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QUALCHE PAROLA SULLE RECENTI ALLUVIONI IN ROMAGNA

2023, QUALCHE PAROLA SULLE RECENTI ALLUVIONI IN ROMAGNA

Leardo MASCANZONI QUALCHE PAROLA SULLE RECENTI ALLUVIONI IN ROMAGNA Questo tema, che oggi è cronaca ma che presto sarà storia, ritengo sia più che degno di entrare fra le pagine di Academia. edu. Premetto subito che essendo un alluvionato che ha subito danni non indifferenti la mia voce potrebbe risultare troppo coinvolta e scarsamente lucida. Accetto questo rischio come prezzo pagato al dovere morale e civile di partecipare, di prendere parte. D’altro canto, sono anche uno storico di mestiere e questo mi illudo possa controbilanciare un po’ in termini di razionalità l’inevitabile passione che l’essere stato coinvolto dagli avvenimenti può instillare nel mio parlare. La Romagna, la mia regione, è stata investita fra gli inizi e la metà del mese di maggio del 2023 da una di quelle che oggi si definiscono, nel discutibile linguaggio corrente dei mass-media, “bombe d’acqua”. La violenza estrema del fenomeno, verificatosi prima sulla fascia montuosa-collinare poi in pianura, ha portato ad un vero e proprio sfarinarsi di intere vallate appenniniche e a imponenti e furiose piene di tutti i fiumi (più che fiumi occorrebbe parlare di “torrenti”) che a valle non sono più stati contenuti dagli argini e che hanno ripetutamente esondato confondendo le loro acque con quelle di una rete canalizzata pure scoppiata e col salire di acque putride e melmose da reti fognarie spesso collassate. E’ onesto dire che in ogni modo sarebbe stato difficile per chiunque fermare l’impeto di un fenomeno abnorme presentatosi con 2 giorni di precipitazioni pari alla quantità di 8 mesi. E’ però altrettanto onesto dire che una maggiore cura del territorio avrebbe forse contenuto l’impatto distruttivo del fenomeno. Una prima domanda: di chi la “colpa”, se vogliamo usare questo termine di sapore biblico ed improprio che fiorisce con comprensibile ma non per questo condivisibile risentimento sulle bocche di non pochi degli abitanti coinvolti? Se c’è una colpa, questa è prima di tutto del cambiamento climatico, sebbene molti, nel bisogno umano di trovare dei capri espiatôri, si rivolgano in maniera sbrigativa e diretta ad entità facilmente raggiungibili e concrete come gli amministratori, non di rado addirittura minacciati nella loro incolumità. Anche gli amministratori, lo vedremo, hanno le loro colpe e non lievi ma la colpa prima -se vogliamo continuare a parlare in questi termini- non può che essere attribuita al cambiamento climatico che la scienza ci avverte da troppo tempo essere ormai decisamente in atto. Il clima sulla terra è sempre mutato sottoponendo le società umane a periodi più freddi o più caldi, con tutti i problemi a ciò connessi, ma mai, che si sappia, il clima è mutato con tanta rapidità. Chi è anziano ricorda molto bene (fatta anche la tara alle deformazioni e alle soggettività della memoria) che il clima meteorologico della sua gioventù non era assolutamente lo stesso di quello con cui dobbiamo convivere oggi. E il clima è cambiato e sta cambiando ponendoci sempre più di frequente di fronte a bruschi fenomeni di tropicalizzazione con lunghi periodi di siccità alternati a distruttive tempeste; ciò perché lo stile di vita e le inquinanti emissioni nell’atmosfera che tale stile di vita comporta sono impossibili da modificare (le raccolte differenziate del pattume non sono che palliativi) finchè dipendiamo da potentissimi e pervasivi interessi economici e finanziari ultracapitalistici e multinazionali, cui la politica è totalmente succube (specie in Occidente ma non solo), che ci dettano comportamenti innaturali e ci impongono esigenze assolutamente indotte e funzionali soltanto alla continua crescita del loro già mostruoso ed immorale fatturato. Questa, comunque la si voglia trattare o comunque la si voglia negare, come fanno purtoppo non irrilevanti espressioni politiche e culturali in Italia e nel mondo, è senza alcun dubbio la causa prima. La natura, umiliata e maltrattata, “si vendica”, per così dire, e fa valere i suoi diritti di più forte sull’assai più debole uomo che, da parte sua, ha il grave torto di essersi ritenuto e di continuare a ritenersi arbitro e padrone della natura. Nulla di più profondamente e tragicamente stolto. Ma la colpa prima, o la responsabilità prima, non esclude responsabilità secondarie sì ma ben presenti. Le responsabilità secondarie sono dei politici e degli amministratori. Di coloro, cioè, che si sono passivamente adagiati, da decenni, su un modello culturale di sviluppo ultracapitalistico vorace e assolutamente predatorio figlio di un “pensiero unico” che ha ormai rivelato in una quantità di casi tutta la sua inadeguatezza di fronte ai bisogni fondamentali dell’umanità. E questo è il caso dei politici, incapaci di proporre modelli di sviluppo alternativi, e, in secondo