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CIACCO E LA NOSTALGIA DI DANTE

CIACCO E LA NOSTALGIA DI DANTE Il modo in cui Dante manifesta il proprio progetto complessivo di trovare una soluzione ai conflitti più devastanti della contemporaneità, non sempre ha la chiarezza e l’evidenza di un discorso rivolto, in modo manifesto, al lettore e, attraverso il lettore, a chi sta oltre la scrittura e vive ancora sulla terra e in condizione di accettare il messaggio e farlo suo per realizzarlo nei fatti. L’allegoria ha le sue leggi. Dante parla alla contemporaneità, anche fiorentina, dall’esilio e in questi frangenti politici si sente coinvolto e limitato nella parola per poter esprimere fino in fondo le proprie idee e i propri desideri. Cosa può desiderare un esiliato se non il ritorno in patria e rimettere ordine e pace tra le parti in guerra? Essere Ciacco ed andare da una parte all’altra di Firenze, senza frontiere interne, a pranzo gratuito da quartiere a quartiere, in una città non più divisa secondo abitudini consolidate. Un modello che valorizza la cultura e l’etica popolare, contro gli interessi opposti delle famiglie alte della città. Ciacco popolano in una Firenze del tempo passato, è portatore di un messaggio di pacificazione attraverso l’omologazione di tutte le parti della città, affinché non vi siano più divisioni e conflitti. C’è qualcuno all’inferno che può ricordare questi tempi passati. Il suo stesso soprannome popolare indica una familiarità ironica che non viene meno con il suo significato, porco, ghiottone. Dante scende al livello più basso della società fiorentina dove le divisioni e le guerre interne si fanno sentire meno dai protagonisti mentre si subiscono nelle forme più tragiche dai ceti più bassi. In questo senso, l’incontro con Ciacco è molto significativo perché pone una frontiera tra il prima e il dopo la rottura sociale della guerra civile tra Bianchi e Neri. Il prima sembra a Dante un tempo edenico, rappresentato da un Adamo sempre sazio nel paradiso terrestre di Firenze unita, anteriore al peccato originale della guerra civile. Il dopo può ricominciare sul modello di quello anteriore, per ricomporre l’unità della città nella frequentazione collettiva ed unitaria della vita sociale, nelle occasioni e nei riti organizzati per festeggiare la dimensione sociale di ogni uomo. Il pranzo, il mangiare assieme, tutti e senza fazioni, diventa il rito simbolico dell’unità e della riunificazione di Firenze. Le grandi famiglie, invece di farsi la guerra, per dominare la città, è meglio che gareggino fra loro in magnanimità e in opere di generosità sociale a favore di tutto il popolo fiorentino, ricomponendo le tensioni interne. La tavola imbandita per un matrimonio diventa il simbolo dell’unità della città di Firenze. A questo livello della società fiorentina si può superare ogni divisione e contrapposizione interna e nel nome di Ciacco si può ritornare al tempo dei pranzi collettivi senza guerre e distruzioni reciproche. Purtroppo Ciacco è all’inferno com’è nell’inferno, delle divisioni e delle guerre interne, Firenze. Questo punto di vista basso è sufficiente per cogliere la tragedia fiorentina e proprio per la sua condizione è in grado di vedere ciò che le classi alte non vedono? Quelle classi che stanno alla testa dei Bianchi e dei Neri, le famiglie alte che si sono armate una contro l’altra. Il luogo infimo di Ciacco permette di formulare domande oltre quelle usuali per uscire dall’inferno delle guerre. C’è bisogno di sciogliere i nodi delle logiche indirette e sintetiche, avvicinandosi al personaggio e a Firenze, e, tramite lui, mettere in evidenza ciò che è latente, per comprendere la nostalgia di Dante e il suo progetto illeggibile. Ritornare all’unità del popolo fiorentino, in nome di Ciacco. Ciò che Ciacco ricorda dell’anima gioiosa e popolare della città, è il momento felice quando l’estraneo era il benvenuto e il non invitato partecipava alla letizia di tutti. Un buon pranzo di nozze, fingendosi invitato in mezzo a tanti altri fiorentini e familiari invitati, con la gioia del vino e gli auguri agli sposi. Quell’allegria di tutti, che oggi non c’è più. Sciogliendo le concentrazioni simboliche si ottiene, nell’incontro con Ciacco, la rappresentazione allegorica di questo tempo segnato dalla guerra civile e il modo di Dante di leggere il passato nella propria nostalgia, accompagnata dall’afflizione