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Una lastra architettonica con ratto di Ganimede da Populonia

UNA LASTRA ARCHITETTONICA CON RATTO DI GANIMEDE DA POPULONIA Dall’area dei templi sull’acropoli di Populonia proviene una lastra architettonica in terracotta modellata a stampo nella quale, sebbene fortemente danneggiata, si riconosce la raffigurazione di Ganimede rapito dall’aquila (Figg. 12). Ad un primo esame del frammento mi era parso di poter scorgere nella scena l’episodio di Attis aggredito dal leone: Ganimede e Attis condividono infatti alcuni attributi e solo l’analisi attenta del frammento, i confronti con analoghe raffigurazioni e, soprattutto, i preziosi consigli di E. Jane Shepherd mi hanno convinta dell’interpretazione dell’episodio mitologico, che qui propongo. Figg. 1-2 - Lastra architettonica con raffigurazione di Ganimede (disegno: F. Ghizzani Marcìa). 214 Carolina Megale Il personaggio raffigurato, alto circa 5 unciae (pari a 12.5 cm), indossa il caratteristico berretto frigio, un lungo mantello che copre la spalla ed il braccio sinistro, lasciando scoperto il pube, e calzari allacciati alla caviglia. Nella mano sinistra tiene il pedum mentre la destra è sollevata vicino alla testa. Un particolare che in un primo momento mi pareva fortemente significativo per l’identificazione con Attis, il dio paredro della Magna Mater, era la voluta manifestazione dell’assenza di attributi virili. In quest’ottica, osservando il resto della scena, in cui il personaggio è aggredito da un animale che con zampe e artigli lo afferra ai fianchi, avevo riconosciuto la presenza di un leone, effettivamente compatibile con l’iconografia del culto di Cibele (SIMON 1997). Un simile episodio però non compare né nel mito di tradizione frigia tramandato da Arnobio (Adversus nationes, 5. 5-7) né in quello lidio tramandato da Pausania (7. 17. 10) (SCARPI 2002; GRAILLOT 1912). Tuttavia dopo l’introduzione del culto della Magna Mater a Roma, il 4 aprile 204 a.C., in seguito alla consultazione dei Libri Sibillini durante la guerra contro Annibale, la vicenda mitica di Attis e Cibele divenne lo spunto per diverse altre rappresentazioni figurative e letterarie, a cominciare dai testi di Cicerone (Har. Resp., 12) e Livio (XXIX, 14), che informano dettagliatamente sull’arrivo del simulacro a Roma, al De rerum natura di Lucrezio, che in una celebre digressione (II, 600-660) ritrae l’iconografia tradizionale della Magna Mater, il collegio di eunuchi, la processione e le danze in suo onore. Anche Cecilio in un poemetto perduto intitolato Magna Mater (di cui dà notizia Catullo, 35.17-18), e ancora Varrone (Eumenid., XVI-XXVII), Properzio (IV, 11.51-52) e Mecenate (Caes. Bass., De metr., 4.8-17) descrivono il culto di Cibele e la sua origine, e in particolare Ovidio, in relazione con le ricorrenze legate al mese di aprile (Fasti, IV, 179-372). Ma il testo più interessante, e allo stesso tempo “ingannevole”, è il carme 63 di Catullo, scritto probabilmente intorno al 55 a.C., al ritorno del poeta dal viaggio in Bitinia (FEDELI 1979; MORISI 1999, p. 42). Nel poemetto Attis è un giovane che varca mari profondi per congiungersi a Cibele nel bosco frigio. Il carme si apre con la descrizione del momento culminante del rito orgiastico, durante il quale Attis e la sua schiera di compagni, in preda al furor mistico, si evirano con una pietra aguzza, atto che per tradizione li consacra ministri di Cibele, Galli. Qui Attis con le mani di neve suona un piccolo timpano e guida il corteo infervorato dei neo-sacerdoti nel bosco dell’Ida. Al risveglio dal pesante sonno che l’ha colto al termine della cerimonia d’iniziazione, Attis si rende conto del suo stato e del duro servaggio che lo attende. Pentito e sconvolto, torna sulla riva del mare e di lì rivolge un accorato rimpianto alla sua patria. A questo punto Cibele per impedirgli di lasciare il bosco a lei sacro scioglie un leone del suo carro e glielo aizza contro. Nella descrizione di questa scena il parallelo con la raffigurazione della nostra lastra