DOSSIER Delio Salottolo, L’esperienza allargata. Riflessione sull’Antropocene
DELIO SALOTTOLO
L’ESPERIENZA
ALLARGATA.
RIFLESSIONI
SULL’ANTROPOCENE
1. Antropocene come problematizzazione 2.Antropocentrismo/postantropocentrismo: quale uscita?
3. Antropocene come crisi: questione epistemologica e politica 4. Verso un’esperienza allargata
ABSTRACT: THE EXTENDED EXPERIENCE.
REFLECTIONS ON THE ANTHROPOCENE
The debate on the so-called
Anthropocene
represents
the
emergence of a problematization
that calls into question the
whole system of modernity, which
is to be understood as a
combination
of
reflective
rationality and a capitalist
mode of production. The essay
intends
to
analyze
the
contradictions that arise from
the
“discovery”
of
the
Anthropocene:
that
between
anthropocentrism
and
postanthropocentrism,
and
that
between origin and outcome of
modernity. If Latour's studies
are important to understand the
epistemological
status
of
unfinished modernity, we must go
to the material origin of the
problem
and
understand
the
implications of the capitalist
and modern world-ecology. Once
the places of the emergency of
the problematization have been
identified, it is possible to
think about an intervention in
reality that has at its center
the dynamics of the conflict and the determination of an extended experience.
È più facile immaginare la fine del mondo che la
fine del capitalismo
Vecchio adagio riferibile a Fredric Jameson e/o
Slavoj Žižek
1. Antropocene come problematizzazione
«Quello di Antropocene», scrive Jason W. Moore, «è diventato il
concetto ambientalista più importante, ma anche il più pericoloso,
del nostro tempo» e «la sua pericolosità sta nel fatto che proprio
50
S&F_n. 21_2019
mentre mostra con chiarezza i “passaggi di stato” [state shifts]
delle nature planetarie esso mistifica anche la loro storia»1. Ma
di cosa è il nome la parola Antropocene? Senza ripercorrere una
storia già molto nota e decisamente alla moda2 – e che è definita
dall’ipotesi
dell’ingresso
in
una
nuova
era
geologica
caratterizzata dall’impatto trasformativo (e, va da sé, negativo)
dell’anthropos sull’intero sistema-pianeta – è possibile affermare
che l’immensa mole di studi che da quel momento ha investito non
soltanto
la
scienza
“scienze
dure”),
sociali,
sia
ma
dovuta
geologica
anche
al
e
(e
quelle
soprattutto
fatto
che
tale
che
le
si
definiscono
scienze
parola,
a
umane
tratti
e
un
significante semi-vuoto, abbia avuto la capacità di imporsi come
problematizzazione: con questo termine, da noi utilizzato andando
anche oltre il senso originario foucaultiano3, deve intendersi lo
studio che permette di comprendere il divenire problema di un
qualcosa che, precedentemente invisibile, compare all’improvviso
sulla scena del mondo a partire da una molteplicità di luoghi di
emergenza. La problematizzazione, intesa in questo senso “forte”,
è sempre un modo per fotografare l’emergenza (e, quindi, definire
le modalità di apparizione) di una specifica esperienza; una
esperienza, nella nostra prospettiva, è sempre determinata da tre
1
J. W. Moore, Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era
della crisi planetaria (2016), tr. it. ombre corte, Verona 2017, p. 29.
2
Il termine Antropocene fu utilizzato inizialmente dal microbiologo Stoermer
negli anni ’80 del secolo scorso per poi divenire famoso grazie a una
pubblicazione dello stesso Stoermer con Crutzen, Premio Nobel per la Chimica
nel 2000 (cfr. P.J. Crutzen, E. F. Stoermer, The Anthropocene, in «IGPB
Newsletter», 41, 2000, pp. 17-18). Interessante notare come negli anni ’80 il
termine non suscitò il complesso divenire problema che ha mostrato
successivamente. È possibile affermare che, adesso, si tratti di un termine
quanto mai alla moda ed è proprio questo fatto che occorre preliminarmente
indagare. Per una ricostruzione dello stato del dibattito (sia per quanto
concerne le hard che le soft science) cfr. Y. Malhi, The Concept of the
Anthropocene, in «Annual Review of Environment and Resources», 42, 2017, pp.
77-104. Per un’analisi di quelle che vengono definite le cinque scene
fondamentali mediante le quali si dipana la complessità del discorso
sull’Antropocene (questione scientifica, spirito del tempo, provocazione
ideologica, nuove ontologie, fantascienza) cfr. J. Lorimer, The Anthropo-scene:
A guide for the perplexed, in «Social Studies of Science», 47, 2017, pp. 117142.
3
Cfr. M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica (1983), tr. it.
Donzelli, Roma 2005.
51
DOSSIER Delio Salottolo, L’esperienza allargata. Riflessione sull’Antropocene
istanze: il bios, il logos e il “mondo” – laddove per bios deve
intendersi
una
specifica
forma-di-vita
soggettivazione/assoggettamento)
che,
(o
nella
processo
sua
forma
di
di
apparizione storicamente determinata, accompagna e determina (ed è
determinata dal)l’esperienza della relazionalità con le nature
umane ed extraumane e che, per sua stessa costituzione, va al di
là della fissità di una natura a-storica, di un’essenza, di una
finalità interna nella costituzione del Sé, determinandosi sempre
come
flusso
conscio-inconscio
di
creazione
produttiva
e
riproduttiva – per lavoro concettuale a partire dal bios, dunque,
non deve intendersi né una ricerca sulla sostanza o su una
presunta determinazione essenziale, individuata e individuabile,
né uno studio su una natura originaria e incontaminata (ma già
sempre contaminabile), né tantomeno una rappresentazione di una
comune (potente e/o dolorosa) condizione di appartenenza umana o
naturale
a
possibili,
partire
ma
la
da
difettività
semplice
extraumana,
laddove
per
individuale,
ma
sempre
transindividuale
e
idea
bios
della
non
un
e/o
relazionalità
deve
mai
movimento
transpecifico;
per
potenziamenti
logos
umana
intendersi
di
sempre
il
ed
Sé
soggettivazione
deve
intendersi,
invece, lo specifico modo, anch’esso storicamente determinato, che
la forma-di-vita umana utilizza per apprendere e comprendere la
propria esperienza, attraverso rappresentazioni naturalizzanti e/o
culturalizzanti, la cui intenzione è sempre quella di dominare le
resistenze del reale – i punti di resistenza del reale risultano
essere sempre quelli in cui si concentra la “presa” (“apprensione”
o
“comprensione”),
per
cui
la
loro
evidenza
è
già
sempre
“nascosta”, e così nella relazione viva tra rappresentazione e
resistenza si gioca la dinamica (epistemo)logica della costruzione
di
un’interpretazione
dell’esperienza;
per
“mondo”
occorre
intendere la rappresentazione/apparizione della resistenza del
“reale”, da intendersi sia come luogo dell’appropriazione tecnica
e (epistemo)logica del reale, con il suo portato di cura e/o
52
S&F_n. 21_2019
violenza, dominio, sopraffazione, distruzione, sfruttamento, sia
l’unico
scenario/sfondo
dell’esperienza
di
possibile
una
per
la
forma-di-vita
e
messa
del
alla
suo
prova
logos.
Per
problematizzazione, in questo senso, dobbiamo intendere sia la
forma che assume la crisi di uno statuto di relazionalità vitale
dell’esperienza (che è sempre congiunzione di un bios, di un logos
e di un “mondo”) sia la riflessione su tale emergenza che, da un
lato, muove alla ricerca dell’origine del divenire problema di una
determinata
“cosa”,
e,
dall’altro,
determina
questo
divenire
problema all’interno di una rete le cui fitte maglie sono formate
da
specifici
processi
apparizione-di-mondi.
di
Il
soggettivazione,
fatto
che
“logicizzazione”
nessuna
di
queste
e
tre
determinazioni sia quella centrale o quella a partire dalla quale
muovano per deduzione le altre sta a significare – nella nostra
riflessione
–
intendersi
come
la
centralità
momento
del
allo
momento
stesso
etico-politico,
tempo
di
superamento
da
e
creazione di una specifica configurazione mediante l’emergenza di
un essere-in-comune che riguarda, allo stesso tempo, le forme-divita umane ed extraumane, e la loro dialettica interna ed esterna.