per Ciacco e per tutta la città di Firenze, proponendo un futuro privo di conflitti e di aggregazioni sociali in guerra, ritrovando un popolo unito. Nel proseguo del cammino, è necessario risolvere gli enigmi che Dante fa trovare sulla strada per indicare la necessità di una riflessione sui nodi più intricati del proprio tempo. Ciacco protagonista della città felice e anteriore alla guerra civile, può ben rappresentare questo tempo, al quale Dante vorrebbe ritornare assieme alla città liberata dalla guerra. Ciacco porta in sé i desideri indicibili di Dante e i suoi annunci drammatici di guerra e di esilio risvegliano il bisogno interiore di ritornare al buon tempo passato come promessa di un altro buon tempo a venire. Certamente la profezia di Ciacco non si può più fermare ma si può impedire che questa storia del suicidio della società fiorentina continui. Ciacco sta tra il passato e il futuro per un ammonimento drammatico sui danni delle divisioni interne di Firenze. Il futuro annunciato da Ciacco si è già realizzato nel peggiore dei modi. Resta un altro futuro? Quello di Dante. Dante poeta, nell’inferno, sogna la città ritornata unita e pacificata. La filosofia, come la politica, assieme alla poesia ha una missione nel tentativo di sottrarre al conflitto l’uomo sulla terra, per trovare quella sintesi che porta oltre la divisione e la guerra, per un governo efficace ed unitario della condizione umana e della città. Nella città come nella totalità umana governata dall’impero e dal papato, soltanto la pace può garantire la felicità. Dante ha un’unica chiave per governare il mondo e mettere fine ai conflitti che lo devastano. Dalla città alla cristianità all’umanità c’è un solo piano di intervento per porre fine alle guerre che devastano la terra. C’è un piccolo mito locale che ricorda il tempo della pace, Ciacco, che si trova all’inferno, luogo nel quale la nostalgia è pena. Per Dante, invece, è memoria edenica e da ritrovare per un nuovo tempo di innocenza collettiva, tempo di grandi pranzi collettivi, attraverso una Firenze libera da impedimenti interni, dove in tanti potevano anche mangiare a sbafo. Ma Dante non lo può dire con la sua parola, proprio perché è sufficiente un’icona collettiva del tempo felice. L’attenzione di Dante per la politica e una riflessione urgente anche sulla propria esperienza di amministratore della città di Firenze, lo mettono dinanzi alla prova di verità ogni qualvolta la memoria del proprio agire pubblico gli impone di oltrepassare il già avvenuto in forma critica, per non cadere nell’apologia di sé e della situazione così com’è stata vissuta. C’è un’attenzione critica all’agire politico, per recuperare il senso dell’agire umano e guidarlo a una consapevole condotta pubblica. La politica è la scienza del fare e una guida al fare è necessaria. Quando è necessario guardare al futuro, oltre la storia vissuta, al limite del pensiero consapevole, si affaccia, in forma ancora di bisogno inespresso, un’ipotesi di superamento dell’esistente per raggiungere una nuova certezza collettiva sulle divisioni e i conflitti. Ciacco, nel sesto canto dell’Inferno, viene evocato sulla strada di Dante per confermare il bisogno di oltrepassare le divisioni e le guerre civili di Firenze e raggiungere una certezza collettiva nel nome del bene comune. Non può esserci un bene di parte in una città ma il bene della città deve essere realizzato nella sua interezza per tutti i cittadini. C’è una via negativa nella dimostrazione che deve essere colta nel modo in cui le alternative si pongono all’interno dei discorsi, con una dialettica non esplicita. Passare dal peccato della gola al peccato contro la vita comune della città è possibile se c’è un’immagine complementare che mostra le gioie della vita comunitaria senza frontiere e senza postazioni di parte da difendere. Se c’è una città agibile nella sua totalità ogni parte diventa il luogo di ciascuno e di tutti senza il pericolo di incorrere in una postazione nemica. Dante ha nostalgia della Firenze anteriore al conflitto tra Bianchi e Neri, una guerra civile che ha res inagibile l’intera città. Ma anche lui ne ha colpa e questo richiamo indiretto può servire anche come rimprovero a se stesso e alle proprie incapacità. L’onesta non è sufficiente se non c’è anche la competenze per tenere a bada i conflitti. Ma questa memoria della città di Ciacco bisogna richiederla ad