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Il passato e il soggetto: morfologie dell'archivio

Introduction to the Italian translation of: Jean-Luc Nancy, Où cela s’est-il passé? (interview with Nathalie Léger, published on "Le Lieu de l’archive", suppl. of "La Lettre de l’Imec, Paris-Caen 2011)

Introduzione Il passato e il soggetto: morfologie dell’archivio Ciò che, di noi, resta? Ma esiste altra cosa che un resto, un resto impalpabile, una traccia che lentamente si sta cancellando e che incomincia sempre già sensibilmente a cancellarsi ogni giorno che passa? Io sono stato? Spesso me lo domando. Jean-Luc Nancy Che cosa significa passare? Significa essere in un luogo e al contempo non esserci. Jean-Paul Sartre Il luogo dell’archivio Il tema dell’archivio è la questione centrale in Où cela s’est-il passé?, testo frutto di una conversazione fra Jean-Luc Nancy e Nathalie Léger, direttrice dell’Institut Mémoires de l’édition contemporaine. Fra i più rilevanti archivi francesi nel settore delle scienze umane e delle arti, l’Imec ospita il lascito (integrale o parziale) di filosofi che in vario modo hanno marcato la storia della filosofia francese. Fra questi, Léon Brunschvicg, Lucien Lévy-Bruhl, Emmanuel Mounier e, più vicini a noi, Emmanuel Lévinas, Louis Althusser, Michel Foucault, Jacques Derrida, Edgar Morin. Ma si potrebbe proseguire con i lasciti di artisti, scrittori, cineasti, come Samuel Beckett, Jean Genet, Alain RobbeGrillet, Marguerite Duras, Tahar Ben Jelloun, Yves Bonnefoy, Chris Marker o Eric Rohmer. L’elenco potrebbe continuare. Questi nomi e questi resti rappresentano uno sfondo silenzioso del testo, uno scenario capace di ingenerare risonanze che il lettore potrà agevolmente percepire, mentre le parole della Léger incorniciano perfettamente il testo su tale sfondo: «che cos’è un luogo? È innanzitutto la relazione fra uno spazio e una funzione. E che cos’è l’archivio? È ciò che resta, si dirà, ma è anche, dice l’etimologia, ciò che inizia. “Il luogo dell’archivio” si propone di esplorare, in compagnia di scrittori, ricercatori o artisti, differenti configurazioni di questa relazione all’archivio: come esaminare il passato del proprio lavoro? qual è la sua materia, quali sono i suoi oggetti? qual è la parte della cancellazione e della distruzione? come iniziare con ciò che resta? “Il luogo dell’archivio” che qui instauriamo supera la questione istituzionale e amministrativa, appartiene a ciascuno ma chiarisce un’idea generale, insiste sull’eccesso o l’assenza, reca la marca del biografico, permette, attraverso oggetti molto concreti, di parlare del sapere, del tempo e della morte, della scomparsa e dell’invenzione»1. Nel corso del Novecento il tema dell’archivio fuoriesce progressivamente dal campo di pertinenza delle discipline storico-filologiche2. Oggi appare chiaro come la gestione dei lasciti o la pubblicazione degli inediti possa assumere un’importanza strategica nella ricerca su un autore. Ogni archivio è un luogo: non soltanto un’estensione fisica, ma uno spazio che rende possibile un ampio ventaglio di operazioni intellettuali. Questo non solo quando l’archivio è operativo e consultabile, ma sin dal momento della sua costituzione materiale e, forse, della sua ideazione. Naturalmente, fra queste operazioni vi è anche quella, tanto delicata e praticata, e per certi versi ambigua, che è la costruzione dell’immagine di un filosofo. Se è vero che l’archivio è uno fra gli attori del teatro culturalfilosofico odierno, è anche vero che sul piano strettamente teorico, l’archivio rappresenta un oggetto paradossale e, in ciò, pienamente filosofico. Tramite gli archivi e la loro consultazione noi possiamo estendere le conoscenze intorno a un filosofo, perfezionare le ricerche e moltiplicare piste e ipotesi. Tuttavia, l’esistenza di un archivio rappresenta di per sé una fonte di domande supplementari per la filosofia. Come funziona l’archiviazione, nel suo ancipite senso di conservazione, ma, al contempo, di deposizione o perdita? Qual è il momento in 1 Cfr. l’introduzione, presente solo nella versione francese, alla collana Le Lieu de l’archive: N. Léger, “Le Lieu de l’archive”, in J.-L. Nancy, Où cela s’est-il passé?, Imec, Paris-Caen 2011, p. 3; tr. it. di I. Pelgreffi, Dov’è successo?, Kainos Edizioni, Youcanprint, Tricase 2014. 2 Sulla polisemia del termine archivio, la cui definizione è legata sia al luogo (il locale di conservazione), sia all’istituzione, sia all’insieme materiale dei suoi oggetti (il fondo), come pure sulle distinzioni fra archivio, catalogo e biblioteca, cfr. il “classico” E. Lodolini, Archivistica. Principi e problemi, FrancoAngeli, Milano 200513, pp. 13-143, con ampia bibliografia specifica, cfr. ivi, pp. 446-471. Per altri aspetti del concetto di archivio toccati in questa introduzione, come bibliografia si può vedere il repertorio F. Di Giammarco, Cultura digitale. Biblioteche, Internet, Libri e Nuove tecnologie. Dieci anni di articoli: 2000-2009, Simple, Macerata 2010. Cfr., inoltre, il monografico “Archivio”, «Fatamorgana», 2, 2007 (in merito alla questione dell’archivio visuale), e Mémoires et Internet, a cura di N. Pignier e M. Lavigne, L’Harmattan, Paris 2010 (per la relazione fra scrittura privata e archiviazione sul web). 2 cui davvero archiviamo qualcosa? In definitiva: dove ha luogo un archivio, cioè dove (a che cosa, o a chi) succede? In una riflessione di impianto decostruttivo, o post-decostruttivo, come quella di Nancy, ciò significa chiedersi dove inizia e dove finisce un archivio, non soltanto nello spazio ma anche nel tempo. Quando l’archivio è fatto oggetto di riflessione si rende manifesta la sua materia più tipica, che in senso lato non è né quella della carta o dei supporti informatici, né quella dell’organizzazione formale e astratta delle sue parti. La materia dell’archivio è nascosta nel chiasma fra lo spazio e il tempo che struttura l’archivio, un chiasma che gli conferisce la tipicità della sua forma estetico-trascendentale: questa determina il modo di essere, ossia la morfologia, del fenomeno-archivio. Un tale fenomeno è forse riconducibile al differire del tempo nello spazio (l’estensione del margine fra ciò che è archiviato e ciò che non lo è incerta) e al differire dello spazio nel tempo (il suo quando, sempre rinviabile altrove). In altre parole, non possiamo comprendere l’archivio se non immaginiamo un intreccio fra spazio dell’archivio e tempo dell’archivio così come fra spazio dell’archiviazione e tempo dell’archiviazione, cioè quello che, in termini derridiani, potremmo pensare come una différance spazio-temporale, nel senso di una spazializzazione del tempo e di una temporalizzazione dello spazio. Mi pare, del resto, che sia sopra questa falsariga derridiana che Nancy esplori il concetto di istituzione dell’archivio, discutendo la logica che presiede alla conservazione, alla validazione, al controllo dei documenti, e toccando il problema dell’arché dell’archivio. Quale può essere il principium di un archivio, sia come sua intima ratio, sia come commencement temporale, cioè inizio (arché)? E di qui, ancora, come comando, vale a dire come azione che indirizza un’opera futura, sconfinando nell’etimologia incerta in cui l’archeîon greco indicava, seguendo Derrida, «in primo luogo una casa, un domicilio, un indirizzo, la residenza dei magistrati supremi, gli arconti, coloro che comandavano»3? Tutto questo per dire che qualsiasi ragionamento sul luogo e sul tempo di un archivio evidenzia il suo carattere di oggetto paradossale: proprio l’oggetto, o il dispositivo, che più di tutti fissa il luogo e la data, si rivela essere l’elemento che rende meno stabile la nostra abitudine epistemologica. Il che significa: proprio ciò che fonde assieme lo spazio e la vita, il locus e la data, intrecciandoli in quella forma culturale che definiamo datum – secondo regole e codici che andrebbero 3 J. Derrida, Mal d’archive. Une impression freudienne, Galilée, Paris 1995; tr. it. di G. Scibilia, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, Napoli 1996, p. 12. 