Quando Jason W. Moore parla di “mistificazione della storia” da
parte di coloro che studiano e utilizzano l’universale Antropocene
intende
probabilmente
concettualizzazione
può
sottolineare
essere
quello
definito
che
come
nella
un
nostra
lavoro
di
costruzione di una specifica triangolazione bios-logos-“mondo” che
nasconde la reale esperienza storica della relazionalità umana –
rilevare una problematizzazione, dal punto di vista della ricerca,
significa proprio effettuare questo lavoro di de-mistificazione: e
così,
riguardo
narrazione
di
all’Antropocene,
una
“frattura”
o
al
di
di
un
là
se
rappresenti
“passaggio
di
la
stato”
4
metabolico nella relazione uomo/mondo (ambiente) , al di là se il
4
Si tratta degli estremi di una polemica molto vivace: i rapporti tra ecologia
e marxismo sono oggetto di un’importante riflessione che vede anche “scontri”,
a tratti accesi, tra lo stesso Jason W. Moore e John B. Foster, rappresentante
di punta dell’eco-socialismo, sulla questione se il capitalismo rappresenti una
53
DOSSIER Delio Salottolo, L’esperienza allargata. Riflessione sull’Antropocene
cambiamento di scala da forza biologica a forza geologica debba
determinare
necessariamente
un
“passaggio
di
stato”
nella
narrazione della storia umana5, il nodo fondamentale resta la
determinazione del nesso tra esperienza e storia e la dialettica
complessa tra bios, logos e “mondo”.
Dunque: di cosa è problematizzazione l’Antropocene? La risposta
potrebbe sembrare piuttosto semplice e immediata: il problema
ambientale di sostenibilità ecologica, l’idea che lo sfruttamento
del pianeta stia raggiungendo dei limiti “fisiologici” oltre i
quali
sarà
impossibile
andare
senza
incontrare
la
“fine
del
mondo”6. Ma quali sono i luoghi dell’emergenza di questa nozione
frattura metabolica tra uomo e ambiente (Foster) o un passaggio di stato in una
relazione metabolica che si organizza in differenti e storicizzabili ecologiemondo (Moore). Per la “critica” di Moore a Foster cfr. J.W. Moore, Ecologiamondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato, tr. it.
ombre corte, Verona 2015, in particolare il saggio Frattura metabolica o
cambiamento metabolico? Dal dualismo alla dialettica nell’ecologia-mondo
capitalista, pp. 138-160; per una risposta puntuale di Foster cfr. l’intervista
In Defense of Ecological Marxism: John Bellamy Foster responds to a critic,
consultabile online su: https://climateandcapitalism.com/2016/06/06/in-defense(link
of-ecological-marxism-john-bellamy-foster-responds-to-a-critic/
consultato il 7 aprile 2019).
5
Cfr. D. Chakrabarty, The Climate of History: Four Theses, in «Critical
Inquiry», 35, 2009, pp. 197-222. Si tratta di un saggio molto importante e che
ha suscitato un vasto dibattito, soprattutto intorno alla questione del
“soggetto” della catastrofe dell’Antropocene, se è da intendersi come l’intera
specie umana o, in chiave politica (marxista o post-coloniale che sia), l’uomo
bianco e occidentale, a tal punto che la tesi n. 4 afferma che «l’incrocio di
storia delle specie e di storia del capitale è un processo che prova i limiti
della comprensione storica» (p. 220, traduzione nostra). Lo storico, in realtà,
è tornato sulla relazione tra “Antropocene” e storia in più occasioni –
segnaliamo innanzitutto Id., Postcolonial Studies and the Challenge of Climate
Change, in «New Literary History», 43, 2012, pp. 1-18, dove si sottolinea la
necessità dell’integrazione tra tre immagini dell’umano, quella del soggetto
universalistico e portatore di diritti, quella post-moderna e post-coloniale in
cui il soggetto è dotato di differenze di classe, genere, cultura, storia e
così via, e quella dell’umano che agisce come una forza geologica; importante
anche uno degli ultimi interventi: Id., Anthropocene Time, in «History and
Theory», 57, 2018, pp. 5-32.
6
«La fine del mondo è già avvenuta […] ovviamente, il pianeta Terra non è
esploso: ma il concetto di mondo ha smesso di essere operativo» afferma
provocatoriamente il filosofo Timothy Morton, intendendo con questa espressione
la fine di una certa visione del mondo come “oggettivo” ed “estraneo”; la
periodizzazione che assume Morton è duplice: il 1784, con il brevetto della
macchina a vapore a opera di James Watt, e il 1945 quando a Trinity nel New
Mexico venne testata la prima bomba atomica (cfr. T. Morton, Iperoggetti
(2013), tr. it. Nero, Roma 2018, qui pp. 17-18). Per quanto riguarda la
periodizzazione, il discorso sarebbe molto complesso, ma le date segnalate sono
54
S&F_n. 21_2019
così fortunata e così alla moda? La questione è, ovviamente,
vastissima e, nell’articolazione di queste brevi note, non si può
che cercare di delimitare un possibile percorso piuttosto che
identificare
delle
determinazioni
definitive;
è
possibile
innanzitutto affermare come la questione dell’Antropocene segnali
una duplice contraddizione: da un lato, infatti, risulta essere
centrale il “conflitto” tra antropocentrismo (se si vuole, la
grammatica della modernità) e postantropocentrismo (se si vuole,
il
programmatico
esito
interno
–
ma
non
“uscita”
–
della
modernità) – laddove per contraddizione/conflitto deve intendersi
sia lo “scontro” tra le due determinazioni, sia lo scontro interno
che
ciascuna
determinazione
svela;
dall’altro,
risulta
essere
evidente come la traduzione del primo conflitto in termini di
“progetto
della
modernità”
(da
intendersi
come
connubio
di
razionalità riflessiva e capitalismo) e “esito (catastrofico?)
della
modernità”
(da
intendersi
come
connubio
tra
proposta
inefficace di soluzione e rassegnazione) rappresenti l’esperienza
fondamentale della tarda modernità.
Seguendo
questa
direzione
si
cercherà
dunque
di
determinare
l’esperienza propria (nel senso di “autentica”) dell’Antropocene:
in che senso, insomma, all’interno di questa problematizzazione
viene messa in discussione la triangolazione di bios, logos e
“mondo” che ha definito i confini di “soggettivazione” (bios),
“comprensione”
(logos)
e
“vivibilità”
(“mondo”)
propri
della
Modernità. Il percorso seguirà, per problemi di spazio e di
elaborazione complessiva, esclusivamente e per cenni la scansione
della duplice contraddizione segnalata poco sopra: innanzitutto,
si
cercherà
di
definire
se
la
relazione
antropocentrismo/postantropocentrismo possa essere intesa in senso
dialettico – se possa essere, dunque, superata e mantenuta in una
determinazione vivente; in secondo luogo, si proverà a capire se
quelle
più
unanimemente
nell’Antropocene geologico.
accettate
55
per
quanto
concerne
l’ingresso
DOSSIER Delio Salottolo, L’esperienza allargata. Riflessione sull’Antropocene
il progetto incompiuto della modernità sia in realtà “incompibile”
e se questa incompiutezza richiami più le trombe dell’apocalisse o
la palingenesi di un mondo nuovo.