altri. Boccaccio ce ne dà l’occasione. In una sua novella il protagonista è proprio Ciacco e la sue presenza è emblematica del tempo di una città felice, agibile in lungo e in largo per una continua caccia al pranzo da consumare a sbafo, nelle feste collettive e nei riti di una comunità che vive sulle occasioni di incontri celebrativi della vita comune. […] si diede a essere non del tutto uomo di corte ma morditore e a usare con coloro che ricchi erano e di mangiare delle buone cose si dilettavano; e con questi a desinare e a cena, ancor che chiamato non fosse ogni volta, andava assai sovente. (Decameron, IX;8) Boccaccio rende conto di una città aperta e priva di frontiere interne nella quale è possibile andare dovunque seguendo la trama dell’amicizia e della disponibilità di ognuno di accogliere l’altro senza prevenzioni di parte. Non c’è ancora una città partita e le divisioni interne non sono impedimento per la libera circolazione delle persone. Compagnie allegre che hanno il piacere di ritrovarsi piacevolmente e nelle quali c’è posto anche per chi non è invitato. Ancora la divisione tra fazioni non è penetrata nella profondità del tessuto sociale e l’estraneo è il benvenuto se, soprattutto, è di buona parola e capace di intrattenere tutti con gusto e ironia. Il pranzo collettivo e la parola salace sono testimonianza di una libertà comunitaria che non costruisce frontiere tra le persone. Alla parola si risponde con la parola perché le armi non hanno sostituito ancora i discorsi. In questo modo si mantengono le compagnie e anche le tensioni si scaricano nell’intelligenza della parole e dell’ironia. Ciacco è vissuto in un tempo anteriore alla guerra civile e il suo esempio di allegro mangione che scorazza per la città, invitandosi allegramente in ogni pranzo del rito civile e partecipando ai riti della comunità ricorda come ogni individuo è cittadino di un mondo senza frontiere se la città non ha divisioni in parti in modo da escludere gli estranei dei singoli raggruppamenti urbani e delle divisioni in parti. Una brigata è anche un mondo chiuso ma non è in guerra con le alte brigate. Ed elli a me: <<La tua città, ch’è piena d’invidia sì che già trabocca il sacco, seco mi tenne in la vita serena. Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa de la gola, come tu vedi, a la pioggia mi fiacco. If VI, 49-54 Una città che dei vizi privati, l’invidia come emblema dello scontro e agonismo tra singoli, diventato modello della vita collettiva, ha fatto sistema di vita sociale, non può che trasformare la forma in cui una persona si mettere contro l’altra, in condizione generale di vita urbana tesa a sottrarre all’altra ciò che le proprio. Così la guerra civile ha la radice nelle singole persone, nei loro vizi di fare concorrenza l’un all’altro per negare all’altro ciò che gli spetta. L’invidia come seme della guerra civile diventa il fattore esplosivo che fa trovare ciascuno nella guerra di tutti. Quel <<cittadini>> rivela il modo in cui ciascuno sta nella città di tutti. Ciacco è per tutti il detentore di questo nome quasi per un battesimo collettivo. La risposta di Dante aggiunge qualcosa di personale, la compassione per il dannato e, come succede anche altrove, la compassione fa riconoscere qualcosa di comune con il dannato, come nell’episodio di Francesca e altrove. Dante si riconosce nel peccato esposto da Ciacco e nel suo affanno, per potersene liberare con il pianto. Anche lui è stato un uomo di parte, contribuendo ad armare una parte contro l’altra, e ora ha la possibilità di riconoscere il proprio errore e pentirsi, riconoscendo anche che il bene comune non può trovarsi nel bene della parte. Io li rispuosi:<< Ciacco, il tuo affanno mi pesa sì, ch’a lagrimar ni’invita; ma dimmi, se tu sai, a che verranno li cittadin de la città partita; s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione per che l’ha tanta discordia assalita>>. ivi, 58-63 Come altrove, nel precedente canto V, Dante ha pietà per Francesca ma anche tristitia per sé, contrizione per il proprio tempo intellettuale e poetico. Ora si ripete per quello politico e c’è la proiezione di sé e dei propri errori di responsabile sulla vita politica fiorentina. Dante piange su di sé, sui limiti della sua azione, compiangendo l’angoscia di Ciacco, anche se avverte la seduzione di una libertà personale che coincide con l’agire pubblico, errato perché di parte, ma da