Direttore responsabile
Paola Giordano
Direzione
Paola Giordano, Enrico Palma
Editore e proprietario
Associazione culturale Sumac, sita in Via Ariosto 11, Vizzini, CT
Rivista culturale online
Registrata presso il Tribunale di Catania n° 15/2019 il 7 novembre 2019
Periodico semestrale
ISSN: 2724-0738
Comitato di redazione
Enrico Palma (caporedattore), Michele Accardo, Giuseppe Coniglione,
Luca Failla, Pietro La Rocca
Comitato scientifico
Alberto Giovanni Biuso (Università di Catania), Monica Centanni (Università IUAV di
Venezia/Università di Catania), Giovanna Costanzo (Università di Messina),
Andrea Pace Giannotta (Università Niccolò Cusano),
Marco Rosario Nobile (Università di Palermo), Antonio Sichera (Università di Catania)
Autori
Giovanni Altadonna, Davide Amato, Amedeo Barbagallo, Alberto Giovanni Biuso,
Mattia Burcheri, Nicoletta Celeste, Sarah Dierna, Federico Dilillo, Luca Dilillo,
Mauro Distefano, Paola Giordano, Marco Iuliano, Massimiliano Magnano,
Davide Miccione, Maria Teresa Pacilè, Enrico Palma,
Pietro Pancamo, Marcosebastiano Patané, Stefano Piazzese,
Pietro Russo, Antonio Sichera, Mattia Spanò, Enrico Tomasello
Motto
Carta si face perché homo è fallace
Copertina
(Foto di Paola Giordano. Grafica di Michele Accardo)
Le immagini presenti nel numero, ove non diversamente specificato, sono degli autori di
ciascun contributo.
Epigrafe del numero
Per convincere qualcuno della verità, non basta constatare la verità, occorre invece trovare la via dall’errore
alla verità.
Ludwig Wittgenstein
1
Indice
Editoriale (Paola Giordano)
p. 5
Dalle parti degli infedeli
Sicilia ed evoluzione. Il Darwin Day 2023 a Catania
(Giovanni Altadonna)
p. 7
L’altezza definitiva del livello storico e il suo mantenimento nel «senso della fine»
(Mattia Burcheri)
p. 14
Il naufragio della memoria. Sulla strage di Cutro
(Antonio Sichera)
p. 27
Scritture ritrovate
Due o tre parole sul senso della vita
(Giovanni Altadonna)
p. 30
Affinità tra platonismo ascetico e gnosi
(Amedeo Barbagallo)
p. 40
La scrittura dell’appartenenza. Su Passavamo sulla terra leggeri di S. Atzeni (Nicoletta Celeste)
p. 47
L’ultimo avvistamento. Una meditazione sgalambriana
(Davide Miccione)
p. 57
J. Derrida e la decostruzione del pharmakon di Platone: verso una nuova alleanza tra
filosofia e politica
(Maria Teresa
Pacilè)
p. 65
La roba come metafora tra colpa e condanna
(Enrico Palma)
p. 83
Le piume della storia. Una nota estetico-conoscitiva su Hegel e Benjamin
(Enrico Palma)
p. 91
2
Prometeo: dismisura, dolore e conciliazione
(Stefano Piazzese)
p. 106
La musica e la cosa stessa
(Mattia Spanò)
p. 119
Chartarium
Il mito di Tolkien: sul fare e disfare Misteri
(Luca Dilillo)
p. 131
Un appunto «impudico» su Il Dolore di Giuseppe Ungaretti
(Sarah Dierna)
p. 141
«Ma ora noi leggiamo questa chiocciola»: ‘storicità barocca’ nel Sorriso dell’ignoto marinaio di
Vincenzo Consolo
(Mauro Distefano)
p. 151
Mappe del grande mare di Massimiliano Mandorlo: una lettura
(Pietro Russo)
p. 161
Wunderkammer
Poesie inedite
(Federico Dilillo)
p. 164
Poesie e prose poetiche
(Pietro Pancamo)
p. 170
Gli ultimi corpi
(Marco Iuliano)
p. 174
La finestra sul faro
La selvaggia passione: Medea 2023 a Siracusa
(Alberto Giovanni Biuso, Sarah Dierna,
Marco Iuliano, Enrico Palma, Marcosebastiano Patanè)
p. 177
Recensione a: Dune
(Davide Amato)
p. 185
Recensione a: C. Formenti, Guerra e rivoluzione
(Davide Amato)
p. 189
3
Recensione a: Aa. Vv., Cosmos?