3 lentamente esplorati e discussi, particolarmente oggi – è quanto rimette in discussione il datum, inteso quale irrinunciabile fondamento per ogni tipo di savoir. Decostruzione archeologica Où cela s’est-il passé? pone quindi la domanda sull’archeologico, sul valore e sulla seduzione dell’arché in filosofia, e dunque sul problema dell’origine. In questo senso, una prima osservazione è che il testo può essere letto anche come una sorta di dialogo a distanza sia con Derrida che con Foucault: in modo più diretto col primo, che viene anche citato; più in trasparenza con il secondo. L’incipit del testo di Derrida Mal d’archivio potrebbe del resto essere posto all’inizio anche del testo di Nancy: «perché rielaborare oggi un concetto dell’archivio? In una sola e stessa configurazione, nello stesso tempo tecnica e politica, etica e giuridica?»4. L’archivio riconvoca un raddoppiamento, un’apertura in cui si affacciano e si riflettono reciprocamente, come vedremo, il mondo privato di un autore e il mondo sociale dei suoi posteri. Si deve sempre, pertanto, «distinguere l’archivio da ciò al quale lo si riduce troppo spesso, specialmente l’esperienza della memoria e del ritorno all’origine, ma anche l’arcaico e l’archeologico, il ricordo e lo scavo, in breve la ricerca del tempo perduto […] esteriorità di un luogo, messa in opera topografica di una tecnica di consegna, costituzione di un’istanza e di un luogo d’autorità (l’arconte, l’archeîon, cioè spesso lo Stato […]) questa sarà la condizione dell’archivio. Questo non si rivela dunque giammai nel corso di un atto di anamnesi intuitivo che risusciterebbe, vivente, innocente o neutro, l’originarietà di un evento»5. Il punto che qui emerge, e che sarà ripreso nel seguito, è quindi una profonda ridiscussione sia del concetto di origine che del concetto di decostruzione dell’origine. Si deve pensare l’origine a partire dalla nozione di archiviazione: non esiste un’origine piena, ma soltanto un’archiviazione dell’origine che paradossalmente precede l’origine. Così come non ci sono due mondi del soggetto (quello interno e quello sociale), ma piuttosto un’archiviazione dei mondi, un incessante riassorbimento e rigenerazione delle forme soggettive in una forma archivio che, forse, precede il dualismo. In questo senso, il datum a cui facevo riferimento (ovvero la condizione di esistenza dell’archivio) in se stesso non è un elemento semplice: non è un atomo documentale, ma un’entità ibrida in quanto divisa, sin dall’origine, nelle sue compo4 5 Ibid. Ibid. 4 nenti giuridiche, etiche, politiche ed esistenziali, di cui essa è solamente la risultante. Tutto questo riguarda anche l’altra grande questione che corre sottotraccia nel testo di Nancy, ovvero il problema dell’altro, cioè di come l’altro si insinui originariamente nel cuore dell’identità personale, dell’istituzione o, che è lo stesso, del soggetto. La questione dell’archivio può essere sempre pensata, infatti, come un’interrogazione dei nessi fra estraneità, archiviazione e istituzione, compreso l’istituirsi del soggetto. Scriveva Derrida, in Du droit à la philosophie: «un’istituzione deve talvolta custodire la memoria di ciò che essa esclude e tenta selettivamente di consegnare all’oblio. La superficie del suo archivio è allora caratterizzata da ciò che essa tiene al di fuori, che espelle o non tollera più. Essa assume la figura inversa del rifiuto, si lascia identificare attraverso ciò che la minaccia o che essa sente come una minaccia. Per identificarsi, per essere ciò che è, per delimitare se stessa e riconoscersi nel suo nome, deve – per così dire – portare il suo avversario nel suo seno. Deve assumerne i tratti, persino sopportarne il nome come un marchio negativo. E capita che l’escluso, quello i cui tratti sono pesantemente scolpiti nel seno dell’archivio, iscritti nella superficie istituzionale, finisca col divenire a sua volta colui che porta la memoria del corpo istituzionale»6. Quanto a Foucault, si potrebbero evocare le osservazioni di Gilles Deleuze, che lo aveva definito «un nuovo archivista»7. Interrogandosi sul senso filosofico de L’archeologia del sapere8, Deleuze vedeva nel lavoro di Foucault sulle fonti e sull’organizzazione degli enunciati il segno di una rottura epocale, in quanto «l’archeologia si oppone alle due principali tecniche impiegate finora dagli “archivisti”: la formalizzazione e l’interpretazione»9. Così letta, cioè come operazione di secondo livello sul datum, l’idea foucaultiana di archeologia sarebbe quindi una tecnica che si oppone a una tecnica, cioè una contro-tecnica di resistenza discorsiva. L’archivio permette di chiarificare esemplarmente la portata anche politica dei lacci che annodano fra loro il sapere e il potere attraverso le formazioni discorsive, se è vero che per Foucault l’archivio non indica solo un luogo fisico o un insieme di informazioni, ma il «sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati»10. Ciò significa che in Foucault l’archivio aspira 6 J. Derrida, Du droit à la philosophie, Galilée, Paris 1990, p. 17. G. Deleuze, Foucault, Minuit, Paris 1986; tr. it. di P.A. Rovatti e F. Sossi, Foucault, Feltrinelli, Milano 1987, p. 13 e ss. 8 M. Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969; tr. it. di G. Bogliolo, L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971. 9 Ivi, p. 25. 10 M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., p. 174. 