persona giusta(esiliando i capi delle fazioni avverse). La domanda a Ciacco chiede soltanto la conferma di ciò che Dante pensa per sé e per il suo collega di priorato, l’avere agito correttamente per il bene della città.. Il passaggio al problema politico è brusco ma legittimato dal fatto di vivere nella città comune a Ciacco, una città divisa. Dante chiede quale termine raggiungerà la città divisa in Bianchi e Neri, cosa succederà. Se nella città c’è qualcuno giusto e quale causa c’è nella divisione della città. Sono tre domande che colgono la radice del presente, informandosi su quale futuro attende Firenze e se c’è qualcuno giusto che possa restaurare la giustizia nelle città. Dante finge di non conoscere la storia precedente che ha portato alla guerra civile attuale. La risposta di Ciacco segue l’ordine delle domande e per prima cosa indica il futuro prossimo di Firenze. La guerra civile e la cacciata dei Neri dalla città. E quelli a me:<<Dopo lunga tencione verranno al sangue, e la parte selvaggia caccerà l’altra con molta offensione. Poi appresso convien che questa caggia infra tre soli, e che l’altra sormonti con la forza di tal che testé piaggia. Alte terrà lungo tempo le frondi, tenendo l’altra sotto gravi pesi, come che di ciò pianga o che s’aonti. ivi, 64-72 La vicenda della sconfitta delle due fazioni e il predominio di una sull’altra viene narrata rapidamente mettendo in risalto come in questa città non c’è giustizia nel comando di una fazione sull’altra con l’unica prospettiva del rovesciamento delle posizioni. Un’ingiustizia non può risanare l’altra perché si tratta sempre di un governo di parte fondato sulla violenza di una parte sull’altra. Sul problema delle giustizia si apre il vero enigma del canto. Chi sono questi due giusti? Giusti son due, e non vi sono intesi, superbia, invidia e avarizia sono le tre faville c’hanno i cuori accesi>>. ivi,73-75 Un breve esame del termine giustizia è necessario per portare fuori tutto il concentrato di significato che contiene. La giustizia è virtù sociale per la quale ognuno si comporta bene o male nei confronti degli altri. Essere giusto rende conto della capacità personale nei confronti delle altre persone, di operare per un bene personale che non fa venire meno il bene degli altri. Non un bene soltanto a favore della persona che agisce socialmente, o verso la sua parte, ma un bene comune per l’individuo come per l’intera società. Due uomini giusti, perché agiscono socialmente, perché la giustizia è incompatibile con lo spirito di parte. Due uomini giusti che stanno lavorando non per la <<città partita>>, per fare trionfare una parte sull’altra e contribuire alla sua rovina, ma per la città di Firenze tutta. Dante dice che bisogna superare le divisioni e le contrapposizioni nel governo della città, divisioni che stanno distruggendo Firenze, per trovare un’unità di governo e di progetto politico oltre i Bianchi e i Neri. Anche Brunetto Latini individua i tre vizi dei fiorentino come matrice del male della città. Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; gent’è avara, invidiosa e superba: dai lor costumi fa che tu ti forbi. If. IV 67-69 L’invito di Brunetto a Dante affinché resti pulito dai loro vizi lo abilita a una separatezza morale in grado di mettere ordine alla città. Ancora è la visione delle parti che cercheranno di distruggere Dante l’immagine negativa di una situazione nella quale quell’unico deve restare attento a non farsi mangiare da chi vuole sottometterlo al proprio disegno. La tua fortuna tanto onor ti serba, che l’una parte e l’altra avranno fame di te; ma lungi fia dal becco l’erba. ivi, 70-72 Facendo un salto nella storia è probabile che Dante tenga conto dall’azione politica intrapresa per evitare la guerra civile, ponendosi al di sopra delle parti. Come si comprende dall’azione di conciliazione per bloccare lo scontro tra le parti della quale abbiamo notizia certa: mandare in esilio i capi delle opposte fazioni. Manca la parola esplicita per indicare la prospettiva conciliativa e la via negativa che Dante ha a disposizione per rappresentare un bisogno di pacificazione rappresenta, nell’inferno, gli effetti devastanti delle divisioni e dello scontro sociale deve suggerire l’alternativa a questa situazione. Un’unica città non più in guerra interna così come è nella facile profezia che Ciacco prospetta sugli esiti immediata della crisi