2. Antropocentrismo/postantropocentrismo: quale uscita?
Una
delle
caratteristiche
dell’Antropocene
antropocentrismo
è
e
che
rende
della
problematizzazione
sfumata
la
postantropocentrismo:
da
distinzione
un
lato,
tra
infatti,
l’idea che l’anthropos abbia raggiunto un livello di “potenza” e
“influenza” tale da determinare le sorti dell’intero sistemapianeta
potrebbe
raccontare,
seppur
in
negativo,
un’ulteriore
grandezza dell’uomo e, in positivo e mediante l’utilizzazione
tecnica, la possibilità di fuoriuscire da un vicolo cieco che,
comunque, ha prodotto “egli” stesso7 – si tratta dell’idea che il
continuo
e
“progressivo”
sviluppo
tecnologico
possa
“bastare”
senza mettere in campo nessun ripensamento né dell’ordine del
discorso dominante nella modernità né della governance economicopolitica globale; dall’altro, e in contraddizione, l’idea che
l’anthropos non è una specie in un certo senso “separata” dal
resto
del
sistema
vivente
–
planetario
dunque:
nessun
eccezionalismo umano – ma che ne faccia parte in maniera immanente
e non trascendente, al di là della distinzione tra soggetto e
oggetto e natura e cultura – in questo caso, l’esito possibile
della crisi planetaria non può che essere la catastrofe o la
palingenesi.
Questa
complessità
dell’anthropos
nell’Antropocene
7
della
richiama
da
rappresentazione
vicino
la
famosa
Si tratta della posizione di coloro che hanno sottoscritto il Manifesto
Ecomodernista, all’interno del quale è possibile leggere come «la conoscenza e
la tecnologia, applicate con giudizio, possano conseguire l’avvento di un
positivo, persino superlativo, Antropocene […] Un Antropocene generoso con la
specie umana implica che gli uomini applichino con padronanza i loro crescenti
poteri sociali, economici e tecnologici per migliorare il benessere dei loro
simili, stabilizzare il clima e proteggere il mondo naturale» (è possibile
consultare
il
testo
del
Manifesto
al
seguente
indirizzo:
http://www.ecomodernism.org/italiano, link consultato l’8 aprile 2019).
Un'ottima critica al Manifesto Ecomodernista si trova in C. Hamilton,
Anthropocene as rupture, in «The Anthropocene Review», 32, 2016, pp. 93-106.
56
S&F_n. 21_2019
definizione
foucaultiana
dell’uomo
come
allotropo
empirico-
trascendentale8: quello che intendiamo dire è che non ci troviamo
assolutamente
al
di
fuori
della
modernità,
ma
esattamente
all’interno del suo dispositivo determinante.
È possibile, dunque, affermare che noi abitiamo un’era la cui
caratteristica è di essere antropocentrica e postantropocentrica
allo stesso tempo e sotto il medesimo aspetto, ed è soltanto con
la tarda modernità che questa evidenza ha raggiunto il livello di
emergenza problematizzante: uno dei protagonisti di questa svolta
è sicuramente Foucault, sia quando afferma – dal punto di vista
epistemologico – che «una cosa comunque è certa: l’uomo non è il
problema più vecchio o costante postosi al sapere umano» e che la
sua rappresentazione svanirà «come sull’orlo del mare un volto di
sabbia»9, sia quando sottolinea – dal punto di vista politico –
che «uno dei fenomeni fondamentali del XIX secolo sia stato ciò
che si potrebbe chiamare la presa in carico della vita da parte
del potere […] una presa di potere sull’uomo in quanto essere
vivente, di una sorta di statalizzazione del biologico, o almeno
di una tendenza che condurrà verso ciò che si potrebbe chiamare la
statalizzazione del biologico»10. Il filosofo francese ha posto
una piattaforma di problemi che, nella realtà attuale, sembrano
ancora agire in profondità e che, per certi versi, hanno trovato
un’attualizzazione
ancora
più
estesa:
se
è
vero
che
il
postantropocentrismo è introdotto da quella che possiamo chiamare
“politica della vita”11, laddove per “politica della vita” deve
intendersi la specifica gestione capitalistica della forma-di-vita
umana, è anche vero che si è fatta sempre più pressante un’idea
estesa
e
allargata
di
biopolitica,
laddove
il
capitalismo
contemporaneo ha sempre più per oggetto non solo lo sfruttamento
8
Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane,
tr. it. BUR, Milano 2004.
9
Ibid., pp. 413-414.
10
Id., “Bisogna difendere la società” (corso tenuto nel 1976), tr. it.
Feltrinelli, Milano 1998, p. 206.
11
Cfr. N. Rose, La politica della vita. Biomedicina, potere e soggettività nel
XXI secolo (1998), tr. it. Einaudi, Torino 2008.
57
DOSSIER Delio Salottolo, L’esperienza allargata. Riflessione sull’Antropocene
della specifica vita umana, ma della vita in tutte le sue forme
umane ed extraumane – una sorta di zoepolitica negativa12. In
questo
senso,
è
possibile
affermare
che
la
modernità,
da
intendersi come progetto fondato su una struttura determinata da
una razionalità riflessiva e dal modo di produzione capitalistico,
abbia avuto, sin dagli albori, un’attitudine alla gestione della
vita tout court, al punto che è possibile affermare che la vita è
un’invenzione recente del capitale13 – una certa rappresentazione
della
vita,
ovviamente,
un
modo
di
ri-presentare
una
certa
correlazione tra bios, logos e “mondo”. Su questo punto, risulta
essere molto puntuale la filosofa Braidotti quando afferma che
«l’economia
raggruppa
globale
tutte
le
è
postantropocentrica
specie
sotto
poiché,
l’imperativo
del
infine,
mercato,
minacciando con i suoi eccessi la sostenibilità dell’intero nostro
pianeta» per cui «l’economia politica del capitalismo biogenetico
è
postantropocentrica»14.
Il
capitalismo,
nella
sua
forma
neoliberista e “biogenetica”, dunque, ha trasformato in merce la
forma-di-vita umana (non solo, ovviamente e primariamente, come
forza-lavoro, ma anche nella stessa gestione del genoma e nelle
questioni riguardanti i possibili “potenziamenti” della natura
umana
–
potenziamenti
pensati
in
chiave
di
produttività,
ovviamente) e ha trasformato in mera “risorsa” (e, poi, anche in
merce) la forma-di-vita extraumana (dalla devastazione ambientale
connessa
all’estrazione
di
fonti
energetiche
fino
alla
manipolazione genetica dei cosiddetti OGM, solo per fare qualche
12
L’espressione zoepolitica rientra nelle proposte teoriche della filosofa
Rosi Braidotti (cfr. R. Braidotti, Il postumano. La vita oltre l’individuo,
oltre la specie, oltre la morte (2013), tr. it. DeriveApprodi, Roma 2018); noi
la utilizziamo nel senso di un allargamento della biopolitica e, in questo
contesto, in chiave negativa. Del resto anche la biopolitica può avere
un’accezione positiva e negativa a seconda del punto di vista politico da cui
la si guarda.
13
Si tratta di un gioco di parole con il titolo di un importante saggio di
Davide Tarizzo che analizza gli intrecci tra metafisica, scienza e politica
nella modernità, a partire dalle intuizioni foucaultiane e portandole alle
estreme conseguenze: la vita, nella sua articolazione allo stesso tempo
biologica e politica, come una sorta di ultimo feticcio della nostra epoca
(cfr. D. Tarizzo, La vita, un’invenzione recente, Laterza, Roma-Bari 2010).
14
R. Braidotti, Il postumano, cit., p. 70, p. 73.
58
S&F_n. 21_2019
esempio): la differenza tra le prime forme di capitalismo e il
capitalismo avanzato della nostra epoca è soltanto di “grado” o
“quantità” e non di “natura” o “qualità”, in quanto il modo di
produzione capitalistico ha potuto crescere e svilupparsi fino a
divenire
un’ecologia-mondo
soltanto
mediante
lo
sfruttamento
congiunto e dialettico di natura umana ed extraumana15.
A
questo
punto
occorre
ritornare
alla
contraddizione
tra
antropocentrismo e postantropocentrismo nell’era dell’ecologiamondo
capitalista.
