RIVISTA DEL CENTRO STUDI
GIUSEPPE GIOACHINO BELLI
anno xx
numero 3
settembre-dicembre 2022
Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli
Direttore
Marcello Teodonio
Direttore responsabile
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anno xx, numero 3, settembre-dicembre 2022
ISSN 1826-8234
Sommario
5
Li sordati bboni
di Marcello Teodonio
11
Un petit coin de Paris
Dalla casa-studio di via Maria Adelaide alla Stanza di
Trilussa al Museo di Roma in Trastevere
di Donatella Occhiuzzi
29
Costruire un dialogo che attraversa lo spazio e il tempo
La traduzione in cinese delle Desgrazzi de Giovannin Bongee
di Lisi Feng
47
Indagine (socio)linguistica sulla differenziazione morfologica
su base sessuale nel dialetto di Pescasseroli (AQ)
di Davide Boccia
59
Dialetti reloaded
Note di lettura
di Silvia Tolusso
73
Cronache
di Franco Onorati
79
Libri ricevuti
a cura di Laura Biancini
il 996 – Rivista del Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli
ISSN 1826-8234
anno XX – numero 3 – settembre-dicembre 2022 – pp. 5-9
Li sordati bboni
di Marcello Teodonio
«Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis»: la storia in verità è testimone dei tempi,
luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell’antichità. Così diceva Cicerone nel De oratore (ii, 9, 36). Ma ahimè davvero constatiamo per l’ennesima volta che la storia non insegna nulla.
Lo abbiamo constatato con i no vax. E adesso, in maniera terribile, con
la guerra. La guerra in Ucraina. Quella terra martoriata “da sempre”
(giacché non ci può non venire in mente l’impressionante episodio di
Mamma Juliana nei Romani in Russia di Elia Marcelli).
Eh già: la guerra. «Che è un truculento mostro», come scriverà Belli
in un suo sonetto italiano. Che è decisa da qualcuno e poi combattuta
da altri. Che è soltanto dolore e morte. Dolore e morte che colpiscono
gli innocenti, e cioè chi non ha deciso di farla.
Li sordàti bboni
Subbito c’un Zovrano de la terra
crede c’un antro1 j’abbi tocco2 un fico,3
disce ar popolo suo: «Tu sei nimmico
der tale o dder tar4 re: ffàjje5 la guerra».
E er popolo, pe sfugge6 la galerra
o cquarc’antra grazzietta che nnun dico,
pijja lo schioppo, e vviaggia com’ un prico7
che spedischino in Francia o in Inghirterra.
Ccusí, pe li crapicci8 d’una corte
ste pecore aritorneno a la stalla
co mmezza testa e cco le gamme storte.
6
Marcello Teodonio
E cco le vite sce se ggiuca9 a ppalla,
come quela puttana10 de la morte
nun vienissi da lei11 senza scercalla.12
23 maggio 1834
Altro. 2 Gli abbia toccato. 3 Fico: qui sta per un «nonnulla». 4 Tal. 5 Fagli.
Per isfuggire. 7 Plico. 8 Capricci. 9 Ci si giuoca. 10 Per bene pronunziare le
due antecedenti parole, si deve considerarle quasi fossero unite, di modo
che l’accentuazione non cada che sulla prima a di puttana. 11 Non venisse
da sé. 12 Cercarla.
1
6
Una grande tensione morale percorre questo sonetto, a partire dal
titolo: i soldati sono “buoni” soltanto perché vanno a farsi ammazzare
in guerra. E vanno a farsi ammazzare solo perché il loro re, appena
«crede» che un altro sovrano gli abbia toccato un «fico», e cioè un
«nonnulla», una cosa assolutamente da niente, ecco che convoca il popolo e gli dice: «Tu sei nemico di quel re». Tu sei nemico, non io! Perciò tu devi fargli la guerra. E il popolo diventa pecora perché non può
certo opporsi a questa imposizione, sennò finirebbe in galera, o peggio
(la grazzietta della pena di morte cui è condannato chi è renitente alla
leva, chi si rifiuta di obbedire agli ordini). E così viene spedito come
un plico a combattere, e a subire tutte le conseguenze della guerra. Che
sono poi sempre le stesse: tornare con mezza testa e con le gambe storte, o proprio morire.
Qui Belli si allontana del tutto dalla tradizione che voleva la guerra
come riscatto, come opportunità, o, peggio, come soluzione “santa”
alle contraddizioni del mondo. E scrive una condanna senza appello
della guerra, vista come la manifestazione dei crapicci d’una corte. La
soluzione comica (un comico da cui è del tutto assente il sorriso) toglie
qualsiasi immagine gloriosa alla guerra, identificandola solo con i suoi
effetti devastanti per chi poi è obbligato a farla: il popolo, costretto da
quell’impressonante “tu” con il quale il re lo obbliga a condividere le
sue scelte, un oggetto spedito da una parte all’altra del mondo. Le quartine sono intonate a un amaro realismo da cui è assente ogni sorriso; le
terzine salgono al sarcasmo con le metafore delle pecore e della palla,
fino alla potente conclusione dove appare centrale, anche dal punto di
vista fonosimbolico, come sottolinea lo stesso Belli con la sua nota 10,
la sconcertante impressionante immagine della “morte-puttana”.
La polemica antimilitarista e contro la guerra appare in Belli motivo costante e trova un’importante sintonia con analoghe espressioni
rintracciabili anche in alcune sue poesie in italiano; si legga ad esempio
il sonetto italiano La guerra del 28 gennaio 1839 (dove si noti anche il
7
Li sordati bboni
grande scarto di resa stilistica tra scrittura in romanesco e scrittura in
italiano):
Si muor, fratelli miei; né già crediate
che sia mia l’opinion: è di Avicenna;
il quale, a chi nol sa, chiaro lo accenna
in cert’opere sue poco studiate.
Dunque perché forarvi la cotenna
a furia d’archibusi e di stoccate?
Operando così voi vi cercate
Giorgio in Albione e Maria per Ravenna.
Senza la guerra, truculento mostro,
se la morte vi par tanto gustosa
aspettatela in pace al letto vostro.
Per me vel dirò sempre e in verso e in prosa
fin che potrommi aver carta ed inchiostro:
questo morir la sia l’ultima cosa.
***
Come sempre puntiamo a fare, anche questo numero contiene una
serie di spunti e riflessioni sulle questioni che ci riguardano spaziando
nel tempo e nelle aree geografiche.
La nostra amica, l’eccellente responsabile del Museo di Roma in
Trastevere Donatella Occhiuzzi, ci conduce, con una davvero importante quantità di materiale, a ricostruire le «travagliata vicenda» (ma
qui “travagliata” è la figura retorica dell’eufemismo, o della conciliazione) dello Studio Trilussa «partendo dalla casa-studio di via Maria
Adelaide 7, proseguendo per il Museo di Roma a Palazzo Braschi – in
un primo tempo individuato come la sede più idonea ad ospitarlo –
fino ad arrivare alla sede definitiva al Museo del folklore e dei poeti
romaneschi, dal 2000 rinominato Museo di Roma in Trastevere». Una
vicenda, come dire, imbarazzante per il comportamento delle varie
istituzioni coinvolte, giacché il risultato finale della questione è che lo
studio Trilussa – che era obiettivamente una testimonianza formidabile non solo di Trilussa e della sua personalità, ma della cultura (non
solo romana e italiana) della prima metà del Novecento – è sostanzialmente andato disperso. Ché, se è vero che la stragrande maggioranza
di quegli oggetti è conservata nel Museo in Trastevere (nei depositi,
ovviamente), però la complessità articolata (e affascinante) del tutto si
8
Marcello Teodonio
è irrimediabilmente persa. Davvero un pessimo comportamento delle
istituzioni, nei confronti del quale ci sono state via via voci di protesta,
tutte destinate, appunto, a rimanere senza ascolto.
Lisi Feng affronta una questione davvero centrale, vorrei dire indispensabile, ma al tempo stesso, come ben sappiamo, insolubile: la
traduzione. Tradurre è necessariamente inevitabilmente tradire. Ma al
tempo stesso, appunto, indispensabile, come ci ricorda la riflessione
della studiosa: «Nonostante ciò, per quanto impegnativo, i traduttori,
pur nella consapevolezza dell’“assoluta intraducibilità”, dovrebbero
ricorrere a tutti i mezzi a loro disposizione e sfidare la “relativa traducibilità”». Partendo da questa riflessione, si può dire che «la traduzione in 13 lingue del rappresentativo poemetto dialettale del Porta
Desgrazzi de Giovannin Bongee, promossa dal Comitato Nazionale
per le celebrazioni del bicentenario della morte di Porta e curata dal
professor Mauro Novelli (Desgrazzi de Giovannin Bongee tradotte in
13 lingue, a c. di M. Novelli, Milano, Regione Lombardia - Direzione
Generale Autonomia e Cultura, 2021), costituisca indubbiamente una
pietra miliare». Dopo averci fatto conoscere la difficoltà della traduzione in cinese (giacché di “cinesi” ce ne sono moltissimi…), ecco chiarito l’obiettivo dell’articolo: «condividere l’esperienza della traduzione
piuttosto che discutere di teoria», analizzando «alcuni casi pratici dal
punto di vista della lingua, della cultura e della comunicazione», partendo dal presupposto che «le parole scelte per la traduzione devono
essere in grado di trasmettere sia l’appartenenza geografica e sia quella
di classe sociale, in questo caso quella popolare». Di qui entriamo nel
laboratorio di questa traduzione.
Un affondo sociolinguistico su una lingua, il dialetto di Pescasseroli (paese del Parco Nazionale d’Abruzzo di circa 1.000 abitanti), ci
conduce dentro l’affascinante mondo, appunto, delle contraddizioni
e delle articolazioni della lingua. Qui nientemeno si dimostra che nel
medesimo paese (peraltro davvero piccolo) esistono evidenti (e documentate) differenze di utilizzazione e di pronuncia del dialetto fra
uomini e donne, fenomeno che peraltro in Abruzzo si presenta anche
in altri centri. A prova, casomai ce ne fosse bisogno, della complessa e
articolata storia della lingua italiana. L’indagine presentata da Davide
Boccia ci consente di entrare dunque nella complessità e nella ricchezza del nostro patrimonio, un patrimonio che in Abruzzo va studiato
con particolare attenzione.
Silvia Tolusso approfondisce poi le questioni relative a una recente
pubblicazione sugli scenari linguistici della nuova dialettalità in Italia.
Nel nostro Paese infatti sta avvenendo, ed è documentata, una «rina-
Li sordati bboni
9
scente diffusione del dialetto in molteplici usi della lingua»; così ecco
il paradosso: «sebbene sia considerato morto e ormai inutilizzato, il
dialetto, anche se da una parte è soggetto al “normale”, prevedibile,
atteso depotenziamento; dall’altra gode di una rivitalizzazione – relativamente recente – che lo vede espandersi ed estendersi anche a usi da
tempo assegnati in modo che pareva esclusivo all’italofonia».
Le consuete rubriche chiudono il numero. Un numero che, come
sempre, serve anche a mantenere attiva e presente la memoria.
il 996 – Rivista del Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli
ISSN 1826-8234
anno XX – numero 3 – settembre-dicembre 2022 – pp. 11-27
Un petit coin de Paris
Dalla casa-studio di via Maria Adelaide alla Stanza di
Trilussa al Museo di Roma in Trastevere*
di Donatella Occhiuzzi
Con questo contributo si intende ricostruire brevemente la travagliata vicenda dello Studio Trilussa partendo dalla casa-studio di via
Maria Adelaide 7, proseguendo per il Museo di Roma a Palazzo Braschi – in un primo tempo individuato come la sede più idonea ad ospitarlo – fino ad arrivare alla sede definitiva al Museo del folklore e dei
poeti romaneschi, dal 2000 rinominato Museo di Roma in Trastevere.
Fig. 1. P. Castelli, Museo di Roma in Trastevere, 2016.
*
Il «piccolo angolo di Parigi» a cui si fa riferimento nel titolo è la definizione data dalla
famosa attrice Lina Cavalieri della casa-studio del poeta Trilussa in via Maria Adelaide.
12
donaTella occhiuzzi
Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri, meglio conosciuto con il
nome d’arte di Trilussa ottenuto dall’anagramma del cognome, nasce
a Roma nel 1871. In quanto al mese esistono fonti discordanti: l’Accademia dei Lincei conserva nel suo archivio il certificato di battesimo,
richiesto da Trilussa nel 1938 in occasione dell’emanazione delle leggi
razziali volute dal regime fascista, che riporta come data di nascita il 26
settembre 1871 e il 1° ottobre come data di battesimo.1 Invece Mario
dell’Arco, nel suo libro Lunga vita di Trilussa, edito nel 1951 poco
dopo la scomparsa del poeta, cita l’atto di nascita di Trilussa rintracciato da Mario Adriano Bernoni, in cui è riportata come data di nascita il
26 ottobre alle ore 5 antimeridiane.2 Qualunque sia il mese di nascita,
l’anno almeno pare certo. Sappiamo però che Trilussa aveva il vezzo di
diminuirsi gli anni, come attestano alcuni documenti d’identità conservati nell’Archivio Trilussa del Museo di Roma in Trastevere, che
riportano date di nascita oscillanti tra il 1871 e il 1874.3
Fig. 2. G. Del Monte, Trilussa a dodici anni in divisa da collegiale, albumina, 1883.
1
Si veda in proposito il contributo di Susanna Panetta nel volume La strada è lunga.
Trilussa, le sue carte, la sua vita, a c. di D. Pettinicchio e G. Vaccaro, Roma, Castelvecchi, i.c.s.
2
M. dell’Arco, Lunga vita di Trilussa, Roma, Bardi, 1951, pp. 42-43.
3
P.O. Bertelli, “Caro Tri…”. Lo studio Trilussa al Museo del Folklore, Roma, Palombi,
1992, p. 7.
Un petit coin de Paris
13
Fig. 3. Autore non identificato, Ritratto di Trilussa, gelatina ai sali d’argento, 1928.
Fig. 4. Autore non identificato, Ritratto di Trilussa in età matura, gelatina ai sali d’argento, 1935-1940.
14
donaTella occhiuzzi
1. Il contesto storico
Nel corso dei suoi quasi ottanta anni di vita Trilussa, tra la fine
dell’Ottocento e la metà del Novecento, si trova a vivere eventi straordinari che hanno cambiato il corso della storia d’Italia nel bene e nel male.
Il 20 settembre 1870, dopo l’ingresso a Roma dei bersaglieri del generale
La Marmora attraverso la breccia di Porta Pia, la città viene annessa al
Regno d’Italia, divenendone la capitale nel 1871, anno di nascita del poeta. Con la fine del potere temporale dei papi il re, la corte e il governo del
Paese da Firenze si trasferiscono a Roma. Diviene così necessario trovare nuovi spazi abitativi per soddisfare le esigenze dei nuovi cittadini,
arrivati dal nord al seguito del re e da altre regioni d’Italia per cogliere le
nuove opportunità di lavoro, specie nell’edilizia e nel settore impiegatizio. Iniziano così anni di grandi cambiamenti urbanistici e architettonici
per trasformare l’Urbe da città-paese a moderna capitale. Con i piani regolatori del 1873 e del 18834 vengono indicate le zone di espansione (via
Nazionale, Castro Pretorio, Esquilino, Viminale, Celio, Testaccio, Prati
di Castello) riguardo sia all’edilizia residenziale sia alle opere di pubblica
utilità rese necessarie dalla mutata situazione politica.5
Fig. 5. E. Roesler Franz, Terrazza presso il Porto Leonino - Aspetto della sponda sinistra
fino al Ponte Sisto. A destra i giardini della Farnesina, acquerello su carta, 1882.
4
D. Occhiuzzi, Legnaroli, pescatori e molinari. I mestieri fluviali nella Roma pittoresca,
in Paesaggi della memoria. Gli acquerelli romani di Ettore Roesler Franz dal 1876 al 1895, a
c. di M.E. Tittoni, F. Pirani e P. Fornasiero, Firenze, Mandragora, 2007, p. 44
5
M.C. Biagi, La Roma sparita di Ettore Roesler Franz, in M.C. Biagi, M. Corsi, D.
Occhiuzzi, Il Museo di Roma in Trastevere, Roma, Palombi, 2004, pp. 27, 30-33.
15
Un petit coin de Paris
2. Le abitazioni di Trilussa
In quest’epoca di grandi cambiamenti e di speranze per il futuro due
giovani trentenni, Vincenzo Salustri di Albano Laziale, “maestro di camera” presso i marchesi del Cinque, e Carlotta Poldi di Bologna, sarta
di mestiere, decidono di formare una famiglia unendosi in matrimonio
nel 1868. La prima abitazione dei coniugi Salustri è in via del Babuino
114, dove il piccolo Carlo nasce e trascorre i suoi primi anni di vita, con
i genitori e la sorella maggiore Isabella. Da via del Babuino, morti nel
1872 la sorellina di tre anni e nel 1874 il padre di trentacinque, Carlo si
trasferisce con la madre in via di Ripetta 22, dove rimane fino al 1875,
quando i due vanno ad abitare al quinto piano di piazza di Pietra 31,
ospiti nel palazzo del marchese Ermenegildo Camillo del Cinque, il cui
nome figura nell’atto di nascita come padrino di battesimo di Carlo.
Nel 1894 traslocano in via Marforio, cui seguì lo spostamento nella vicina via delle Tre Cannelle. Nel 1897 i Salustri risultano abitare in via di
Montebello; nel 1899 si trasferiscono in via in Piscinula 44, a Trastevere.6 Seguirà nel 1908 la casa di via della Longarina 65, dove abiteranno
fino al 1912, quando l’amatissima madre Carlotta si spegne all’età di 71
anni. Dopo un breve soggiorno solitario in via Reggio 50, nel 1915 Trilussa trova finalmente, a 44 anni, una definitiva sistemazione abitativa
in via Maria Adelaide, nella nuova zona che si sta sviluppando attorno
a piazza del Popolo. Qui, in un palazzetto umbertino color ocra, si trovano gli Studi Corrodi, atelier per pittori e scultori creati dalla famiglia
Corrodi, dove hanno lavorato tra gli altri Enrico Coleman, Pio Joris,
Giulio Aristide Sartorio, Onorato Carlandi.7
Fig. 6. Autore non identificato, Ritratto di Carlotta
Poldi, albumina, 1900-1912.
6
Bertelli, “Caro Tri…”, cit., p. 8.
7
M.C. Biagi, La Stanza di Trilussa. Dalla casa-museo alla video-installazione multimediale, in Biagi, Corsi, Occhiuzzi, Il Museo di Roma in Trastevere, cit., pp. 57, 60.
16
donaTella occhiuzzi
Fig. 7. Autore non identificato, Ritratto di Vincenzo
Salustri, albumina, 1860-1870.
3. Dalla casa-studio di via Maria Adelaide alla Stanza di Trilussa
al Museo del folklore e dei poeti romaneschi, oggi Museo di Roma in
Trastevere
Trilussa riesce ad ottenere in affitto il locale al n. 7 di via Maria Adelaide dichiarandosi pittore, dato che in effetti sa anche usare la matita
e i colori, come dimostrano i suoi numerosi disegni che rappresentano
scenette comiche e caricature dal tratto inconfondibile, conservati per
la maggior parte nel Museo di Roma in Trastevere.
Nella casa-studio si entra direttamente dalla strada attraverso grandi portefinestre. Gli ambienti sono ampi, dieci metri per dieci, e molto
luminosi. I soffitti altissimi, tanto da consentire a Trilussa di costruire
un ballatoio e la sua stanza da letto: «sopra l’appartamento da scapolo,
sotto l’alcova e il museo», come ricorda Mario dell’Arco.8 Quando si
trasferisce nella nuova dimora, porta con sé tutto ciò che aveva accumulato nelle precedenti abitazioni. Qui si aggiungono ancora oggetti,
quadri, mobili, fotografie, libri, animali impagliati, in legno o in terracotta, tappeti, bacheche didattiche da lui stesso realizzate, statue grandi
e piccole e una gran quantità di cianfrusaglie. Una infinità eterogenea
di oggetti grandi e piccoli, di valore o meno, che accumula nel tempo
o che gli amici e gli ammiratori gli regalano. Tutto viene conservato e a
tutto Trilussa trova un posto, creando angoli, nicchie, sfruttando ogni
spazio disponibile con un effetto finale di moderna Wunderkammer.
8
Dell’Arco, Lunga vita di Trilussa, cit., p. 16.
Un petit coin de Paris
17
Fig. 8. Pianta della casa-studio di Trilussa.
«Piccolo angolo di Parigi», «Bazar di marca orientale», «Eremo che ha
del fiabesco», «Stanzone da scapigliato»:9 comunque lo si voglia definire
lo studio di Trilussa è senza dubbio un luogo che suscita stupore e meraviglia in chi ha occasione di visitarlo. Nello studio passa un gran numero
di persone: amici, artisti e gente di spettacolo, poeti, molte donne famose
o sconosciute, persone che chiedono un parere sulle loro opere, una raccomandazione o un aiuto economico, scolaresche con i loro insegnanti,
gente comune. Il 21 dicembre 1950 Trilussa muore senza lasciare testamento. Riporta a tal proposito Ceccarius: «Che bisogno c’è», confida Tri9
Bertelli, “Caro Tri…”, cit., pp. 9-10.