7 5 a un valore misto o irrisolto, cioè un valore trascendentale-empirico. Esso parla un proprio discours all’interno dei discorsi, in quanto è istituzione che secerne trame discorsive e che, in questa accezione, non è né l’ideale di se stesso (la ragione come archivio perfetto), né l’antiideale, cioè l’assolutamente empirico e an-archico di un datum sciolto da ogni regola discorsiva. L’archivio, in altre parole, inventa un ordine terzo, proprio perché allarga gli spazi e i tempi del savoir, perché spazia le maglie del sistema discorsivo normalizzato, sottraendo gli enunciati al gioco dualistico del né-né a cui parrebbero destinati in quanto archiviati, vale a dire: la formalizzazione da una parte; l’interpretazione dall’altra. Pertanto, l’archivio può fare ciò che è invece precluso al soggetto che agisce nelle logiche archivistiche preesistenti, e cioè catalizzare l’azione di aprire un campo, di scoprire un territorio, una falda geologica che sia già un tempo-spazio materiale “altro”. Il lavoro archeologico delinea una forma eterotropica che immediatamente comporta, però, un reinvestimento nell’auto-eterotropia, considerando il ruolo imprescindibile, finzionale o meno, del soggetto intestatario dell’archivio stesso. In Où cela s’est-il passé? si percepisce una forte prossimità con tale basso continuo, macroscopico, ma anche un’analogia sul livello microscopico della prosa, delle immagini o degli schemi usati. Lo si vede bene nel tema, più volte rilanciato da Nancy, di che cos’è opera e di che cosa non lo è, che si potrebbe comparare con le posizioni del Foucault di Che cos’è un autore11, la conferenza tenuta nel 1969 al Collège de France. Foucault si domandava, a partire dalla relazione opera-autore, come sia possibile pensare i confini dell’una (o, reversibilmente, dell’altro) tenendo conto anche dei resti (scritti) di un autore, deposti nel colombario material-simbolico che è il suo archivio: «finché Sade – scriveva Foucault – non è stato un autore, che cosa erano le sue carte? Solo dei rotoli di carta sui quali all’infinito, durante le sue giornate in carcere, egli elaborava i suoi fantasmi»12. In qualche modo, Nancy va ancora più a fondo in questi snodi, come quando afferma che «l’archivio […] ci pone più vicini al carattere insolubile della questione dell’autore»13. Il cuore dell’argomento è che gli archivi sottraggono al savoir il soggetto. Non potremo mai guadagnare una forma di conoscenza attorno a «chi è diventato questa firma che offre il suo 11 M. Foucault, Qu’est-ce-qu’un auteur?, ora in Id., Dits et écrits 1954-1988, I 1954-1969, Gallimard, Paris 19943, pp. 789-821; tr. it. di C. Milanese, Che cos’è un autore?, in M. Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 20043, pp. 1-21. 12 M. Foucault, Che cos’è un autore?, cit., p. 5. 13 J.-L. Nancy, Dov’è successo?, cit., p. 9. 6 nome, i suoi tratti, il suo carattere»14 agli archivi: essi resteranno degli oggetti che non consentono di afferrare concettualmente la natura del proprio legame con un determinato soggetto, benché afferiscano a quel soggetto. In altri termini, e reversibilmente: chi è diventato l’autore, una volta che transita dal proprio archivio? «Nessuno che noi possiamo nominare o circoscrivere in alcun modo. “Gli archivi di X” sono un modo di far indietreggiare X più lontano, più in profondità nei suoi archivi. Noi vediamo i suoi tentativi, le sue note, le sue esitazioni, le sue vergogne forse, le sue dissimulazioni, i suoi oblii: ma lui, “lui”, dov’è?»15. Su tali interrogativi, di nuovo Foucault: «il problema è insieme teorico e tecnico. Quando si intraprende la pubblicazione, diciamo, delle opere di Nietzsche, dove bisogna fermarsi? Ovviamente bisogna pubblicare tutto, ma cosa significa questo “tutto”? Tutto ciò che è stato pubblicato da Nietzsche stesso, certamente. Gli abbozzi delle sue opere? Senz’altro. I progetti di aforismi? Sì. Anche i ripensamenti, gli appunti in fondo ai taccuini? Sì. Ma quando, dentro un taccuino pieno di aforismi, troviamo un riferimento, l’indicazione di un appuntamento o di un indirizzo, oppure il conto della lavandaia: è un’opera o non è un’opera? E perché no? E avanti così all’infinito. Fra i milioni di tracce lasciate da una persona dopo la sua morte, come definire un’opera? La teoria dell’opera non esiste e coloro che ingenuamente intraprendono la pubblicazione delle opere non posseggono una simile teoria, il che paralizza ben presto il loro lavoro empirico»16. Il lettore potrà forse intuire le armoniche di tale motivo foucaultiano in numerosi passaggi del testo di Nancy e significativamente anche nella sua parte conclusiva. Dove, però, l’interrogazione tende a modificarsi, toccando la questione del proprio archivio che rimanda, a sua volta, a un altro problema, e cioè quello della forma di soggetto sottintesa, o virtuale, in questi processi: il soggetto-archivio che noi sempre siamo. Non è un caso che varie pagine siano dedicate da Nancy all’analisi della questione del Nachlass nietzschiano, nelle sue ben note implicazioni teorico-politiche. Un tema, quello di Nietzsche e della pubblicazione dei frammenti postumi, che ha molto interessato Foucault su vari piani, compresa la direzione, condivisa con Deleuze, delle traduzioni francesi dell’edizione critica Colli-Montinari, affidata loro dall’editore Gallimard negli anni Sessanta. Un tema che ha interessato profondamente anche Derrida, sia in Sproni. Gli stili di Nietzsche con la celebre esegesi del frammento postumo nietzschiano «“Ho dimenti14 Ibid. Ivi, pp. 9-10. 16 M. Foucault, Che cos’è un autore?, cit., p. 5. 15 7 cato il mio ombrello”»17, che, essendo virgolettato, resterebbe una traccia di scrittura erratica, inclassificabile e non assoggettabile ad alcun discorso, sia, più in generale, nel testo Otobiographies18, le cui tesi sul rapporto fra autore, vita e archivio riferite al caso Nietzsche mi pare costituiscano un tacito elemento di confronto per Nancy. Ritmica, analisi e scrittura Il riferimento a questi modelli non può tuttavia far dimenticare il carattere originale dell’indagine di Nancy, rappresentato dalla scrittura al contempo decostruttiva e plastica, e dunque da una combinatoria di due elementi fra loro contrastanti: la fluidificazione nella prosa e lo staccato nel concetto. Si prenda, a titolo esemplificativo, questo breve passaggio, dove dapprima abbiamo la circoscrizione di una tesi: «sì, “è stato”. Ma esattamente dove? L’archivio dice allo stesso tempo “è qui” e “non è qui”. Mostra il luogo per meglio rendere sensibile l’assenza di spazio e di tempo. Dove? Su questo quaderno, questo taccuino, quest’estremità di busta rivoltata? Quando? questo giorno, a quest’ora precisa?»19. Poi l’accelerazione, molto tipica della sua penna: «in questa città, questo hotel, questo paese? in esilio o all’ospedale? senza momento che si possa precisare? E se lo si precisa, da dove viene propriamente questo momento, questo istante? Da dove è sorto? Da dove e quando l’autore X è divenuto X? Lo è “divenuto”? È stato egli stesso sorpreso da se stesso? Chi è, chi era, chi fu X? Fu là, allora? È mai stato?»20. L’incalzare delle domande spinge il lettore verso il limite del concetto di archivio, con la bella immagine dell’autopoiesi nell’inventarsi autoriale: «noi inventiamo i nostri archivi tanto quanto l’autore si inventa, si inventa come un gesto, una maniera, uno stile sul quale mette il suo nome»21. Ora, il lettore è costretto, lui stesso, a se17 Cfr. J. Derrida, Éperons. Les styles de Nietzsche/Spurs. Nietzsche’s styles/Sporen. Die stile Nietzsches/Sproni. Gli stili di Nietzsche, con un saggio di S. Agosti, Coup su coup e illustrazioni di F. Loubrieu, tr. it. di S. Agosti; tr. ing. di B. Harlow; tr. ted. di R. Schwaderer, Corbo & Fiore, Venezia, 1976, p. 94 e ss. Il frammento in tedesco, „ich habe meinen Regenschirm vergessen“, è classificato con la sigla 12 [62] nei frammenti postumi 1881-1882 (cfr. Friedrich Nietzsche, Werke. Kritische Gesamtausgabe, hrsg. von G. Colli und M. Montinari, De Gruyter, Berlin und Berlin-New York 1967-88, vol. V, 2, p. 485). 18 Cfr. J. Derrida, Otobiographies. L’enseignement de Nietzsche et la politique du nom propre, Galilée, Paris 1984; tr. it. di R. Panattoni, Otobiographies. L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio, Il Poligrafo, Padova 1993, in particolare la III sezione, Dello Stato. Il segno autografo, ivi, pp. 63-90. 