Se
interpretiamo
l’Antropocene
in
chiave
“antropocentrica” ci troviamo dinanzi a un problema e a una
soluzione
entrambi
sulla
incentrati
figura
dell’anthropos,
ma
questo non può che suscitare un’enorme mole di problemi, su tutti
chi
sarebbe
l’anthropos,
il
supposto
“soggetto”
dell’antropocentrismo e dell’Antropocene – la risposta a questa
domanda non può che passare attraverso i cultural e postcolonial
studies: si tratterebbe dell’ennesima configurazione dell’Uomo
bianco
e
civilizzato,
maschio
e
urbanizzato,
che
pretende,
mistificando, di essere “universale”, per cui la stessa dizione
“Antropocene” andrebbe decolonizzata16. In questo senso, non può
che stupire la posizione di Dipesh Chakrabarty che, soprattutto
nello scritto The Climate of History: Four Theses, ha affermato
come il cambiamento climatico – e i problemi che propone e le
catastrofi che annuncia – rappresenti una soglia fondamentale
nella
storia
umana,
la
quale,
da
sempre
caratterizzata
da
conflitti, adesso si troverebbe a dover definire un “racconto” il
15
Cfr. J. W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, cit.
Si segnala, per quanto concerne le possibili connotazioni neocoloniali, e
anche genericamente di classe e di genere, della riflessione sull’Antropocene
S. Barca, L’Antropocene: una narrazione politica, in «Riflessioni sistemiche»,
17, 2017, pp. 56-67. Per quanto concerne quello che viene definito il paradosso
fondamentale della narrazione antropocentrica dell’Antropocene – il dispositivo
di denaturalizzazione (una natura violata dall’uomo) e rinaturalizzazione
(l’uomo come l’ente che “per natura” domina la natura) cfr. A. Malm, A.
Hornborg, The geology of mankind? A critique of the Anthropocene narrative, in
«The Anthropocene Review», 1, 2014, pp. 62-69. Sul nodo, invece, del razzismo
ambientale (che non affrontiamo nel saggio) cfr. R. Keucheyan, La natura è un
campo di battaglia (2014), tr. it. Ombre Corte, Verona 2019, in particolar modo
il primo capitolo (pp. 17-63).
16
59
DOSSIER Delio Salottolo, L’esperienza allargata. Riflessione sull’Antropocene
cui protagonista non può che essere l’uomo come specie: sarebbe la
prima volta in cui non ci sarebbe più una scialuppa di salvataggio
per nessuno e che quindi l’impegno globale dovrebbe riguardare
l’anthropos nella sua interezza al di là delle sue determinazioni
differenzialistiche – certo, occorre dire che Chakrabarty non nega
il fatto che la crisi ecologica abbia una dimensione di classe e
che l’impatto delle sue conseguenze non sia uniforme per tutti, ma
il programma di intervento deve muovere da una rinnovata forma di
antropocentrismo, fondato su basi chiaramente differenti da quello
caratterizzante la modernità17.
Ma
cosa
succede
se
interpretiamo
l’Antropocene
in
chiave
“postantropocentrica”? Ci ritroviamo dinanzi alle contraddizioni
del capitalismo in generale e del capitalismo biogenetico in
particolare: è possibile affermare che il funzionamento stesso del
capitalismo sia postantropocentrico, nella misura in cui da un
lato
produce
un’individualizzazione
atomistica
e
deterritorializzata delle differenze (il concetto di “differenza”,
in questo contesto, è utilizzato come dispositivo per “dividere” e
“governare” – un decentramento del centrismo antropico funzionale
alla riproduzione economico-politica del capitale) e dall’altro
cerca di gestire l’umano esattamente come l’extraumano, al di là
di ogni fondamento ed eccezionalismo antropico, ma semplicemente
17
A partire da questa posizione sono state rivolte diverse critiche a Dipesh
Chakrabarty proprio perché, nei suoi scritti sull’Antropocene, avrebbe assunto
la specie come agente globale, da un lato rischiando un essenzialismo
inaspettato e dall’altro nascondendo il ruolo determinante del capitalismo –
ecco, ad esempio, cosa scrive lo storico: «Sembra vero che la crisi dei
cambiamenti climatici sia stata necessitata dai modelli consumistici ad alta
energia che l'industrializzazione capitalista ha creato e promosso, ma
l'attuale crisi ha portato alla luce alcune altre condizioni per l'esistenza
della vita nella forma umana che non hanno alcuna connessione intrinseca con le
logiche delle identità capitaliste, nazionaliste o socialiste. Sono collegati
piuttosto alla storia della vita su questo pianeta, al modo in cui le diverse
forme di vita si connettono tra loro e al modo in cui l'estinzione di massa di
una specie potrebbe significare un pericolo per un'altra. Senza una tale storia
della vita, la crisi dei cambiamenti climatici non ha alcun “significato”
umano. Infatti, come ho detto prima, non è una crisi per il pianeta inorganico
in alcun senso significativo», D. Chakrabarty, The Climate of History: Four
Theses, cit., p. 217 (la traduzione e i corsivi sono nostri).
60
S&F_n. 21_2019
come modalità di estrazione (o potenziamento) di valore o di
risorse.
L’elemento che va sottolineato è che il significante semi-vuoto
“Antropocene” riesce a mettere in rilievo questa contraddizione:
si tratta di una delle emergenze decisive che hanno sancito la sua
fortuna
sempre
come
più
problematizzazione.
chiaro
come
In
l’intero
effetti,
impianto
sembra
divenire
della
modernità
(dall’antropocentrismo al postantropocentrismo) rappresenti una
promessa incompiuta: si tratta di una dialettica che nasconde in
realtà un’omogeneità di fondo – da un lato l’uomo come soggetto
della trasformazione globale e, negli ultimi tempi e a quanto
pare,
come
agente
geologico,
dall’altro
l’uomo
e
la
natura
extraumana come oggetto della medesima trasformazione globale. La
questione riguarda l’esperienza della tarda modernità: la crisi
economica e poi ecologica del XXI secolo rappresenta la crisisoglia di una specifica connessione storica tra bios, logos e
“mondo” che ha definito la grammatica della modernità – un bios
duplicato al suo interno in soggetto/oggetto e, allo stesso tempo
(e,
in
maniera
trascendente/immanente;
funzionale,
un
logos
alla
che,
nel
ri-produzione),
momento
in
cui
“comprende” il mondo, lo “prende” sotto il suo dominio, riducendo
la natura umana ed extraumana a mera risorsa o produzione di
valore,
ma
che
nello
stesso
tempo
idealizza
una
natura
incontaminata (wilderness) come promessa incompiuta (laddove la
Modernità è caratterizzata anche dalla dinamica di una promessa
che deve compiersi nel ritorno a un passato idealizzato); un
“mondo” che rappresenta lo scenario oggettivo (mediante una “messa
a distanza” radicale) da cui ricavare nature (umane ed extraumane)
a
buon
mercato18
ma
da
cui
evincere
allo
stesso
tempo
l’eccezionalismo umano. Si tratta di una forma di esperienza
18
Il concetto di natura “a buon mercato” è centrale nella riflessione di Jason
W. Moore. Cfr. J. W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, cit., in
particolare il saggio La fine della natura a buon mercato. Come ho imparato a
non preoccuparmi dell’ambiente e ad amare le crisi del capitalismo, pp. 91-123.
61
DOSSIER Delio Salottolo, L’esperienza allargata. Riflessione sull’Antropocene
assolutamente ristretta e autocontraddittoria, nella misura in cui
il bios si trova scisso in soggetto e oggetto e ricomposto poi
soltanto
in
maniera
ideologica,
dunque
politicamente,
in
cui
l’aspetto della contraddizione si gioca tutto sulla relazione
dominante/sfruttatore
e
dominato/sfruttato;
il
logos
risulta
essere di volta in volta uno strumento tecnocratico (fin dentro la
questione
dei
data19)
big
dominante/sfruttatore
sovradetermina
le
ma
anche
sempre
una
organizzazioni
dalla
potenza
umane
parte
che
del
sovrasta
dalla
parte
e
del
dominato/sfruttato; il “mondo”, infine, si trova scisso nella sua
determinazione di risorsa da parte del dominante/sfruttatore e di
matrice esperienziale di sfruttamento per il dominato/sfruttato.