sembrerebbe immediato. Una lastra architettonica con Ratto di Ganimede da Populonia 215 Per quanto riguarda l’episodio, Catullo sembra rifarsi a fonti ellenistiche (FEDELI 1981, pp. 252-256), di cui si conserva l’eco in quattro epigrammi dell’Antologia Palatina (6, 217-220), molto simili tra loro, che narrano la vicenda di un sacerdote di Cibele, evirato, che vagando per le cime boscose dell’Ida si rifugia in una grotta perchè nevica (in un’altra versione perchè di notte aveva smarrito la strada) e assalito da un leone riesce a mettere in fuga la belva percuotendo il suo timpano. All’episodio fa riferimento anche Varrone: “non hai visto l’immagine del leone presso l’Ida in quel luogo dove un tempo, quando i Galli all’improvviso videro il quadrupede, lo ammansirono con il suono del timpano fino ad accarezzarlo?” (CÈBE 1990, ONO S LçRAS, fr. 359 = Fr. 17 Buecheler-Heraeus). Sebbene nel repertorio figurativo relativo ad Attis non sia stata individuata alcuna raffigurazione di tale episodio (VERMASEREN 1966; ID. 1977; ID. 1978; VERMASEREN, DE BOER 1986), la descrizione di Varrone sembrava confermare l’esistenza di una tradizione iconografica a noi non pervenuta. Nella nostra scena, tuttavia, in secondo piano, al di sopra della figura, è raffigurato il piumaggio di un uccello, reso con tratti incisi a formare tanti piccoli ovali leggermente in rilievo, a loro volta incisi al centro (SHEPHERD 1998). Nell’artiglio che afferra i fianchi del personaggio è quindi meglio riconoscibile la zampa di un’aquila e nel personaggio afferrato Ganimede. Il confronto con analoghe raffigurazioni conferma questa interpretazione (SICHTERMANN 1988; COLPO 2005; BONGHI JOVINO 1969). Ganimede infatti è rappresentato con berretto frigio, un braccio sollevato e nell’altra mano il pedum o la lancia del cacciatore, un ginocchio piegato a terra e l’altra gamba tesa. La disposizione del corpo è obliqua per rendere la drammaticità della scena. Ganimede, “il più bello fra i mortali” (Iliade, XX, 233), è rapito da Zeus che, innamoratosi della sua bellezza, assume le sembianze di un’aquila e ghermisce il ragazzo, conducendolo sull’Olimpo dove ne fa il coppiere degli dei. Nella tradizione greca e romana il mito ebbe notevole fortuna per il suo significato erotico, a partire dal primo inno omerico Ad Afrodite, mentre in scritti di carattere scientifico esso è citato in virtù degli elementi astronomici che lo caratterizzano (MARONGIU 2002). Non tutte le fonti concordano sulle modalità del rapimento. Quelle più antiche narrano che l’autore fu lo stesso Zeus, manifestatosi sotto forma di vento impetuoso (inno Ad Afrodite, 207-208), oppure altri personaggi non meglio specificati. Il primo riferimento all’aquila si trova in Alceo (A.P., XII, 64), il quale prega il dio di non trasformarsi in aquila per rapirgli l’amante e farne un nuovo Ganimede. Di un’aquila inviata da Zeus a rapire il fanciullo parlano numerose altre fonti (Plaut., Men., 143-146; Apollod., III, 12.2; Verg., Aen., V, 255; Hyg., Astr., II, 16; Mart., I, 6 e V, 55; Apul., Met., VI, 15, 1), mentre per 216 Carolina Megale altre era lo stesso Zeus a celarsi sotto le sembianze del rapace (Lucian., DDeor., 10(4); Prop., II, 30, 27-30; Ov., Met., X, 159). Le raffigurazioni antiche del rapimento di Ganimede sono rare: i pittori dei vasi attici a figure rosse preferiscono infatti rappresentare il momento che precede, ovvero l’inseguimento di Ganimede da parte di Zeus. Nell’acroterio in terracotta del tempio di Olimpia (inizi V secolo a.C.) compare Zeus che stringe, sollevato sotto il braccio destro, il giovane Ganimede, che a sua volta tiene in mano un gallo, togliendo ogni dubbio sul significato erotico della scena (BRUNEAU 1962, pp. 193-194). L’iconografia di Ganimede sollevato in cielo dall’aquila compare solo a partire dalla prima metà del IV secolo a.C. con il celebre gruppo in bronzo realizzato da Leochares, di cui ci resta la descrizione di Plinio “Aquilam sentientem quid rapiat in Ganymede et cui ferat, parcentemque unguibus etiam per vestem puero” (N.H., 36.79; SICHTERMANN 