dacché gli usi che si fanno delle parole e i comportamenti in merito alle stesse, possono offrire prove a circoscrivere il significato delle parole stesse (Es. Se Lévinas, con un gesto ostensivo, indica a Grice un oggetto accompagnando l’ostensione con la parola “volto”, allora Grice, per Principio di cooperazione25, può presumere che Lévinas, con quella parola, si riferisce a qualcosa di quell’oggetto, non a qualcosa che sta accadendo su Plutone): gli usi e i comportamenti implicati nelle parole, sono mezzi di comprensione e definizione del Wittgenstein s’avvede della non necessità tout court, giacché non tutte le motivazioni di una traduzione sono formalizzabili in senso deterministico e di esattezza, ma hanno un carattere strutturalmente contingente. Da ciò Wittgenstein ne consegue l’impossibilità di una traduzione perfetta, identica all’originale, e nel 1953 cade sulle corde di Quine, intendendo la traduzione come gioco linguistico con esito indeterminato. Forse, prima di cadere, sarebbe stato meglio avesse conseguito prima a un’altra domanda: come fa una traduzione a essere perfettamente identica all’origina se si distingue da esso e non è l’originale? 25 Grice 1975 Principio di cooperazione: il tuo contributo alla conversazione sia tale quale è richiesto, allo stadio in cui avviene, dallo scopo o orientamento accettato dallo scambio linguistico in cui sei impegnato. 111 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it significato delle parole stesse, sono pragmatica di circoscrizione della semantica26. Da tale intromissione pragmatica27, rimangono vivi solo i manuali di traduzione con uguali disposizioni verbali A=B e con uguale uso/comportamento C. Gli usi e i comportamenti possono però, in talune circostanze, segmentarsi svariatamente dentro la medesima disposizione verbale: motivo per cui Wittgenstein dichiara che non possiamo chiedere l’uso in generale e per “uso della parola” dichiara l’uso condiviso convenzionalmente dall’istituzione sociale (Es. Martello: “arnese per battere chiodi”. Anche se non convenzionalmente può essere usato da Nietzsche per fare filosofia). Oppure può succedere ci siano differenti segmentazioni descrittive a causare lo stesso C (Es. In Sardegna vanno per svariati motivi, il deserto, il mare, il Rally e per uno o l’altro ancora). Riconosciute tali segmentazioni ontologiche D di C − di tipo intensionale ed estensionale − rimangono vivi solo i manuali di traduzioni che partono da un’uguale disposizione verbale A=B e uguale descrizione D di un medesimo riferimento x. In queste tre ottiche, anzitutto s’evince che mentre il significato A è definito semanticamente dai segni verbali e prosodici, la sua comprensione passa invece anche per vie pragmatiche (dai comportamenti scaturiti dalle parole e dall’uso che si fa delle stesse), le cui tensioni pragmatiche potrebbero intervenire anche nella definizione del significato. Da ciò avanziamo la Nozione di contesto linguistico: il contesto linguistico è un insieme di inferenze semantiche e pragmatiche. Altresì, nelle nostre tre ottiche, il mondo ha un senso e il linguaggio lo significa in qualche aspetto, ed è ardito anche per lo scettico più accanito, argomentare che il popolo inglese, oltre i principali confronti sul caso, statisticamente con rabbit intenda qualcosa di diverso da quello che abbiamo inteso intendesse: “coniglio”. Sembra evidente che le obiezioni di Quine avrebbero consistenza se la traduzione avvenisse dal punto di vista meramente osservativo, cioè dagli stimoli che le parole provocano; giacché, in tal caso, potremmo attribuire a una medesima parola ipotesi di traduzione anche contrastanti fra loro. Basti pensare a quante cose provocano lo stimolo “bello” e quindi in quanti modi consequenziali potremmo tradurre quella parola: è bello il rosso, ma è bello anche il non rosso etc. In tal caso, la traduzione sarebbe una mera discrezionalità del soggetto, restituendoci l’indeterminatezza della traduzione quineana. Cosa che invece non avverrebbe se la traduzione si basasse sull’oggetto x di riferimento della parola. Basti pensare a come per tutti “è bello ciò che piace” e quindi come solo in questo modo potremmo tradurre la parola “bello” per tutti. Nel dettaglio: È Grice 1989 ad avviare il cammino della differenziazione fra ciò che l’enunciato dice (significato dell’enunciato) e ciò che si vuole dire con esso (significato del parlante), fra significato e uso (l’uso che si vuole fare con quel proferire), fra dire e implicare. Segue il dibattito riguardante i rapporti fra la semantica del significato detto e