Occorre, dunque, cercare di comprendere più in profondità di cosa
è il sintomo l’Antropocene: in primo luogo di una necessità di
cambiamento di paradigma esperenziale rispetto alla forma della
modernità, in secondo luogo di una necessità di un rinnovato
impegno
all’interno
di
un’esperienza
che
sia
definitivamente
allargata.
3. Antropocene come crisi: questione epistemologica e politica
Un autore che negli ultimi decenni si è impegnato nella messa in
–
discussione
dal
punto
di
vista
epistemologico/politico
–
dell'intero impianto di quella che definiamo l'esperienza della
modernità è stato Bruno Latour soprattutto con la sua opera Non
siamo
mai
intendere
stati
moderni20,
l'incompiutezza
la
del
quale,
sin
“progetto”.
dal
La
titolo,
lascia
modernità
si
caratterizza mediante una “costituzione” che ha al proprio centro
non
solo
la
“nascita”
dell'uomo,
ma
soprattutto
la
nascita
parallela della “nonumanità”, rappresentata da cose, oggetti e
19
Ci permettiamo di rinviare a D. Salottolo, La costruzione del Sé (e del Noi)
ai tempi del Dataismo, in «S&F_scienzaefilosofia.it», 20, 2018, pp. 64-92,
consultabile
al
seguente
indirizzo:
http://www.scienzaefilosofia.com/2018/12/28/la-costruzione-del-se-e-del-noi-aitempi-del-dataismo/ (link consultato il 18 aprile 2019).
20
Cfr. B. Latour, Non siamo mai stati moderni (1991), tr. it. elèuthera,
Milano 2016.
62
S&F_n. 21_2019
animali. Contemporaneamente – e chiaramente in correlazione – si
costituiscono anche le dicotomie classiche del moderno, quella tra
natura e società/cultura, e quella tra il potere scientifico, che
ha
il
compito
di
rappresentare
la
realtà
sulla
scena
della
“natura”, e il potere politico, che ha il compito di rappresentare
i
soggetti
sulla
scena
“società”.
della
La
modernità
è
attraversata dal paradosso fondamentale che, laddove cerca di
definire le differenze tra questi ambiti, non fa altro che far
proliferare
mescolanze
“ibridi”,
costantemente
di
natura
e
cultura,
che
potere
sono
esattamente
scientifico
e
potere
politico: il funzionamento della modernità è dato proprio dal
fatto che, nello stesso momento in cui crea scissioni e dicotomie,
in realtà attiva mescolanze e ibridi sempre più complessi e
“ingestibili”.
I
l'incompiutezza
paradossi
della
modernità
fondamentali
sarebbero
i
che
segnano
seguenti:
1)
«La
natura non è una nostra costruzione: è trascendente e ci travalica
infinitamente – La società è una nostra costruzione: è immanente
al
nostro
agire»;
2)
«La
natura
è
una
nostra
costruzione
artificiale in laboratorio: è immanente – La società non è una
nostra
costruzione:
infinitamente»21.
Il
è
nodo
trascendente
centrale
è
e
ci
sicuramente
travalica
l’attitudine
“costruzionista” della modernità, la quale da Cartesio a Kant e,
se si vuole, fino allo strutturalismo e al foucaultismo (ma, come
vedremo a breve, finanche al “latourismo”), ha messo al centro
l’attività “costruttiva” (e, poi, “decostruttiva”) del logos: il
logos
moderno,
di
volta
in
volta,
costruisce
ora
la
società/cultura ora la natura, e, secondo Latour, la costruzione
trascendente
dell’una
prevede
l’ammissione
di
immanenza
dell’altra. Quello che intende sottolineare il sociologo è la
paradossale convivenza di entrambi i dispositivi epistemologici, i
quali
si
nutrono
e
rinforzano
a
vicenda,
permettendo
la
proliferazione di ibridi; decisivo, allora, sarebbe il comprendere
21
Ibid., p. 52 (figura 2).
63
DOSSIER Delio Salottolo, L’esperienza allargata. Riflessione sull’Antropocene
come questa “costituzione” riesca sempre a offrire le garanzie più
efficaci per riprodursi: «Prima garanzia: anche se siamo noi che
costruiamo la natura, è come se non la costruissimo – Seconda
garanzia: anche se non siamo noi che costruiamo la società, è come
se la costruissimo – Terza garanzia: la natura e la società devono
rimanere assolutamente distinte; il lavoro di depurazione deve
restare assolutamente distinto da quello di mediazione»22 a cui si
aggiunge la garanzia del “Dio barrato” che ha la funzione di
arbitro e che è allo stesso tempo assolutamente impotente e
sovranamente
giudice.
Sembra
chiaro
come
l'intero
dispositivo
della modernità funzioni mediante la costruzione di un'esperienza
che
giochi
sull'ambiguità
di
un
rapporto
tra
immanenza
e
trascendenza che può essere costantemente rovesciato senza entrare
palesemente in contraddizione: la natura è trascendente nella
misura in cui non è possibile fare nulla contro le legge naturali,
ma è anche immanente in quanto può essere costantemente mobilitata
e dominata; la società è immanente nella misura in cui l'uomo
moderno si sente completamente libero, ma è anche trascendente in
quanto sembra che nulla si possa contro le leggi della società. In
questo modo, è lecito utilizzare la natura esclusivamente come
risorsa sottolineando il fatto che, comunque, la sua “verità” ci
sfugge; è lecito reificare il sociale e porlo nella posizione
della
trascendenza
sottolineando
il
fatto
che,
comunque,
è
un'opera umana; è lecito infine sentire profondamente la presenza
della divinità nel reale sottolineando il fatto che, comunque, non
interviene nelle vicende umane. L'impostazione di Latour, insomma,
tende ad andare al di là delle polemiche interne alla modernità,
per
dimostrare
semplicemente
che,
anche
quando
si
trovano
posizioni assolutamente divergenti e contrastanti, esse derivano
(epistemo)logicamente da quella che viene chiamata “costituzione”
della modernità e dalle sue garanzie. Anzi, la piattaforma del
moderno
22
risulta
essere
davvero
Ibid.
64
invincibile
perché
contempla
S&F_n. 21_2019
contemporaneamente le posizioni più nette e le critiche più dure e
può farle giocare le une contro le altre a proprio piacimento23.
Ma, al di là se si sia stati mai moderni oppure no, il problema
diviene
immediatamente
politico:
se
è
vero
che
il
gesto
fondamentale della modernità è stato contemporaneamente quello di
separare, creandole, la società e la natura e dunque l'uomo e la
nonumanità, e quello di tenerle insieme per produrre ibridi che si
pongono costantemente a metà strada, quale può essere il percorso
per uscire dall'impasse ecologica nella quale l'umanità si trova
a
proprio
causa
di
questa
“costituzione”?
Latour
non
poteva
parlare negli anni '90 del XX secolo di Antropocene, ma è chiaro
come
abbia
dovuto
ben
presto
confrontarsi
con
la
questione
dell'ecologia politica, in quanto essa metteva a tema proprio la
relazione
natura/società
a
partire
dalla
sostenibilità
del
sistema-terra. L'analisi politica di Latour muove da un'idea che
pone
al
centro
il
ruolo
della
scienza
nel
suo
portato
epistemologico: «l'ecologismo non può essere il semplice ingresso
della natura nella politica, poiché è da una certa concezione
della scienza che dipende non soltanto l'idea di natura, ma anche,
per
contrasto,
l'idea
politica»24
della
e
l'ecologismo
non
riguarda una crisi della natura in sé ma una crisi della natura
come oggettività opposta alla società/cultura come soggettività.