19 J.-L. Nancy, Dov’è successo?, cit., p. 19. 20 Ibid. 21 Ibid. 8 guire la penna dove lei vuole. Qui inizia una diversa esplorazione dell’archivio, che si apre in un varco, appena tracciato. Un’esplorazione che coincide con un’inattesa epoché, la quale ha luogo nel mithos in cui l’archivio diventa «un sotterraneo lungo il quale i documenti lentamente si fondono alle pareti di queste viscere che discendono più in profondità nella terra. L’archivista diviene minatore, poi speleologo. Passa per sifoni, discende pozzi su sottili scale di corda, una lampada fissata sulla fronte, la cui luce vacilla. Talvolta su una parete un disegno, una tacca si lasciano vedere, e talvolta è l’archivista che inscrive le sue stesse tracce, quelle della sua indagine, a meno che non divenga lui stesso il testimone ossificato di una discesa senza ritorno. Un altro si domanderà: che cosa è successo? che cosa aveva trovato? da dove gli era venuta una passione così penetrante?»22. L’intera ritmica di Où cela s’est-il passé? è in se stessa un elemento di interpretazione dell’archivio, comandata dalle alternanze fra analisi e abbandono, fra dissezione e ricomposizione narrativa. L’archivio, per Nancy, richiede uno sconfinamento fra ragione e immagine, cioè richiede un lavoro, un’elaborazione anche linguistica, oltre che retorica, che ricorda alcuni brani di Corpus23 e, più ancora, de L’intruso24. Anche là, forse non per caso, Nancy si mostrava quale esploratore di una specie di archivio del corpo, cioè di luoghi e tempi profondi, di topografie mobili e di geologie affettive: speleologo di se stesso25. 22 Ivi, p. 20. Si noti l’analogia del motivo geologico e del riferimento alla propria scrittura come utensile escavatore riscontrabili nel Foucault dell’Archeologia, dove lo scrivere significava «preparare – con mano un po’ febbrile – il labirinto in cui avventurarmi, in cui spostare il mio discorso, aprirgli dei cunicoli, sotterrarlo lontano da lui stesso, trovargli degli strapiombi che riassumano e deformino il suo percorso». Cfr. M. Foucault, L’archeologia del sapere, cit., p. 24. 23 Cfr. J.-L. Nancy, Corpus, Métailié, Paris 1992; tr. it. di A. Moscati, Corpus, Cronopio, Napoli 1995. 24 Cfr. J.-L. Nancy, L’intrus, Galilée, Paris 2000; tr. it. di V. Piazza, L’intruso, Cronopio, Napoli 2000. 25 In qualche modo, già nella domanda di fondo che anima L’intruso Nancy era già entrato nel tema dell’archivio e dell’archiviazione: che cosa significa ricevere per trapianto il cuore di un altro uomo? Nel trapianto, un organo vivente si archivia in me, mentre il corpo donatore è già morto. Io sopravvivo a quell’uomo, ma non sopravvivo al suo cuore. Pena la “mia” morte. In altri termini, accade che uno sconosciuto, cioè una sua parte, si archivi in me; e questa è la condizione per la vita. Da qui, allora, anche la questione dell’archivio come corredo genomico è totalmente rimessa in discussione, ed anzi trova nel trapianto la sua forma più profondamente naturale proprio perché si tratta di una forma ibrida: il gene dell’altro si integra nel mio corpo, e ha così inizio concretamente quello scambio (che spesso la filosofia relega sul piano teoretico) fra etero-genie, fra sangui diversi ma che si mescolano, nei silenzi della carne e nella corporeità che con difficoltà si riorga9 Auto-archiviazione dell’occidente? Sul piano più generale, vale a dire stilisticamente e teoreticamente, il testo di Nancy va letto come forma sui generis di ripensamento dell’archivio: ne dilata il concetto e ne enuclea, di volta in volta, i sotto-problemi che affiorano nelle operazioni di scavo. Ad esempio, il problema dell’archiviazione. Ogni archivio è preceduto e definito dai processi di registrazione e archiviazione. Ma l’archiviazione è un lavoro. In quanto tale, essa implica una trasformazione originaria del datum, o, in altre parole, la formazione di una forma, cioè di un oggetto che prima non esisteva (il documento d’archivio). In secondo luogo, e connesso a doppio filo con il primo aspetto, vi è sempre il lato simbolico dell’archivio in quanto forma base dell’umano, irresistibilmente marcata in senso etno-antropologico. L’archivio è un luogo apotropaico, un simulacro laico del tempio o della tomba: ente che rassicura ma, anche, reindirizza in quanto punto fermo che produce i più temibili simulacri di identità. Infine, vi è il lavoro ex post, ovvero l’elaborazione compiuta a partire dal datum. Si tratta, cioè, del problema posto dall’archivio in quanto oggetto culturale implicato nelle ricostruzioni e nelle interpretazioni dei suoi materiali. Scriveva Derrida: «non si rinuncia mai, è l’inconscio stesso, ad appropriarsi di un potere sul documento, sulla sua detenzione, sulla sua ritenzione o interpretazione»26. Da questo punto di vista, si potrebbe parlare di industria culturale dell’archivio: l’archivio lavora all’interno delle relazioni consolidate del sapere, magari per introdurre qualche elemento di novità, ma, nel medesimo movimento, per introdurre la possibilità di speculare sui materiali d’archivio, di ricavare un profitto (intellettuale o pecuniario), di investire in conoscenza. Termine assai problematico, proprio come l’idea di valorizzare un autore e la sua opera. Quando le attività culturali di un archivio sono guidate dalla mission di valorizzare un autore, di quale valore si sta parlando? Non possiamo risolvere questa contraddizione, sembra dirci Nancy fra le righe. Questo ordine di difficoltà è la cifra filosofica del problema dell’archivio, nel suo essere un punto nizza nel postoperatorio. In fondo, noi siamo sempre l’archivio vivente di tracce organiche, esterne ma virtualmente compatibili. Tutto questo rinvia a un problema di carattere generale: la continua riorganizzazione dell’identità è la nostra necessità e il nostro spettro (sia individuale che politico); ma essa è anche la chiave grazie a cui pensare, in un unico sguardo, una storia del corpo e una storia politica dell’occidente. 26 J. Derrida, Mal d’archivio, cit., p. 1. 10 di convergenza delle questioni del potere, della produzione e della speculazione, oltre che del savoir. A partire da queste considerazioni, è utile allargare ulteriormente lo sguardo oltre il testo di Nancy, mediante un’operazione che consente di coglierne pienamente la portata di testo aporetico: quella di Nancy è, in fondo, una riflessione intorno all’archivio che scolpisce con estrema precisione la sagoma logica della domanda, pur lasciandola nel suo stadio iniziale. Come già ricordato, si è verificata nel Novecento una “dilatazione” dell’archivio: da oggetto elettivo della ricerca storicofilologica, l’archivio è divenuto un problema critico per le scienze umane nel loro complesso. Ma è forse la forma archivio in quanto tale, che, sempre nel Novecento (simultaneità che meriterebbe una riflessione a parte) si è estesa gradualmente interessando aree sempre più vaste della realtà culturale. L’oggetto dell’archivio spazia dall’ambito socio-politico a quello geografico; il suo soggetto di diritto può essere pubblico o privato. Esistono, accanto agli archivi di Stato, quelli di banche, fondazioni o imprese, come pure quelli