la pragmatica degli usi implicati. Egli chiama significato dell’enunciato il primo e significato del parlate il secondo, attribuendo valore primario al parlante, con cui entra nel mondo della pragmatica in virtù di volontà d’uso. Diversamente noi implichiamo ciò che il parlante vuole dire implicitamente, assieme a ciò che l’enunciato dice esplicitamente; il tutto nel significato, attraverso contestualizzazioni sia pragmatiche (comportamenti e usi) sia semantiche (verbalizzazioni e prosodie). Oltretutto credo sarebbe chiarificatore che la pragmatica distinguesse fra usi e comportamenti, invece di assorbire i comportamenti negli usi, almeno in questo discorso dove la distinzione conferisce maggiore ampiezza e semplicità. Non si può comunque andare troppo oltre con Grice, perché la struttura insita nella sua filosofia ci giunge a una differenza non riguardante questo livello d’analisi: la differenza fra linguaggi naturali e formali. 27 La pragmatica linguistica, da cui gli usi e i comportamenti legati alle parole, viene definita da Charles Morrsi nel 1938 come lo studio dei segni in relazione ai parlanti. La pragmatica riguarda dunque non tanto i segni o il linguaggio in sé, ma l’uso del linguaggio nei svariati contesti comunicativi in cui i parlanti abitualmente si trovano. 26 112 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it La traduzione è una relazione formale fra parole di lingue diverse imperniata sul loro riferimento28. Quindi da una parte presenta un insieme di relazioni formali che le parole intrattengono fra loro; dall’altra parte presenta un isomorfismo che le parole intrattengono fra loro tramite il medesimo punto di riferimento. I pilastri formali con cui la traduzione transita da una parola all’altra sono le equivalenze A=B; il perno ontologico su cui verte l’isomorfismo fra parole è l’oggetto x di cui parlano: − − Le relazioni formali A=B sono a tratti necessarie ฀ determinate univocamente (Es. yellow=giallo) e a tratti contingenti  probabili in campi di possibilità (Es. In iperonimia, come traduco Know? Con Conoscere o con Sapere?); L’isomorfismo A=x=B ha proprietà transitiva, mediana e di conservazione, dove solo nella triangolazione isomorfa di due A e B in un terzo x si stabilizza la traduzione dei due. Le relazioni formali A=B a tratti contingenti e necessarie della traduzione, delineano − su Morra − una impossibilità formale a intendere la traduzione come operazione esclusivamente meccanica e sempre reversibile: le regole di uguaglianza che hanno portato a una traduzione potrebbero a ritroso non riportare all’originale di partenza, laddove insite di contingenza. Tale eventualità si evidenzia laddove − con Ervans − un’ambiguità sul termine di partenza (Es. In iperonimia) creerebbe una variabilità locale, perché il traduttore sarebbe costretto a scegliere tra una delle analisi disponibili nella lingua di arrivo. Riprendiamo quindi la nozione usuale di riferimento specificandola col nostro linguaggio: se A è una buona traduzione di B, allora A e B hanno lo stesso riferimento x, la stessa descrizione D, parlano della stessa ragione. In condizioni di verità: se A è vero nel linguaggio L1 allora una sua buona traduzione B nel linguaggio L2 è vera in L2. Resta inteso che la traduzione di A in B, per quanto corretta, non può essere identica all’originale per via dei diversi segni con cui le distinte parole si vestono, cioè per le diverse immagini, affettività e intenzionalità con cui A e B esprimono la stessa verità V nell’enunciato P. Cosicché − come vuole una diffusa convinzione − tradurre è in parte tradire. Ma non è intraducibilità, incomunicabilità, incommensurabilità fra linguaggi e culture diversi; non solo perché il diverso è indice di un oggetto comune su cui dirsi diverso, ma anche perché − con Davidson29 − nel riconoscere una diversità essa viene catturata (in maniera più o meno chiara) nel nostro sistema di concetti, così portandoci a scoprire concezioni straniere del mondo, pensieri e sistemi diversi, finanche là dove si legano a un modo diverso di segmentare ontologicamente il mondo. Ossia si può intendere qualsivoglia idioma, se ha una grammatica e non è un insieme di suoni disarticolati, ma lo si intende pur sempre dai propri diversi segni, dalle proprie personali immagini, affettività e intenzionalità. Cosicché per quanto le traduzioni siano corrette e uguali all’originale A=B, esse di principio non gli possono essere perfettamente identiche A=A, giammai: altrimenti che traduzioni sarebbero? O meglio: come fa la traduzione a essere perfettamente identica all’originale