Si tratta, dunque, di affermare come la tematica ecologista e,
ancor
di
più,
il
significante
semi-vuoto
“Antropocene”
rappresentino una crisi della rappresentazione della relazione
natura/cultura,
dunque
una
crisi
23
del
moderno
tout
court.
La
È possibile affermare che la stessa impostazione epistemologica di Bruno
Latour, che richiama da vicino, almeno nel dispositivo, quanto “costruito” da
Foucault nel saggio Le parole e le cose, quando parla di episteme e apriori
storico, possa rischiare di ricadere in una posizione completamente,
radicalmente e paradossalmente “costruzionista” (cfr. B. Latour, Ramses II estil-mort de la tubercolose?, in «La Recherche», 309, 1998). Per non dire che
resta il problema della “presa di coscienza” in un costruttivismo così
radicale: se si è figli di una determinata “costituzione”, come si possono
svelarne le contraddizioni? Dove si applica la “resistenza” alla costruzione?
24
Id., Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze (1999), tr.
it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 323.
65
DOSSIER Delio Salottolo, L’esperienza allargata. Riflessione sull’Antropocene
domanda politica non può che essere: che fare? e la soluzione di
Latour
è
tutta
profondamente
incentrata
sulla
dimensione
epistemologica: il mutamento ecologico di cui l'Antropocene è il
nome obbliga a ripensare le questioni politiche nella loro più
decisa materialità, dal “quanti siamo” al “che cosa mangiamo”
passando
per
“a
quale
temperatura”
e
“dove
–
abitiamo”
la
costruzione di un mondo in comune non può che andare oltre le
distinzioni
politiche
di
destra
e
di
sinistra
e
oltre
ogni
partizione che ha caratterizzato la modernità: con un gesto di
pensiero che sembrerebbe avvicinarlo ai pensatori che pongono al
centro l'anthropos nella sua indeterminatezza sociale, di genere e
di razza, Latour afferma che, in opposizione al sentirsi moderni,
ci si dovrebbe iniziare a sentire innanzitutto “terrestri”; non si
tratta di una nuova forma di soggettività, ma della presa in
consegna della necessità di andare oltre tutte le dicotomie della
modernità25. In realtà, occorre dire che Latour non re-introduce,
e non potrebbe, la figura di una soggettività forte
– come
potrebbe essere interpretata quella dell'anthropos – ma pone la
questione
piuttosto
intorno
alla
necessità
di
costruire
dei
collettivi che vadano allo stesso tempo 1) oltre l'idea di “mondo”
come oggettività unilaterale che si contrappone a un’altrettanto
unilaterale soggettività, iniziando piuttosto a pensarlo come una
sorta di spazio multinaturale attraversato e costantemente animato
da differenti collettivi che agiscono come diversificati piani di
immanenza; 2) oltre l'idea di una separazione tra “fatto” e
“valore”,
in
quanto
manifestazione
di
una
delle
forme
di
ibridazione più palesi e contraddittorie della dinamica del logos
moderno – la descrizione di un fatto rappresenta la prescrizione
di
un
valore,
la
prescrizione
di
un
valore
rappresenta
la
descrizione di un fatto, pur permanendo nella loro distinzione e
25
Cfr. C. Riquier, Una Terra senza popolo, dei popoli senza Terra: intervista
a Bruno Latour, consultabile al seguente indirizzo: http://effimera.org/terrasenza-popolo-dei-popoli-senza-terra-intervista-bruno-latour-camille-riquier/
(link consultato il 9 aprile 2019). Si noti una certa assonanza – seppur a
partire da matrici differenti – con la riflessione/proposta di Chakrabarty.
66
S&F_n. 21_2019
irriducibilità; 3) oltre l'idea di un Uomo come entità unificata
(e unificante) di una molteplicità di interessi divergenti e
confliggenti.
Il
tutto
sotto
il
segno
di
Gaia,
una
rappresentazione della Terra come intreccio pratico e “politico”
tra l'umanità e l'ambiente26. Una versione molto sofisticata ed
elegante
di
quella
postantropocentrismo
contraddizione
che
abbiamo
tra
visto
antropocentrismo
agire
anche
in
e
Dipesh
Chakrabarty.
Dunque: se la questione fondamentale della modernità, in quanto
razionalità riflessiva, riguarda la dicotomia tra società/cultura
e natura – con tutto il portato di sfruttamento delle nature umane
ed extraumane che ha determinato – è chiaro come un progetto
politico,
nell'età
attraverso
un
mostrato
con
dell'Antropocene,
superamento
grande
di
queste
chiarezza
la
non
possa
dicotomie.
che
Se
passare
Latour
contraddittorietà
ha
della
costruzione epistemologica della modernità, occorre fare un passo
ulteriore per cercare di definire qual è il luogo di emergenza di
questa
costruzione
concettuale
tipicamente
moderna
che
oppone
l'uomo alla natura e soprattutto in cosa si differenzi la versione
moderna
rispetto
alla
ben
più
antica
e
fondativa
distinzione/opposizione umano/naturale: il limite della posizione,
che possiamo definire ultra-costruzionista, di Latour risiede nel
fatto che non è chiaro quali siano le ragioni per cui la modernità
si sia costruita in questa maniera – se sono chiari i vantaggi e
gli svantaggi che le ha portato, rimane oscuro il movimento
sotterraneo che ha fatto sì che un determinato logos potesse
apparire
sulla
superficie
dei
saperi.
Si
tratterebbe
di
effettuare, in termini foucaultiani, il passaggio dall’archeologia
alla genealogia, o di determinare, in termini marxiani, il luogo
della costruzione ideologica e della mistificazione.
26
Cfr. B. Latour, Face à Gaïa. Huit
Climatique, La Decouverte, Paris 2015.
67
conférences
sur
le
Nouveau
Régime
DOSSIER Delio Salottolo, L’esperienza allargata. Riflessione sull’Antropocene
Jason
W.
Moore,
studioso
di
matrice
braudeliana,
propone
di
utilizzare il termine Capitalocene al posto di Antropocene: si
tratta di un modo per pensare e definire i contorni della crisi
ecologica attuale e non di un argomento immediatamente riguardante
la
storia
geologica
del
–
pianeta
ciò
che
viene
chiamato
Antropocene, in termini di proposta geologica, è un’era i cui
segnali
geologici
sono
stati
preceduti
e
poi
accelerati
dal
capitalismo; è chiaro, però, come l’Antropocene, in quanto era
geologica,
possa
sopravvivere
alla
stessa
estinzione
del
capitalismo. L’Era del Capitale, dunque, studiata attraverso il
dispositivo
stesso
di
analisi
tempo
la
storico-genealogica,
contraddizione
postantropocentrismo
e
la
di
spiegherebbe
antropocentrismo
contraddizione
tra
il
allo
e
progetto
incompiuto della modernità e il suo possibile esito, in più
permetterebbe di cogliere il “luogo” dell’apparizione dei primi
elementi “materiali” che hanno portato poi alle dinamiche di
astrazione/estrazione dell’umano e dell’extraumano e della loro
stabilizzazione in un’immagine precisa, costruita e perennemente
in contraddizione di società/cultura e natura. Secondo Moore
il Capitalocene utilizza un diverso approccio che privilegia la
triplice elica dell’ambiente-in-formazione, cioè la trasformazione
reciprocamente costitutiva di idee, ambienti e organizzazioni che co27
producono i rapporti di produzione e riproduzione .