18
donaTella occhiuzzi
Fig. 9. Plastico della casa-studio di Trilussa.
Fig. 10. Autore non identificato, Trilussa in compagnia di una signora nello studio di via
Maria Adelaide, gelatina ai sali d’argento, 1915-1926.
Un petit coin de Paris
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Fig. 11. Autore non identificato, Interno dello Studio Trilussa con la statua di Buddha,
gelatina al bromuro d’argento, 1925-1949.
lussa all’amico Loreto Parenti, «io vorrei che la mia casa rimanesse qui,
messa a disposizione dello Stato, del Comune di Roma o all’Accademia
di San Luca. Vorrei che con i proventi dei miei diritti d’autore fosse costituito un fondo per la mia fedele governante Rosa».10 Ma, come è noto,
la volontà del poeta non verrà rispettata: dopo la sua scomparsa, si fanno
vivi alcuni parenti per rivendicare i loro diritti di successione. Il 3 febbraio 1951, a poche settimane dalla morte del poeta, l’allora ministro della
Pubblica Istruzione, il democristiano Guido Gonella, dichiara che «lo
studio del poeta Carlo Alberto Salustri con le suppellettili, i manoscritti,
le memorie, i cimeli, i libri, gli oggetti d’arte che in esso si conservano, ha
interesse particolarmente importante ai sensi dell’articolo 2 della legge 1°
giugno 1939, n. 1089, per il suo riferimento con la storia della letteratura
e della cultura e viene quindi sottoposto a tutte le disposizioni di tutela
contenute nella legge medesima». Ma già nel 1942 lo studio era stato
acquistato dalla società Fono-Roma per adibirlo a laboratorio per la sonorizzazione di film. Il 17 luglio 1954 gli eredi di Trilussa donano tutti i
loro diritti su quanto è contenuto nello studio alla Società Fono-Roma la
10
Ivi, p. 11.
20
donaTella occhiuzzi
quale, il 20 maggio 1955 propone di offrire al Comune di Roma l’appena
ricevuta donazione Trilussa, accollandosi tutte le spese per il trasporto e
il successivo allestimento dei materiali. Il 26 gennaio 1960 la Fono-Roma comunica la decisione della donazione al ministero della Pubblica
Istruzione e rinnova al sindaco di Roma, Urbano Cioccetti, la propria
disponibilità a donare i cimeli di Trilussa e riferisce di aver incaricato
l’architetto Andrea Busiri Vici della progettazione delle vetrine e dell’allestimento della sala. Il 30 agosto dello stesso anno il ministero della
Pubblica Istruzione, retto da Giacinto Bosco, revoca il vincolo apposto
nel 1952 da Gonella, che rendeva impossibile qualsiasi altro utilizzo dei
locali di via Maria Adelaide. Il Museo di Roma a Palazzo Braschi, anche
dietro suggerimento dello stesso ministero, viene individuato quale sede
più idonea a ospitare la ricostruzione dello studio del poeta. Nel corso del 1960-61 si avviano i lavori di ristrutturazione di alcuni locali del
piano terra del Museo di Roma e il trasferimento di parte dei materiali
dello studio di via Maria Adelaide, dove rimangono fino al 1967. Negli
anni Settanta, visto un rinnovato interesse per gli studi demoetnoantropologici che hanno portato in tutta Italia alla nascita di numerosi musei,
la giunta capitolina decide di costituire un nuovo museo appartenente a
una tipologia fino ad allora mancante nella prestigiosa offerta culturale
dei musei civici capitolini: il Museo del folklore e dei poeti romaneschi,
con la missione di rappresentare, se pur in modo artistico, le tradizioni
popolari romane. La sede individuata è quella dell’ex convento carmelitano di Sant’Egidio nel cuore dello storico rione di Trastevere.
Per formare la collezione si fece ricorso a quella del Museo di Roma
di Palazzo Braschi11 trasferendo opere, oggetti e documenti coerenti con
la vocazione del nuovo Museo. Presero dunque la via di Trastevere le
Scene romane, sei scenografie riproducenti a grandezza naturale aspetti
della vita popolare romana (I pifferai, Lo scrivano pubblico, L’osteria,
Il saltarello, Il carro a vino, La farmacia), realizzate tra il 1930 e il 1950
dagli artisti Antonio Barrera e Orazio Amato su ispirazione delle opere
di Bartolomeo Pinelli.12 Insieme alle Scene romane vennero trasferiti il
11 Il Museo di Roma a Palazzo Braschi, nelle intenzioni dell’amministrazione capitolina,
doveva rappresentare la Roma dei papi e delle grandi famiglie romane, mentre il Museo del
folklore quella dei ceti popolari, con attenzione alle feste civili e religiose, ai mestieri, al vestiario di uso quotidiano e festivo, alla danza popolare, ai poeti romaneschi.
12 Le Scene romane riproducono a grandezza naturale aspetti della vita popolare del primo
Ottocento. Le tre scene più antiche, Il saltarello, L’osteria e Lo scrivano vengono realizzate nel
1930 ed esposte nella sede del Museo di Roma all’ex Pastificio Pantanella. Il primo allestimento
si deve ad Antonio Barrera con i materiali provenienti in parte dalla Mostra del costume realizzata nel 1927 dalla Provincia di Roma a Palazzo Valentini. Nel 1950 nella nuova sede del Museo
di Roma a Palazzo Braschi, grazie al successo riportato dalle prime tre, furono realizzate le altre
Un petit coin de Paris
21
Fig. 12. A. Barrera, Scena romana del saltarello, 1930.
Fig. 13. A. Urbani Del Fabbretto, Presepe ambientato nei vicoli di Roma dell’Ottocento,
ante 1950.
22
donaTella occhiuzzi
presepe di Angelo Urbani del Fabbretto,13 realizzato nella prima metà
del Novecento; i calchi in gesso di alcune delle famose statue parlanti
(Pasquino, Abate Luigi e Bocca della Verità) realizzati per l’Esposizione
di etnografia italiana del 1911;14 i dipinti di artisti di fama, italiani come
Ippolito Caffi, Vincenzo Morani, Bartolomeo Pinelli e stranieri come
Salomon Corrodi, Adolphe Roger e Franz Theodor Aerni, i quali rappresentano la vita quotidiana della Roma popolare, sia pur filtrata attraverso lo sguardo colto degli artisti che l’hanno raffigurata; la serie di
acquerelli di Ettore Roesler Franz, dapprima solo una piccola selezione
di 27 opere, a cui seguirà l’intera serie di 119.15 E ancora: arredi, strumenti musicali, medaglie e onorificenze dello Studio del maestro Alessandro
Vessella, primo direttore della Banda municipale; nove lettere autografe
di Belli, alcuni sonetti di Pascarella. Completano la collezione i preziosi
materiali dello Studio Trilussa (che però verrà allestito successivamente
all’apertura del Museo, avvenuta nel 1977) con l’Archivio delle carte e
delle fotografie, gli arredi dello Studio e i libri della biblioteca.
Infatti nel 1980 vengono affidati all’architetta Pia Pascalino i lavori
di sistemazione dei locali dell’altana del Museo del folklore e dei poeti romaneschi per ospitarvi una significativa selezione di oggetti dello
Studio Trilussa. Il nuovo allestimento, di cui purtroppo non esiste una
documentazione fotografica, verrà aperto al pubblico nel 1981 riuscendo comunque a dare almeno un’idea della straordinaria originalità e
varietà di arredi e oggetti che lo componevano, a testimonianza della
fantasia e del gusto eccentrico del poeta.
Anni dopo, nel 1997, il Museo del folklore viene chiuso per permettere urgenti lavori di ristrutturazione dell’edificio e l’adeguamento alle nuove normative sulla sicurezza. Il Museo riaprirà nel setquattro scene dei pifferai, del carro a vino, della portantina e della farmacia. A realizzarle viene
chiamato Orazio Amato, artista di maggior rilievo rispetto a Barrera, che si avvalse dei collaboratori Armiro Yaria e Filiberto Coarelli. Al Museo del folklore le scene vengono riallestite
da Gigio De Cesare. Nel passaggio da una sede all’altra le scene subiscono varie modificazioni
derivanti dalla necessità di adattarle ad ambienti diversi, ma anche dall’intento di personalizzarle che orienta l’opera dei diversi allestitori.
13 Angelo Urbani del Fabbretto è stato artista e figurinaio. Deve la denominazione “del
Fabbretto” al fatto di aver lavorato in gioventù nella bottega di un fabbro.
14 Il calco della statua di Pasquino attualmente non è visibile, perché occultato da un pannello riservato alle mostre temporanee.
15 Ettore Roesler Franz, pittore romano famoso per aver realizzato la serie di 120 acquerelli denominata dall’autore Roma pittoresca. Memorie di un’era che passa. Attualmente le
opere sono 119 a causa della sparizione dell’acquerello Via della Longaretta all’angolo di Via
in Piscinula – Il Palazzo Mattei a sinistra (1886), avvenuta nel 1966 durante una esposizione
a Colonia, in Germania. Oggi l’intera serie fa parte della collezione del Museo di Roma in
Trastevere dove viene esposta a rotazione per motivi conservativi.
Un petit coin de Paris
23
Fig. 14. A. Trojani, Interno di un forno, olio su tela, 1844.
Fig. 15. E. Roesler Franz, Il palazzo di Bindo Altoviti, presso il Ponte S. Angelo, acquerello,
1882.
24
donaTella occhiuzzi
tembre del 2000 con la nuova denominazione di Museo di Roma in
Trastevere.
A questo punto, prima di procedere oltre, è necessario fare un piccolo
passo indietro e tornare agli anni di chiusura del Museo del folklore, quelli dal 1997 al 2000. In questo periodo l’allora amministrazione capitolina
decide di affidare a una commissione di esperti, composta da docenti di
antropologia culturale, docenti di letteratura romanesca, direttori di musei e altri esperti della materia, la realizzazione di un progetto scientifico
adeguato ai nuovi criteri museografici in grado di rafforzare l’identità del
museo in senso demoetnoantropologico. Dopo mesi di lavoro la commissione consegnò il progetto scientifico, a cui però non fu mai dato seguito.
Comunque nel 2000, apparentemente senza un progetto chiaro per
il futuro (o forse sì?), il museo riapre con la nuova denominazione di
Museo di Roma in Trastevere.
La prima mostra allestita è dedicata al regista Luigi Magni nel tentativo,
rivelatosi poi impraticabile, di trasformare il Museo di Roma in Trastevere in un museo vocato al cinema. Da quel momento, con l’avvicendarsi
di varie figure dirigenziali, si è assistito a una progressiva riduzione degli
spazi espositivi storicamente riservati alla collezione a beneficio di mostre
temporanee, per lo più fotografiche, non sempre all’altezza dell’istituzione ospitante né tanto meno coerenti con le tematiche rappresentate nella
sempre più ridotta collezione.
Nel 1997 anche la rivisitazione dello studio del poeta romano, fino ad
allora ospitato nei locali dell’ex stenditoio del convento, è stata smantellata
per motivi di conservazione dei materiali e per la difficoltà di adeguare gli
spazi espositivi alle nuove normative di sicurezza. In questa occasione è
stato ripensato anche l’allestimento dello studio del poeta, con criteri museografici più avanzati e con l’aiuto delle moderne tecnologie. Lo spazio
individuato si trova al primo piano del Museo ed è stato ottenuto sacrificando una della Scene romane, La portantina, ritenuta la meno significativa dal punto di vista della rappresentazione delle tradizioni popolari
romane.16
Il nuovo allestimento della sala prevede una mensola che corre lungo le
pareti, sulla quale è esposta una selezione di oggetti dello Studio scelti tra
i più curiosi e significativi come per esempio un portabevande a forma di
uovo con le zampe di gallina, bacheche che illustrano cicli di vita vegetale
costruite dallo stesso Trilussa, figure del presepe settecentesco napoletano,
un vaso con cervi di Duilio Cambellotti, un putto di legno dorato dono
16 La Scena romana della Portantina, realizzata nel 1952 per l’allestimento di Palazzo Braschi, rappresenta una elegante signora romana in procinto di venire trasportata in portantina
da valletti in livrea.
Un petit coin de Paris
Figg. 16-17. Stanza di Trilussa, Museo di Roma in Trastevere, 2004.
25
26
donaTella occhiuzzi
di Eduardo De Filippo ecc. Alle pareti sono esposti quadri di autori come
Isaia Ederli, Pio Pullini, Antonio Cannata, mentre una videoinstallazione
proietta su quattro punti diversi delle pareti quadri animati, all’interno dei
quali scorrono oggetti, fotografie, lettere, cartoline, giornali, disegni e filmati. La Stanza di Trilussa – questo è il nome dato al nuovo spazio espositivo – è stata realizzata in collaborazione con Studio Azzurro Produzioni
che ne ha ideato il progetto, attuato insieme ai funzionari demoantropologi del museo. Attualmente la videoinstallazione non è funzionante per
motivi tecnici di difficile soluzione e per questo la direzione del museo è
intenzionata a ripensare nuovamente all’allestimento della Stanza di Trilussa per restituirla al più presto alla cittadinanza.
Il materiale dello Studio Trilussa in possesso del Museo di Roma in
Trastevere non è tutto ciò che si trovava nell’abitazione del poeta. Infatti, quando il Comune di Roma accetta dalla Società Fono-Roma la donazione di tutto il contenuto dello Studio, sono già passati alcuni anni
dalla morte del poeta, anni in cui molti oggetti e documenti sono andati
dispersi. Il contenuto originario dello studio non è quindi integro, ma la
collezione comunale conta comunque su un cospicuo numero di quadri,
cimeli, suppellettili, mobili, libri della biblioteca e l’archivio personale del
poeta, comprendente fotografie e documenti cartacei, conservato e ordinato in primis dalla convivente e poetessa Rosa Tomei, la donna che con
grande dedizione gli è stata accanto negli ultimi venti anni della sua vita.17
Attualmente, a parte la piccola selezione di oggetti e dipinti esposta
nella Stanza di Trilussa, il corpus più consistente dello Studio è conservato in uno dei depositi comunali in attesa della schedatura scientifica e
di una opportuna valorizzazione. Sembra ovvio che la scelta migliore per
lo Studio Trilussa doveva essere quella di una immediata musealizzazione come casa d’artista, come è accaduto per il Vittoriale degli italiani di
Gabriele D’Annunzio a Gardone Riviera. Se questo non si è verificato, i
motivi sono molteplici, alcuni fondati, altri meno. Un ruolo importante
è da attribuire alla cultura dell’epoca, impregnata di maschilismo in tutte
le classi sociali. La conseguenza di questa mentalità fu che Rosa Tomei
venne denigrata, osteggiata e infine lasciata sola a difendere la volontà
del Maestro di fare della casa-studio un museo e un laboratorio di poesia
a lei affidato. Un ruolo importante lo ebbero anche le competizioni e le
invidie di critici, intellettuali, studiosi e sedicenti amici di Trilussa, che
prima hanno difeso il progetto della musealizzazione poi lo hanno abbandonato per una qualche loro convenienza, lasciando Rosa e lo studio
al loro destino. Anche i motivi economici ebbero il loro peso: tra questi
17 Per approfondire l’argomento si veda S. Marafini, Rosa Tomei. La storia vera e le poesie della donna di Trilussa, Aracne, Ariccia (RM), 2014.
Un petit coin de Paris
27
Fig. 18. Autore non identificato, Trilussa e Rosa Tomei nello studio di via Maria Adelaide, gelatina al bromuro d’argento, 1940.
figurano gli oneri derivanti dalla conservazione dei materiali, molti dei
quali facilmente deteriorabili. In tutto ciò una cosa è certa: è mancata la
volontà politica delle istituzioni chiamate a vario titolo alla tutela, alla
conservazione e alla valorizzazione di un prezioso spazio di cultura e di
memoria, unico e irripetibile, ormai perso per sempre. Per concludere
l’augurio è che almeno al Museo di Roma in Trastevere lo Studio Trilussa
possa continuare ad esistere in qualche forma, per ricordare ai visitatori
un poeta straordinariamente attuale che ha saputo denunciare attraverso
l’arte della parola i mali del suo tempo; mali che, purtroppo, continuano
ad esistere anche nel mondo contemporaneo.
il 996 – Rivista del Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli
ISSN 1826-8234
anno XX – numero 3 – settembre-dicembre 2022 – pp. 29-46
Costruire un dialogo che attraversa lo spazio
e il tempo
La traduzione in cinese delle Desgrazzi de Giovannin Bongee
di Lisi Feng
1. Introduzione
Italy possesses two literary canons, one in the Tuscan language and the
other made up of the various dialects of its many regions […]. Apart from
a few well-established success stories of dialect literature – such as those
of Carlo Porta and Giuseppe Gioachino Belli, Giovan Battista Basile and
Carlo Maria Maggi, Salvatore Di Giacomo and Eduardo De Filippo –
only more recently has dialect literature begun to be included in Italian
literary and linguistic histories and anthologies and have critical editions
of dialect works been published more succinctly.1
Il linguaggio può costruire e rivelare la propria percezione del mondo e il dialetto è lo strumento più efficace per esprimere emozioni interiori e riflettere le varie sfumature dell’esperienza umana. Per questo
motivo, anche la letteratura dialettale, elemento da non sottovalutare
al giorno di oggi, dovrebbe viaggiare in tutto il mondo, come già fanno molti classici toscani. Tuttavia, esiste un grosso ostacolo da superare per favorirne la diffusione: la traduzione. Come afferma Landers
Clifford, studioso con una vasta conoscenza della pratica e della teoria
traduttologica, nella frase conclusiva del suo The dilemma of dialect,
«The best advice about trying to translate dialect: don’t».2 Infatti, i
dialetti sono indissolubilmente legati al tempo e allo spazio, quindi è
facile suscitare nei lettori una sensazione distorta, dal momento che
ciò che sarebbe dovuto accadere in un determinato luogo o ciò che
una certa persona ha detto è stato spostato in un altro tempo e spazio.
Nonostante ciò, per quanto impegnativo, i traduttori, pur nella consapevolezza dell’“assoluta intraducibilità”, dovrebbero ricorrere a tutti i
1
H.W. Haller, The Other Italy: The Literary Canon in Dialect, Toronto, University of
Toronto Press, 1999, pp. 3-5.
2
C.E. Landers, Literary Translation, Bristol, Multilingual Matters, 2001.
Lisi Feng
30
mezzi a loro disposizione e sfidare la “relativa traducibilità”. Partendo da questa riflessione, si può dire che la traduzione in 13 lingue del
rappresentativo poemetto dialettale del Porta Desgrazzi de Giovannin
Bongee, promossa dal Comitato Nazionale per le celebrazioni del bicentenario della morte di Porta e curata dal professor Mauro Novelli,3
costituisca indubbiamente una pietra miliare.
2. Tradurre in dialetto o in lingua comune?
«With the rise in interest for popular culture and folklore during the
age of Romanticism, dialect poetry became more prevalent throughout
the peninsula. Milan was among the dominant cultural centers, and
also the city of Carlo Porta’s poetic world».4 Il suo capolavoro Desgrazzi de Giovannin Bongee è un monologo narrativo scritto nei primi mesi del 1812, in cui un cittadino milanese, il povero Giovannin,
racconta due casi di sopruso da lui subiti, il primo da parte di una pattuglia della Guardia Nazionale e il secondo da parte di un prepotente
militare francese. Dietro l’ironia dei dialoghi comici, emergono le ingiustizie sociali che opprimevano le persone comuni all’epoca. Essendo un poemetto dialettale, senza una relativa traduzione, le Desgrazzi
de Giovannin Bongee risulterebbero inaccessibili per la quasi totalità
dei lettori della lingua di destinazione. Come traduttrice dell’opera in
lingua cinese,5 è per me un piacere condividere il risultato finale e presentare direttamente le modalità in cui si è concretizzato tale dialogo
che attraversa la distanza temporale e culturale.
Carlo Porta non è un autore che scrive occasionalmente in dialetto,
è un poeta del popolo, che utilizza volutamente il dialetto per portare alla luce un determinato gruppo sociale che spesso viene considerato
marginale e subalterno. «With Porta the dialect became a genuine language of realism and of reality».6 È per questo motivo che, ai fini della
traduzione in cinese, diventa fondamentale rispondere preliminarmente
alla seguente domanda: bisogna rendere l’opera nel cinese standard, ovvero in putonghua (letteralmente lingua comune), o in dialetto?
Ai fini della divulgazione, entrambe le strategie hanno i loro meriti:
la prima si rivolge a un pubblico più ampio, mentre la seconda rappre3
C. Porta, Desgrazzi de Giovannin Bongee tradotte in 13 lingue, a c. di M. Novelli,
Milano, Regione Lombardia - Direzione Generale Autonomia e Cultura, 2021.
4
Haller, The Other Italy, cit., p. 29.
5
La traduzione integrale in lingua cinese viene riportata in appendice.
6
Haller, The Other Italy, cit., p. 29.