sociale. Certamente Dante non ha gli strumenti per attuarla ma può indicare lo spirito nuovo necessario per superare la situazione attuale della città e offrire un antidoto all’apocalisse dello scontro che si progetta. Due giusti non sono sufficienti se non è giusta tutta la città Questi due possono essere soltanto profeti impotenti di un futuro pacificato. Tocca ad altri operare per una giusta condotta della città ma qualcuno deve prendere le redini dell’opinione pubblica di una città armata per una guerra imminente. Questi due giusti hanno una relazione necessaria con il fare il bene per gli altri. Sono legati a una funzione pubblica e il loro agire è dettato dal bene da fare per gli altri. E’ più che probabile che i due giusti siano lo stesso Dante e Dino Compagni, l’altro che nel tempo della guerra civile hanno avuto gli incarichi pubblici più importanti per la vita amministrativa e politica della città, portatori di una soluzione politica alternativa allo scontro tra le parti. E’ giustizia cercare di disarmare anche psicologicamente le due parti mandando in esilio i loro capi. Così si azzera il potenziale dell’oltranza antagonista per lasciare orfano dei suoi capi un popolo altrimenti pacifico. Le cause più interne sono nell’individualismo vizioso che non tiene conto dei valori collettivi. La superbia, l’invidia e l’avarizia, la sete senza freno di ricchezze, sono di per sé vizi antisociali, contro la natura sociale dell’uomo. Su questo piano l’invidia è il vizio che non riconosce gli interessi e diritti degli altri uomini e l’invidioso cerca di prendere il posto dell’altro. Così la superbia esalta l’io nella sua potenza vera o apparente mentre l’avarizia tende a impossessarsi dei beni degli altri. Qui c’è il germe di una guerra che si estende a tutta la società iniziando dal piano morale per finire in quello politico. Dante chiede notizie di altri che in vita si sono dati da fare per il bene della città e non per la propria parte, come Farinata, la cui storia sarà conosciuta nel canto decimo. Farinata e ‘l Teggiaio, che fuor sì degni, Iacopo Rusticucci, Arrigo e ‘l Mosca, e li altri ch’a ben far puoser li ‘ngegni, ivi, 79-81 L’elenco di questi che si rivolsero al bene comune copre gli anonimi che hanno fatto dei loro vizi privati l’obbiettivo della vita civile. Qui si comprende la dialettica interna di questo canto praticamente rivolto alla giustizia anche se nell’inferno manca un luogo riservato proprio all’ingiustizia perché la giustizia, aristotelicamente, è la virtù presente in tutte le altre virtù e il peccato dell’ingiustizia è presente in tutti gli altri peccati. Questa giustizia è dunque una virtù perfetta, ma non di per sé, bensì in relazione ad altro. […] <<Nella giustizia è insieme compresa ogni virtù.>>[…] Proprio per questo poi la giustizia è la sola delle virtù che sembra essere un bene altrui, in quanto riguarda gli altri:essa infatti compie ciò che è utile agli altri, sia ai capi, sia alla società. (Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza Editore, pp. 107-108) Ciacco è il portatore di un bisogno di giustizia in quanto fondamento della pace civile e diventa lo specchio di Dante nel far nascere un’alternativa oltre la propria profezia apocalittica sulla città di Firenze. Sta agli abitanti di Firenze accogliere il suo messaggio e superare le divisioni e le contrapposizioni. Ciacco era abituato a vivere in una città senza frontiere e ora rende conto di un buon tempo passato nel quale i conti si saldavano con una arguta battuta di spirito. Lo spirito comunitario di quelle brigate fiorentine era alieno dall’invidia, dalla superbia e dall’avarizia proprio perché lo spirito comunitario scioglie ogni vizio personale nella propria libertà di scambi e di doni reciproci. Il vizioso è chiuso sulla propria identità immorale individuale e se non partecipa e si libera delle incrostazioni antisociali, non può vivere le dimensione collettiva. Per questo motivo Ciacco può essere testimone e profeta, avendo vissuto in due tempi diversi, sulla terra e nell’inferno. Quando Dante si troverà dinanzi al primo dei dannati nominati precedentemente, Farinata, si comprenderà ulteriormente il significato di una virtù civile che tiene conto del bene comune, il bene della città prima di quello privato. Per costui, magnanimo, Firenze non deve essere distrutta. Ma fu’ io solo, là dove sofferto fu per ciascun di torre via Fiorenza