legati ad associazioni, a famiglie, a comunità o al territorio. Esistono oggi archivi fotografici, archivi diaristici, archivi cinematografici e multimediali; archivi correnti come pure archivi di deposito, quelli per affari esauriti, ed anche archivi chiusi, i cosiddetti archivi morti. In modo discreto e senza apparenti resistenze, gli archivi ramificano in aree sempre più ampie del mondo sociale: dai progetti di archivio genetico agli archivi di informazioni sensibili, che riguardano ciascuno di noi (tracciando la nostra presenza sulla rete, magari a nostra insaputa). La sensazione è che viviamo circondati da archivi silenziosi, eterei, talvolta invisibili; in fondo, internet non potrebbe esser visto come un archivio, il più grande mai concepito dall’uomo, un archi-archivio in grado di connettere fra loro tutti gli altri archivi? Ma questa pervasività “esterna” non esaurisce il problema: complementarmente, ci scopriamo mossi da automatismi sempre più profondi (o superficiali, se si vuole) nell’archiviazione user friendly di ingenti quantità di informazioni digitali, nell’inerire inconscio a un’interfaccia fortemente orientata verso una certa struttura logico-informatica. Questo cosa significa? Che siamo al cospetto di una nuova condizione epocale, in cui si annuncia una civiltà dell’archivio?27 27 Il concetto stesso di civiltà dell’archivio meriterebbe naturalmente altre riflessioni, a partire dalla constatazione che proprio quello di definire il concetto di civiltà appare oggi uno dei grandi problemi critici della filosofia. Da questo punto di vista, forse i concetti di archivio, di archiviazione, e, via via quelli più empirici di network society e della sua organizzazione formale, potrebbero utilmente comporre un protocollo di interrogazione cui sottoporre il concetto di 11 Interrogare l’archivio comporta, insomma, altre domande: non sarebbe forse possibile decifrare l’intera trasformazione plurimillenaria dell’occidente, il suo cosiddetto “sviluppo”, comprese le fibrillazioni ancora in corso del passaggio dal moderno al postmoderno, come un riflesso della forma archivio? In questa ipotesi, l’archivio è il modulo base dell’occidente: la morfologia in grado di contenerne la contraddizione. Modulo base tanto nel suo “sviluppo” quanto nell’autoarchiviazione, l’archivio è l’elemento ultimo, quello primario, quello più intrinsecamente razionale dell’occidente, dove vita e morte si confondono reciprocamente. Dove il rapporto (ratio) è aperto strutturalmente all’accoglimento dell’elemento spaesante, nuovo, nonrapportabile, e dunque aperto (è la stessa cosa) all’assorbimento dell’elemento soltanto empirico, come un residuo, un resto, una traccia registrata. Ma si potrebbe andare ancora oltre, postulando che la conformazione più tipica del pensiero occidentale anziché avere i tratti della metafisica della presenza, sulla quale a lungo si è dibattuto nel Novecento, non abbia piuttosto quelli di una forma archivio. In questa ipotesi, si tratterebbe di pensare non una critica alla presenza, bensì all’archiviazione della presenza. Questo che cosa comporta? Se nell’atto, in ogni atto, si insinua già la “sua” archiviazione, allora l’archivio potrà essere pensato, sul piano teoretico ma anche morale, come forma dello scambio reversibile, fra adesso e dopo (o fra adesso e prima): morfologia del passare. Un archivio sintetizzatore e processuale, dispositivo che ri-forma se stesso continuamente ma resta anche identico. In questa sua identità l’archivio incarna lo spettro ultimo sia del logos sia del non del logos, sia dell’azione che dell’inazione, nel senso batailliano del termine inazione28. E ciò in quanto la natura dell’archivio è ibrida giacché storico-naturale; la sua natura è quella di far lavorare logos e dehors del logos, come pure azione e dehors civiltà, in vista di una sua riformulazione. In particolare, sugli aspetti strutturali dei media digitali in rapporto alle nuove dinamiche individuo-società, si vedano gli studi di impostazione sociologica: J. van Dijk, The network Society. Social Aspects of New Media, Sage, London 20062 e M. Castells, The Rise of the Network Society, Blackwell, Malden (Mass.) Oxford, 1996; tr. it. di L. Turchet, La nascita della società in rete, EGEA, Milano 2002. Per una visione teorica che, partendo dallo schema derridiano dei concetti di traccia e di registrazione (ma sviluppati in direzione ontologica), elabora un’originale idea di archiviazione come pratica strutturante il mondo sociale, cfr. M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari 2010. 28 Sulla questione dell’inazione, cfr. G. Bataille, Sur Nietzsche, Gallimard, Paris 1945; tr. it. di A. Zanzotto, Nietzsche. Il culmine e il possibile, Rizzoli, Milano 1970, pp. 21-34. 12 dell’azione (l’inazione), su un terzo piano che non è né l’uno né l’altro, ma è precisamente il chiasma produttivo che preforma ogni processo di archiviazione. Il problema politico e la questione del passato Dunque Où cela s’est-il passé? esibisce la struttura logica e morfologica dell’archivio e dischiude ulteriori opzioni di riflessione, benché non sempre esplicitate. Fra queste, vediamone tre: in primo luogo il problema politico; secondariamente il problema legato al passato e alla storia; infine, il problema del soggetto. Il problema politico consiste nel fatto che mediante l’archivio noi possiamo meglio comprendere alcuni aspetti della forma democratica. Vi è un nesso molto stretto, spesso scarsamente visibile, fra le forme di accessibilità agli archivi e il grado di democraticità di una democrazia. Da questo punto di vista, mi sembra utile citare un passaggio del testo di Derrida Mal d’archivio dove questi si sofferma lungamente sulla «politica dell’archivio»29. La questione riguarda la res, cioè il politico come cosa sempre in bilico fra mondo privato di un autore e mondo sociale dei suoi posteri, in particolare nell’idea che la politica dell’archivio non sarebbe una questione fra le altre, ma che essa «determina interamente il politico come res publica»30. La cosa in gioco nell’archivio è direttamente il nodo centrale della res politica, come Derrida sintetizza in questa formula: «la democratizzazione effettiva si misura sempre con questo criterio essenziale: la partecipazione e l’accesso all’archivio, alla sua costituzione e alla sua interpretazione»31. Il secondo problema è legato alla storia, in particolare al senso del passato, come deducibile dal titolo. La domanda diviene allora: si può dire che tramite il tassello intermedio dell’archivio ritorni in campo un certo sguardo sulla storia, sulla cosa (res), qui in quanto luogo-tempo degli accadimenti passati (res gestae)? Probabilmente no: sarebbe un’affermazione troppo forte, giacché la storia in quanto tale resta una spina nel fianco per una filosofia di impostazione decostruttiva. Tuttavia, Nancy non trascura il fatto che nel lavoro di scavo e di ricerca compiuto sugli archivi e sui corpus, si instaurino bretelle di collegamento fra testi che appartengono a epoche differenti, in quanto questo lavoro è il lavoro della storia sul soggetto, in un’accezione che fa pensare all’Hegel della Fenomenologia dello spirito. L’archivio preme e curva il soggetto verso la storia. Nel farlo, è come animato