La traduzione in cinese delle Desgrazzi de Giovannin Bongee
31
senta meglio le voci e i pensieri di un particolare gruppo. In termini di
teoria traduttologica, ci sono numerosi studi che si sono concentrati
sulla letteratura dialettale e sulla loro traduzione, ad esempio quelli di
Luigi Bonaffini, noto traduttore e studioso di poesia italiana, il quale,
interrogandosi sulla traduzione delle opere dialettali, ha affermato che
il problema del dialetto in Italia è senz’altro molto più vistoso che in
qualsiasi altro Paese occidentale.7 In merito alla traduzione dei dialetti nelle lingue standard, Leppihalme ha indagato il problema della
traduzione dei romanzi finlandesi e ha proposto in modo innovativo: «standardization is not necessarily only negative in its results, as
target readers may be more interested in other aspects of the target
text than its linguistic identity».8 Landers ha dedicato un capitolo del
suo Literary Translation alla questione della traduzione dei dialetti,
dove sostiene «No dialect travels well in translation».9 La traduzione
diretta da dialetto a dialetto è un approccio raramente suggerito e ci
sono pochi studi e teorie su questo aspetto. Tra questi appare degno
di nota l’articolo di Briguglia, che utilizza un approccio funzionalista
per esplorare la traduzione di opere dialettali italiane in catalano e
spagnolo standard.10
Tenendo in considerazione i fattori di cui sopra, è stato perciò scelto
un metodo di compromesso, ovvero la traduzione nella lingua comune, cioè il putonghua, condito di alcuni vocaboli, espressioni dialettali,
sulla base del testo tradotto in italiano dal professor Mauro Novelli.11 Tale decisione ha dunque imposto una riflessione in merito a quale
dei vari dialetti cinesi fosse il più appropriato. Per rispondere a questo
interrogativo occorre tenere presenti due aspetti. Da un lato, vi è da
considerare la questione dello stile della poesia. Il traduttore dovrebbe
adattarsi allo stile dell’autore e prestare sempre massima attenzione al
prototesto quando le circostanze lo consentono. Per spiegare lo stile
della scrittura di Porta, ricorro ai versi di Delio Tessa, poeta milanese che scrisse un testo intitolato A Carlo Porta: «contra i melanconij,
contra i magon / rezipe, el me zion, / rezipe i rimm del Porta» (Contro le malinconie, contro gli affanni recipe, caro zione, recipe le rime
7
L. Bonaffini, Traditori in provincia. Appunti sulla traduzione dal dialetto, in «Italica»,
2 (1995), p. 209.
8
R. Leppihalme, The two faces of standardization: On the translation of regionalisms in
literary dialogue, in «The Translator», 2 (2000), pp. 247-69.
9
Landers, Literary Translation, cit., p. 117.
10 C. Briguglia, Riflessioni intorno alla traduzione del dialetto in letteratura. Interpretare e rendere le funzioni del linguaggio di Andrea Camilleri in spagnolo ed in catalano, in
«Intralinea. Online Translation Journal», xi (2009).
11 Desgrazzi de Giovannin Bongee tradotte in 13 lingue, cit., pp. 30-41.
Lisi Feng
32
del Porta). Per lo più, «the literary lombard line (a category which is
to be understood in a broad sense, not coinciding perfectly with the
geographical area) confirms – in dialect as well as in Italian – its fundamental inclination toward a poetry of things, veined with a plurality
of humors and inhabited by more or less precisely delineated objects,
figures, or characters».12 Dato che la lingua del testo di partenza è caratterizzata da un tono quotidiano e comico, è stato scelto il dialetto di
Chongqing, appartenente alla famiglia dei dialetti sud-occidentali, che
è flessibile e vario nella forma, breve, conciso e può suonare comico a
chi non lo parla. Inoltre, l’ampia diffusione del dialetto di Chongqing
(grazie al gran numero di opere cinematografiche e televisive girate in
città negli ultimi anni) compensa in qualche modo il fatto che esso sia
un dialetto locale non parlato dai sinofoni originari da altre regioni.
Dall’altro lato, oltre alle caratteristiche comiche del dialetto di Chongqing che lo rendono adatto al tono narrativo generale di quest’opera, il
secondo aspetto da tenere in considerazione sono i requisiti del lavoro
di traduzione dialettale richiesti al traduttore. Rendere le peculiarità da
cui si può dedurre l’affiliazione dialettale in un testo di provenienza rappresenta una sfida enorme per i traduttori. «Clearly, the more familiar
the translator is with the SL [source language] dialects, the better».13 Ci
sono argomenti, anche se ci sono molti controesempi, secondo cui si
dovrebbe sempre tradurre nella propria lingua madre. Il traduttore potrebbe essere criticato per non avere familiarità con il dialetto del testo
di partenza, per questo, appare opportuno che egli sia familiare almeno
con la lingua del metatesto, altrimenti potrebbe essere difficile realizzare
un dialogo tra l’originale e la versione tradotta. Anche questo è uno dei
motivi per cui ho scelto il dialetto di Chongqing, il mio dialetto.
3. Registro
L’obiettivo di questo articolo è condividere l’esperienza della traduzione piuttosto che discutere di teoria, per questo motivo si intende ora
analizzare alcuni casi pratici dal punto di vista della lingua, della cultura
e della comunicazione. Calvino nel suo articolo L’Italiano, una lingua
tra le altre lingue afferma che «chi scrive per comunicazione dovrebbe
rendersi continuamente conto del grado di traducibilità, cioè di comu12 Dialect Poetry of Northern & Central Italy: Texts and Criticism (a Trilingual Anthology), a c. di L. Bonaffini e A. Serrao, New York, Legas, 2001, p. 183.
13 Landers, Literary Translation, cit., p. 112.
La traduzione in cinese delle Desgrazzi de Giovannin Bongee
33
nicabilità, delle espressioni che usa».14 In qualsiasi lingua, praticamente
ogni espressione, e spesso ogni parola isolata, trasmette un insieme di
associazioni che vanno oltre la denotazione letterale delle parole stesse
e per questo in traduttologia si preferisce parlare di traduzione di testi
più che di traduzione di parole. Prima di analizzare la denotazione delle
parole, occorre quindi pensare al problema del registro nel suo insieme.
Dal punto di vista della linguistica generale, nella Cambridge encyclopedia of language, David Crystal definisce il registro come una «varietà
sociale definita di linguaggio».15 Perciò, in linea generale, nella traduzione cinese di questa poesia ci si è serviti di un tono narrativo colloquiale. Dal punto di vista sociolinguistico, i dialetti regionali forniscono
informazioni sulla propria associazione con una particolare regione16 e
le varietà della lingua possono essere considerate come dialetti di classe;
questo è ciò a cui si fa riferimento con il termine ‘sociolect’.17 Per questo
le parole scelte per la traduzione devono essere in grado di trasmettere
sia l’appartenenza geografica e sia quella di classe sociale, in questo caso
quella popolare.
L’adozione della lingua comune integrata con espressioni del dialetto di Chongqing è apparsa funzionale anche sotto questo aspetto. Tale
scelta infatti permette ai lettori modelli del metatesto, ossia i sinofoni
in generale, sia di comprendere il significato del testo, sia di intuire la
provenienza sociale dei diversi personaggi, comprendendo il fatto che
lo scopo della scrittura di Porta è parlare alle persone che si trovano in
fondo alla gerarchia sociale.
Prima di entrare nei dettagli e negli esempi, è necessario introdurre
la dominante del prototesto. Il pometto è stato tradotto dall’italiano,
tenendo però sempre presente la versione originale in dialetto. È stata
privilegiata l’accuratezza nella trasmissione del significato del testo
originale, per evitare quello che in cinese viene definito ‘yinyunhaiyi
因韵害意’, ossia ‘perdere il significato a causa della rima’. Perciò si è
optato per la forma della prosa, invece che di quella della poesia. Il poemetto è composto da 138 versi e la conservazione totale della rima per
14 I. Calvino, L’italiano, una lingua tra le altre lingue, in ID., Saggi (1945-1985), a c. di M.
Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, pp. 146-153.
15 D. Crystal, The Cambridge Encyclopedia of Language David Crystal, Cambridge,
Cambridge University Press, 1987.
16 M.T. Sánchez, Literary Dialectal Texts and their Problems of Translation, in «Livius»,
8 (1996), p. 185.
17 I sociolect sono definiti come «varietà linguistiche tipiche degli ampi raggruppamenti che insieme costituiscono la “struttura di classe” di una data società», cfr. S.G. Hervey,
I. Higgins, L.M. Haywood, Thinking Spanish translation: teachers’ handbook, London,
Routledge, 1995, p. 113.
Lisi Feng
34
ogni verso avrebbe comportato il rischio di modificare eccessivamente
la struttura e il significato del testo. Inoltre, anche il prototesto da cui si
è partito non ha mantenuto le rime del testo di partenza. D’altra parte,
anche per la traduzione cinese di un testo importante come La divina
commedia, negli ultimi decenni si è optato nella maggior parte dei casi
per una resa in prosa.18
4. Elementi dialettali lessicali e forma di cortesia
Passando ora al livello lessicale, un esempio di come si è interpretato il lavoro di traduzione è costituito dalla parola ‘fischiettare’: in putonghua questo termine sarebbe ‘口哨’ (koushao) (letteralmente: bocca
+ suono acuto), ma qui è tradotto come ‘叫叫’ (jiaojiao), ossia emettere
un suono. La scelta è caduta su questo ultimo termine dal momento che esso appartiene al vocabolario quotidiano della popolazione di
Chongqing, quindi di parlanti non standard. Oltre a ciò, le ripetute
combinazioni vocali ‘iao’ aggiungono musicalità alla poesia. Tale scelta
motivata dalla musicalità è valida solo in questo caso e non per tutto il
poemetto. Come già detto, infatti, per garantire l’accurata trasmissione
del significato e del registro non è stata adottata una strategia generale
per ritmo e assonanze. Esempio:19
v. 9
ziffoland de per mì
fischiettando tra me e me
心里头吹着叫叫
xinlitou chuizhe jiaojiao
C’è anche un’altra strategia di traduzione che è degna di attenzione:
la forma di cortesia. Nella maggior parte nelle varianti linguistiche della Cina sud-occidentale generalmente non esiste l’espressione di cortesia ‘Lei’, nonostante in putonghua esista ‘Nin 您 (letteralmente: Lei)’.
Nel dialetto di Chongqing, quando si vuole mostrare rispetto all’interlocutore, di solito si adotta la combinazione espressiva ‘appellativo
professionale + tu’. Esempio:
18 Cfr. A. Brezzi, La Divina Commedia dall’Italia alla Cina, in La Letteratura Italiana
in Cina, Roma, Tielle Media, 2008, pp. 217-37.
19 In tutti gli esempi di questo articolo, la prima riga è il testo originale dialetto, la seconda
riga è la sua resa l’italiano, la terza riga è traduzione in cinese, mentre la quarta è la corrispondente trascrizione in pinyin (il sistema fonologico del cinese).
La traduzione in cinese delle Desgrazzi de Giovannin Bongee
35
v. 36
Ghe giontaravel fors quaj coss de sò?
Ci perderebbe forse qualche cosa del suo?
碍着检查员你什么事了吗?
Aizhe jianchayuan ni shenme shi le ma?
Nel presente lavoro di traduzione, la forma di cortesia è stata sostituita da ‘Jianchayuan ni…检查员你… (Ispettore tu…)’ (v. 36, v. 57)
oppure ‘Jianchayuan xiansheng ni… 检查员先生你… (Signor ispettore tu…)’ (v. 34).
5. Espressioni retoriche
Nella disciplina degli studi di traduzione, le espressioni retoriche
come la metafora e la similitudine sono considerate elementi tipici della
comunicazione; allo stesso tempo, esse rappresentano una sfida per la
traduzione, poiché il trasferimento da una lingua e cultura all’altra può
essere ostacolato da differenze.20 Nella letteratura sulla traduzione,
le due questioni principali sono state, in primo luogo, la traducibilità
delle figure retoriche e, in secondo luogo, l’elaborazione di potenziali
procedure traduttive. Al riguardo, sono state suggerite numerose procedure di traduzione per affrontare questo problema, ad esempio sostituzione, parafrasi o cancellazione. Seguono alcuni esempi per spiegare
come queste modalità sono state utilizzate per la traduzione in cinese
del testo del Porta.
1) Sostituzione
v. 6
stracch come on asen
stanco come un asino
我累得像头牛一样
wo lei de xiang tou niu yiyang
Sebbene anche nella cultura cinese la figura dell’asino possa essere
utilizzata per indicare un grande lavoratore, questa è molto meno comune del bue. Il vecchio bue giallo che ara la terra è un’immagine impressa nell’immaginario collettivo che rappresenta i laboriosi lavoratori.
20
C. Schäffner, Metaphor and translation: some implications of a cognitive approach, «Journal of pragmatics», 7 (2004), pp. 1253-69 (https://doi.org/10.1016/j.pragma.2003.10.012).
Lisi Feng
36
Quindi qui nella connessione tra l’idea mentale (uno stanco lavoratore)
e l’immagine corrispettiva (l’asino), a seconda delle sfumature della cultura di fondo, si è scambiato l’asino con il bue. Wo lei de xiang tou niu
yiyang 我累得像头牛一样 ‘Sono stanco come un bue’ (v. 6).
La stessa strategia di sostituzione viene applicata nei seguenti due
esempi:
vv. 61-62:
quest chì l’è anmò on sorbett,
l’è on zuccher fioretton
questo è ancora un sorbetto,
uno zucchero squisito
这还像令人愉悦的蜂蜜,
像美味的糖
zhe hai xiang lingren yuyue de fengmi
xiang meiwei de tang
Nella cultura della lingua di destinazione il termine ‘sorbetto’ non
è associato a uno stato d’animo meravigliosamente piacevole, quindi è
stato adottato il suo equivalente fengmi 蜂蜜 (miele). Al contrario, il
termine ‘zucchero’ è stato conservato, perché usato metaforicamente per
esprimere lo stesso significato anche in cinese. Nella traduzione inglese,
i due termini nella metafora in questione ‘sorbetto’ e ‘zucchero’ sono
semplificati insieme e sostituiti da una frase, ovvero ‘a tasty appetizer’.
v. 60:
el me pienta lì come on salamm
mi pianta lì come un salame
留我像柱子一样立在那里
liu wo xiang zhuzi yiyang li zai nali
Questo esempio presenta una forte caratterizzazione della lingua
e della cultura di partenza: ‘salame’ è stato sostituito con ‘柱子 zhuzi’
(palo), come si suol dire nella lingua di arrivo, ‘dai de xiang ge zhuzi
yiyang 呆得像个柱子一样 (fermo come un palo)’. Nella traduzione inglese, ‘salame’ è sostituito da ‘lemon’ (‘leaving me standing there like
a lemon’). Per questo caso erano state prese in considerazione anche
altre due strategie traduttive: una era la trascrizione fonetica della parola salame in cinese con salami 萨拉米, aggiungendo poi una nota
per spiegare che si riferisce alle salsicce; l’altra era invece la traduzione
direttamente in ‘xiangchang 香肠’ (salsiccia cinese), aggiungendo la pa-
La traduzione in cinese delle Desgrazzi de Giovannin Bongee
37
rafrasi per indicare il suo significato ‘rimanere stupefatti, senza parole, come immobilizzati dallo sbalordimento’. Dal momento che esiste
un’espressione metaforica equivalente in cinese, sostituendo ‘salsiccia’
con ‘palo’, si è voluto minimizzare la sensazione di estraneità del lettore. Anche in altre situazioni simili si è stata principalmente adottata
la scelta della ‘sostituzione’, che è anche in linea con la dominante del
prototesto. Nel presente caso è quindi stata scelta la sostituzione per
mantenere l’efficacia del termine tramite un’addomesticazione.
2) Parafrasi
v. 66:
hin pront come la tavola di ost
sono pronte come la tavola degli osti
就像随时准备好给客人上菜的餐桌一样
jiu xiang suishi zhunbei hao gei keren shangcai de canzhu yiyang
Questo è un passaggio di collegamento tra due scene del poemetto:
dopo essere stato sgarbatamente interrogato dalla Guardia Nazionale,
Giovannin racconta al lettore di essere andato incontro a cose ancora
peggiori, come una tempesta che arriva da un momento all’altro, ‘pronte
come la tavola degli osti’. Come si può vedere, la traduzione appare relativamente più lunga dell’originale, dal momento che sono state aggiunte
nuove informazioni. Questa è infatti un’espressione di cui è difficile trovare un equivalente in grado di sostituirla nella lingua d’arrivo; si è per
questo motivo optato per un’altra strategia di traduzione: la parafrasi. Le
informazioni aggiunte servono a spiegare ulteriormente che tipo di tavola è: gei keren shangcai de can zhuo (la tavola al servizio degli ospiti).
La terza strategia sopra menzionata, la cancellazione non è stata
adottata nel presente lavoro.
6. Elementi culturali equivalenti
Oltre alla sostituzione e alla parafrasi, c’è anche un altro fenomeno
particolarmente gradito ai lettori, cioè l’esistenza delle espressioni
equivalenti in entrambe le culture. Questa condizione rappresenta una
barriera di trasmissione culturale minima. Di seguito, sono indicati alcuni esempi specifici, come la rappresentazione del leone:
v. 131:
e mì sott cont on anem de lion
Lisi Feng
38
e io sotto con un animo da leone
我内心里可住着一头狮子
wo neixin li ke zhuzhe yi tou shizi
Questo è il culmine della seconda scena, leggendo questo verso i
lettori si accorgono dello «scarto fra il coraggio leonino millantato dal
Bongee e la codardia delle sue azioni».21
v. 37:
Me par d’avegh parlaa de fioeu polid
Mi pare di avergli parlato da bravo figliolo
我觉得我已经像个乖儿子一样回答他了
Wo juede wo yijing xiang ge guai erzi yiyang huida ta le
Questa affermazione è esattamente la stessa della cultura cinese: Guai
erzi 乖儿子(bravo figliolo) sta infatti ad indicare una persona sottomessa
a qualcun altro di posizione superiore. La resa inglese ha invece preferito
una strategia alternativa, usando l’espressione I don’t think that’s being
cheeky. La traduzione è come una lente multifunzionale, attraverso tale
processo si possono esplorare le somiglianze e le differenze da una lingua e da una cultura all’altra e le possibilità per una loro comunicazione.
7. Punteggiatura
Un’altra grande differenza tra il cinese e l’italiano consiste nell’uso
dei segni di punteggiatura. Nella lingua cinese, una lunga catena di periodi viene separata spesso con la semplice virgola; lo stesso uso della
virgola, invece, in italiano potrebbe far risultare non chiari i nessi logici. Di conseguenza, si deve modificare la punteggiatura per garantire la
chiarezza e la scorrevolezza del testo d’arrivo. Inoltre, bisogna anche
tener conto che l’equivalenza tra segni interpuntivi tra italiano e cinese
è resa ancora più difficile dal fatto che il prototesto è in versi e il metatesto in prosa. Un esempio:
vv. 10-12
e quand sont lì al canton dove che stà
quell pessee che gh’ha foeura i bej oliv
me senti tutt a on bott a dì: chi viv?
21
Desgrazzi de Giovannin Bongee tradotte in 13 lingue, cit., p. 25.
La traduzione in cinese delle Desgrazzi de Giovannin Bongee
39
e quando arrivo lì all’angolo dove sta
quel droghiere che ha fuori le belle olive
tutt’a u tratto mi sento dire: «Chi va là?»
拐弯时,在卖高档橄榄的杂货店门口,突然听到有人问:“你是哪
个?”
guai wan shi, zai mai gaodang ganlan de zahuodian menkou, turan tingdao youren wen: ni shi nage?
Osservando questi esempi, si può notare che ci sono due differenze
principali nell’uso della punteggiatura: la prima è che è stata aggiunta una virgola davanti alla congiunzione con valore relativo dove; la
seconda è che la citazione della conversazione è posta tra virgolette
doppie, dal momento che le virgolette caporali non esistono fra i segni
di punteggiatura cinese.
Oltre alla funzione sopra menzionata, le virgolette doppie possono
anche esprimere significati speciali o opposti alla situazione reale, ad
esempio sottolineare il tono dell’ironia. Poiché l’ironia è strettamente
legata alla cultura e ai costumi sociali dei vari Paesi, al fine di facilitare
la comprensione dei lettori della lingua di destinazione, nei tre esempi
seguenti, le espressioni ‘franchezza’, ‘po’ po’’ e ‘pochi’ sono state messe
fra virgolette doppie. Qualche esempio:
v. 58:
Fussel mò la franchezza mia de mì
Fosse ora la mia franchezza
也许是我如此“耿直”的回答
Yexu shi wo ruci “gengzhi” de huida
v. 67:
Dopo sto pocch viorin
Dopo questo po’ po’ di accidente
经历了这么点“小事”之后
Jingli le zheme dian “xiaoshi” zhihou
v. 96:
De quij pocch ch’el s’è tolt sulla conscienza
di quei pochi peccati che si è preso sulla coscienza
他良心犯下的那 “寥寥无几”的罪
ta liangxin fanxia de na “liaoliaowuji” de zui
Lisi Feng
40
8. Conclusione
La traduzione della letteratura dialettale è un argomento degno di
costante attenzione. Di fronte alle sfide che questa pone, la traduzione in cinese standard arricchita da elementi del dialetto di Chongqing
è stato un tentativo coraggioso di rendere accessibile il poemetto del
Porta al pubblico sinofono, gettando così le basi di un dialogo tra autore e pubblico cinese che attraversa lo spazio e il tempo. Il presente
contributo ha illustrato le motivazioni che hanno determinato le scelte
compiute sul piano stilistico, lessicale e formale, per tentare di animare
la versione cinese di quello spirito che ha reso le Desgrazzi de Giovannin Bongee un poemetto profondamente amato dai milanesi dell’epoca
e una fra le opere più famose del Porta. Dopo la pubblicazione della
traduzione in tredici lingue di tale opera, promossa dal Comitato Nazionale per le celebrazioni del bicentenario della sua morte, Carlo Porta appare oggi più vicino sia ai lettori italiani d’oggi sia ai lettori cinesi.