se si distingue da esso e non è l’originale? Al più il sospetto dovrebbe ricadere su chi dichiara di aver compiuto una traduzione identica all’originale: la parola giallo non è Wittgenstein 1922 esprime questa proposizione con l’aggravante di definire la relazione formale della traduzione come necessaria tout court. Noi invece abbiamo visto (cap. 8) che la relazione formale di equivalenza, su cui si basa la traduzione fra parole, è strutturalmente formata da aspetti necessari e contingenti, e che questi non indicano l’indeterminatezza della traduzione ma il naturale scarto che c’è fra cose non identiche, per cui la traduzione B non può mai essere perfettamente identica all’originale A, per quanto uguale e corretta. 29 Davidson 1997 dice che se possiamo spiegare o descrivere in modo convincente, come uno schema alternativo si differenzia dal nostro, allora esso sarà catturato nel nostro sistema di concetti. Qui 1974 punti di vista diversi possono essere sensati solamente se c’è un sistema di coordinate comuni nel quale confrontarli; e tuttavia, l’esistenza di un sistema comune smentisce la tesi dell’inconfrontabilità. 28 113 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it perfettamente identica alla parola yellow (cfr. Cap. 8); hanno effetti fenomenici che costruiscono mondi differenti. 12. Conoscenza linguistica Quanto detto sulla traduzione si estende alla traduzione endolinguistica di Jakobson, per il quale il problema della traduzione non riguarda solo la comprensione fra una lingua e l’altra, ma anche la comprensione all’interno di una stessa lingua. Da cui afferriamo che pur davanti agli stessi segni linguistici o identiche parole A=A, ci potrebbe essere una loro diversa ricezione relativamente alle diversità del ricevente: la comprensione del significato non ha luogo solo in base a regole semantiche e pragmatiche di ordine pubblico, ma anche a inferenze che hanno luogo nell’ascoltatore in ordine privato. Con cui avanziamo la Legge delle cinque definizioni del significato s: Il significato delle parole è stabilito sia dalle intensioni semantiche dei segni verbali-prosodici interni al linguaggio, sia dalle estensioni pragmatiche dei segni d’uso-comportamentali esterni nel mondo. Qui abbiamo l’espressione e il modo di esprimerla, e le implicazioni di ciò che si è espresso esplicitamente e implicitamente.30 Abbiamo un significato definito da: (i) Ciò che è detto, significato esplicito del proferimento; (ii) Ciò che si vuole dire, significato implicito del proferente; (iii) Ciò che è linguisticamente codificato, significato convenzionale; (iv) Ciò che è pragmaticamente riscontrato, significato d’uso e comportamentale; (v) Ciò che è capito, significato del ricevente. Aprendo a rispettive cinque scuole del linguaggio: (i) scuola proposizionale delle quantificazioni; (ii) scuola prosodica delle qualificazioni; (iii) scuola convenzionale delle stipulazioni; (iv) scuola pragmatica delle implicazioni; (v) scuola ermeneutica delle interpretazioni. Il tutto in merito a un solo riferimento x. Il che ci estende fino alla teoria della conoscenza: come è possibile conoscere qualcosa? In codesto linguaggio, i sensi (oggetti in sé) sono significati indirettamente e parzialmente dai loro sensibili effetti sul mondo, dove tutto ciò che appare è segno di ciò da cui appare. Da noi i significati vengono attribuiti a segni tramite segni, con riferimento al senso da cui si danno. Ricordiamo: i segni linguistici (Es. Verbali) sono i segni usati al fine di comunicare con essi qualcosa; i segni naturali sono i segni di ciò che accade (Es. I segni lasciati da una rosa fiorita sulla neve oppure la neve stessa come segno della ragione in sé per cui è tale). Conclusione Abbiamo detto di un significato e di un oggetto al quale riferirlo: Teoria del significato A=B+C+D Il significato A è verbale e si esprime tramite parole B+C+D. Le proposizioni elementari B+C+D di A inferiscono il significato di A (Es. Artropodi=animali con corpo segmentato e con estremità articolate) tramite i loro modi, convenzioni, implicazioni, individualità. Teoria del riferimento Illustri come Searle 1969 e Strawson 1964, hanno riportato la nozione griceana di significato del parlante (speaker meaning) nella nozione austiniana di atto linguistico (illocutionary act). La loro unificazione copre lo spettro della forza, da cui l’illocutionary force: “volontà di passare dall’espressione verbale al comportamento attivo o atto pragmatico”, su cui noi differenziamo lo spettro del ritmo e del suono. In questo spettro prosodico potenziato, oltre all’intenzionalità della forza si riconosce l’affettività della ritmica e le immagini sonore. La questione, nel nostro linguaggio, inizia così: ci sono relazioni fra il griceano ciò che si vuole dire implicitamente con l’austiniano modo espressivo, giacché, ciò che si vuole dire implicitamente passa attraverso modi espressivi e non attraverso espressioni verbali esplicite. 