da un im29 J. Derrida, Mal d’archivio, cit., nota 1, p. 14. Ibid. 31 Ibid. 30 13 pulso autonomo (non programmabile da alcun soggetto) che fa sì che interpreti e opere «entrino in un dialogo (che è loro proprio) con le opere che hanno preceduto le loro. Come non essere qui un po’ hegeliani? come non avvertire lo spirito al lavoro nella storia – benché senza la direzione volontaria che sembra seguire il “Geist” di Hegel […]. Certo, vi è qualche cosa che plana al di sopra di tutto – una chance erratica mescolata alla successione dei tempi, delle generazioni…»32. Ma allora, il problema teorico si pone nei seguenti termini: con il suo naturale richiedere spazio e il suo rideterminare il confine del tempo rispetto al ciò che è stato, l’archivio ricuce forse le cicatrici fra il soggetto e la storia? La posta in gioco, su questo punto specifico, è se l’archivio sia in grado di riscrivere o ricalibrare (ma forse più su un asse, appunto, di storiografia, che in rapporto alla storia in sé) la questione filosofica classica dell’estensione e del tempo, colta nel problema del loro intreccio che rappresenterebbe una forma materiale. Il deposito delle tracce di ciascuno di noi; la memoria; un modello di passato come accumulo: questi sono tutti tratti costitutivi dell’archivio. Ma, parimenti, lo sono anche: l’invenzione nel rileggere noi e gli altri; l’indeterminazione sui margini dello spazio e del tempo dell’archivio stesso (dove? quando? chi?). Si tratta allora, su questa base, di ripensare il concetto di passato, o, meglio di passare. Che cosa significa passare (passer)? Che cosa indica il passare in quanto tale, circa la determinazione di una relazione fra divenire e essere, e, in particolare, circa il posto di quella fessura fra essere e nulla, cioè a dire l’indeterminazione dello spazio e del tempo di quel “ci” che assilla l’esser-ci del soggetto? Già se l’era domandato, fra gli altri, Jean-Paul Sartre ne L’essere e il nulla: «che cosa significa passare? Significa essere in un luogo e al contempo non esserci (C’est à la fois être en un lieu et n’y être pas)»33. Non possiamo trascurare come la forma logica di tale risposta sia fortemente in risonanza con quanto Nancy predica dell’archivio, dalla prima all’ultima pagina del testo, e cioè l’essere qui e non qui. L’archivio non è, in altri termini, il dispositivo (ancora metafisico) dell’altrove puro o il fuori assoluto, per esempio come inerzia materiale indipendente da tutto o come astorica matrice organizzativo-formale. L’archivio, come l’esser-ci, è sempre un passare, cioè uno scivolamento: per esempio, uno scivolamento fra l’atopia e l’asincronia del datum e la proprietà del datum di presenza ribadita e ostinatamente singolare. Che cos’è un archivio? L’archivio è 32 J.-L. Nancy, Dov’è successo?, cit., p. 16. J.-P. Sartre, L’Être et le Néant, Gallimard, Paris 1943, p. 262; tr. it. di G. del Bo, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1972, p. 272 (traduzione leggermente modificata). 33 14 qualche cosa che racchiude la forma del passare. Da questo può nascere l’ispirazione verso una logica non lineare di lettura dei documenti, ma anche di una possibile (e ambiziosa) trasformazione delle coordinate canoniche del tempo storico. Gli archivi, sostiene Nancy, non vanno «consultati ed esaminati per trovarvi una presenza passata, né l’unica testimonianza dell’assenza – semplice rovescio della presenza – ma [vanno] visitati per esser trascinati entro un movimento fatto in parte di oblio e in parte di slancio verso l’avenire [à venir]»34. Se così è, allora la struttura e il funzionamento del dispositivo “archivio” mostra all’opera un’altra struttura, più fondamentale, e cioè quella del rapporto del soggetto con il tempo. Se vi è una struttura che salda il soggetto al tempo questa deve essere una struttura concreta, mobile, cioè una struttura aperta a uno strano ritorno del tempo, in quanto il tempo nell’archivio si spazia e si condensa (cioè si estrinseca) nell’estensione, secondo la sua contraddizione propria. Detto en passant: che cos’è il tempo, se non ciò che fugge via da ogni centro? Il tempo è il non archiviabile. Ora di tale struttura aperta non solo affiora l’esistenza, ma anche la necessità di ripensarne la forma, in vista di un assetto più dinamico che possa assumere, infine, i tratti di un’attiva trasformazione partecipata del tempo da parte del soggetto. Quando Nancy, dopo aver ricordato la centralità della cancellazione nei processi di archiviazione mnestici, scrive che «di fatto vi è un conflitto fra la memoria e l’archivio. Un conflitto interessante: l’archivio ricorda alla memoria ciò che essa trascura o evita, la memoria ricorda all’archivio che occorre l’oblio per fare una vera memoria»35, in realtà sta facendo un discorso di portata più ampia. È il passato (passé) in quanto tale che va pensato a partire dal passare (passer). Il ciò (cela), cioè la determinazione storico-materiale necessaria a ogni processo di trasformazione, e a fortiori a ogni archivio, va pensato a partire dal verbo, che questa volta, per come lo usa Nancy, è preferibilmente il verbo succedere (se passer), e non il verbo accadere (arriver). Ciò implica che l’esistere istantaneo nel tempo (eterno problema irrisolto della metafisica) che definisce il perimetro di ogni oggetto fisico e il limite dell’azione morale del soggetto, va forse pensato facendo riferimento non a qualcosa che cade, sopraggiunge o arriva (arrive), né, tantomeno, a qualcosa che partecipa all’essere, nell’entificazione di un già stato; ma come a qualcosa che se passe, che succede e transita, cioè che disturba il linguaggio nel proprio conservare un riferimento sempre almeno duplice: da una parte un riferi34 35 J.-L. Nancy, Dov’è successo?, cit., p. 2. Ivi, p. 24. 15 mento al passato e alla morte, dall’altra un riferimento al trascorrere, alla successione, al sopravviver-si. Si coglie forse in questi passaggi la difficoltà, ma anche la potenza virtuale, di quel nesso fra la spazializzazione del tempo e la temporalizzazione dello spazio a cui si faceva riferimento. Un’ipotesi: la forma archivio e il soggetto Il terzo problema concerne il soggetto. Il soggetto nancyano, da un punto di vista teorico, è un soggetto debole: un soggetto che si autodecostruisce, perennemente alla ricerca di una forma. Tuttavia esso mantiene comunque una propria relazione con le sue parti, i suoi frammenti, i suoi resti scritti o registrati. Postulando, con la Léger, che ciascuno di noi non sia altro che «l’archivista di ciò che ci resta – di ciò che, di noi, resta»36, ciò non potrebbe indicare una possibilità di immaginare il soggetto come figura mobile di quell’archivio vivente che io-sempre-sono? Come se io non fossi altro che l’archivista di me stesso? Non si tratta soltanto di identità in senso statico, ma anche delle mie azioni, dei sogni che faccio e di come tutta una questione del corpo possa entrare in relazione con la forma dinamica della mia autoarchiviazione: l’identità come archiviazione dell’identità. Una delle tesi portanti della filosofia teoretica di Nancy, e cioè che l’identità è sempre abitata da una relazione all’alterità, sembrerebbe trovare una plausibile omologia con la struttura trascendentale che fa capo