L’idea di fondo è, anche in questo caso, allo stesso tempo
epistemologica
e
politica;
si
tratta
di
andare
oltre
la
costruzione moderna di una società che si oppone alla natura e di
una natura che si oppone alla società: del resto anche la visione
“positiva” di una natura come wilderness e purezza, come visto,
risulta essere assolutamente ideologica28 (la natura allo stesso
tempo da addomesticare e trasformare in risorsa, e da ammirare e
lasciare “incontaminata” – entrambe le visioni possono sussistere
27
J. W. Moore, Antropocene o Capitalocene?, cit., p. 31.
Cfr. R. Keucheyan, La natura è un campo di battaglia, cit. Interessante
anche la connessione proposta dallo studioso tra wilderness e whiteness a
fondamento del razzismo ambientale.
28
68
S&F_n. 21_2019
sulla
soltanto
base
di
un’epistemologia
duale
che
costruisce
un’ontologia duale). Il capitale e il potere non agiscono sulla
natura
ma
attraverso
di
essa,
e
ogni
ecologia-mondo
è
caratterizzata da uno specifico statuto di oikeios29 secondo il
quale si organizzano e si co-producono, in maniera immanente, gli
insiemi
delle
nature
umane
ed
extraumane.
La
prospettiva
dell’ecologia-mondo permetterebbe, dunque, di mettere al centro
non la natura né l’uomo, ma la loro continua co-produzione: la
natura (nel suo essere allo stesso tempo risorsa e wilderness da
preservare)
immanente
e
e
la
società
(nel
trascendente)
suo
non
essere
sono
allo
altro
stesso
che
tempo
astrazioni
ideologiche necessarie per permettere la costruzione da un lato di
una natura come oggetto esterno e dall’altro di un anthropos come
eccezione e soggetto dell’interiorità. L’impostazione di Moore è
pienamente braudeliana e le origini del Capitalocene vanno trovate
all’interno del lungo XVI secolo quando si attuano, allo stesso
tempo,
«l’inversione
supremazia
della
della
relazione
produttività
del
lavoro-terra»
lavoro
come
e
misura
«la
della
ricchezza che pone le basi per l’appropriazione della “natura a
buon mercato”»30. La posizione da marxista eterodosso porta Moore
ad affermare che il capitalismo è un sistema di organizzazione
ecologica del mondo, all’interno del quale assumono un ruolo
fondamentale da un lato la mercificazione della vita e del lavoro
e dall’altro la necessità di un’appropriazione gratuita della vita
e del lavoro non mercificati. I rapporti di valore si fonderebbero
su una duplice “costruzione”: il lavoro sociale astratto, cioè lo
sfruttamento, che è a fondamento della produzione e si determina
come
lavoro
retribuito;
la
natura
sociale
astratta,
cioè
l’appropriazione che è a fondamento della ri-produzione e si
29
Cfr. J.W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, cit., in
particolare il saggio Da Oggetto a Oikeios. La produzione dell’ambiente
nell’ecologia-mondo capitalista, pp. 124-137, laddove si sottolinea che
«l’oikeios è un modo di nominare la relazione creativa, storica e dialettica
tra, e anche dentro, le nature umana ed extra-umana» (qui, pp. 125-126).
30
J.W. Moore, Antropocene o Capitalocene?, cit., pp. 67-68.
69
DOSSIER Delio Salottolo, L’esperienza allargata. Riflessione sull’Antropocene
determina come lavoro non-retribuito. Tra questi due elementi –
lavoro sociale astratto e natura sociale astratta – c’è un regime
di
co-produzione:
richiede
un
l’astrazione/estrazione
meccanismo
sempre
del
più
lavoro
sociale
espansivo
di
astrazione/estrazione di natura sociale a buon mercato, di qui le
storie complesse di colonialismo e imperialismo. In questo senso,
è chiaro anche che «il limite “ecologico” del capitale è il
capitale stesso»31 e che la crisi ecologica odierna si configura
come una crisi della relazione tra produzione e ri-produzione,
fondante la modernità capitalistica: l’impossibilità di accrescere
la produttività del lavoro in quanto le nature astratte/estratte
(forza-lavoro, energia, materie prime, cibo) divengono sempre meno
a buon mercato e l’impossibilità delle nature non mercificate a
fornire lavoro non-retribuito in vista dell’inizio di un nuovo
ciclo di accumulazione.
La crisi ecologica, in questo senso, è una crisi del capitalismo
come ecologia-mondo – dunque come una specifica modalità di coproduzione di società e natura, produzione e ri-produzione –, e
una manifestazione chiara di questa “crisi” la si può trovare
nell’ambito
della
“cura”
(in
questo
senso,
le
indicazioni
ecologiche incontrano le indicazioni femministe): la crisi odierna
può essere letta come il momento terminale della contraddizione
socio-riproduttiva che ha sempre caratterizzato il capitalismo,
contraddizione tra una riproduzione naturale e sociale che è
condizione necessaria per l’accumulazione, e la vocazione del
capitalismo
a
un’accumulazione
che
sia
illimitata
e
che
costantemente destabilizza il processo di riproduzione sociale su
cui necessariamente si poggia32.
31
Ibid., p. 129
In questo senso, ha ragione Nancy Fraser quando afferma che «questa crisi
della riproduzione sociale è, a mio avviso, una componente di una “crisi
generale”, che ne comprende anche altre – economiche, ecologiche e politiche,
ciascuna delle quali interseca ed esaspera l’altra», N. Fraser, La fine della
cura. Le contraddizioni sociali del capitalismo contemporaneo (2016), tr. it.
Mimesis, Milano-Udine 2017, p. 12.
32
70
S&F_n. 21_2019
Il luogo di emergenza della modernità incompiuta latouriana sembra
essere il lungo XVI secolo con le sue dinamiche proto-capitaliste,
ma quale esito è possibile pensare all’Era del Capitale, come la
chiama
Moore,
e
più
in
generale
alla
modernità
con
la
sua
specifica razionalità riflessiva? Le strade non possono che essere
due: 1) il capitale, avendo raggiunto il suo limite “ecologico”33,
entra
nella
sua
contraddizione
finale
tra
produzione
e
accumulazione, dunque tra produzione e ri-produzione e si attivano
i processi per la costituzione di una nuova ecologia-mondo (una
ristrutturazione della relazione di co-produzione tra natura umana
ed extraumana); 2) il capitale fa saltare ogni equilibrio e
conduce l’umanità verso la catastrofe/apocalissi.
Occorre, dunque, attivare la pensabilità di una nuova esperienza,
allargata, capace di produrre nuove configurazioni nella relazione
tra bios, logos e “mondo”; un modo di superare la grammatica della
modernità
e
la
sua
aritmetica
(razionalità
riflessiva
più
capitalismo) all’interno di un percorso di teoria e prassi che,
mediante il conflitto, permetta la costituzione di una rinnovata
relazionalità intra e inter specifica.
4. Verso un’esperienza allargata
La modernità, dunque, mediante la problematizzazione allargata
dell’Antropocene, si mostra ed esprime attraverso una serie di
contraddizioni: se l’analisi ha condotto alla definizione del
percorso di costruzione della specifica esperienza del moderno,
mediante
conflitti,
sopraffazioni,
violenze
e
sfruttamento,
è
anche vero che ha iniziato a segnalare anche i punti mediante i
quali può essere attaccata e rovesciata la narrazione e la realtà.
Possiamo
iniziare
con
il
segnalare
l’“errore”
compiuto
da
Chakrabarty e Latour – seppur nelle loro differenze – quando
segnalano la necessità di ripensare un soggetto universalizzante,
33
È possibile leggere, in questa chiave, l’opera fondamentale di un altro
“allievo” di Fernand Braudel, cfr. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie
del ventunesimo secolo (2007), tr. it. Feltrinelli, Milano 2008.