Appendice
Desgrazzi de Giovannin Bongee
Deggià, Lustrissem, che semm sul descors
de quij prepotentoni de Frances,
ch’el senta on poo mò adess cossa m’è occors
jer sira in tra i noeuv e mezza e i des,
giust in quell’ora che vegneva via
sloffi e stracch come on asen de bottia.
Seva in contraa de Santa Margaritta
e andava inscì bell bell come se fa
ziffoland de per mì sulla mia dritta,
e quand sont lì al canton dove che stà
quell pessee che gh’ha foeura i bej oliv
me senti tutt a on bott a dì: Chi viv?
Vardi innanz, e hoo capii dall’infilera
di cardon e dal streppet di sciavatt
che seva daa in la rondena, e che l’era
la rondena senz’olter di Crovatt;
e mì, vedend la rondena che ven,
fermem lì senza moeuvem: vala ben?
5
10
15
41
La traduzione in cinese delle Desgrazzi de Giovannin Bongee
Quand m’hin adoss che asquas m’usmen el fiaa,
el primm de tutt, che l’eva el tamborin,
traccheta! sto asnon porch del Monferaa
el me sbaratta in faccia el lanternin
e el me fa vedè a on bott sô, luna, stell,
a ris’c de innorbimm lì come on franguell.
Seva tanto dannaa de quella azion
che dininguarda s’el fudess staa on olter.
Basta: on scior ch’eva impari a sto birbon,
ch’el sarà staa el sur respettor senz’olter,
dopo avemm ben lumaa, el me dis: Chi siete?
Che mester fate? Indove andé? Dicete!
Chi sont?, respondi franco, in dove voo?
Sont galantomm e voo per el fatt mè;
intuitù poeu del mestee che foo,
ghe ven quaj cossa de vorell savè?
Foo el cavalier, vivi d’entrada, e mò!
ghe giontaravel fors quaj coss del sò?
Me par d’avegh parlaa de fioeu polid,
n’eel vera? Eppur fudessel ch’el gh’avess
ona gran volentaa de taccà lid,
o che in quell dì gh’andass tusscoss in sbiess,
el me fa sercià sù de vott o des
e lì el me sonna on bon felipp de pes.
Hoo faa mì dò o trè voeult per rebeccamm
tant per respondegh anca mì quajcoss,
ma lu el torna de capp a interrogamm
in nomo della legge, e el solta el foss,
e in nomo della legge, già se sa,
sansessia, vala ben?, boeugna parlà.
E lì botta e resposta, e via d’incant;
Chi siete? Giovannin. La parentella?
Bongee. Che mester fate? El lavorant
de frust. Presso de chi? De Isepp Gabella.
In dovè? In dì Tegnon. Vee a spass? Voo al cobbi.
In cà de voi? Sursì. Dovè? Al Carrobbi.
Al Carrobbi! In che porta? Del piattee.
Al numer? Vottcent vott. Pian? Terz, e inscì?
El sattisfaa mò adess, ghe n’hal assee?
Fussel mò la franchezza mia de mì,
20
25
30
35
40
45
50
55
Lisi Feng
42
o ch’el gh’avess pù nient de domandamm,
el va, e el me pienta lì come on salamm.
Ah, Lustrissem, quest chì l’è anmò on sorbett,
l’è on zuccher fioretton resguard al rest;
el sentirà mò adess el bel casett
che gh’eva pareggiaa depôs a quest.
Proppi vera, Lustrissem, che i battost
hin pront come la tavola di ost.
Dopo sto pocch viorin, gris come on sciatt
corri a cà che nè vedi nanch la straa,
foo per dervì el portell, e el troeuvi on tratt
nient olter che avert e sbarattaa…
Stà a vedè, dighi subet, che anca chì
gh’è ona gabola anmò contra de mì.
Magara inscì el fudess staa on terna al lott,
che almanch sta voeulta ghe lassava el segn!
Voo dent.. ciappi la scara… stoo lì on bott,
doo a ment… e senti in suj basij de legn
dessora inscimma arent al spazzacà
come sarav on sciabel a soltà.
Mì a bon cunt saldo lì: fermem del pè
della scara… e denanz de ris’cià on pien
col fidamm a andà sù, sbraggi: Chi l’è?
Coss’en disel, Lustrissem, vala ben?
A cercà rogna inscì per spassass via
al dì d’incoeu s’è a temp anch quand se sia.
Intant nessun respond, e sto tricch tracch
el cress, anzi el va adree a vegnì debass…
Ghe sonni anmò on Chi l’è pù masiacch,
ma, oh dess! l’è pesc che nè parlà coj sass;
infin poeù a quante mai sbraggi: Se pò
savè chi l’è ona voeulta, o sì o nò?
Cristo! quanti penser hoo paraa via
in quell’attem che seva adree a sbraggià!
M’è fina vegnuu in ment, Esuss Maria!
ch’el fuss el condam reficciô de cà,
ch’el compariss lì inscì a fà penitenza
de quij pocch ch’el s’è tolt sulla conscienza.
El fatt l’è ch’el fracass el cress anmò;
e senti ona pedanna oltra de quell
60
65
70
75
80
85
90
95
43
La traduzione in cinese delle Desgrazzi de Giovannin Bongee
proppi d’ona personna che ven giò;
mì allora tirem lì attacch a portell,
chè de reson, s’el se le voeur cavà,
l’ha de passà de chì, l’ha de passà.
Ghe semm nun chì al busilles: finalment
vedi al ciar della lampita de straa
a vegnimm alla contra on accident
d’on cavion frances de quij dannaa,
che inscì ai curt el me dis: Ett vô el marì
de quella famm, che stà dessora lì?
Mì, muso duro tant e quant e lu,
respondi: Ovì, ge suì moà, perchè?
Perchè, el repia, voter famm Monsù
l’è trè giolì, sacher Dieu, e me plè.
O giolì o no, ghe dighi, l’è la famm
de moà de mì, coss’hal mò de cuntamm?
S’è che moà ge voeu coccé cont ell.
Coccé, respondi, che coccé d’Egitt?
Ch’el vaga a fà coccé in Sant Raffajell,
là l’è loeugh de coccé s’el gh’ha el petitt!
Ch’el vaga foeura di cojon, che chì
no gh’è coccé che tegna. Avé capì?
Cossa dianzer ghe solta, el dis: Coman!
A moà cojon?, e el volza i man per damm.
Ovej, ch’el staga requi cont i man,
ch’el varda el fatte sò de no toccamm,
se de nò, Dia ne libra! sont capazz…
e lu in quell menter mollem on scopazz.
E voeuna e dò! Sangua de dì de nott,
che nol se slonga d’olter che ghe doo!
E lu zollem de capp on scopellott.
Vedi ch’el tend a spettasciamm el coo,
e mì sott cont on anem de lion,
e lu tonfeta! on olter scopazzon.
Ah sanguanon! A on colp de quella sort
me sont sentuu i cavij a drizzà in pee,
e se nol fudess staa che i pover mort
m’han juttaa per soa grazia a tornà indree
se no ciappi on poo d’aria, senza fall
sta voeulta foo on sparposet de cavall!
100
105
110
115
120
125
130
135
Lisi Feng
44
乔瓦尼诺·鹏杰利的不幸
Traduzione in cinese22
阁下,让我们来聊聊那些浑不讲理的法国人。请你来听一听昨晚九点
半到十点之间在我身上发生的事情。当我离开门店的时候(5),我累得
像头牛一样。
当时我在圣玛格丽特区,心里头吹着叫叫,像平常一样悠闲地走在那
里。拐弯 (10) 时,在卖高档橄榄的杂货店门口,突然听到有人问:“你
是哪个?”。
我往前面望,看到一排刺刀,听到铁钉鞋发出的声音,也就晓得我是
遭巡逻队逮到起了。这肯定是 (15) 国家警卫队的巡逻。我看到巡逻队
走过来,就呆在那儿不动。亲爱的读者阁下,到这儿我讲述得没问题
吧?
他们向我靠近,我都快闻到他们鼻子出的气了。第一个靠过来的是一
个步兵鼓手。(20) 靠!这头来自蒙费拉托的傻驴,把灯笼挥到我的脸
旁边,那灯笼光差点儿闪瞎了我的眼,就像云雀的眼睛被戳瞎一样,
我眼前恍惚间出现了星星月亮和太阳。
我被这个动作惹毛了 (25),如果他不是个士兵,我就动手了。
真是够了!毫无疑问站在这个流氓旁边的那位先生就是检查员,他仔
细打量我后说:“你是哪个?做啥子的?要去哪里?说!” (30)
我“一本正经”地回答:“我是哪个?”我要去哪里?
我是一个绅
士,去做我自己的事。至于我是做什么的,检查员先生你想知道什
么? 我是一个骑士,靠家里的财产为生。(35) 碍着检查员你什么事了
吗?”
我觉得我已经像个乖儿子一样回答他了,不是吗? 然而,他要么特别
想搞事,要么那天过得不太顺 (40),他让八到十个人把我围起来,在
那里指着我吼。
我两三次试着重振旗鼓,至少要怼点儿什么回去吧,但他又开始重
头盘问我(不给我说话的时间)(45)“以法律的名义”,他立刻接着
说,“以法律的名义”我回答到。亲爱的读者,你知道的,必须给我
说话的机会啊,对吧?
然后他像一串连珠炮似地发问:“先生你是哪个?”“乔瓦尼
诺。”“姓?”(50)“鹏杰利”“做啥子的?”“旧衣服工人。”“
22
Desgrazzi de Giovannin Bongee tradotte in 13 lingue, cit., pp. 63-66.
La traduzione in cinese delle Desgrazzi de Giovannin Bongee
老板是哪个?”“朱塞佩·加贝拉。”“在哪里?”“在特诺里
巷。”“你现在在散步吗?”“我准备回家睡觉。”“你家?”“是
的,先生。”“哪儿?”“ 在加诺比奥。”
“加诺比奥哪个位置?”“卖盘子店那儿。”(55)“门牌号?”“ 808
。”“几楼?”“四楼,然后呢?检查员你现在满意了,你问够了
吗?”也许是我如此“耿直”的回答,或者他无话可问了,他就走
了,留我像柱子一样立在那里。(60)
噢,尊敬的读者啊,与后面的事比起来,这还像令人愉悦的蜂蜜,像
美味的糖。现在,你将要听到更精彩的故事。确实如此,亲爱的读者
们,暴风雨 (65) 马上来了,就像随时准备好给客人上菜的餐桌一样。
经历了这么点“小事”之后,我紧锁眉头,脸色灰白得像癞蛤蟆一样
匆忙跑回家,甚至连路都没看,我突然打开门,看到让我惊呆了的事
情。亲爱的读者阁下,(70) 我马上就告诉你,这里还有和我过不去的
事。
如果我买彩票的话,这次至少能中个三等奖!我走进去、上楼梯,然
后楞住了。(75) 我仔细一听,在上面的木楼梯上,在顶部、在阁楼附
近,像是有一把军刀摇晃的声音。
保险起见,我停在了那里,站在楼梯下面。在迎接暴风雨 (80) 之前,
我大喊:“哪个?”。你觉得呢,尊敬的读者,我做得对吗?今天找
点麻烦来消遣一下还是来得及的。
没人回答我,只听到砰砰声 (85) 更响了些,而且声音不断向楼下靠
近……我提高嗓门,继续问那个人“是哪个啊?”哎! 真是比和石头
说话还费劲! 最后我全力吼到:“我能知道先生你是哪个吗,可不可
以?”。(90)
我的神啊!在我尖叫的那一刻,我脑子里窜过了多少猜想啊! 耶稣和
圣母啊!我想到,这该不是那个死了的房东吧! 他的灵魂以这种方式
出现在这里,为他良心犯下 (95) 的那“寥寥无几”的罪而忏悔。
嘈杂声还在变大,另外我还听到一个人下楼的脚步声。于是我走到门
口去,(100) 按道理说,如果他想跑的话,就必须经过那里。
关键时刻来了!我终于借着外面路灯的光,看到了一位该死的火热的
法国长发男人 (105),他一点儿不客套地直接问我:“你是楼上那个女
人的老公?”
我像他一样板起脸,答到:“对,是我,怎么了?” (110)“怎么
了,”他继续说:“先生,你的老婆很漂亮,上帝啊,我喜欢她。”
我对他说:“漂不漂亮又怎么样,她是我的老婆,军爷你还有什么要
说的吗?”
45
46
Lisi Feng
“我想和她上床。”(115) 我答到:“上床”,“上什么床?埃及的床
吗?麻烦你去妓院啊,在那里你可以和任何女人上床! 混蛋给我滚出
去,这里没有军爷你的床,听懂了吗?”(120)
他瞬间恶魔上身,吼到:“什么!
让我滚?”然后举起手就要来打
我。哎,军爷你把双手放好,不要碰我,否则就算上帝不愿意,我也
可以…… (125) 在我想这些事的时候,他就已经给了我一拳。
接着是第二拳!血喷涌而出!我心里想着,再打我就要还手了!结果
他又给我来了一拳,我看他的目的就是打爆我的头。(130) 我内心里可
住着一头狮子!“砰”,又一拳。
他就是个恶魔啊!刚刚那一拳使我毛骨悚然,如果不是那些可怜的死
人 (135) 灵魂帮助我,把我推回到阳间去;如果不是我吸了口气平静下
来,毫无疑问这次我会成为一个暴徒。
il 996 – Rivista del Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli
ISSN 1826-8234
anno XX – numero 3 – settembre-dicembre 2022 – pp. 47-58
Indagine (socio)linguistica sulla differenziazione
morfologica su base sessuale nel dialetto di
Pescasseroli (AQ)
di Davide Boccia
1. Introduzione
Pescasseroli è un comune di circa 2.200 abitanti, situato in Abruzzo,
nella parte meridionale della provincia dell’Aquila. Dal punto di vista geolinguistico, il pescasserolese è un dialetto di tipo centro-meridionale, pertinente al gruppo dell’abruzzese occidentale in quanto varietà alto sangrina.1
Gli studi sul dialetto parlato a Pescasseroli sono numericamente limitati. Le inchieste dialettali dell’AIS non hanno interessato direttamente
il paese. Difatti, i punti indagati più vicini sono: Trasacco (AQ) (P. 646,
in direzione NO, a 41 km di distanza) e Scanno (AQ) (P. 656, in direzione NE, a 44 km di distanza). Nemmeno le inchieste dell’ALI hanno
interessato Pescasseroli. In questo caso, i punti indagati più vicini sono:
Paterno (Avezzano, AQ) (P. 649, in direzione NO, a 51 km di distanza),
Civitella Alfedena (AQ) (P. 670, in direzione E, a 13 km di distanza) e
Ateleta (AQ) (P. 671, in direzione NE, a 60 km di distanza). Invece, il
dialetto di Pescasseroli viene trattato, mediante alcuni esempi, nel primo
e nel secondo volume, la Fonetica e la Morfologia, della Grammatica
storica della lingua italiana e dei suoi dialetti di Gerhard Rohlfs. Gli altri studi linguistici all’interno dei quali viene menzionato il dialetto di
Pescasseroli sono di carattere regionale: Studi linguistici di Marcello De
Giovanni e Abruzzo di Ernesto Giammarco. I contributi specifici sul
dialetto pescasserolese sono due: la breve trattazione dal titolo «Usi linguistici maschili e femminili» presente in Feste tradizionali a Pescasseroli,
tesi di laurea di Anna Tranquilla Neri, e Marsican Deixis, articolo scientifico del prof. Mario Saltarelli presentato, a New York, al Symposium on
Romance Languages nel 2013 e pubblicato nel 2016. Inoltre, è in corso
1
All’interno del gruppo dell’abruzzese occidentale, Ernesto Giammarco distingue le varietà dialettali del marso, dell’alto sangrino, del peligno e del chietino occidentale (E. Giammarco, Abruzzo, Pisa, Pacini, 1979, p. 88).
48
Davide Boccia
d’opera un approfondito studio lessicografico del prof. Mario Saltarelli
di cui si auspica presto la pubblicazione.2 Un certo interesse di tipo linguistico rivestono anche le poesie dialettali di Mario Ursitti.
Occorre avvertire preliminarmente che il presente contributo si basa
sui dati offerti dalle inchieste condotte sul campo durante il mese di luglio
2016 attraverso una metodologia basata su interviste con questionario.
In particolare, le pagine che seguono intendono analizzare alcuni fenomeni di differenziazione su base sessuale, finora mai approfonditi dagli
studiosi, inerenti alla morfologia nominale del dialetto di Pescasseroli.
La presenza, nei dialetti parlati da singole comunità, di varianti selezionate sulla base del sesso non è una novità assoluta. In fonetica, per
l’area abruzzese, Giammarco segnala, oltre al caso di Pescasseroli, anche
i casi di Castel del Monte e Pratola Peligna: «Nota 2. - Non è pura curiosità segnalare che in tre località, di cui una, Castel del Monte, alle pendici
occidentali del Gran Sasso, l’altra, Pescasseroli, nel Parco Nazionale, e
la terza, Pratola Peligna, nei pressi di Sulmona, gli uomini parlano un
dialetto diverso per timbro e dittongazione da quello delle donne […]».3
Francesco Avolio, segnala due casi analoghi nell’area della Conca
aquilana: «si può osservare la “reinterpretazione” della vocale finale
/-ǝ/ come /-e/ (o /-ɛ/) in almeno due centri della fascia di transizione
tra “aquilano” e “abruzzese”, Assergi (a Nord, alle pendici del Gran
Sasso) e Bagno (a Sud alle falde del Monte Ocre). Tale suono è particolare certo non per la sua natura fonetica […], ma perché è stato rilevato,
in entrambe le località, soltanto nell’uso delle donne più anziane».4
Concorre, però, a differenziare la varietà pescasserolese dai casi appena richiamati la circostanza per cui il fenomeno di differenziazione
su base sessuale vi si individua in morfologia.
Per quanto concerne la struttura del presente lavoro, i paragrafi
che seguono offrono una descrizione delle categorie morfologiche del
dialetto pescasserolese coinvolte dal fenomeno di differenziazione su
base sessuale. Così, all’interno del secondo paragrafo vengono trattati
i sistemi degli articoli determinativi e delle preposizioni articolate, seguiti da quelli degli aggettivi e dei pronomi possessivi e dimostrativi.
Nel terzo paragrafo, invece, i sistemi precedentemente descritti sono
2
Un elenco incompleto di termini pescasserolesi ordinati alfabeticamente è consultabile
sul sito internet www.terrepesculiasseroli.it.
3
Giammarco, Abruzzo, cit., p. 91.
4
F. Avolio, Note sulla variabilità linguistica nell’Appennino abruzzese, in «Nouvelles
du Centre d’Études Francoprovençales René Willien», Mélanges en souvenir de Marco Perron, 31 (1995), p. 95
Indagine (socio)linguistica sulla differenziazione…
49
confrontati con i risultati delle inchieste condotte sul campo per cogliere i cambiamenti avvenuti all’interno della parlata pescasserolese.
Il conclusivo quarto paragrafo traccia una sintesi e offre elementi utili
alla interpretazione del fenomeno.
2. Le categorie morfologiche del dialetto di Pescasseroli coinvolte dal
fenomeno di differenziazione su base sessuale
2.1. L’ articolo determinativo
Tab. 1: Articolo determinativo
Varietà femminile
Varietà maschile
genere
sing.
plur.
genere
sing.
plur.
maschile
[zə], [z]
[ʎʎə]
maschile
[a]
[ʎʎə]
femminile
[la], [l]
[lə], [l]
femminile
[la], [l]
[lə], [l]
neutro
[lə], [l]
neutro
[lə], [l]
Osservando la tabella, si può notare come l’unica forma dell’articolo
determinativo pescasserolese ad essere coinvolta dalla differenziazione
su base sessuale sia quella del maschile singolare. Inoltre, nella varietà
femminile, la forma [zə] «il» viene utilizzata sia davanti le parole che
iniziano con una consonante che davanti quelle che iniziano con una
vocale.5 Invece, davanti queste ultime, nella varietà maschile, la forma
[a] «il» viene omessa:6
5
Gli studiosi Gerhard Rohlfs, Marcello De Giovanni ed Ernesto Giammarco concordano
nel ritenere la forma pescasserolese [zə] «il» un ultimo resto dell’articolo (ĬP)SE (G. Rohlfs,
Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, Torino, Einaudi, 1968, vol. ii, p. 112;
M. De Giovanni, Studi linguistici, Verona, Anteditore, 1974, pp. 97-98; Giammarco, Abruzzo, cit., p. 136; M. Saltarelli, Marsican Deixis. The nature of indexical syntax, in Romance
Linguistics 2013, a c. di C. TORTORA et alii, Amsterdam-Philadelphia, John Benjamins, 2016, p.