all’archivio. Identificazione significa, infatti, che l’altro si archivia in me (dove, ancora una volta, “si archivia” vuole dire che l’altro svanisce, ma, al contempo, resta fissato). Ma l’archiviazione dell’altro diviene via via indistinguibile dall’auto-archiviazione, e ciò dimostra che l’archivio, in se stesso, altro non è se non la dinamica fra positivo e negativo, fra sé e altro. Rileggendo in questa chiave le argomentazioni de L’intruso, il testo autobiografico in cui Nancy riferisce della propria esperienza di trapiantato cardiaco, si comprende come questa dinamica coinvolga una lotta originaria fra intimità e estimità corporea, cioè la morfologia più tipica dell’archivio vivente che io-sempre-sono: «la vita scannerizzata e riportata su molteplici registri ciascuno dei quali iscrive altre possibilità di morte. Sono dunque io stesso che divengo il mio intruso, in tutti questi modi che si accumulano e si oppongono»37. Ogni archiviazione è tanto un gioco di resistenze e opposizioni, quanto una neutra accumulazione di tracce: «lo sento distintamente ed è più forte di una sensazione: mai l’estraneità della mia propria identità, che 36 37 Ivi, p. 20. J.-L. Nancy, L’intruso, cit., p. 28. 16 pure mi è sempre stata presente, mi ha toccato così intensamente. “Io” è divenuto chiaramente l’indice formale di una concatenazione inverificabile ed impalpabile»38. Archiviarsi e divenire auto-immuni, ospitando il nuovo, il non-io e l’intruso in senso lato, è la condizione spazio-temporale sia dell’archivio che del soggetto: «fra me e me c’è sempre stato uno spazio-tempo: ma adesso c’è l’apertura di una incisione e l’irriconciliabile di un’immunità contrariata»39. D’altra parte, che cosa rimarrebbe di noi, una volta cancellate tutte le nostre tracce, cioè una volta disciolta la struttura di sostegno archivistica che ci sostiene e ci ingabbia? Non possiamo rispondere. Potremmo forse svanire del tutto; ma, se così fosse, ciò non starebbe a significare che prima saremmo stati qualcosa? E, se sì, che cosa, cioè, filosoficamente, che tipo di res? extensa? cogitans? oppure una res ibrida, ossia una res storico-naturale la cui matrice è isomorfa a quella dell’archivio? Esattamente in questo punto, nel problema della cosa, ritornano la questione politica e quella della storia ad alimentare in modo specifico la domanda sul soggetto. Innanzitutto perché la res del soggetto-archivio, lungi dall’essere una sostanza, è anche la res aperta e inquieta che stava al centro della res publica. In seconda istanza, la res del soggetto-archivio incorpora l’aspetto di res del “ciò che è stato”, e dunque della storia, ma una storia pensata nel suo rapporto simbiotico con la stessa alterazione del factum, con il succedere (se passer) del datum dell’archivio. Avanzando molto oltre il testo di Nancy, l’ipotesi contempla quindi che questa res ibrida possa essere, per esempio, un principio di organizzazione formale riconducibile a un reticolato di relazioni. Relazioni di tipo trascendentale che annodano il tempo e lo spazio dei dati che esse stesse processano, dove arricchimento e acquisizione sono sempre contrastati da un impulso alla conservazione, e viceversa. Nel processare, la soggettività diviene se stessa, cioè diversa da se stessa: la soggettività è un processo definito da una forma archivio. L’idea che qualcosa come una forma archivio sia già da sempre all’opera nella strutturazione del campo psichico non è certo una novità. Gli engrammi celebrali, l’accumulo selettivo del datum e buona parte dei meccanismi neuronali non sono altro che i funzionari elaboratori dei nostri protocolli di archiviazione. Sono questi i dispositivi che presiedono alla gestione del coacervo senza nome di agglomerati e cancellazioni che, nel tempo della vita, forma gli strati profondi identitari di un soggetto. Del resto, esiste una memoria del corpo, nel senso 38 39 Ibid., pp. 28-29. Ibid., p. 29. 17 che il nostro corpo è l’archivio delle ferite, delle resistenze, dei blocchi e riattivazioni che ci hanno attraversato. Ciò vale non soltanto da quando abbiamo un corpo organico e sviluppato, ma sin dalla prima cellula, e forse ancora più indietro nel tempo. Nella corporeità abita un archivio del corpo che eredita un incrocio preumano. Là accadeva che la scrittura del gene interagisse con il mondo liquido della cellula: il datum più statico (il DNA) e l’ambiente più fluido già concrescevano uno nell’altro, e, con ciò, reciprocamente si archiviavano. Secondo ritmi molto diversi, questa mutua archiviazione ridefiniva probabilmente l’intero nostro arcaico biologico come sfondo, cioè come archivio di terzo livello. Ed è questa complessità, pensata nel suo aspetto macroscopico, quanto noi chiamiamo corpo. Parimenti, noi non siamo soltanto le nostre cicatrici, ma siamo, nello stesso tempo e nello stesso corpo, le nostre cicatrizzazioni, cioè l’archiviazione dei segni. In aggiunta, una forma archivio abita anche il nostro campo protesico, nel senso delle espansioni di memoria esterne al corpo visibili nelle attuali prospettive di tipo net-antropologico (ad esempio l’idea di una memoria ibrida uomo-macchina o uomo-software, già al centro della cultura cyborg) che spostano quote dell’identità archivistico-individuale all’esterno. Più in generale, siamo immersi in un mondo di archivi e di relazioni sempre più predisposte alla morfologia dell’archiviabilità. Ma, assieme a ciò, si affaccia l’idea che una quota della mia memoria finisca e passi altrove: la memoria è deposta altrove poiché parti di “me” risultano dislocate in contenitori virtuali. È il caso della cloud technology, dei computer indossabili e di tutte quelle inedite forme di intreccio fra attenzione e memoria, spesso criptate all’utente, rappresentate dalle protesi interattive – e interpassive – di ultima generazione, esemplificabili nei Google Glass. Dispositivi che non si limitano a mappare e registrare, ma che, influenzando sottilmente la muscolatura oculare, anticipano la formazione della mappa che percorreremo. E che cos’è questa sintesi di attenzione e memoria, se non un’archiviazione del corpo? Reversibilmente, oggi è anche la morfologia dell’archivio documentale che muta. Penso a quelle tipologie di materiali da archiviare che introducono nuove difficoltà di codificazione. Bobine magnetiche di audio o video frammenti, così come nastri del girato, ma non montato, di un video o di un documentario, sono un esempio di materiale non pubblicato che, tuttavia, inerisce in qualche modo al soggetto (oggetto) dell’archiviazione. Ma penso anche all’insieme di computer, dischi rigidi, memorie portatili e Pen Drive appartenuti a un autore, che non è inverosimile ritenere oggigiorno la parte maggiore di un lascito. Per tacere della corrispondenza (un tempo solo cartacea, ora spesso ubicata 18 nelle email). Il problema, come diceva Foucault, è insieme teorico e tecnico: come gestire tali informazioni? Che fare del corpus digitale di un autore, di cui in via di principio non è più neppure evidente il discrimine fra il pubblicato e il social? E che fare dei suoi twitter o degli sms? Quali archiviare? Quali escludere? Perché? Non è forse in atto un gioco di riflessioni fra i ritagli di identità del soggetto – nella sua quota “digitale” – e la morfologia