30 114 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it x  W={R, P, I, …} Il riferimento x è oggettuale e può esemplificarsi in un qualsiasi mondo W dal reale R al possibile P, dall’immaginario I agli altri. La proposizione protocollare W di x stabilisce il mondo in cui si esemplifica x (Es. ArtropodiR). Ne abbiamo concluso questo: L’oggetto della parola A è il riferimento x di cui parla, così che non si possa parlare senza dire qualche oggetto; Il riferimento x è il senso, stabile, intero, dell’oggetto. La parola A è il significato, mutevole, parziale, del soggetto; L’oggetto si dice in vari modi, con una o l’altra parola, dal reale all’immaginario sino a poter dire anche della sua inesistenza; L’inesistenza si predica tramite enunciati A vuoti ={} che predicano la non predicabilità del loro riferimento, negandogli qualsivoglia predicato, x non è; La parola con cui si dice l’oggetto può essere o un nome o una descrizione; I nomi A dicesi nomi propri xA se denotano lo stesso oggetto in tutti i mondi possibili, dicesi nomi generali sxA se denotano tutti i possibili oggetti di un significato; Le descrizioni A sono necessarie, analitiche e a priori x→xA se l’oggetto x non può esistere senza A, sono contingenti, sintetiche e a posteriori x→ x AA se può esistere senza; Le descrizioni generali xA yA riferiscono di più oggetti attraverso intensioni del genere A. Le descrizioni individuali xA yA riferiscono di un oggetto attraverso estensioni dell’individuo x; I nomi A possono trasformarsi in descrizioni D attraverso processi di generalizzazione delle loro descrizioni che vengono riferite anche ad altri nomi B. Le descrizioni D possono trasformarsi in nomi generali sxA attraverso processi di individuazione con cui riferire un significato a tutti i suoi possibili portatori; La denotazione dei nomi riguarda l’intero oggetto di riferimento. La connotazione delle descrizioni riguarda qualche aspetto dell’oggetto riferito. Sicché i nomi sono identici a tutte le loro descrizioni simultaneamente assieme, e sono uguali alle loro distinte descrizioni; Il rapporto di identità fra indistinguibili parole A e A garantisce la loro sostituibilità salva veritate all’infinito. Il rapporto di uguaglianza fra distinguibili parole A e B potrebbe garantire la loro sostituibilità solo in dati contesti; Il significato linguistico A è definito dal contesto di ciò che viene detto, di ciò che si vuole dire, di ciò che è convenzionalmente codificato, di ciò che è pragmaticamente riscontrato, di ciò che è privatamente capito, in riferimento a un oggetto x. Dal punto di vista didattico tale sunto palesa un aggiornamento e implementazione degli strumenti linguistici e con loro il superamento dei quattro puzzle linguistici: (i) riferimento agli esistenti o inesistenti; (ii) negazione del riferimento; (iii) nomi-descrizioni; (iv) sostituibilità. Ho invece sottaciuto il paradigma didattico, ripartito in questo articolo fra lo studio storico in nota e lo sviluppo teorico in nuce: nelle note si evidenzia il paradigma didattico hegelo-gentiliano il quale pone i contenuti storici come fondamento alla professionalità docente; in nuce si evidenzia il paradigma didattico kantiano il quale pone la proposta e la critica come fondamento allo sviluppo del pensiero. Da Hegel abbiamo la storia della filosofia, l’imparare la filosofia, col conseguente divenire titolari della conoscenza; da Kant abbiamo la critica alla filosofia, il filosofare, col conseguente divenire titolari della teoria. Per definizione il docente è titolare della conoscenza che insegna, senza però essere necessariamente titolare anche di una teoria. Mentre filosoficamente non è possibile essere titolari di una teoria senza essere allo stesso tempo titolari della conoscenza che ruota intorno a quella teoria, giacché la dignità di una teoria filosofica sta considerate le più importanti domande sul tema in oggetto. A tal fine la didattica filosofica dovrebbe prevedere la comunicazione fra lo studio storico e lo sviluppo del pensiero; come s’evince anche 115 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it da questo articolo in cui lo sviluppo filosofico in nuce sarebbe più modesto, lacunoso e irragionevole, se