409).
6
La forma [a] «il» deriva dal latino (ĬL)LŬ che nel dialetto di Pescasseroli potrebbe aver
subito la seguente evoluzione linguistica ricostruita: (ĬL)LŬ ˃ *[lu] ˃ *[lə] ˃ *[ə] ˃ [a].
Davide Boccia
50
Varietà femminile
Varietà maschile
L’albero [z ˈalbərə]
[ˈalbərə]
l’aglio [z ˈaʎːə]
[ˈaʎːə]
l’agnello [z ˈai̯nə]
[ˈai̯nə]
l’orso [z ˈursə]
[ˈursə]
l’occhio [z ˈocːə]
[ˈocːə]
La differenziazione su base sessuale presente nell’ articolo determinativo maschile singolare si riproduce anche nelle forme oggettive
atone del pronome personale. Difatti, per le forme dell’accusativo della
terza persona singolare si possono riportare i seguenti esempi:
Varietà femminile
Varietà maschile
1. lo hanno ucciso [z ˈannə ˈtːʃiːsə]
[ˈannə ˈtːʃiːsə]
2. me lo devi ridare [mə dːza rəˈda]
[m a da rəˈda]
3. lo vedono [zə ˈviːdənə]
[a ˈviːdənə]
4. prenditelo [piʎːaˈtidːzə]
[piʎːaˈtiːa]
5. perdonalo [pərˈdoːnazə]
[pərˈdoːnaja]
2.2. Combinazioni dell’articolo con le preposizioni
Tab. 2: Preposizioni articolate nella varietà femminile
[də dːzə, də la, də ʎːə, də lə] «del, della, degli / dei, delle».
[a dːzə, a la, a ʎːə, a lə] «al, alla, agli / ai, alle».
[kə dːzə, kə la, kə ʎːə, kə lːə] «con il, con la, con i / gli, con le».
Indagine (socio)linguistica sulla differenziazione…
51
[pə dːzə, pə la, pə ʎːə, pə lːə] «per il, per la, per i / gli, per le».
[a dːzə, a la, a ʎːə, a lə] «nel, nella, negli / nei, nelle».
Tab. 3: Preposizioni articolate nella varietà maschile
[da, də la, də ʎːə, də lə] «del, della, degli / dei, delle».
[a, a la, a ʎːə, a lə] «al, alla, agli / ai, alle».
[ka, kə la, kə ʎːə, kə lːə] «con il, con la, con gli / i, con le».
[pa, pə la, pə ʎːə, pə lːə] «per il, per la, per gli / i, per le».
[a, a la, a ʎːə, a lə] «nel, nella, negli / nei, nelle».
È possibile notare come, a causa dalla caduta delle originarie
consonanti finali latine, le preposizioni [a] «a» < Ă(D), [kə] «con» <
CŬ(M) e [pə] «per» < PĔ(R) provochino il raddoppiamento fonosintattico sulle parole che seguono.
2.3. Aggettivo e pronome possessivo
Tab. 4: Agg. e pron. possessivi nella varietà femminile
genere
maschile
femminile
sing.
plur.
[ˈmajːə] «mio»;
[ˈtajːə] «tuo»;
[ˈsajːə] «suo»;
[ˈnoːʃtrə]«nostro»;
[ˈvoːʃtrə]«vostro»;
[ˈluːrə] «loro».
[ˈmajːə] «miei»;
[ˈtajːə] «tuoi»;
[ˈsajːə] «suoi»;
[ˈnoːʃtrə]«nostri»;
[ˈvoːʃtrə]«vostri»;
[ˈluːrə] «loro».
[ˈmajːa] «mia»;
[ˈtajːa] «tua»;
[ˈsajːa] «sua»;
[ˈnɔːʃtra]«nostra»;
[ˈvɔːʃtra]«vostra»;
[ˈluːrə] «loro».
[ˈmajːə] «mie»;
[ˈtajːə] «tue»;
[ˈsajːə] «sue»;
[ˈnɔːʃtrə]«nostre»;
[ˈvɔːʃtrə]«vostre»;
[ˈluːrə] «loro».
Davide Boccia
52
Tab. 5: Agg. e pron. possessivi nella varietà maschile
genere
maschile
femminile
sing.
plur.
[ma] «mio»;
[ta] «tuo»;
[sa] «suo»;
[ˈnoːʃtrə]«nostro»;
[ˈvoːʃtrə]«vostro»;
[ˈluːrə] «loro».
[ma] «miei»;
[ta] «tuoi»;
[sa] «suoi»;
[ˈnoːʃtrə]«nostri»;
[ˈvoːʃtrə]«vostri»;
[ˈluːrə] «loro».
[ma] «mia»;
[ta] «tua»;
[sa] «sua»;
[ˈnɔːʃtra]«nostra»;
[ˈvɔːʃtra]«vostra»;
[ˈluːrə] «loro».
[ma] «mie»;
[ta] «tue»;
[sa] «sue»;
[ˈnɔːʃtrə]«nostre»;
[ˈvɔːʃtrə]«vostre»;
[ˈluːrə] «loro».
Le uniche forme degli aggettivi e dei pronomi possessivi pescasserolesi ad essere coinvolte dalla differenziazione su base sessuale sono
quelle delle persone singolari. Inoltre, nella varietà maschile, si realizza
il conguaglio tra le forme [ma], [ta] e [sa], valide sia per entrambi i generi che per il numero singolare e plurale.7
2.4. Aggettivo e pronome dimostrativo
Tab. 6: Aggettivi e pronomi dimostrativi nella varietà femminile
genere
sing.
plur.
maschile
[ˈkwistə],[stə] «questo»;
[ˈkwisːə],[sːə] «codesto»;
[ˈkwɨːzə] «quello».
[ˈkwiːʃkə] «questi»;
[ˈkwiʃːə] «codesti»;
[ˈkwɨʎːə] «quelli».
femminile
[ˈkwesta],[sta] «questa»;
[ˈkwesːa], [sːa] «codesta»;
[ˈkwɨːla] / [ˈkwai̯la]«quella».
[ˈkwestə], [stə] «queste»;
[ˈkwesːə], [sːə] «codeste»;
[ˈkwɨːlə] «quelle».
7
Il conguaglio avviene anche in Lazio, nel resto dell’Abruzzo e in Campania settentrionale (C. Grassi, A. Sobrero, T. Telmon, Fondamenti di dialettologia italiana, Roma-Bari,
Laterza, 1997, p. 125).
Indagine (socio)linguistica sulla differenziazione…
neutro
53
[ˈkwestə], [stə] «ciò, codesto»;
[ˈkwesːə], [sːə] «ciò, codesto»;
[ˈkweːlə] «ciò, quello».
Tab. 7: Aggettivi e pronomi dimostrativi nella varietà maschile
genere
sing.
plur.
maschile
[ˈkwistə],[stə] «questo»;
[ˈkwɨːa] «quello».
[ˈkwiːʃkə] «questi»;
[ˈkwɨʎːə] «quelli».
femminile
[ˈkwesta],[sta] «questa»;
[ˈkwɨːla] «quella».
[ˈkwestə], [stə] «queste»;
[ˈkwɨːlə] «quelle».
neutro
[ˈkwestə], [stə] «ciò, codesto»;
[ˈkweːlə] «ciò, quello».
All’interno del sistema pescasserolese degli aggettivi e dei pronomi dimostrativi, si può notare come alle forme [ˈkwɨːzə] «quello» e
[ˈkwai̯la] «quella»,8 in uso presso le donne, si oppongano le varianti
maschili [ˈkwɨːa] «quello» e [ˈkwɨːla] «quella». Ma la principale differenzazione su base sessuale di questo sistema è costituita dalla contrapposizione tra la deissi femminile a tre termini questo - codesto - quello
e quella maschile a due termini questo - quello.9
3. Il fenomeno della differenziazione su base sessuale nei dati delle
inchieste
Da una disamina dei dati delle inchieste condotte sul campo emerge
una notevole variazione diagenerazionale interna al dialetto di Pescas8
All’ interno della forma femminile [ˈkwai̯la] «quella» < lat. volg. *(ĕc)cu(m) ĭllu(m) è
presente il dittongo discendente [ai̯]. Difatti, nel dialetto di Pescassèroli, l’antica Ĭ e l’antica Ē
si sono fuse nella forma [e] mentre le antiche Ō ed Ŭ hanno dato luogo alla forma [o]. Successivamente, le vocali toniche [e] ed [o] hanno rispettivamente subito la dittongazione discendente in [ai̯] e in [aṷ]: [ˈtai̯la] «tela» < *[ˈteːla] < tēla(m); [kaˈtai̯na] «catena» < *[kaˈteːna] <
catēna(m); [ˈpai̯tʃə] «pece» < *[ˈpeːtʃə] < pĭce(m); [ˈsai̯tə] «sete» < *[ˈseːtə] < sĭte(m); [ˈsaṷlə]
«sole» < *[ˈsoːlə] < sōle(m); [ˈaṷwə] «uovo» < *[ˈoːvə] < ōvu(m); [frəsˈsaṷra] «padella di
rame» < *[frəsˈsoːra] < frixōria(m); [ˈlaṷta] «immondizia» < *[ˈloːta] < lŭtu(m).
9
Cfr. Saltarelli, Marsican Deixis. The nature of indexical syntax, cit.
Davide Boccia
54
seroli. Difatti, se le risposte dei parlanti più anziani riproducono lo
stesso tipo di diglossia descritto nel paragrafo precedente, le risposte
dei parlanti più giovani offrono un quadro (socio)linguistico del dialetto profondamente mutato.
Per quanto riguarda la metodologia dell’indagine da cui derivano
i dati, si è scelto di sottoporre a 18 informatori, 9 maschi e 9 femmine in età compresa tra i 18 e gli 84 anni, un questionario, in italiano,
formato da circa 50 frasi da tradurre nella parlata locale. Il questionario è stato allestito in modo tale da fornire informazioni di interesse inerenti lo stato attuale del fenomeno di differenziazione su base
sessuale.
Per quel che concerne l’articolo determinativo maschile singolare,
nella parlata della quasi totalità degli informatori aventi un’età inferiore a 59 anni,10 la distinzione tra la forma femminile [zə] e quella maschile [a] si è sensibilmente ridotta. È avvenuto così un cambiamento delle
modalità d’uso dell’articolo determinativo: sia nella varietà femminile
che in quella maschile, la forma [zə] viene utilizzata davanti le parole
che iniziano con una vocale mentre la forma [a] è adoperata davanti le
parole che iniziano con una consonante:11
1. l’albero [z ˈalbərə] 3. il lupo [a ˈluːpə]
2. l’aglio [z ˈaʎːə] 4. il fiore [a ˈfjuːrə]
Nella varietà dialettale degli uomini e delle donne intervistati/e, appartenenti alla fascia di età compresa tra i 36 e i 59 anni, il sistema delle
forme oggettive atone del pronome personale non ha subito modifiche
rilevanti. Di conseguenza, tra questi parlanti, le particelle pronominali
[zə] «lo» e [a] «lo» vengono utilizzate analogamente a quanto avviene
tra la generazione anziana. Invece, dai dati provenienti dalle interviste
sottoposte alle donne più giovani, sembra di poter cogliere un cambiamento in atto poiché due delle tre intervistate aventi un’età compresa
tra i 18 e i 35 anni utilizzano unicamente la forma [a].
Al contrario, il sistema delle preposizioni articolate, in uso nel
dialetto delle informatrici aventi tra i 18 e i 59 anni, appare già definitivamente contaminato dalle forme maschili. Per fare solo qualche
esempio: «Pescasseroli si trova sotto il castello» [a ˈpeːʃkə sta ˈsotːə
a kasˈtelːə]; «vado al ponte» [ˈvaʎːə a ˈpondə]; «riscaldare il latte con
10 L’unico informatore intervistato che dimostra di non utilizzare l’articolo [zə] davanti le
parole che iniziano con una vocale è un uomo di 48 anni.
11 Bisogna anche considerare la possibilità che alcuni uomini utilizzino la forma femminile
[zə] «il» perché influenzati dalla parlata femminile materna.
Indagine (socio)linguistica sulla differenziazione…
55
il fuoco» [rəskaˈlːa lə ˈlatːə ka ˈfaṷkə]. Soltanto una donna di 59 anni
ha invece impiegato le forme femminili: «Pescasseroli si trova sotto il
castello» [zə ˈpeːʃkə sta ˈsotːə a dːzə kasˈtelːə]; «vado al ponte» [ˈvaʎːə
a dːzə ˈpondə]; «riscaldare il latte con il fuoco» [rəskaˈlːa lə ˈlatːə kə
dːzə ˈfaṷkə].
Una situazione analoga è osservabile per le persone singolari degli
aggettivi e dei pronomi possessivi. Anche in questo caso, le forme
femminili, ancora comuni tra le donne più anziane, presso le informatrici aventi un’età inferiore a 59 anni sono state affiancate oppure
del tutto sostituite dalle varianti maschili [ma], [ta] e [sa].
Sia nella varietà femminile che in quella maschile, il sistema degli
aggettivi e dei pronomi dimostrativi dimostra di aver subito un notevole influsso da parte della pronuncia italiana. Tant’è vero che le forme
contenenti la vocale centrale chiusa non arrotondata [ɨ] come [ˈkwɨːla]
«quella» e [ˈkwɨːlə] «quelle» sono state spesso sostituite dalle forme
italianizzate [ˈkweːla] e [ˈkweːlə]. Inoltre, durante le inchieste, tra le
donne aventi un’età inferiore a 59 anni è stato rilevato uno stadio di
forte regressione della forma femminile [ˈkwɨːzə] «quello», sostituita
dalla variante maschile [ˈkwɨːa].
4. Conclusioni
In seguito all’analisi condotta nei precedenti paragrafi è possibile
trarre diverse conclusioni riguardo alla origine e alla evoluzione negli
ultimi decenni del fenomeno di differenziazione su base sessuale presente nella varietà pescasserolese.
Le motivazioni della contrapposizione a Pescasseroli tra il parlato delle donne e quello degli uomini non si possono scindere dalle condizioni socio-economiche vigenti nel passato. Difatti, fino a
40-50 anni fa, la località oggetto della presente indagine costituiva
il punto di partenza di uno dei tratturi più lunghi dell’intera Italia
centro-meridionale, il Pescasseroli-Candela. Così, mentre gli uomini, in gran parte pastori, per necessità di pascolo, trascorrevano
circa 9 mesi all’anno nel Tavoliere delle Puglie, le donne conducevano una vita sedentaria in paese. La separazione tra uomini e donne
ha quindi influenzato anche il linguaggio poiché se quello maschile
era esposto per lunghi periodi all’influenza di altre parlate, quello femminile aveva minori contatti con varietà linguistiche esterne.
Ma a partire dagli anni Sessanta del xx secolo, questo stile di vita
è rapidamente scomparso insieme al mondo al quale apparteneva,
Davide Boccia
56
quello agropastorale. Di conseguenza, le generazioni di pescasserolesi nate a partire dalla fine degli anni Quaranta del secolo scorso
hanno vissuto in un contesto socio-economico profondamente mutato. Le condizioni di vita delle donne e degli uomini, così come le
esperienze maturate, sono diventate sempre più simili tra loro. Tale
cambiamento è osservabile nel dialetto poiché la parlata delle donne
anziane, più conservativa, appare oggi in forte regressione ed è quasi del tutto abbandonata dalla popolazione femminile giovane che
invece ha ormai adottato una varietà caratterizzata da forme in uso
soprattutto presso gli uomini.
Per quanto concerne la percezione della differenziazione su base
sessuale da parte degli stessi parlanti di Pescasseroli, è interessante
notare come questi considerino la variante femminile “più antica” e
allo stesso tempo maggiormente rappresentativa di una varietà dialettale poco influenzata dall’italiano. Inoltre, sono in prevalenza gli appartenenti alle giovani generazioni, insieme ai parlanti dei paesi limitrofi,
a possedere una certa consapevolezza della variazione morfologica su
base sessuale del pescasserolese.
In futuro, questa ricerca potrebbe essere approfondita per indagare
altri possibili aspetti del dialetto di Pescasseroli riguardanti il fenomeno di differenziazione su base sessuale. Proprio per l’esigenza di ricerche di maggiore approfondimento si asserisce che uno degli intenti di
questo lavoro è stato quello di fornire una base comune per accrescere
la mole di dati di questo come di altri analoghi fenomeni nell’ambito
degli studi sui dialetti centro-meridionali.
5. Sigle e bibliografia
(AIS) J. Karl, J. Jakob, Sprach- und Sachatlas Italiens und der Sudschweiz, 8 voll., Zofingen, Ringier, 1928-1940.
(ALI) Atlante linguistico italiano, 8 voll., Roma, Istituto poligrafico
e Zecca dello Stato, 1995-.
A. Giovanni, La pratica della transumanza nella formazione dello
spazio linguistico centro-meridionale: problemi e ipotesi di ricerca, in
Il dialetto nel tempo e nella storia, a c. di G. Marcato, Padova, Cleup,
2016, pp. 379-86.
Indagine (socio)linguistica sulla differenziazione…
57
F. Avolio, Note sulla variabilità linguistica nell’Appennino
abruzzese, in «Nouvelles du Centre d’Études Francoprovençales René
Willien», Mélanges en souvenir de Marco Perron, 31 (1995), pp. 91-105.
F. Avolio, L’Abruzzo, in I dialetti italiani: storia, struttura, uso, a c.
di Manlio Cortelazzo et alii, Torino, UTET, 2002, pp. 568-603.
G. Berruto, Fondamenti di sociolinguistica, Roma-Bari, Laterza,
1995.
R. Bigalke, Abruzzese, in Languages of the world/materials,
München-Newcastle, Lincom Europa, 1996.
M. De Giovanni, Studi linguistici, Verona, Anteditore, 1974.
E. Giammarco, Abruzzo dialettale, Pescara, Istituto di Studi
Abruzzesi, 1973.
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M. Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti italiani, Bari, Laterza, 2009.
M. Maggiore, A. Variano, Differenziazione vocalica per posizione e differenziazione fonetica su base sessuale nella varietà di Zapponeta (FG), in «L’Italia dialettale», lxxvi (2015), pp. 64-83.
A.T. Neri, Usi linguistici maschili e femminili, in Feste tradizionali
a Pescasseroli, Sulmona, Synapsi, 2002, pp. 109-12.
G.B. Pellegrini, Carta dei Dialetti d’Italia, Pisa, Pacini, 1977.
S. Pisano, Esiti della approssimante palatale j nella varietà di Orune (Nuoro): differenziazione fonetica su base sessuale, in «L’Italia dialettale», lxviii, 2007, pp. 99-143.
G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, 3 voll., Torino, Einaudi, 1966-69.
58
Davide Boccia
M. Saltarelli, Marsican Deixis. The nature of indexical syntax,
a c. di Christina Tortora et alii, Romance Linguistics 2013, Amsterdam-Philadelphia, John Benjamins, 2016, pp. 398-413.
G. Tropea, Pronunzia maschile e pronunzia femminile in alcune
parlate del messinese occidentale, in «L’Italia dialettale», xxvi (1963),
pp. 1-29.
il 996 – Rivista del Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli
ISSN 1826-8234
anno XX – numero 3 – settembre-dicembre 2022 – pp. 59-72
Dialetti reloaded
Note di lettura
di Silvia Tolusso
Dialetti reloaded. Scenari linguistici della nuova dialettalità in Italia è una raccolta di saggi curata da Sergio Lubello e Carolina Stromboli, pubblicata nel 2020 presso Franco Cesati Editore e inserita nella
collana «Quaderni di LeGIt» (Laboratorio di Lessico e grammatica
dell’italiano dell’Università di Salerno), diretta dal medesimo Lubello.1
Il titolo del volume è, in sé, già esplicativo del contenuto dei saggi: la
rinascente diffusione del dialetto in molteplici usi della lingua. Sebbene
sia considerato morto e ormai inutilizzato, il dialetto, anche se da una
parte «è soggetto al “normale”, prevedibile, atteso depotenziamento;
[…] dall’altra gode di una rivitalizzazione – relativamente recente –
che lo vede espandersi ed estendersi anche a usi da tempo assegnati in
modo che pareva esclusivo all’italofonia».2
Il testo mostra, infatti, nella progressione delle tre parti di cui è costituito, i modi in cui il dialetto si è sviluppato e gli usi e le tipologie
in cui ha avuto diffusione a partire dagli spot pubblicitari: la pubblicità della Filiera Latte del Lazio, contenuta in un manifesto diffuso nel
giugno 2017, mette in bocca a una mucca l’espressione in romanesco
«Bevi, ch’è bono! To ’o dico io»; le fettuccine alla papalina Findus nel
2009 vengono pubblicizzate, per il legame con il luogo di origine della
ricetta, da un giovane imperatore Nerone, in dialogo – sempre in romanesco – con la nonna (Nerone: «Che te serve na mano?», nonna:
«Pe’ carità, Nerone sta lontano dar foco!», Nerone: «Aò, so bbone!»);
è molto nota, infine, la campagna del 2015 Nutella parla come te, con
cui la Ferrero ha diffuso «ben 35 frasi, le Dialettichette, in molti dialetti
1
Dialetti reloaded. Scenari linguistici della nuova dialettalità in Italia, a c. di S. Lubello e
C. Stromboli, Firenze, Cesati, 2020.
2
A.A. Sobrero, Lecce: italiano e dialetto degli adulti, fra lavoro e media, in Lingua e
dialetto nell’Italia del Duemila, a c. di A.A. Sobrero e A. Miglietta, Galantina, Congedo,
2006, pp. 325-40, p. 325.