(Alberto Giovanni Biuso)
p. 196
Recensione a: C. Vecchio, Genesi fotografica del “Mastro-don Gesualdo” di Giovanni Verga
(Paola Giordano)
p. 200
Recensione a: G. Ghersi, La Città e la Selva
(Massimiliano Magnano)
p. 202
Recensione a: K. Kerényi, Miti e misteri
(Marcosebastiano Patanè)
p. 207
Recensione a: B. De Giovanni, Figure di apocalisse. La potenza del negativo nella storia d’Europa
(Stefano Piazzese)
p. 211
Recensione a: S. Belvedere, Mens extensa. L’anima di Prometeo in un mondo di macchine
(Mattia Spanò)
p. 217
Recensione a: C. Rovelli, Buchi bianchi. Dentro l’orizzonte
4
(Enrico Carmelo Tomasello)
p. 224
Recensione a:
Károly Kerényi
Miti e misteri
Bollati Boringhieri
Torino 2017
Pagine 373
€ 14,00
di Marcosebastiano Patanè
Nella nota bibliografica di Miti e misteri, volume costituito da quindici saggi di diversa
ampiezza composti tra il 1939 e il 1949, Furio Jesi riporta un passo dalle Lettere di Cesare
Pavese in cui quest’ultimo esprime il proprio interesse per la «“rievocazione di mondi
culturali autosufficienti, chiusi in sé, interpretabili non risalendo a ritroso il corso
dell’evoluzione ma facendo atto di intuizione, di identificazione; alla Vico e alla tedesca”»
(18). Fu Pavese, spiega Jesi, a volere l’opera di Kerényi pubblicata nella collana di studi
religiosi etnologici e antropologici di Einaudi, collana di cui il langarolo era il direttore,
proprio a motivo del suo interesse per tali mondi «chiusi», in un certo senso mondi perduti.
Il mondo della mitologia dei Greci sembra infatti rientrare a tutti gli effetti in questa
categoria, un mondo troppo lontano dallo spirito dell’uomo moderno e contemporaneo
per poter essere recuperato per mezzo di una semplice rievocazione storica o di
un’indagine scientifica troppo superficiale.
Per poter parlare di mitologia è necessario tenere ben presenti alcuni elementi
fondamentali: il «contatto sincrono con “il divino che ci circonda” - termini in cui
possiamo indicare, nel senso della mitologia, il mondo di natura che abbraccia l’uomo […]»
(232) e il «contatto genealogico nell’interno del genere umano» (ibidem) caratteristico di
ogni esistenza umana individuale, elementi che «comportano una fusione (Verwobenheit)
molteplice. Tale “fusione” è il presupposto della mitologia» (ibidem); in questa condizione
di Verwobenheit la mitologia incarna il linguaggio della condizione umana e cioè il linguaggio
del genere umano che parla di sé nel suo rapporto con ciò che è non-umano, come parte
di un Intero, un linguaggio caratterizzato da un «realismo paradossale» (233).
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Ulteriore elemento fondamentale per lo studio della mitologia dei Greci è quello della
distanza. Se è vero infatti che i mondi «“chiusi in sé”» possono essere in qualche modo
recuperati da atti intuitivi e immedesimativi, è vero anche che atti del genere sortiscono
spesso l’illusione di una penetrazione nella materia presa in considerazione. A questo
proposito Jesi riporta nella sua introduzione un passo tratto da Romanzo e mitologia in cui
Kerényi commenta un passo autobiografico di Wilamowitz in cui viene criticata la
presunzione del «“professore di Berlino”» (14) di accedere direttamente al senso delle
figure degli dèi per il tramite di immagini antiche, come l’avvistamento improvviso di un
caprone lungo le pareti di una gola in Arcadia che Wilamowitz riporta come un’epifania
del dio Pan. «Per Kerényi, Wilamowitz aveva commesso due errori interrelati: aveva
ignorato la distanza che ci separa dagli antichi, e avevo detto “io” con autorità di professore
anziché di poeta» (ibidem).
È vero quindi che il mondo della mitologia non sia un mondo irrimediabilmente
perduto, e tuttavia non può essere esattamente recuperato. Solamente la capacità veggente
dei poeti è in grado di accedere a quella dimensione di mitogenesi (ancora una volta: non
al senso autentico e definito del mito dei Greci o di altri popoli) propria del poetaveggente, cioè di colui che vede, contempla e contribuisce a creare le figure degli dèi e il
prototipo, Urbild, cioè «un’immagine (Bild)» in cui «assume forma la coscienza dell’“essere
fusi” (Verwobenheit) con tutto il mondo sensibile: un “essere fusi” che, nel sogno, e
concretato dalla maschera, molto rigido come - paradossalmente - una rigida copertura di
perenni fluttuazioni metamorfiche su ogni Io» (17).
I saggi/poeti/veggenti di ogni tempo vedono, ascoltano, creano, parlano e scrivono a
partire dalla Verwobenheit. Per descrivere l’opera di tali uomini Kerényi utilizza il termine
“simbolismo” il cui senso viene fatto derivare dal termine “simbolico” secondo il senso
attribuitogli da Goethe e cioè simbolico come «ciò che “corrisponde perfettamente alla
natura” e per cui mezzo è il mondo che parla di se stesso» (44), per esempio il mito legato
alle figure della Grande Madre, della Notte e di Nemesi. Mitogenesi, parola poetica,
Verwobenheit e simbolismo, dunque, sembrano contenere i riferimenti a una dimensione in
cui il poeta-veggente accoglie lo zampillare del simbolismo del mondo per restituirlo in
immagini e figure del mito, cioè in mitologemi, che egli crea e che sono in grado di fondare
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interi mondi, poiché in essi origina un’intera ermeneutica della condizione del genere
umano nel mondo.