71
DOSSIER Delio Salottolo, L’esperienza allargata. Riflessione sull’Antropocene
seppur immerso in una storia vasta e geologica o caratterizzato
dalla capacità di produrre ibridi e di ibridarsi esso stesso. Se
la soggettività moderna si mostra sempre più nel suo essere un
allotropo empirico-trascendentale – definizione che, tradotta sul
piano
etico-politico,
è
da
intendersi
come
relazione
di
duplicazione “scientifica” (dunque, per certi versi, definitiva e
“necessaria”) in dominante/dominato, sfruttatore/sfruttato – è
anche vero che il superamento di questa dicotomia può avvenire
soltanto dopo che le due determinazioni abbiano dato avvio a uno
“scontro”: se è forse vero che una scialuppa di salvataggio non
esiste per nessuno (nel momento della “catastrofe” planetaria) e
che
sarebbe
“terrestri”
giusto
iniziare
(definizione
a
che
sentirsi
in
intende
un
certo
andare
senso
oltre
il
cosmopolitismo e l’internazionalismo), un possibile superamento
della contraddizione antropocentrismo/postantropocentrismo non può
che passare attraverso il conflitto; non si tratta semplicemente
di ri-evocare la potenza del negativo, si tratta piuttosto di
identificare
modernità
ha
il
luogo
mosso
i
dell’emergenza
suoi
primi
trasformativa.
passi
definendo
Se
il
la
luogo
dell’emergenza del suo specifico logos dualizzante dal punto di
vista
epistemologico
ristrutturazione
della
e
ontologico
relazione
a
partire
produttiva
e
da
una
ri-produttiva
(metabolica) tra bios e “mondo”, il superamento non può che
avvenire
attraverso
una
“rivoluzione”
che
faccia
saltare
la
determinazione del dispositivo: ritrovare, mediante lo strumento
della
problematizzazione,
il
luogo
originario
dell’emergenza,
significa identificare il luogo dove agire nel presente.
È noto come Latour inquadri il problema della “rivoluzione” come
effetto
della
stessa
“costituzione”
moderna:
la
modernità
metterebbe in campo i quattro dispositivi della naturalizzazione,
sociologizzazione, traduzione in discorso e oblio dell’essere per
costruire
la
piattaforma
che
determina
la
necessità
di
una
pensabilità del tempo come lineare – il passato va cancellato per
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mistificare gli ibridi che fondano la modernità (la quale funziona
soltanto mediante la partizione uomo/natura) e per effettuare tale
“cancellazione” si “costruisce” il concetto di “rivoluzione”. La
costituzione moderna necessita di un tempo lineare che neghi il
passato (rivoluzione) «perché cancella gli annessi e connessi
degli oggetti della natura e rende un miracolo il loro improvviso
emergere»34 – un miracolo che serve per spiegare l’emergere degli
ibridi che la costituzione permette nello stesso momento in cui li
vieta, mediante quella che possiamo definire l’ennesima dicotomia
tipica della modernità, quella tra arcaico e attuale. Secondo
Latour
«la
temporalità
moderna
non
ha
niente
di
“giudaico-
cristiano”» per cui si tratta di «una proiezione dell’Impero di
Mezzo sulla linea trasformata in freccia della separazione brutale
tra ciò che non ha storia, pur emergendo comunque al suo interno
(le cose della natura) e ciò che non esce mai dalla storia (i
travagli e le passioni degli umani)»35. Decadenza, rivoluzione,
invenzione della tradizione non sarebbero altro che repertori in
vista
del
consolidamento
della
costituzione
moderna.
La
“rivoluzione” non può che essere un sogno di cancellazione della
storia della relazione fondante e ibridata tra natura umana ed
extraumana. Si tratta di una posizione molto complessa ma per
certi versi autocontraddittoria: se il compito della nonmodernità
è quella di mostrare la proliferazione storica degli ibridi –
mostrare come la storia sia la potenza dominante al punto tale da
giungere alla provocazione che Ramses II non può essere morto di
tubercolosi perché all’epoca non era stato ancora “scoperto” (per
Latour:
“inventato”)
il
bacillo
della
tubercolosi
–
non
si
comprende facilmente perché la rivoluzione dovrebbe rappresentare
la cancellazione della storia e non la sua ri-attivazione a un
livello più alto.
34
35
B. Latour, Non siamo mai stati moderni, cit., p. 93.
Ibid., pp. 94-95.
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DOSSIER Delio Salottolo, L’esperienza allargata. Riflessione sull’Antropocene
La problematizzazione che abbiamo seguito in queste brevi note
mostra
esattamente
Latour:
nel
questo
momento
in
passaggio
cui
il
così
come
sociologo
l’“errore”
non
è
riuscito
di
a
intravedere la soglia di emergenza della “costituzione” moderna
(di fatto non spiegandone le “ragioni” dell’apparizione), è chiaro
che
ricada
nel
medesimo
errore
della
modernità,
storicizzare
soltanto la storia dell’uomo, de-storicizzando la storia della
relazione esperienziale tra bios, logos e “mondo”; e ancor di più,
affermando la necessità di definire gli ibridi come elemento
contraddittorio di una modernità che li produce nella storia
vietandoli nella teoria, rischierebbe di trovarsi imbrigliato in
un costruzionismo iper-radicale oltre il quale sarebbe impossibile
procedere: qual è la storia specifica dell’ibrido? In che senso
una forma di classificazione produce anche una forma specifica di
temporalità?
Il
tempo
è
soltanto
una
costruzione
della
soggettività moderna iper-classificatoria? È davvero pensabile
un’esperienza
temporale
a
spirale
affinché
«le
nostre
azioni
appaiano in definitiva come multitemporali?»36. Quando, invece,
seguiamo il percorso della problematizzazione e ritroviamo il
luogo di emergenza di una specifica configurazione, allora è
possibile pensare il suo superamento: l’“errore” di Latour è
quello di liquidare con troppa facilità la dialettica, la quale
consente
sempre
soggetto/oggetto,
di
pensare
permettendo
il
allo
superamento
stesso
dell’opposizione
tempo
di
pensare
i
posizionamenti storici dell’uno e dell’altro37.
Occorre attivare, dunque, una pratica del conflitto e una teoria
36
Ibid., p. 100.
«È merito della dialettica l’aver cercato di ripercorrere un’ultima volta il
cerchio completo dei premoderni, inglobando tutti gli esseri divini, sociali e
naturali, per evitare le contraddizioni del kantismo tra la funzione di
depurazione e quella di mediazione. Ma la dialettica ha sbagliato
contraddizione. Ha individuato bene quella tra il polo del soggetto e quello
dell’oggetto, ma non ha visto quella tra l’insieme della Costituzione moderna
che si veniva affermando e la proliferazione dei quasi-oggetti, che invece
caratterizza il XIX secolo come il nostro […] Ora, credendo di abolire la
separazione kantiana tra cosa in sé e soggetto, Hegel la rende ancora più
forte. L’eleva al rango di contraddizione, facendo della sua estremizzazione e
del suo superamento il motore della storia» (ibid., pp. 76-77).
37
74
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della problematizzazione: il conflitto non può che determinarsi su
più piani, da quello locale fino alla dimensione globale, passando
per
la
“resistenza”
dello
Stato
–
e,
per
conflitto,
deve
intendersi una pratica politica dal basso che intervenga ogni
volta che si riproduca la dinamica di scissione; una teoria della
problematizzazione
deve
poter
mettere
in
campo
una
nuova
configurazione allargata a venire della relazionalità bios, logos,
“mondo”: inventare nuove forme di relazione tra vita umana ed
extraumana, ripensare l’importanza del logos nella sua più antica
etimologia di legame, immaginare un “mondo” che possa andare oltre
la mera oggettività. Allargare l’esperienza significa ripensare
allo stesso tempo la dinamica del conflitto come produttrice di
una nuova configurazione all’interno della quale si superi la
dicotomia
fondante
la
modernità:
riattivare
la
pratica
del
conflitto significa riattivare una pratica di ri-appropriazione
dell’esperienza. Andare verso un’esperienza allargata significa
superare anche la postmodernità (nella nostra “periodizzazione”
già
sempre
parte
della
modernità),
riattivando
centralità
e
decentramento della vita umana ed extraumana, e attivando una
piattaforma
di
teoria
e
prassi
configurazione.
75
che
dia
avvio
a
una
nuova