60
Silvia Tolusso
e lingue d’Italia».3 Non solo la pubblicità: la sempre maggiore pervasività del dialetto si esemplifica anche nella diffusione, soprattutto a
partire dal 2000, di molti nomi di locali in dialetto, talvolta con ritocco italiano: a Palermo c’è il chioschetto Pani ca’ meusa (dalla ricetta
‘pane con la milza’) e la Buatta cucina popolana; a Modena l’Osteria La
Scrana; a Fiorano Modenese il ristorante Dalla Rezdora; a Milano i ristoranti El Brellin e il Damm-atrà; a Salerno la panineria Pane&Pummarola; a Vietri sul Mare Vient e’ Mare; a Lecce Le Tagghiate.4 E non
solo in Italia: a Berlino, nell’italiano diffuso «lungo la via non colta di
molti paesaggi urbani del mondo»5 sono presenti nomi di «pizzerie e
trattorie napoletaneggianti»6 come Anema e core e Jamme Ja. E ancora:
il dialetto è presente nella canzone (il napolinglish di Pino Daniele), sul
web (la factory Casa Surace), le fiction televisive (Il commissario Montalbano). Il dialetto, insomma, è ben saldo e presente nel repertorio
linguistico degli italiani: basti pensare che, dato un sempre crescente
uso dell’italiano (i dati ISTAT del 2015 riferiscono che il 53,1% degli
italiani tra i 18 e i 74 anni parla prevalentemente italiano in famiglia),
anche per i giovani «il dialetto si configura sempre più come una scelta»,7 che tende a esplodere sul web, dove il ricorso al dialetto è sempre
più frequente e diffuso.
Il testo, suddiviso in tre sezioni (Nuovi semicolti e scriventi digitali; Letteratura neodialettale e dintorni; Dialetto, dialetti e media) con
un’introduzione del curatore Sergio Lubello – Nuovi repertori e paesaggi linguistici: dialetti perduti, ritrovati, reinventati (con un poscritto)
–, ripercorre quindi una parte di «quella che Berruto ha definito come
la “neo-usabilità dei dialetti”»,8 e vuole mostrare come questa neo-usabilità si concretizzi nella realtà linguistica italiana contemporanea.
Nella prima parte – più generale –, i due contributi di Rita Fresu,
Dialetto dei/nei semicolti, ieri e oggi, e di Claudio Nobili, Le diverse
voci del dialetto sul web. Interazioni ibride in una comunità Facebook
nello scenario linguistico dell’e-co-partecipazione, danno un panorama
generale del ruolo del dialetto ieri nelle produzioni dei semicolti e oggi,
rispetto ai nuovi semicolti (Fresu) e sul Web (Nobili).
3
S. Lubello, Nuovi repertori e paesaggi linguistici; dialetti perduti, ritrovati, reinventati,
in Dialetti reloaded, cit., p. 11.
4
Ibid.
5
M. Barni, M. Vedovelli, Linguistic landscapes and language Policies, in, Linguistic
Landscapes, Multilingualism and Social Change. Diversité des approches, a c. di C. Hélot et
al., Frankfurt, Peter Lang, pp. 27-38.
6
Lubello, Nuovi repertori linguistici, cit., p. 11.
7
Ivi, p. 12.
8
Ivi, p. 13.
Dialetti reloaded. Note di lettura
61
Rita Fresu mostra, infatti, come «il richiamo alla dimensione
diatopica nelle produzioni dei semicolti [sia] presente sin dagli esordi delle teorizzazioni»9 e come l’«osservazione dei tratti substandard,
condotta principalmente, e inizialmente sui testi scritti, abbia generato
per alcune questioni, tra cui proprio quella relativa al rapporto col dialetto, un condizionamento di prospettiva».10 Nello scritto, infatti, i semicolti tendono a usare una lingua il più possibile vicino allo standard,
quasi un italiano sovraregionale, e gli elementi demotici o diatopicamente marcati tendono a essere messi da parte: questo, in una prima
fase del dibattito, ha portato a considerare la varietà scritta come indipendente dagli usi dialettali locali. Gli studi successivi sui corpora orali
hanno mostrato l’importanza della componente locale nello sviluppo
dell’italiano popolare, il «tipo di italiano imperfettamente acquisito da
chi ha per madrelingua il dialetto»,11 o anche il «modo di esprimersi
d’un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento,
maneggia quella che, ottimisticamente, si chiama la lingua “nazionale”,
l’italiano».12 Questo ha fatto sì che l’italiano popolare venisse considerato una sorta di interlingua, in cui emergono fenomeni di interferenza
e di contatto linguistico simili ai pidgins e alle lingue creole, di conseguenza si è ritenuto opportuno classificarlo «come una varietà diastratica dell’italiano regionale»13 e considerare la capacità di dominare
l’emersione del sostrato locale come uno dei parametri di valutazione
delle competenze linguistiche. La prima fase degli studi sull’italiano
dei semicolti ha considerato quest’ultimo, quindi, come una varietà deviata rispetto alla norma, e se ne sono stati attentamente considerati gli
scarti rispetto alla lingua standard. Con il procedere della riflessione,
si è passati a una visione più sfumata, che tiene conto anche del ruolo
della diafasia (oltre che della diastratia) nei testi dei semicolti e cerca di analizzare la lingua degli illetterati ponendola in un continuum
fatto di varietà intermedie da cui ricavare gli elementi più vicini alla
lingua standard, per verificare il grado di accostamento degli illetterati
ai modelli normativi coevi. Le produzioni substandard possono, quin9
R. Fresu, Dialetto dei/nei semicolti, ieri e oggi, in Dialetti reloaded, cit., pp. 21-40, a p. 21.
10 Ivi, pp. 21-22.
11 M. Cortelazzo, Avviamento critico allo studio della dialettologia italiana, iii. Lineamenti di italiano popolare, Pisa, Pacini, 1972, p. 11.
12 T. De Mauro, Per lo studio dell’italiano popolare unitario, in Lettere da una tarantata, a
c. di A. Rossi, Bari, De Donato, 1970, pp. 43-75 (rist. in La lingua italiana oggi, un problema
scolastico e sociale, a c. di L. Renzi, M. Cortelazzo, Bologna, il Mulino, 1977, pp. 147-74, a p.
149, da cui si cita).
13 Cfr. P. D’Achille, L’italiano dei semicolti, in Storia della lingua italiana, vol. ii, Scritto
e Parlato, a c. di L. Serianni e P. Trifone, Torino, Einaudi, 1994, pp. 41-79.
62
Silvia Tolusso
di, contribuire a individuare una «realtà intermedia (“italiano medio o
moderno”) collocabile tra un italiano antico (il cui statuto appare ormai assodato e riconosciuto nel fiorentino parlato del Due-Trecento) e
le varietà contemporanee, ossia il parlato attuale».14 Il loro forte valore
documentario fa sì che le scritture degli illetterati mostrino, attraverso l’involontario affioramento del sostrato locale, quali tratti sono più
resistenti alle spinte italianizzanti, e quindi più inclini a trasferirsi nella
varietà regionale. Sono dunque utili per indagare le varietà intermedie
del passato e per ricostruire le dinamiche di italianizzazione e alfabetizzazione. Oggi, invece, continua Fresu, si assiste a nuovi usi e nuove
funzioni dei dialetti, che – contrariamente alle previsioni – stanno trovando nuovi spazi e vivendo, quindi, una fase di «trasfigurazione»,15
«risorgenze»,16 «rivitalizzazione».17 Tuttavia, i molteplici cambiamenti
della società contemporanea – come la diminuzione della dialettofonia, la scolarizzazione diffusa a tutti gli strati sociali e lo slittamento
alla dimensione pubblica di testi prima legati alla dimensione privata
– permettono di individuare una nuova figura di semicolti attraverso l’analisi delle differenze tra scritture del passato e scritture di oggi,
nelle quali il sempre maggiore avvicinamento tra scritto e parlato e la
maggiore diffusione della lingua nazionale a scapito dei dialetti rendono meno frequenti le interferenze del sostrato locale, che può comunque presentarsi per alcuni livelli della lingua come la fonologia.
Esempi assai diffusi sono l’uso delle consonanti geminate e scempie,
ma anche la lenizione delle dentali in posizione postnasale (dimagrandi, caso assai diffuso nel web: Fresu ne attesta la presenza su Rainews
– diete dimagrandi –, nel sito del Messaggero – farmaci dimagrandi
–, in portali ufficiali come quello dell’Ordine dei Medici Chirurghi e
degli Odontoiatri – «facendosi consegnare i prodotti dimagrandi»18). Il
web è uno strumento di osservazione privilegiato per valutare la dif14 Fresu, Dialetto dei/nei semicolti, cit., p. 24. Cfr. P. D’Achille, Questioni di periodizzazione nella storia letteraria e nella storia linguistica italiana, in Perché la letteratura? Atti del
Convegno di studi (L’Aquila, 19-20 maggio 2005), a c. di R. Morabito, Manziana, Vecchiarelli, 2006, pp. 69-91, a p. 75; cfr. P. D’Achille, Storia della lingua. Lo stato della disciplina,
Pisa, ETS, 2015, pp. 111-32, a p. 123.
15
Cfr. G. Francescato, Death or transfiguration? The future of the Ertan dialect, in
«Journal of Italian Linguistics», 4 (1979), pp. 99-140; Id., Il dialetto muore e si trasfigura,
«Italiano & Oltre», 5 (1986), pp. 203-8.
16 G. Berruto, Quale dialetto per l’Italia del Duemila? Aspetti dell’italianizzazione e
risorgenze dialettali in Piemonte (e altrove), in Lingua e dialetto nell’Italia del Duemila, cit.,
pp. 101-27, a p. 118.
17 Sobrero, Lecce: italiano e dialetto degli adulti, cit., pp. 325-40, a p. 325.
18
https://ordinemedicilatina.it/false-ricette-per-farmaci-dimagranti-denunciata-uninfermiera-dellospedale-goretti.
Dialetti reloaded. Note di lettura
63
fusione del dialetto come «risorsa espressivo-comunicativa, spesso con
finalità ludiche»19 e come «espressione di identità locale e culturale»20.
È interessante notare come la rete presenti casi in cui il dialetto è usato
consapevolmente (per esempio, in alcuni commenti ai post nelle pagine
Facebook di Gigi D’Alessio, il napoletano è usato con fare ammiccante) e casi in cui manca la consapevolezza della presenza, nel proprio
scritto, di tratti inadeguati e devianti.
L’importanza del web per l’osservazione dello stato di salute del
dialetto è ripresa anche da Claudio Nobili: «è sul web, infatti, che l’oralità tipica del dialetto assume una dimensione scritta (o meglio digitata)».21 Oggi si scrive – si digita – moltissimo in dialetto, in quella
che Voghera22 definisce scrittura conversazionale, caratterizzata dall’uso del canale audiovisivo e da un’interazione dialogica non sincrona
o semi-sincrona. I testi prodotti dalla scrittura conversazionale sono
lontani dalla prosa formale e dalla conversazione orale: sono testi digitati caratterizzati dalla frammentarietà, dalla brevità e dall’incompletezza, in cui «il dialetto può essere frammisto o alternato a quella
varietà dell’italiano»23 che Antonelli24 definisce e-taliano. Fiorentino25
distingue tre contesti d’uso del dialetto. I primi sono contesti in cui il
dialetto è oggetto di studio e approfondimento: esempio ne è il sito
www.dialettando.com, diviso in cinque sezioni (Dizionario dei dialetti, Proverbi e modi di dire, Poesie e filastrocche, Racconti e Ricette),
cui possono liberamente partecipare gli utenti della rete, contribuendo
con filastrocche, proverbi, racconti e parole. Vi sono, poi, contesti in
cui il dialetto è usato come lingua ufficiale per comunicare, come il
caso del forum Viaggi Il Caffè dei Viaggiatori (Tripadvisor), intitolato
19 Fresu, Dialetto dei/nei semicolti, cit., p. 30.
20
G. Berruto, Sulla vitalità sociolinguistica del dialetto oggi, in La dialectologie aujourd’hui. Atti del Convegno internazionale «Dove va la dialettologia?» (Saint-Vincent, Aosta, Cogne, 21-24 settembre 2006), a c. di G. Raimond e L. Revelli, Alessandria, Edizioni
Dell’Orso, 2008, pp. 133-48.
21 C. Nobili, Le diverse voci del dialetto sul web. Interazioni ibride in una comunità Facebook nello scenario linguistico dell’e-co-partecipazione, in Dialetti reloaded, cit., pp. 41-68,
a p. 41.
22 M. Voghera, Modalità parlata e scritta in classe, in Le tendenze dell’italiano contemporaneo rivisitate. Atti del lii Congresso Internazionale di studi della Società di Linguistica
Italiana (Berna, 6-8 settembre 2018), a c. di B. Moretti, A. Kunz, S. Natale, E. Krakenberger,
Milano, Officinaventuno, 2019, pp. 417-32.
23 Nobili, Le diverse voci del dialetto sul web, cit., p. 42.
24
G. Antonelli, L’e-taliano tra storia e leggende, in L’e-taliano. Scriventi e scritture
nell’era digitale, a c. di S. Lubello, Firenze, Cesati, 2018, pp. 9-31, a p. 12.
25 G. Fiorentino, Dialetti in rete, in «Rivista di dialettologia», xxix (2005), pp. 111-49.
64
Silvia Tolusso
“Come dite voi in dialetto…?”,26 che «invita i membri del forum a una
sfida nella modalità di scrittura conversazionale, fissandone a priori e
con chiarezza contenuto (battute che riportino proverbi e modi di dire
in dialetto e che esprimano una certa condizione d’animo) e obiettivi
(ludico e istruttivo)».27 Si possono, infine, segnalare tra gli usi ludici del
dialetto anche le parodie di film attraverso il doppiaggio, in dialetto, di
alcune scene note o l’inserimento di battute in dialetto in quadri famosi
(Il bacio di Gustav Klimt riporta la battuta «Oh mitt la mascherin» nel
gruppo facebook Se i quadri potessero parlare28). Il dialetto su Facebook viene, infine, usato per la discussione e la condivisione di contenuti in gruppi come Sei di Frosinone se…, in cui il dialetto è oggetto
di discussione (da svolgersi, naturalmente, in dialetto) attraverso, per
esempio, la condivisione di un discorso diretto riportato, la cui struttura consiste sempre di un primo costituente (Nonna diceva) e un secondo costituente tra virgolette, il cui contenuto è sempre un proverbio
in dialetto frusinate. Seguono commenti in cui, spesso, i membri del
gruppo chiedono la traduzione in italiano del proverbio. All’interno
del gruppo non vi è alcun «cenno esplicito a un preventivo concordato uso del dialetto per partecipare attivamente ai dibattiti interni al
gruppo»:29 è un caso che rientra nel terzo dei contesti individuati da
Fiorentino, quelli cioè in cui il «dialetto è usato spontaneamente come
lingua secondaria».30
La seconda parte del volume, Letteratura neodialettale e dintorni,
è incentrata su diversi esempi dell’uso del dialetto in letteratura. Maria
Carosella, in Voci pugliesi della narrativa neodialettale contemporanea
(su Idda di M. Marzano e La battuta perfetta di C. D’Amicis), prende in
considerazione il “caso Puglia”, cioè il notevole «interesse nei confronti della letteratura proveniente dalla regione», dovuta all’«abbondanza
di produzione, il successo ottenuto da molti titoli in libreria, la particolare notorietà di taluni scrittori e l’ascesa della popolarità turistica delle
coste garganico-àppulo-salentine».31 L’autrice mostra come il dialetto
possa, nel caso di Idda (romanzo di Michela Marzano), divenire lingua
del cuore e dell’affettività, attraverso cui risalire alle proprie radici e
26 https://www.tripadvisor.it/ShowTopic-g1-i12521-k6475964-o430-Come_dite_voi_in_
dialetto-Il_Caffe_dei_Viaggiatori.html.
27 Nobili, Le diverse voci del dialetto sul web, cit., p. 51.
28
https://www.facebook.com/565924430147180/photos/a.565926603480296/357063715
3009211/?type=3&theater.
29 Nobili, Le diverse voci del dialetto sul web, cit., p. 59.
30 Ivi, p. 43.
31 M. Carosella, Voci pugliesi della narrativa neodialettale contemporanea (su Idda di M.
Marzano e La battuta perfetta di C. D’Amicis), in Dialetti reloaded, cit., pp. 71-88.
Dialetti reloaded. Note di lettura
65
grazie al quale fare pace con il proprio passato: la protagonista Alessandra, una docente di origini italiane trapiantata in Francia, non parla
il dialetto da molti anni, lo ha anzi rimosso dalla mente dopo la morte
della madre. La necessità di svuotare la casa della suocera (idda ‘lei’ in
dialetto salentino) e la proposta del suo compagno di portarne i mobili
nella casa di Alessandra in Puglia fanno riemergere, nella mente della
protagonista, tutto il suo passato, che si concretizza nell’uso del salentino ua al posto del francese raisin (uva). Grazie a idda, alla suocera,
Alessandra torna in Salento dopo molti anni, e proprio in Salento il
dialetto «prende corpo negli sparuti inserti lessicali locali e in quelli
(pochissimi, a dire il vero) del padre, e nelle brevi battute della zia Filomena e del fattore».32 La battuta perfetta è, invece, il primo romanzo
in cui il salentino Carlo D’Amicis non usa il suo dialetto d’origine, ma
un altro dialetto: il materano. In questo caso, il dialetto serve per rappresentare una realtà precisa: quella di un Sud contadino e provinciale
di una «comunità locale che lascia trapelare un sistema soprannominale
volto a strappare il sorriso a chiunque abbia avuto a che fare con contesti simili a quelli ironicamente descritti dall’autore».33
Nel contributo Dialetto in scena: vitalità del napoletano a teatro,
Paola Cantoni affronta, invece, la presenza del dialetto napoletano nel
teatro, a partire da Antonio Petito, «mito attorico e archetipo di teatro
napoletano»,34 che fa un uso del dialetto caratterizzato da variazioni
diafasiche e dà vita a una tradizione teatrale i cui eredi sono Scarpetta
– che era «artisticamente debitore nei confronti di Petito, ma al tempo
stesso tentava di superarne e sconfiggerne la drammaturgia»35 e il cui
dialetto aveva una funzione diastraticamente bassa, dei “comici ignoranti” – Viviani – la cui produzione non è totalmente dialettale, ma è
anzi caratterizzata da una lingua in cui «italiano e dialetto convivono e
si avvicendano all’interno del medesimo dialogo e talvolta della stessa
frase»36 e in cui l’italiano locale è strettamente a contatto con l’italiano
novecentesco37 – ed Eduardo De Filippo, che cerca, nel suo teatro, di
«aderire al parlato, con una riduzione della componente locale che si
32 Carosella, Voci pugliesi, cit., p. 76.
33 Ivi, p. 81.
34 F. Angelini, Antonio Petito autore-attore, in «Problemi», 54 (1979), pp. 97-118, a p. 98.
35 P. Cantoni, Dialetto in scena: vitalità del napoletano a teatro, in Dialetti reloaded, cit.,
pp. 109-30, a p. 115. Cfr. anche F.C. Greco, Il caso Petito, in Filologia, Teatro, Spettacolo.
Dai greci alla contemporaneità, a c. di F. Cotticelli e R. Puggioni, Milano, FrancoAngeli,
2017, pp. 375-85.
36 N. De Blasi, Profilo linguistico della Campania, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 265.
37
Cfr. Id., Notizie sulla variazione diastratica a Napoli, in «Bollettino Linguistico
Campano», ii (2002), pp. 89-129, a p. 110.
66
Silvia Tolusso
avverte soprattutto a livello lessicale e con un prudente dosaggio del
dialetto sul piano fonetico e morfologico»38. Annibale Ruccello, Enzo
Moscato, e Mimmo Borrelli, autori di teatro degli anni Ottanta e Novanta del Novecento definiti in una prima fase post-eduardiani,39 sono
accomunati da un rinnovato interesse e da un forte slancio verso il dialetto, simbolo delle proprie radici antropologiche e della tradizione
teatrale precedente.
La terza parte, Dialetto, dialetti e media, analizza l’uso dei dialetti
nella fiction, nel fumetto, nella canzone e in televisione. Lorenzo Coveri presenta un contributo dal titolo La fiction italiana parla dialetto.