luogo, della folta categoria degli amministratori locali incapaci, a loro volta, di proteggere territori costantemente violentati dalle speculazioni figlie delle distorsioni di cui poco sopra. L’elenco delle inadempienze e delle complicità degli uni e degli altri sarebbe lungo ma è il caso di ricordare qui soltanto alcune voci più direttamente legate a quanto è appena accaduto: gli indiscriminati disboscamenti nelle fasce collinari e il sovvertimento, spesso avvenuto a fini turistici e consumistici, di delicati equilibri orogenetici che hanno privato i terreni, già gravati da forti dislivelli altimetrici, del provvidenziale apporto di radici indispensabili ad ostacolare movimenti franosi e a contenere piene rovinose nel primo caso e hanno determinato violenti fenomeni erosivi, nel secondo, con conseguenze spesso letali per i singoli e le comunità. In pianura, poi, si è verificato un sistematico saccheggio dello spazio con cementificazioni e urbanizzazioni ingiustificate (funzionali soltanto alla speculazione edilizia) e spesso portate fin a lambire i corsi d’acqua, col peso di sovrastrutture a loro volte invasive e di cui non si avvertiva il bisogno (non si può non pensare, per fare solo un esempio, alla pletora di supermercati sorti dovunque come funghi negli ultimi anni). A ciò si è aggiunto -cosa gravissima- la mancata e periodica ripulitura dei letti dei fiumi e dei corsi d’acqua in genere, divenuti spesso boschi abitati da bestie per lo più importate e assai pericolose per la stabilità degli argini a causa delle loro tane profonde e tortuose. Essendo vissuto fino ai miei 40 di vita quasi a diretto contatto col Santerno, ricordo molto bene, nei tempi della mia infanzia, gioventù e prima maturità, i lavori di pulizia e disboscamento che venivano periodicamente svolti nel letto del fiume. Cosa di cui si è persa la pratica. Certo per scarsità di fondi, in primo luogo, ma forse anche per una certa miopia di chi doveva pensarci. Così come si dovevano scavare casse di compensazione che in genere -non sempre per fortuna- mancano ma che purtroppo, anche se presenti, necessiterebbero di maggiori profondità ed estensione. Ed è un triste vanto della provincia di Ravenna, inoltre, quello di essere stata negli ultimi anni ai primi posti in Italia nella classifica delle cementificazioni. Mi chiedo anche quanto una troppo scarsa interazione università-enti locali possa avere influito a determinare la catastrofe. Vorrei cioè sapere se la classe degli attuali amministratori, pur animati nel migliore dei casi dal più generoso spirito civico e comunitario ma mediamente abbastanza giovani di età e di esperienza, fosse del tutto consapevole di come si sia formato nel tempo il nostro territorio, di quanto sia storicamente fragile e di quanto e come andrebbe tutelato. La responsabilità è anche di noi addetti che non ci siamo spesi abbastanza per far conoscere le vicende e la morfologia di un territorio costruito nei millenni col fango e i detriti del Po e di tutti i fiumi di quella che è poi diventata la pianura padana. Che non abbiamo insistito a sufficienza per diffondere fra chi di dovere la cognizione e la matura consapevolezza di come, già dal tardo medioevo per esempio, gli statuti comunali fossero ansiosamente preoccupati del problema delle acque e di come fosse assolutamente primaria la necessità, specie nelle nostre zone della Romagna ”estense”, di tenere puliti gli alvei di tutti i corsi d’acqua per evitare che si intasassero e straripassero. Col corollario di pene molto severe per chi, investito dalla comunità di tale responsabilità, avesse disatteso queste fondamentali norme del vivere associato in una zona di spiccata vocazione idraulica ed agricola. Fra i miei maestri ho avuto l’inestimabile privilegio di annoverare Lucio Gambi, pioniere e fondatore della cosiddetta “geografia antropica” in Italia, cioè di quella disciplina che studia come l’uomo col suo costante intervento modifichi il territorio perché la geografia, intesa come disegno del territorio e insieme di assetti che questo ospita, non è qualcosa di dato una volta per tutte e di immutabile ma è qualcosa che l’uomo trasforma e plasma continuamente, nel bene e nel male, a seconda delle sue necessità o dei suoi desideri; necessità che possono essere di legittima e giusta tensione verso il meglio ma anche desideri di malsana e conformistica acquiescenza a modelli sbagliati e di puro sfruttamento. Purtroppo non siamo riusciti a far filtrare sufficientemente nella società civile la grande lezione di Gambi che, nella sua più intima essenza, significava, già parecchi decenni fa, rispetto delle esigenze dell’uomo nel contemporaneo rispetto di quelle della natura. E si può dire che la cosiddetta “terza missione” dell’attuale “burocratese” accademico, cioè la disseminazione nella società del sapere scientifico rivolta al miglioramento collettivo, in questo caso sia stata carente. Si può ancora riparare?