aperta degli archivi futuri, che suggerisce simmetrie profonde con la prima? Questa del gioco di riflessioni resta un’ipotesi, la cui consistenza potrà esser verificata solo negli sviluppi futuri non tanto della tecnologia, quanto della politica e della storia. L’ipotesi è doppia, in quanto annoda il soggetto (singolare o collettivo) all’archivio, e l’archivio (singolare o collettivo) al soggetto. Ciò significa che, sul piano filosofico, l’intera questione del soggetto-archivio resta sospesa sopra un abisso. Un abisso che ha due facce. Da una parte l’archivio riconvoca in ogni istante la domanda di matrice heideggeriana sulla tecnica (poiché l’archivio è una tecnica) e quella, a essa collegata, di una certa archiviazione del soggetto. Dall’altra, l’archivio (in primis l’archiarchivio che virtualmente è internet) può oggi essere pensato mediante l’ideologia della web-emancipazione del genere umano, a cui non è estranea una riproposta critica dell’idea di soggetto: un soggetto frammentato, partecipato e interconnesso, ma in cui l’archiviazione ha un valore ottimistico, cioè di riformulazione positiva della soggettività. Non si tratta qui di discutere queste due prospettive, con gli eventuali limiti (teorici o politici) che entrambe presentano. Quel che importa è indicare che l’archivio si situa in mezzo a questi due abissi, a queste due linee di orizzonte che sono due macro-difficoltà della nostra epoca; pertanto il soggetto-archivio fatalmente si muove in questi territori, ancora poco definibili, come in una terra di nessuno. Un soggetto che abita una No Man’s Land, espressione da considerare anche alla lettera come landa senza uomo, nel suo carattere pre-umano che contiene già in sé la forma virtuale dell’umano. Ma, forse, anche quella dell’umano virtuale. Dove l’aggettivo pre-umano significa tecno-naturale. Per concludere: il soggetto si rispecchia nel proprio archivio e, in qualche modo, è il proprio processo di archiviazione. Ma è vero anche il contrario: ogni archivio ci rimanda al soggetto da cui deriva, in quanto protesi scritta, impressa, prodotta. Fra il soggetto e l’archivio si pone un problema di riorganizzazione e di morfologia dei rispecchiamenti reciproci dell’uno nell’altro. Ma questo riguarda anche la relazione del soggetto al passato, al passare e al subentrare nella memoria. Lo si può vedere in molti aspetti della nostra vita, tanto quelli tesi verso la globalità della relazione, quanto quelli confinati nel piccolo frammento di 19 scrittura e nelle azioni più banali: ad esempio il premere sul tasto di un computer. Nel farlo riconvochiamo l’archivio, in quanto mettiamo in atto una pratica di archiviazione. Automatismi indotti che celano assoggettamenti possibili? Quale nome assegnare alla relazione che esiste (o non esiste) fra l’atto di digitare e l’assorbimento nella macchina memorizzante, oggi spesso esterna e virtualmente connessa al web, cioè alla rete di archiviazione globale? In definitiva, qual è il reale grado di libertà del soggetto immerso nel “suo” archivio? Ancora Derrida, su questi temi: «mi sono chiesto quale fosse il momento proprio dell’archivio, se ce n’è uno, l’istante dell’archiviazione strictu sensu, che […] non è la memoria detta viva o spontanea (mnémè o anamnèsis), ma una certa esperienza ipomnestica o protesica di un supporto tecnico. Non era forse quell’istante in cui, avendo scritto questo o quello sullo schermo, con le lettere che restano come sospese e fluttuano ancora sulla superficie di un elemento liquido, spingevo su un certo tasto per “salvare” (save), un testo indenne, in modo rigido e durevole, per mettere delle marche al riparo dalla cancellazione, al fine di assicurare quindi salvezza e indennità, di stoccare, di accumulare e, il che è insieme la stessa cosa e altro, di rendere la frase disponibile alla stampa [impression] e alla ristampa [réimpression], alla riproduzione?»40. In riferimento al soggetto e al suo corpo, non sappiamo ancora quali siano il tempo e lo spazio dell’impressione sensibile, ossia il momento proprio dell’archiviazione. Questo resta il baricentro del problema spazio-temporale della forma archivio, per come è estrapolabile dal testo di Nancy. In ogni caso, l’archivio richiede una forma di iscrizione, una relazione al corpo, persino un’emotività nel ricordare, come dice Nancy verso la conclusione del testo. Anche se non faccio niente, oramai qualcosa di me si archivia, succede (se passe) e mi sopravvive, mentre un altro soggetto concresce in me, nel corpo, per stratificazioni successive, come su piani di archivio mobili. Fuori di me e con me. L’impressione (la soglia di passaggio) succede: essa “passa” dalla mia mano al supporto, da millenni, subentra dal soggetto, o dal corpo, all’archivio. Può darsi che, in fondo, ognuno di noi non sia altro che l’archivista di se stesso. Cosa resterebbe di noi, senza archivio? Su tutto questo, il Nancy di Où cela s’est-il passé? mi pare propendere a una cautela strategica, a un credito assegnato alla figura del non sapere, a una sospensione del discorso filosofico su questo crinale interno, sul doppio abisso, riaprendolo mediante una nuova epoché: Cosa resta di 40 J. Derrida, Mal d’archivio, cit., pp. 37-38. 20 noi? «Ma esiste altra cosa che un resto, un resto impalpabile, una traccia che lentamente si sta cancellando e che incomincia sempre già sensibilmente a cancellarsi ogni giorno che passa? Io sono stato? Spesso me lo domando. O, piuttosto, colui di cui ho questo o quel ricordo, è stato? Dov’era questo “io”? Non ne so niente»41. Igor Pelgreffi 41 J.-L. Nancy, Dov’è successo?, cit., p. 20. 21 Nota al testo e alla traduzione Où cela s’est-il passé?, intervista realizzata da Nathalie Léger a Jean-Luc Nancy, è un testo fuori commercio, in piccolo formato (12x18), pubblicato nel 2011 all’interno della collection Le Lieu de l’archive come supplemento a La Lettre de l’Imec, cioè il periodico informativo dell’Institut Mémoires de l’édition contemporaine. Traducendo il titolo di copertina Où cela s’est-il passé? con Dov’è successo? si è operato nel senso di una forte semplificazione. Questa ha comportato l’eliminazione – per motivi eufonici – della particella ciò (cela) e la perdita del riferimento diretto al passato (passé). La formula Dov’è successo? mantiene invece un riferimento all’accadere nel senso del succedere (se passer) e un’analogia con espressioni tipiche del linguaggio ordinario, come que s’est-il passé? (ossia: cos’è successo?) e simili. Si osservi che nella pagina interna del libro il gioco semantico fra il passare, il passato e il succedere viene parzialmente recuperato, dal momento che il titolo è articolato in una quartina di interrogative, disposte una sotto l’altra: Où cela s’est-il passé? Où cela est-il passé? Cela s’est-il passé? Cela est-il passé? che traduciamo (cfr. infra) con: Dov’è successo? Dov’è passato? È successo? È passato? La presente traduzione, oltre a cercare di restituire il tono discorsivo dell’intervista, mantiene invariata la punteggiatura originale, compresi i punti di sospensione, le virgolette basse (« ») – le uniche utilizzate nell’originale – e le parentesi tonde. Le note a piè pagina sono di Nancy, tranne quelle indicate con la sigla N.d.T., che sono nostre. 22