Qualche appunto sui prodotti recenti, in cui descrive l’uso del dialetto nella fiction, termine che, diffuso prevalentemente in Italia, deriva
dal romanzo sceneggiato o sceneggiato televisivo. La fiction italiana,
riferisce Coveri,40 ha molte occasioni di parlato dialettale (o dialetto
filmico) e presenta un’ampia gamma di varietà locali, che vanno da un
dialetto vero e proprio (come nell’Amica geniale o in Gomorra) a un
dialetto limitato a un uso di tratti fonologici, morfosintattici e lessicali
(come nel Commissario Montalbano), a un «più annacquato italiano
di matrice regionale, sino al grado zero di diatopia»41 (come in Don
Matteo): per quest’ultimo caso Rossi42 parla di «dialetto negato» e si
può riscontrare, oltre che in Don Matteo, anche nel recente crime Bella da morire (2020), in La strada di casa (2017-2019) e Non uccidere
(2017/2018-2018/2019), ma anche nella fiction Un passo dal cielo che,
più che alla realistica rappresentazione linguistica, punta a un ritorno
d’immagine per incentivare il turismo locale. Per quanto riguarda il
dialetto, la tendenza della fiction contemporanea è, comunque, quella
di un livello altamente marcato43 e di grande attenzione al paesaggio
linguistico, e in cui è grande «l’uso simbolico del dialetto (e delle lingue straniere) e l’attenzione alla marginalità».44 Le varietà meridionali
(soprattutto napoletano e siciliano) sono le più rappresentate: è il caso,
38 Cantoni, Dialetto in scena, cit., p. 118.
39 Cfr. L. Libero, Dopo Eduardo. Nuova drammaturgia a Napoli, Napoli, Guida, 1987;
Id., Dopo Eduardo. Trent’anni di nuova drammaturgia a Napoli, Napoli, Apeiron, 2018.
40 L. Coveri, La fiction italiana parla dialetto. Qualche appunto sui prodotti recenti, in
Dialetti reloaded, cit., pp. 133-42, a p. 135.
41 Ivi, p. 135.
42 F. Rossi, L’italiano al cinema, l’italiano del cinema: un bilancio linguistico attraverso
il tempo, in L’italiano al cinema, l’italiano nel cinema, a c. di G. Patota e F. Rossi, Firenze,
Accademia della Crusca - goWare, 2017, pp. 11-32.
43 Cfr. G. Alfieri, M. Rapisarda, La componente diatopica nella fiction “all’italiana”
(1995-2006) tra rispecchiamento sociolinguistico e stilizzazione caratterizzante, in Dialetto,
memoria e fantasia, a c. di G. Marcato, Padova, Unipress, 2007, pp. 127-40.
44 Rossi, L’italiano al cinema, cit., p. 25.
Dialetti reloaded. Note di lettura
67
per esempio, di La vita promessa (2018 e 2020), Imma Tataranni – Sostituto procuratore (2019 e 2021-2022, la seconda stagione è posteriore
al volume) e L’amica geniale (2018 e 2020, la terza stagione, del 2020, è
posteriore al volume).
Daniela Pietrini ha partecipato al volume con un contributo dal titolo Dialetto e fantadialetto nel fumetto italiano: l’esempio del napoletano, per mostrare come la “neo-usabilità” del dialetto abbia trovato
terreno fertile anche nel fumetto. Fumetto che, anche se vede la luce
già nel corso dell’Ottocento, «solo nel terzo millennio ha cominciato
ad attrarre l’attenzione dei linguisti».45 Ciò è avvenuto per la minore
rilevanza del testo dialogato rispetto alle immagini e perché il fumetto è stato a lungo considerato un genere letterario minore, destinato
prevalentemente ai bambini, in cui mantenere un livello linguistico
«il più vicino possibile al polo dello standard nel pieno rispetto della
morfosintassi della tradizione grammaticale».46 Tuttavia, soprattutto in
tempi recenti il dialetto sembra conquistare spazio nella produzione
a fumetti, anche grazie alla nascita di nuove forme, come la graphic
novel. L’autrice passa in rassegna, a mo’ di esempio, la presenza del
napoletano nel fumetto, e lo fa partendo dai fumetti Disney, nei quali
viene usato l’elemento napoletano già con la figura della fattucchiera
Amelia, che ha la sua casa alle pendici del Vesuvio. E proprio il capoluogo campano fa da sfondo a quattro racconti disneyani: Zio Paperone e il diritto di successione (1965) e Zio Paperone e il maggiordomo
partenopeo (2018) per quanto riguarda i paperi, Topolin Murat e i misteri di Pompei (2015) e Topolinio Casanova e la scintilla poetica (2019)
per quanto riguarda i topi. Nel contributo l’autrice si sofferma principalmente sulle due storie di Topolino: entrambe sono collocate nella
Napoli del Grand Tour di fine Settecento-inizio Ottocento e l’ambientazione è richiamata sia nelle immagini grazie alla rappresentazione di
luoghi caratteristici («il mercato affollato di pesci e verdura, il Vesuvio
e il mare sullo sfondo, Pulcinella che suona il mandolino, i panni stesi
45 D. Pietrini, Dialetto e fantadialetto nel fumetto italiano: l’esempio del napoletano, in
Dialetti reloaded, cit., pp. 143-66, a p. 145. Cfr. anche Id., Parola di papero. Storie e tecniche
della lingua dei fumetti Disney, Firenze, Cesati, 2006; Die Sprache(n) der Comics, a c. di D.
Pietrini, Munich, Meidenbauer, 2012; Linguistics and the Study of Comics, a c. di F. Bramlett,
New York, Macmillan, 2012.
46 Pietrini, Dialetto e fantadialetto nel fumetto italiano, cit., p. 146; cfr. anche Id., Dal
dialetto al “fantadialetto”: la variazione diatopica come strumento creativo nelle convenzioni
linguistico-espressive del fumetto seriale, in Configurazioni della serialità linguistica. Prospettive italo-romanze, a c. di M. Becker-Ludwig Fesenmeier, Berlin, Frank&Timme, 2018, pp.
245-72.
68
Silvia Tolusso
ad asciugare tra le finestre dei vicoli, la folla sorridente e “solare”»47)
sia linguisticamente, con regionalismi gastronomici come sfogliatella
e vongole, elementi linguistici marcati (l’interiezione uè, l’articolo determinativo femminile plurale ’e per le). La marca dialettale è, inoltre,
usata per caratterizzare i personaggi comprimari: Gambadilegno diventa «Pietro detto “Gamma ’e ligname”», Macchianera diventa «’o
Macchianera, il guappo più pericoloso della zona». Il dialetto è, quindi,
«strumento di variazione dell’onomastica disneyana»,48 e viene usato
limitatamente a pochi elementi stereotipati (come alcune forme lessicali ampiamente diffuse: guappo e piccirillo, o come l’accusativo preposizionale Sentite a me!). Nella graphic novel “5 è il numero perfetto”
(2006), ideata da Igort nel 1994 e ambientata a Napoli negli anni Settanta, il dialetto viene usato per distinguere due generazioni, quella di
Peppino Lo Cicero, killer in pensione, e quella del figlio Nino, che sta
per uscire di casa. I due fanno un uso diatopicamente molto marcato
del dialetto, ma il padre in maniera molto più accentuata, mentre il figlio «si limita a qualche micro-regionalismo lessicale»,49 più comprensibile a livello nazionale (fetente, tenere per avere).
Nel contributo Il dialetto nella canzone italiana, Roberto Sottile
riflette sulla possibilità di un diverso approccio allo studio della lingua delle canzoni: non considerarle, cioè, unicamente testi scritti, e in
quanto tali analizzabili «con lo scopo principale di verificarne la distanza-vicinanza con l’italiano della tradizione (para)letteraria da un
lato, e la distanza-vicinanza con l’italiano colloquiale dall’altro»,50 ma
come un parlato cantato. Questo permetterebbe, infatti, di analizzarne
anche i tratti dialettali e gli elementi fonetici, per vedere, per esempio, come «certe pronunce e certe parole che si ascoltano nelle canzoni
possano essere lette in relazione al peso e/o alla rilevanza sociale che
alcune varietà areali assumono oggi nel quadro dell’italiano contemporaneo»: la pronuncia affricata, per esempio, «è obliterata in molti
artisti del sud Italia, come Venditti, De Gregori, Bennato, Pino Daniele, D’Alessio, il cantante dei Negramaro, Battiato».51 La tendenza
47 Pietrini, Dialetto e fantadialetto nel fumetto italiano, p. 149.
48 Ivi, p. 151.
49 Ibid.
50 R. Sottile, Il dialetto nella canzone italiana, in Dialetti reloaded, cit., pp. 167-87, p. 169.
51 Ivi, pp. 170171; cfr. G. Paternostro, R. Sottile, L’italiano “cantato” tra modulazione
diafasica, tradizione canzonettistica e accesso alla variabilità, in La lingua variabile nei testi
letterari, artistici e funzionali contemporanei. Analisi, interpretazione traduzione. Atti del
xiii Congresso SILFI – Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana (Palermo,
22-24 settembre 2014), a c. di G. Ruffino e M. Castiglione, Firenze-Palermo, Cesati - Centro
di studi filologici e linguistici siciliani, 2016, pp. 409-32.
Dialetti reloaded. Note di lettura
69
d’uso del dialetto nella canzone italiana segue due strade: una endolinguistica e una extralinguistica.52 La prima fa sì che il dialetto venga
usato per le soluzioni ritmiche e metriche che offre; la seconda porta
a considerare il dialetto come «lingua alternativa all’italiano standard,
ormai identificato con la lingua del potere, delle istituzioni, dei mezzi di comunicazione di massa».53 Le due strade ricalcano i due filoni
proposti da Coveri:54 quello lirico-espressivo, che ricerca «una lingua
poetica, mentale e personale»55 (esempio ne è Crêuza de mä di Fabrizio
De André) e quello simbolico/ideologico, che rende il dialetto espressione dei valori socioculturali di un determinato territorio, e simbolo
identitario, di legame con le proprie radici (come Le radici ca tieni,
dei Sud Sound System). Seguendo questo secondo filone, il dialetto,
nella canzone contemporanea, tende a richiamare il «suo bagaglio culturale, il suo ambito semiotico di riferimento e, recentemente sempre
più spesso, il suo stesso “territorio”»56 attraverso l’uso del dialetto non
solo attraverso i testi delle canzoni, ma anche per i nomi dei gruppi
musicali o dei singoli cantanti (Vorianova, Pupi di surfaro, Ramajca
Boys, Mala Manera).
Infine, Carolina Stromboli presenta Il dialetto sul grande schermo: esempi di napoletano nel cinema italiano. Insieme al romanesco, il
napoletano è sicuramente il dialetto più rappresentato, e vive un momento di svolta con i film di Massimo Troisi, in particolar modo Ricomincio da tre (1981), dove si registra «un nuovo atteggiamento verso
il dialetto, che non è più lingua della tradizione, né “lingua dei poveri”, né lingua “altra”, ma una delle possibili varietà del repertorio».57
E infatti Troisi alterna dialetto e italiano regionale «con continui code
switching da un codice all’altro»,58 con un parlato “sporco” ricco di in52 Cfr. anche L. Coveri, Per una storia linguistica della canzone italiana. Saggio introduttivo, in Parole e musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana, a c. di L. Coveri,
Novara, Interlinea, 1996, pp. 13-24, a p. 21.
53 G. Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone. Mezzo secolo di italiano cantato,
Bologna, il Mulino, 2010.
54 L. Coveri, La canzone e le varietà dell’italiano. Vent’anni dopo (1990-2010), in Varietà
e variazioni: prospettive sull’italiano. In onore di Alberto A. Sobrero, a c. di A. Miglietta,
Galatina, Congedo, 2012, pp. 107-17.
55 V. Coletti, L. Coveri, Da San Francesco al rap: l’italiano in musica, Firenze-Roma,
Accademia della Crusca - «la Repubblica», 2016, p. 93.
56 Sottile, Il dialetto nella canzone, cit., p. 177.
57 N. De Blasi, Cinema, dialetto, identità: a proposito di ‘Benvenuti al sud’, in Lo spettacolo delle parole. Studi di storia linguistica e di onomastica in ricordo di Sergio Raffaelli, a c.
di E. Caffarelli e M. Fanfani, Roma, SER, 2011, pp. 75-88.
58 C. Stromboli, Il dialetto sul grande schermo: esempi di napoletano nel cinema italiano,
in Dialetti reloaded, cit., pp. 189-211, a p. 192.
70
Silvia Tolusso
terruzioni, esitazioni, enunciati sospesi, ripetizioni che hanno lo scopo
di sollecitare e mantenere viva l’attenzione dell’ascoltatore. Troisi è un
caso unico negli anni Ottanta: altri film (Immacolata e Concetta, 1980,
e Le occasioni di Rosa, 1981, di Salvatore Piscicelli; Così parlò Bellavista, 1984, e Il mistero di Bellavista, 1985, di Luciano De Crescenzo) vedono un uso del napoletano riservato all’emarginazione, a personaggi
di bassa estrazione sociale, o come «lingua del comico, del cuore e della poesia»:59 lo stesso professor Bellavista, protagonista dei film di De
Crescenzo, parla un italiano regionale medio. È, questa, una situazione
che rispecchia la realtà (a Napoli la classe borghese non parla dialetto),
e che si ritrova anche nei film dagli anni Novanta in poi (per esempio,
in Vincenzo Salemme: L’amico del cuore, 1998; Amore a prima vista,
1999; E fuori nevica, 2014). Dagli anni Duemila in particolare, si è accentuato l’uso «realistico e non stereotipato del dialetto napoletano»60
in generi filmici anche molto diversi tra loro: si va da film sulla camorra
(Gomorra, 2008; La paranza dei bambini, 2019) al cartone noir Gatta
Cenerentola (2017), alle commedie (Benvenuti al sud, 2010) ai film storici o d’epoca (Noi credevamo, 2010; Capri-Revolution, 2018).
Specificamente dedicato al romanesco è il contributo scritto a quattro mani da Ugo Vignuzzi e Manuel Favaro, Dialettalità e neodialettalità nel “giallo all’italiana” contemporaneo (inserito nella seconda
parte del volume), che tratta del “giallo all’italiana”, la cui importanza
«è data dalla costante tensione di ripercorrere il legame con la tradizione e allo stesso tempo la necessità di rappresentazione verosimile
della realtà che si intende descrivere»,61 di modo da offrire un «punto
di osservazione privilegiato per la ricostruzione della storia linguistica
del secolo appena trascorso e della contemporaneità in atto».62 Il giallo
all’italiana si caratterizza da un uso fortemente mimetico del dialetto,
e questo è confermato dall’analisi di alcuni romanzi. Attento riproduttore del dialetto nel parlato è il pisano Marco Malvaldi, che nei dialoghi
del romanzo A bocce ferme (2018) rappresenta alcuni tratti pisano-livornesi, come la gorgia con il grado zero (simpatio), la rotacizzazione
della laterale (cardo) e il monottongamento (bono, fori). Altri autori,
ugualmente, riproducono la propria varietà locale nei dialoghi: il ca59 D. Di Bernardo, Napoli e il dialetto del cinema degli ultimi venti anni del Novecento, in
Lo spazio del dialetto in città, a c. di N. De Blasi e C. Marcato, Napoli, Liguori, 2006, pp. 75-90.
60 Stromboli, Il dialetto sul grande schermo, cit., p. 192.
61 U. Vignuzzi, M. Favaro, Dialettalità e neodialettalità nel “giallo all’italiana” contemporaneo, in Dialetti reloaded, cit., pp. 89-107, a p. 89.
62
P. Bertini Malgarini, U. Vignuzzi, La lingua del giallo all’italiana tra mimesi e
tradizione, in Perugia in giallo 2007, indagine sul poliziesco italiano, a c. di M. Pistelli e N.
Cacciaglia, Roma, Donzelli, 2009, pp. 77-92, a p. 77.
Dialetti reloaded. Note di lettura
71
labrese Mimmo Gangemi in La verità del giudice meschino (2015), il
milanese Gianni Biondillo in L’incanto delle sirene (2015), la triestina
Roberta De Falco in Nessuno è innocente (2013). In altri romanzi viene
privilegiato il lessico per l’inserimento delle varietà regionali: è il caso,
per esempio, di Maurizio De Giovanni (Cuccioli per i bastardi di Pizzofalcone, 2015, di ambientazione napoletana), che usa termini come
guaglione e creatura. Vignuzzi e Favaro si concentrano, poi, sull’analisi
di Palermo e Roma. Le due città, e i loro dialetti, godono di una grande
fortuna nel giallo all’italiana: Palermo, oltre ad Andrea Camilleri e al
Commissario Montalbano, annovera gli scrittori Santo Piazzese e Gian
Mauro Costa e le scrittrici Valentina Gebbia e Giuseppina Torregrossa;
Roma, invece, con i «suoi numerosi giallisti contemporanei come De
Cataldo, Mongai, Manzini, Quattrucci e Ricciardi»63 permette di parlare di un vero e proprio “caso Roma”.64 Il personaggio che ha avuto
maggiore successo è Rocco Schiavone, vicequestore-poliziotto trasteverino, protagonista del ciclo ideato da Antonio Manzini e trasferito
ad Aosta per punizione, a causa del suo carattere scorretto e violento.
Le caratteristiche del parlato – dell’italiano de Roma65 – di Rocco, sin
da Pista nera (romanzo pilota del 2013), rientrano tra quelle tipiche del
romanesco: forme aferetiche e apocopate (che so’ un autobus?, voglio
sapere se sei ’mbriaco), assimilazioni (annamo), regionalismi lessicali
(serci romani, gabbio). La romanità di Rocco è, comunque, sempre
rappresentata nei ricordi nostalgici del protagonista, che vive ad Aosta,
e non è regolarmente immerso nella sua varietà dialettale. Quest’ultima
emerge, di fatto, nell’interiorità del protagonista, e in pochi sporadici episodi della vita di Rocco. Oltre a Manzini, il romano emerge nel
giallo all’italiana anche grazie a Mario Quattrucci, che «richiama continuamente e nostalgicamente il romanesco di Belli, Dell’Arco, Marè e lo
sperimentalismo gaddiano del Pasticciaccio»66 già a partire dal cogno63 Vignuzzi, Favaro, Dialettalità e neodialettalità nel “giallo all’italiana” contemporaneo, cit., p. 99.
64
Cfr. P. Bertini Malgarini, U. Vignuzzi, Il romanesco nel giallo all’italiana, in
«Contributi di filologia dell’Italia mediana», xxiv (2010), pp. 175-94; Iid., Fattacci brutti
in Borgo. Mario Quattrucci e Roma “luogo del delitto”, in «Esperienze letterarie», xxxvii
(2012), pp. 111-16.
65 Cfr. U. Vignuzzi, Il dialetto perduto e ritrovato, in Come parlano gli italiani, a c. di T.
De Mauro, Firenze, La Nuova Italia, 1994, pp. 25-33; P. D’Achille, Italiano di Roma, in
Enciclopedia dell’italiano, a c. di P. D’Achille e R. Simone, Roma, Istituto della Enciclopedia
Italiana, 2011, https://www.treccani.it/enciclopedia/italiano-di-roma_(Enciclopedia-dell’Italiano); P. D’Achille, C. Giovanardi, Dal Belli ar Cipolla. Conservazione e innovazione
nel romanesco contemporaneo, Roma, Carocci, 2001, pp. 13-28; P. Trifone, Storia linguistica
di Roma, Roma, Carocci, 2008.
66 Vignuzzi, Favaro, Dialettalità e neodialettalità, cit., p. 102.
72
Silvia Tolusso
me del protagonista Luigi “Gigi” Marè (che richiama, appunto, Mauro
Marè). Caratteristica della lingua di Quattrucci è un plurilinguismo che
«si compone di diverse varietà, dall’italiano de Roma all’italiano colloquiale, dai gerghi alle interlingue dei personaggi di origine straniera».67
In Troppo cuore. L’ultima inchiesta di Marè (2018) lo scrittore esprime
una lunga riflessione sul romanesco, lingua capace di diffondersi nelle
parlate di tutti: anche un non romano, appena arrivato a Roma, inizia
poco dopo tempo a parlare romanesco. Certo, «non romanesco come
il Belli, né propriamente quel romano di Trilussa e Pascarella (già limato e assai addomesticato)», ma una lingua molto vicina al «romanese
(come lo chiamo io), che è la lingua di Roma del secolo nuovo».68 Il
romano di Quattrucci è presente in tutti i contesti: è maggiormente
rappresentato nelle parti dialogiche, ma sono anche presenti localismi
nella diegesi, nei passi più rappresentativi e nella narrazione endofasica,
in cui frasi colte si alternano a regionalismi e gergalismi.
67 Ibid.
68 M. Quattrucci, Troppo cuore. L’ultima inchiesta di Marè, Torino, Robin, 2018, pp.
85-86.
il 996 – Rivista del Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli
ISSN 1826-8234
anno XX – numero 3 – settembre-dicembre 2022 – pp. 73-77
Cronache
di Franco Onorati
Due i convegni sui quali il nostro Centro Studi ha concentrato
il suo impegno organizzativo e
scientifico per la seconda metà del
2022, prendendo lo spunto da due
ricorrenze centenarie significative: quella della Marcia su Roma e
quella della nascita di Pier Paolo
Pasolini.
Il fascismo, i dialetti, l’italiano
Nel centesimo anniversario
della Marcia su Roma, il convegno si è proposto di riflettere sulle
politiche del ventennio in relazione alla lingua italiana e ai dialetti,
con particolare riferimento a quattro aree tematiche, che sono state
oggetto di altrettante sessioni: La
politica linguistica del fascismo, La
politica scolastica del fascismo, Il
fascismo e l’Istituto Nazionale di
Studi Romani, La letteratura dialettale e le lingue di minoranza del
fascismo.