1953). L’opera di Leochares costituisce il primo esempio di sostituzione dell’aquila alla figura di Zeus che, fino a quel momento, aveva caratterizzato le rappresentazioni del mito, create piuttosto sul modello delle scene di inseguimento erotico. Il tipo annovera numerose repliche, pressoché senza soluzione di continuità, con minime varianti allo schema principale (per un’esemplificazione delle attestazioni dello schema, SICHTERMANN 1988, nn. 192-256): da questo modello dipendono tutte le raffigurazioni del ratto di Ganimede di età ellenistica e imperiale. Fig. 3 - Lastra architettonica con raffigurazione di Ganimede e l’aquila da Cosa (da SCOTT 1992). Una lastra architettonica con Ratto di Ganimede da Populonia 217 La lastra architettonica rinvenuta sull’acropoli di Populonia è l’unico esemplare finora noto di rilievo con raffigurazione di un episodio mitologico. Il frammento (altezza: 15 cm circa; larghezza: 7 cm; spessore: 2 cm) proviene dall’area antistante l’edificio D (saggio XXI) e più precisamente da un’unità stratigrafica (US 5111=5112=5113, att. 561, periodo III fase b) interpretata come consistente strato di livellamento, funzionale ad un nuovo allestimento dell’area (BARTALI, GHIZZANI MARCÌA, MEGALE, in questo volume). La datazione proposta, tra la seconda metà del I secolo a.C. e l’inizio del I d.C., costituisce dunque il terminus ante quem per la realizzazione della lastra. L’impasto del manufatto, di colore beige- rosato, è grossolano, con frequenti inclusi di chamotte di piccole e medie dimensioni, ed è assai simile all’impasto 1 delle terrecotte architettoniche tipo A3, con palmette oblique addorsate, che sono state riferite, in via del tutto preliminare, alla decorazione del tempio B (CALLOUD, GHIZZANI MARCÌA, in questo volume). Il tempio B di Populonia è il più grande dei tre templi finora messi in luce sull’acropoli ed è caratterizzato, nella pars postica, dalla presenza di tre celle, una maggiore al centro e due laterali più piccole (BARTALI, GHIZZANI MARCÌA, MEGALE, in questo volume). L’attribuzione della lastra di Ganimede all’apparato decorativo del tempio B porterebbe ad ipotizzare che, tra le divinità venerate, vi fosse Giove e dunque che l’edificio fosse dedicato alla triade Giove, Giunone, Minerva. In proposito non si può non ricordare il passo in cui Plinio (N.H., 34.9) parla dell’esistenza a Populonia di un’antica statua di Giove ricavata da un unico tronco di vite (MANACORDA 2003, p. 190). L’unica rappresentazione di Ganimede e l’aquila su una lastra architettonica in terracotta relativa ad un edificio templare proviene da Cosa (Fig. 3): il frammento, appartenente all’apparato decorativo del Capitolium, è datato al primo quarto del II secolo a.C. (SCOTT 1992, tav. X). Addendum Durante gli scavi dell’ottobre 2007, quando questo articolo era in bozze, da uno strato (US 5286), steso per rialzare il pavimento dell’edificio D, è emerso il frammento di un’altra lastra architettonica realizzata con lo stesso impasto della prima (dimensioni massime conservate: 11 per 8 cm; spessore 2 cm; Fig. 4). Vi compaiono parte dell’ala destra di un uccello, coperta di piume rese con gli stessi tratti incisi a formare piccoli ovali come quelli del corpo dell’aquila raffigurata nel frammento con Ganimede, e il becco ricurvo tipico dei rapaci, rivolto verso destra. Pur non attaccando, è assai probabile che i due frammenti appartengano alla stessa lastra, visto che hanno identico spessore e 218 Carolina Megale sono realizzati con lo stesso impasto. Quel che è certo, è che il nuovo frammento conferma senza più ombra di dubbio l’interpretazione della scena raffigurata come Ratto di Ganimede (Fig. 5). CAROLINA MEGALE Fig. 4 - Lastra architettonica con raffigurazione di un’aquila (disegno: F. Ghizzani Marcìa). Fig. 5 - Ipotesi di ricostruzione grafica (in grigio) del Ratto di Ganimede dall’acropoli di Populonia (disegno: F. Ghizzani Marcìa). Una lastra architettonica con Ratto di Ganimede da Populonia 219 Bibliografia L. 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