“La vera, irraggiungibile grandezza dei greci è il loro mito: qualcosa come la loro filosofia avrebbero
creato anche i moderni; il mito, no”. Il mito - come esso in questa bella frase del Burckhardt è messo
accanto alla filosofia - si dovrebbe chiamare più giustamente con la parola greca, già da lungo tempo
familiare, di “mitologia”. Nei mitologemi che formano il contenuto del grande “mito” dei Greci - la loro
mitologia - anche il logos aveva la sua parte (226).
In questo contesto le parole primordiali costituiscono la linfa vitale di miti e mitologemi,
il cui contenuto non può essere considerato separatamente dalla religione né dal contenuto
più spiccatamente sapienziale che ne deriva. Primordiale, qui, così come spontaneo e
simbolico sono attributi che fanno riferimento a un contatto quanto più stretto possibile
con la natura e con ciò che massimamente sta all’origine e quindi più gravido di senso. «La
pura nominazione di un dio è “mito” e lo sviluppamento del “mito”, il “mitologema”, per
quanto possa tradursi in puro “poema”, è la vita degli dèi stessi nell’anima degli uomini
che li riconoscono» (25-26). Il sentimento religioso dei popoli, in particolare dei Greci, è
un edificio dalla costruzione spontanea che costituisce la dimora del mito, di modo tale
che sia i mitologemi che i rituali misterici condividono una casa comune nella sfera del
divino e delle sue figure, sfera, questa, a sua volta inscindibile dal rapporto tra mondo
naturale e mondo umano.
«“Io non domino il linguaggio […] ma il linguaggio mi domina completamente. […] io
vivo con esso in un contatto per cui mezzo io concepisco pensieri, ed esso può fare di me
quello che vuole. Io obbedisco alla sua parola”» (244). La citazione da Detti e contraddetti di
Karl Kraus è inserita da Kerényi in apertura della sua analisi sul significato della figura
della dea natura nell’omonimo saggio La dea Natura; è dalla parola infatti - continua Kraus
citato da Kerényi - che «“scatta incontro la giovane idea, per agire di riflesso sul linguaggio
che l’aveva creata. Una simile gravidanza di idee è una grazia che ci costringe a ginocchio
e crea per noi il dovere di non risparmiare alcuna trepida cura di esattezza”» (ibidem).
Di una tale grazia, secondo Kerényi, sono intrise le parole Physis, Logos, Mythos e i nomi
degli dèi, parole primordiali e quindi naturalmente concettuali, naturalmente donatrici di
senso, un senso non infuso dall’uomo, dal poeta, dal filosofo, dal sacerdote, ma
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spontaneamente emergente dal non-umano del rapporto uomo-natura. In ogni istante del
suo être-au-monde l’uomo sta al mondo prima di tutto come una corporeità prassica in
costante rapporto con il proprio ambiente, il che non esclude anzi implica già nella
corporeità umana un rapporto originario con una parola nel cui vortice ogni umano è
preso, a patto che esso sia esposto alla sua ontogenesi culturale all’interno di una comunità.
È chiaro dunque che le figure degli dèi «non sono oggetto di culto per adoratori di
dèmoni, bensì oggetto di contemplazione per saggi» (236). Della figura del dio si può dire:
«Ich bin kein ausgeklügelt Buch, / Ich bin ein Gott mit seinem Widerspruch… (Io non sono un
libro escogitato, / Sono un dio con tutta la sua contraddizione)» (53). Primordiale,
sapienziale, contraddittorio, religioso, spontaneo, naturale sono dimensioni di senso che
si incontrano al crocevia tra umano e non-umano, alla fonte di un’apparizione naturale di
senso, cioè di una spontanea manifestazione simbolica che avviene nell’autocoscienza del
genere umano in quanto parte di un Intero che riflette sul proprio statuto e per contrasto
su quello di altri ordini, come la sfera del divino. E che cosa è l’uomo? «Lo dice Zeus
nell’Iliade ai cavalli immortali di Achille, […] “non vi è nulla di più povero” o di più “nullo”
(Il. XVII 443-47)» (366).
Conoscere se stessi, γνῶθι σαυτόν, sapere che si è uomini ed entro tali limiti stare e,
conoscendo i limiti del genere umano, avere consapevolezza di ciò che umano non è. Una
saggezza umana per gli umani a partire dall’esser fusi con il mondo, una saggezza racchiusa
nelle due figure per eccellenza del genere umano, una per il genere femminile, Niobe, e
una per il genere maschile, Prometeo, due figure divine che mettono in relazione diretta il
mito più antico, quello collegato alla luna, e quello più recente in cui l’uomo è sempre più
al centro «anche dei fatti del cielo» (234). Anche di una tale saggezza narrano i miti e i
misteri.
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