Sono noti il dibattito animato
da Giuseppe Bottai tra il 1934 ed il
1935 nella rivista «Critica fascista»
– inteso a definire il rapporto tra la
rivoluzione fascista e l’italiano –, e
soprattutto le influenze esercitate
dal regime sull’uso dell’italiano.
Ciò ha fatto sorgere l’urgenza di
riflettere sul senso e sui fini della
politica linguistica fascista: tensione all’innovazione o supporto
autoritario a indirizzi conservatori
e neopuristici già diffusi? Alla necessità di tale riflessione se n’è aggiunta un’altra, che scaturisce dalla
circostanza che il periodo fascista
si aprì con la più importante e duratura riforma della scuola nello
Stato italiano, quella realizzata
nel 1923 da Giovanni Gentile: è
apparso dunque del pari fruttuosa
una riflessione scientifica sul modello linguistico adottato durante
il Ventennio nelle scuole italiane,
sul ruolo della “prosa fascista”
nei manuali scolastici dell’epoca e
sulle forme che assunse nelle istituzioni educative la tentata eradicazione dei dialetti, ancora di uso
abituale per quattro quinti della
popolazione e quasi esclusivo per
due terzi degli italiani. Peraltro,
se l’avversione fascista per l’uso
dei dialetti è nota, più complesso
risultò il rapporto con la letteratura dialettale, strumento tanto di
esaltazione del regime quanto di
opposizione a esso.
Su queste basi, il convegno,
promosso dall’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea del
Consiglio Nazionale delle Ricerche (ISEM-CNR) in collaborazione con il nostro Centro Studi e con
l’Istituto Nazionale di Studi Romani, si è svolto nella sede dell’ISEM-CNR in piazza dei Cavalieri
di Malta nei giorni 19 e 20 otto-
74
bre 2022. Alla sua organizzazione
ha lavorato un comitato composto da Cosimo Burgassi, Davide
Pettinicchio, Emiliano Picchiorri,
Laura Ricci, Marcello Teodonio e
Giulio Vaccaro.
Pier Paolo Pasolini, Roma, il dialetto
La giornata di studi dedicata al
rapporto di uno dei più significativi intellettuali italiani del Novecento con Roma e il suo dialetto
si è svolta, in collaborazione con
l’Istituto Nazionale di Studi Romani, il 21 novembre presso la Biblioteca Vaccheria Nardi: una sede
ideale, fra le tante possibili entro
il Sistema delle Biblioteche Romane, per l’indubbia suggestione di
trovarsi in una zona della periferia romana – il Tiburtino iii – così
ricco di riferimenti alla vita e all’opera di Pasolini. Nel corso dell’incontro, si sono approfondite tre
linee di ricerca, relative al ruolo
svolto dalla critica pasoliniana
nella costruzione del canone della poesia dialettale novecentesca;
alla presenza del romanesco nella
sua produzione narrativa, teatrale
e cinematografica; alla tenace presenza di Roma nella sua biografia
e nel suo immaginario: si ricordi
che il trasferimento a Roma (1950)
cadde in un periodo estremamente
travagliato della sua vita, ed ebbe
su di lui un impatto folgorante,
come testimoniano le raccolte poetiche Sonetto primaverile e Roma
1950 e gli scritti in prosa poi raccolti in Alì dagli occhi azzurri
cronache
(1965). La topografia dell’Urbe
e il suo tessuto sociale sarebbero
poi stati, negli anni a seguire, uno
degli osservatori privilegiati per
confrontarsi con la degenerazione
antropologica determinata dalla
società dei consumi neo-capitalistica.
Al convegno hanno preso parte
Fabio Pierangeli (Pasolini davanti al carcere), Fabrizio Bartucca
(Le «canzonette» pasoliniane. Dal
Valzer della toppa a Cosa sono le
nuvole), Flavia Guidi (La Divina
Mimesis: la morte del plurilinguismo), Claudio Giovanardi (Pasolini tra italiano e romanesco), Kevin
De Vecchis (P.P. Pasolini e Cecilia
Mangini: due non romani alle prese
con il romanesco delle borgate negli anni Cinquanta), Franco Onorati (Pasolini-Sciascia-Dell’Arco:
un ménage à trois all’insegna del
romanesco. Genesi de Il fiore della poesia romanesca), Carolina
Marconi (Pasolini-Dell’Arco, un
carteggio sofferto). Nel corso del
convegno, alcuni ragazzi del Liceo Artistico Farnesina di Roma
che hanno preso parte al progetto
«Stupenda e misera città». Pasolini, percorsi di competenze trasversali (referente il prof. Pierluigi Di
Clemente) si sono alternati nella
lettura di brani tratti dalle opere di
Pasolini.
Presentato il libro I granci della
Marana
La Biblioteca Vaccheria Nardi
ha ospitato, il 3 dicembre 2022, la
presentazione del volume I granci
cronache
della Marana – Irene Bernasconi
e la Casa dei bambini di Palidoro,
curato da Elio Di Michele per Il
Formichiere di Foligno.
All’indirizzo di saluto di Marcello Teodonio sono seguiti gli
interventi degli insegnanti Egildo
Spada e Laura Rossin, coordinati dal curatore. Gemma Costa ha
dato voce ad alcuni brani del libro.
Dal cartaceo al digitale: un cantiere aperto
Nel 2021 il nostro Centro Studi
ha varato un programma di digitalizzazione delle proprie pubblicazioni: nel 2022 sono stati portati
a termine la digitalizzazione – e
diffusione gratuita sul nostro sito e
sulla nostra pagina Academia – delle riviste «Il Belli» e «Il 996». Sono
state altresì digitalizzate quattro
monografie: Belli da Roma all’Europa. I sonetti romaneschi nelle traduzioni del terzo millennio, a c. di
F. Onorati, Roma, Aracne, 2010;
Le voci di Roma, Omaggio a Giggi Zanazzo, a c. di F. Onorati e G.
Scalessa, Roma, il Cubo, 2011; Giuseppe Gioachino Belli, Gerolamo
Luigi Calvi, Un’amicizia milanese,
carteggio a c. di A. Spotti, Roma, il
Cubo, 2013; Giuseppe Gioachino
Belli, Il teatro, a c. di L. Biancini,
Roma, il Cubo, 2018.
Musicare Belli a ritmo di rock
L’8 ottobre 2022 la Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della
Musica, ove di solito l’Accademia
Nazionale di Santa Cecilia colloca
75
i concerti di musica da camera, ha
ospitato l’esecuzione di un concerto rock. La novità va salutata con
favore per almeno due motivi. Il
primo risiede nel constatare che la
gloriosa Accademia, la più antica e
importante istituzione votata alla
musica strumentale, ha allargato
il perimetro delle offerte musicali, ospitando in modo continuativo anche il vasto arcipelago della
musica leggera. Il secondo motivo
riguarda una singolare circostanza: quel concerto era affidato alla
band Ardecore, che, fin dalla sua
formazione, nel 2005, su iniziativa
del cantautore folk e blues Giampaolo Felici, si è posta l’obiettivo
di rielaborare in chiave moderna le
canzoni appartenenti alla tradizione popolare romana, rispettandone
la struttura e le particolarità stilistiche. L’ultimo dei lavori pubblicati
è 996 – Le canzoni di G.G. Belli: in
estrema sintesi, 28 sonetti belliani
sono stati musicati e arrangiati da
Felici, affiancato nella composizione da Adriano Viterbini e Gianluca
Ferrante.
All’esecuzione è stato distribuito un fascicolo con i testi dei sonetti (comprensivi delle note autografe
di Belli), tutte le partiture, alcune
illustrazioni e la prefazione del nostro Marcello Teodonio. Insomma,
un vero e proprio programma di
sala.
Sul merito del concerto e sulla
storia degli Ardecore – il cui nome
crea un bisticcio tra il romanesco
core che arde e l’inglese hardcore
– rinviamo all’intervento che Luigi
Giuliani promette per un prossimo
76
fascicolo della rivista, in cui lo studioso metterà a fuoco il valore della
sperimentazione musicale di questo complesso. Ma a un belliano “di
complemento” come chi scrive sia
concessa un’obiezione. L’eccessivo
volume sonoro con cui Felici interpreta Belli quale servizio rende
al poeta, se la “caciara” assordante della musica non consente allo
spettatore di percepire i versi dei
sonetti? Se insomma l’operazione
si presenta come un coraggioso e
persino colto tentativo di accostare
sonorità rockettare, sparate a suon
di decibel, alle rime di Belli, il mio
dubbio è che quelle stesse sonorità
finiscano per demolire i testi, che
restano sullo sfondo come un suggestivo ma remoto riferimento.
In replica Trilussa 1922
L’inchiesta-spettacolo su Trilussa uomo e poeta (così in locandina
recitava il sottotitolo dell’evento),
già presentata la scorsa estate nella corte del Palazzo Mediceo di
Seravezza, è stata replicata il 1° dicembre 2022 in una sede suggestiva
come la Biblioteca Angelica, sede
dell’Accademia dell’Arcadia, sotto
le cui insegne la manifestazione è
stata promossa. L’opera, scritta da
Claudio Costa e diretta da Andrea
Aureli, è stata interpretata da Gemma Costa e Luca Giacomini.
L’83a edizione della «Strenna dei
Romanisti»
Se 83 edizioni, dal 1940 ad oggi,
vi sembrano poche…
cronache
Tra le tante peculiarità che
Roma può vantare, un posto di
rilievo si merita l’annuale antologia di studi sulla Città, curata
dal Gruppo dei Romanisti; non
sappiamo quale altra capitale nel
mondo può vantare una tale continuità editoriale.
I saggi che vi figurano vertono su temi per molti aspetti affini
a quelli del nostro Centro Studi,
tant’è vero che tra i collaboratori presenti in questa edizione figurano alcuni nostri soci: tra gli
altri Laura Biancini (Ceccarius,
cose romaniste e Cose: un ricordo
a 50 anni dalla scomparsa) e Franco Onorati (Lo scultore Luccardi,
amico romano di Verdi).
Il volume è stato presentato il
19 dicembre 2022 nella sala conferenze della Fondazione Roma;
dopo l’introduzione dell’editore
Francesco Piccolo e l’indirizzo
di saluto dell’attuale Presidente
del Gruppo dei Romanisti Donato Tamblé, hanno preso la parola
Laura Biancini e Luca Verdone.
Massimo Popolizio e il “suo” Belli
Dopo il successo dello scorso
anno Massimo Popolizio ha riproposto al Teatro Argentina, nelle
due serate del 26 e 27 dicembre, la
lettura dei Sonetti di Belli, insieme
al critico Valerio Magrelli.
Ormai collaudata, la formula
dell’accostamento fra sonetti erotici e sonetti meditativi nasce da
una intuizione di Pietro Gibellini
che con quel titolo licenziò nel
2012, per Adelphi, una delle sue
cronache
dense antologie. Eros e Thanatos,
Carnevale e Quaresima, martedì
grasso e mercoledì delle ceneri si
alternano dunque e convivono; ed
è questo il percorso che Popolizio,
con la sua robusta ma essenziale
dizione, ha offerto agli spettatori, lasciando a Magrelli incursioni
77
all’insegna dell’approfondimento
letterario: questo tracciato parallelo, in una sorta di riuscita competizione, ha fatto confrontare il
timbro dell’attore e i ragionamenti
dello scrittore ed è risultato utile
a mettere in luce la complessità
dell’universo belliano.
il 996 – Rivista del Centro Studi Giuseppe Gioachino Belli
ISSN 1826-8234
anno XX – numero 3 – settembre-dicembre 2022 – pp. 79-82
Libri ricevuti
a cura di Laura Biancini
Dinamiche e politiche culturali nell’età di Leone XII, a cura di
Giovanna Capitelli, Ilaria Fiumi Sermattei, Roberto Regoli,
«Quaderni del Consiglio regionale delle Marche», 361 (dicembre 2021), 460 pp., ill.
Era il 2012 quando fui contattata da Ilaria Fiumi Sermattei per
un contributo a proposito della ricostruzione della Basilica di
San Paolo fuori le mura, distrutta
da un terribile incendio nel 1823.
La ricostruzione fu poi avviata da
papa Leone xii, eletto proprio in
quell’anno. Ilaria mi spiegò che
quello era l’inizio di un progetto
che avrebbe studiato la figura e
l’opera di quel papa, pubblicando
periodicamente altri volumi per
giungere al 2023, anno del centenario dell’elezione al soglio pontificio di Annibale della Genga.
L’invito mi fece molto piacere e
infatti da lì nacque l’amicizia con
Ilaria, ma suscitò in me un certo
sgomento pensando ad una meta
così lontana. E invece eccoci arrivati, siamo nel 2023 e il volume che
presentiamo oggi è per ora l’ultimo della serie.
In un progetto così vasto, condotto e portato avanti con rigore,
tanti sono stati gli argomenti trattati dopo l’incendio e la ricostruzione di San Paolo fuori le mura:
ovviamente la politica, la cultura,
la religione e la società proponendo
ogni volta interessanti approfondimenti con contributi studiosi italia-
ni e stranieri. Il volume in oggetto
propone una serie di studi nei quali
la cultura tutta, la sua pratica, la
sua gestione, le istituzioni preposte
(università, accademie, seminari)
assurgono a protagoniste componendo un interessante quadro delle
«strategie nonché [de]gli strumenti
di promozione e controllo del sapere a Roma nel terzo decennio del
xix secolo, momento cruciale del
passaggio dall’età moderna a quella
contemporanea», come bene sottolinea Dino Latini nella sua presentazione (p. 8). E dunque il coinvolgimento è generale, dalla musica
nella sua doppia valenza, sacra ma
anche come intrattenimento squisitamente laico, e poi le arti tutte.
Non mancano gli interessanti punti
di vista degli stranieri, residenti o di
passaggio, l’analisi del patrimonio
artistico e della sua conservazione e
poi il confronto con cultura scritta
e la sua circolazione, questioni delicate e difficili da trattare. Mentre in
una dimensione totalmente innovativa sotto il pontificato di Leone xii
la Sala di pubblica esposizione delle
Belle arti in piazza del popolo «viene aperta e gestita direttamente dal
Camerlengato che ne regola l’uso»
(Fiumi Sermattei, p. 492)
80
La vastità e complessità degli
argomenti trattati, in questo come
in tutti gli altri volumi, chiarisce i
propositi iniziali di questo progetto distribuiti nell’arco di dieci anni:
lo scopo principale era di non arrivare all’anno delle celebrazioni con
il fiato corto ma soprattutto con un
tempo limitato. Ricordo che Ilaria
Fiumi Sermattei mi aveva spiegato
al telefono questa esigenza che mi
libri ricevuTi
sembrò ragionevole e placò in parte
il mio sgomento: un arco di tempo
più comodo avrebbe permesso invece di sviluppare ricerche, proposte ma anche mostre con tempi
adeguati e arrivare alla scadenza
dell’anniversario con il lavoro già
fatto e ampiamente diffuso senza
rinunciare a nulla per mancanza di
spazio. E così è stato!
Roma e il mondo. Scritti in onore di Rita Giuliani, a cura di Silvia
Toscano, Julija Nikolaeva, Paola Buoncristiano, Roma, Lithos,
2019, 646 pp., ill. (titolo anche in russo)
Benvengano i libri in onore di…:
riservano a volte piacevoli sorprese, vere e proprie chicche, anche se
spesso il problema è la non omogeneità degli argomenti. Ma tale
varietà è benvenuta nel caso di una
raccolta come questa in onore di
Rita Giuliani: più di 646 pagine di
saggi, nella maggior parte dei quali
possiamo leggere interessanti testimonianze «degli intensi rapporti fra
la Russia e l’Italia: Roma in special
modo occupa un posto importante in questa fitta e diffusa rete di
relazioni», come sottolinea Giovanni Solimine nella sua premessa.
Ugualmente numerosi sono i saggi
che invece danno conto dell’impegno che Rita Giuliani ha sempre
generosamente e appassionatamente spesso per far emergere proprio
queste importanti relazioni, questi
rapporti, così profondi e singolari
come si può verificare ad esempio
nel bel volume da lei stessa curato
con Paola Buoncristiano, Il gladiatore e la rusalka. Roma nella poesia
russa dell’’800 (Roma, 2015, Lithos).
Non potendo render conto di
tutti i saggi qui contenuti, cercheremo almeno di suggerire alcuni
argomenti trattati: si va dai bibliotecari cultori della Russia all’inizio
del Novecento, come Guglielmo
Passigli, ai grandi slavisti come
Enrico Damiani; si presta attenzione a Roma e all’Italia viste con gli
occhi, i pennelli, i versi o le parole
di viaggiatori, pittori, poeti o narratori russi, ma anche all’inverso,
ovviamente, e in questa dimensione ci sorprendono le curiose considerazioni di Giuseppe Gioachino Belli, così come ci commuove
sempre la testimonianza di Elia
Marcelli insieme a Li Romani in
Russia (Roma, Bulzoni, 1988, poi
Roma, il Cubo, 2008), nella tragica
campagna durante la seconda guerra mondiale. E poi c’è la Roma di
libri ricevuTi
Gogol’ e quella di Tolstoj e tanto
altro in un continuo andirivieni tra
la Città eterna, San Pietroburgo o
Mosca.
81
Una lettura che è un meraviglioso viaggio che val la pena intraprendere.
Manlio Baleani, Bernarda di Montalboddo, Ancona, affinità
elettive, 2022, 172 pp.
Con questo racconto si chiude
probabilmente la saga marchigiana
di Manlio Baleani. Siamo al terzo
momento di una trilogia nella quale realtà e fantasia si fondono in
un sapiente dosaggio nello svolgimento di tre storie che hanno come
denominatore comune Giuseppe
Gioachino Belli.
Nel primo libro, Giuditta di
Morrovalle (2018), i personaggi
sono tutti reali, come sono reali le
vicende che fanno da sfondo alla vicenda. Marianna Roberti, Vincenza
Perozzi Roberti, Pirro Perozzi, la
loro figlia Matilde, Ignazia Roberti,
sorella di Vincenza della quale nella realtà si è sempre saputo e detto
ben poco e infine Giuseppe Gioachino Belli. Le vicende che vedono
protagonista la balia della piccola
Matilde, Giuditta, sono pura fantasia.
Il secondo libro, Antonino da
Treja, ha come protagonista il figlio di Giuditta, il cui nome è nel
titolo; Antonino vive la sua maturità in un’Italia ormai unita alla cui
vita politica e sociale egli partecipa
con impegno e responsabilità civica. Anche qui interagiscono personaggi reali e inventati.
Il terzo, Bernarda da Montalboddo, a differenza dei primi due,
ha invece come protagonista un
personaggio reale, la Bernarda del
titolo, che Belli conobbe – come
leggiamo sulle pagine del suo Journal du vojage – per l’esattezza l’8
agosto 1827, quando ripartì da Ancona in direzione di Senigallia e con
lui prese posto nella vettura «une
femme qui était venue avec nous
de Rome où avait etée tratait une
affaire pour son mari dépositaire
de la caisse publique de Monte Alboddo». A partire da quelle poche
informazioni Baleani ha fatto riemergere quella signora dagli archivi locali, scoprendo la sua identità e
il brutto affare che l’aveva portata
Roma a perorare la causa del marito che aveva causato un ammanco
nelle casse del comune. Tra un archivio e l’altro è stato possibile ricostruire la vita di Bernarda, il suo
matrimonio con Pietro Pranzetti,
un matrimonio sereno, nonostante
qualche inevitabile contrarietà, non
ultima l’impossibilità di avere figli.
Quell’errore di suo marito poteva
essere fatale ma Bernarda dimostrò
incredibile coraggio, affrontando
da sola il viaggio fino a Roma, per
tentare una possibile soluzione, che
ottenne.
La struttura del romanzo è
identica a quella degli altri due ma
82
forse questo è quello che risulta
meglio raccontato e meglio strutturato, sullo sfondo del suggestivo panorama delle Marche, della
sua gente, dei suoi luoghi, dei suoi
mercati. E tutto questo emerge da
quelle poche righe che Belli dedica
alla sua compagna di viaggio, con la
quale però aveva condiviso anche
uno sgradevole incidente a causa
libri ricevuTi
dei cavalli della diligenza, improvvisamente imbizzarriti. Per fortuna
tutto si concluse senza conseguenze, tranne molto spavento: così la
povera Bernarda, dopo aver ringraziato Giuseppe Gioachino Belli, poté tornare al suo paese certamente soddisfatta della sua vittoria
romana.
Silvano Fazi, Me sa mijj’anne. Ovviro le avventure e disavventure de òtto generażżïò de contadì de le parte de Macerata,
Montecassano (MC), Vydia editore, 2021, 398 pp., ill.
Restiamo in area marchigiana
con questa interessante opera nella
quale l’autore nel dialetto del maceratese narra con personaggi più o
meno veri le vicende, quelle sì vere
e non certo facili, di ben otto generazioni di contadini nelle campagne
intorno a Macerata.
Nonostante la difficoltà di lettura risulta evidente l’efficacia
dell’esperimento: chiamare le cose
con i loro nomi locali, ben al di là
di una forma di iperrealismo o di
virtuosismo linguistico, svolge invece nello stesso tempo la funzione
di dare risalto a quanto si narra e di
ridimensionare qualsiasi enfasi, con
il risultato di un quadro più efficace
e nello stesso tempo denso di emozioni.