colui che la difesi a viso aperto>>. If X, 91-93 Gli altri avevano deciso di distruggere Firenze ma lui si era opposto e la sua opposizione aveva salvato la città. La magnanimità è proprio quella virtù che porta a fare grandi cose per gli altri e mostra come nessuno può sottrarsi alla sua dimensione sociale quando è in questione la vita della comunità (Etica Nicomachea,IV,3). Farinata può attivarsi per salvare Firenze dal consiglio altrui per farla distruggere, grazie alla sua virtù personale che non antepone sé e la sua parte alla vita della città. La magnanimità si oppone all’invidia, la superbia e l’avarizia perché antepone i propri comportamenti sociali all’egoismo del vizio personale. In qualche modo anche i ricchi che Ciacco frequenta e imbandiscono pranzi e cene per gli altri, sono dei magnanimi perché tengono al nome onorato presso i cittadini di Firenze. Ciacco chiede a Dante di essere ricordato quando ritornerà nel mondo dei vivi ben sicuro di avere lasciato una buona memoria di sé. Ma quando tu sarai nel dolce mondo, priegoti ch’a la mente altrui mi rechi: più non ti dico e più non ti rispondo>>. ivi, 88-90 Il rapporto tra i vivi e i morti integra nella comunità virtuale di tutti quelli che non ci sono più tramite una memoria grata per le buone azioni compiute. In questo modo si attiva un circuito di frequentazioni allargato al quale possono partecipare quelli che ugualmente hanno un animo grande e aperto all’esperienza dell’altro uomo. Così si manifesta l’essere sociale dell’individuo. Come si può notare Dante è attento a distinguere la virtù della persona dal peccato, per il quale è dannata all’inferno, tenendo conto soprattutto delle qualità dell’uomo anche se non giova ad alleviare lo stato infernale nel quale si trova. C’è una coscienza morale superstite che tiene legato ancora il dannato al mondo terreno nel modo in cui visse sulla terra e meritò presso gli altri uomini. Queste virtù sociali non si cancellano o vengono assorbite dalla pena comminata per il vizio personale. Cosa più grande è certamente l’azione meritoria verso la città mettendo a sua disposizione tutte le proprie risorse morali per salvarla nel momento del pericolo. Le differenti virtù e vizi individuali tra i cittadini, conosciuti da Ciacco, e chi personalmente ha lottato per il bene comune mostrano come Dante è attento a un’etica sociale rivolta al bene comune oppure a mettere in evidenza una condotta viziosa tesa alla distruzione della comunità. In modo drammatico quando la rottura dell’ordine sociale porta alla deriva i vizi singoli dei cittadini fino a farli diventare la premessa di una violenza distruttiva che coinvolge l’intera città. Ovviamente serve soprattutto al presente questa esemplarità di un’etica sociale costruttiva quando ancora si fanno sentire le conseguenze della guerra di tutti contro tutti. In una città divisa in parti e che non comunica più secondo valori sociali. L’inferno di Dante sprofonda nella storia e ha bisogno di quei dannati che hanno fatto esperienza del mondo per rovesciare la stessa ragione della terra e farne un esemplare specchio delle diverse possibilità di mutare il destino di una storia già segnata o, almeno, di indicarne l’alternativa nel comportamento degli uomini. Fare il bene secondo giustizia. In questo modo il pellegrino, che va per l’inferno per imparare il bene e il male, ritrova il proprio tempo ancora mosso da tutte le perturbazioni dell’uomo e anche la politica trova i motivi per una sua fondazione etica. L’uomo è un essere sociale per natura ma deve imparare a leggere dentro sé le chiavi dell’ordine sociale e una giustizia che lo fa attore del bene collettivo. L’etica è una funzione della politica e ogni trattato sul bene personale coincide con il bene pubblico. Non può esserci un bene pubblico che non si radica nel fare il bene per la singola persona. La magnanimità è virtù politica perché radica il singolo nel bene di tutta la città. Si tratta di un edificio o un pranzo collettivo. I vizi personali di natura antisociale, come l’avarizia, sono incompatibili con il bene comune quando diventano vizi di un’intera comunità. Allora tutta la comunità assume l’habitus del vizio personale e va alla deriva distruggendosi con le proprie mani. NOTA. In: A.GAGLIARDI, La Commedia divina di Dante. Tra Averroè e Cristo (rivisto), Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2014. PAGE \* MERGEFORMAT1