privato delle autorità presenti nelle note, mentre lo studio storico in nota si limiterebbe al già conosciuto se privato di critica e propositività. Dice Einstein: «L’immaginazione» intesa come fonte dello sviluppo del pensiero «è più importante della conoscenza» data dallo studio storico. È però insufficiente se privata della conoscenza, dice Newton: «Se ho potuto vedere lontano è perché mi sono seduto sulle spalle dei giganti». Un’immaginazione finanche negativamente pericolosa qualora proponente-criticante senza conoscere ciò di cui parla, dice Confucio: «Studiare senza pensare è inutile; pensare senza studiare è pericoloso». Un genuino insegnamento filosofico dovrebbe così dotare lo studente sia dei contenuti storici delle autorità sia degli strumenti propositivi e critici per proiettare il sapere acquisito oltre il conosciuto (speculazione e teoresi) o nel quotidiano vivere (pragmatica ed euristica): − − Lo studio storico sembra richiedere forme di comunicazione didattica tradizionali, con lezioni di ascolto sia su autori xA (Es. Cosa ha detto Pitagora?) sia su temi sxA (Es. Cosa è stato detto e si dice sulla matematica?), in cui vige prevalentemente la passività e il rigore filosofico; Lo sviluppo delle capacità propositive e critiche sembra richiedere forme di comunicazione didattica capaci di coinvolgere lo studente in prima persona con dialoghi e laboratori filosofici-gentiliani, in cui vige prevalentemente l’attività e la spontaneità (Es. I dialoghi platonici sono rotazioni di parlanti a cui, sul tema in oggetto, non sono impediti argomenti erranti o in aperto contrasto. Questa modalità di sviluppo delle capacità soggettive, per la numerosità degli studenti potrebbe richiedere la creazione di circoli interni, animati da differenti correnti, in preparazione di arene fra circoli). Nel primo caso il ruolo del docente è quello di insegnare pensieri, incrementando gli oggetti di conoscenza a disposizione del discendente; nel secondo caso il ruolo del docente è quello di aiutare a pensare, favorendo le capacità soggettive del discendente. Ivi: la base generale dell’insegnamento filosofico è il conseguimento del paradigma didattico hegeliano di dotazione di conoscenza, la sua destinazione generale è il conseguimento del paradigma didattico kantiano di dotazione di strumenti propositivi e critici31. Con tale avvertenza: benché abbiamo noi stessi filosoficamente definito strumenti linguistici scientificamente riducibili, codesta filosofia e la sua esaustiva didattica restano comunque non totalmente riducibili alla scienza, anche solo perché prevedono un margine di studio esclusivo, l’oggetto in sé x. Bibliografia di riferimento − − − − AGOSTINO: De magistro. ARISTOTELE: De Interpretatione. AUSTIN 1962: John Austin, How to do things with words, Oxford University, Oxford 1962. BORGHINI 2010: Andrea Borghini, Il genio compreso. La filosofia di Saul Kripke, (a cura di), Carocci, Roma 2010. 31 Commissione dei Saggi per la riforma dell’Istruzione 1998: «L’insegnamento della filosofia – positiva specificità della scuola italiana – non può venire esteso indiscriminatamente nella sua forma attuale di ricostruzione storica. La sua destinazione generale consisterà nel dotare tutti i giovani di strumenti concettuali adeguati alla ragionevole costruzione di una soggettività propositiva e critica». Da cui gli Orientamenti MIUR 2017 per la didattica liceale della disciplina: «declinare l’insegnamento e l’apprendimento della filosofia in chiave di: pensiero critico, capacità argomentativa, ragionamento corretto; didattica per competenze al fine di consolidare gli elementi cardinali delle competenze di cittadinanza». Da tali indicazioni dei Saggi e del MIUR traspira uno sbilanciamento verso lo sviluppo didattico-kantiano in reazione all’attuale immobilismo storico-didattico; uno sbilanciamento che rischia di far scivolare la filosofia verso un abbassamento qualitativo: ad uso esclusivo dell’attuale e del mondano, acritica e astorica, vuota di contenuti, immemore del millenario e dell’eterno. 116 Comunicazione Filosofica 50, 1/2023 – www.sfi.it − − − − − − − − − − − − − − − − − − − − − − − − − − − BLASI 2016: Damián Blasi, «Sound-meaning association biases evidenced across thounsands of languages», (a cura di), Proceedings of the National Academy of Sciences, 2016. CARNAP 1932: Rudolf Carnap, Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache, «Erkenntnis», (1932), 2, pp. 219-241. CARNAP 1934: Rudolf Carnap, Logische Syntax der Sprache, Springer, Vienna 1934. 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