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Automobili con motore a 16 cilindri

1994, Automobili con motore a 16 cilindri

Appunti di storia automobilistica.

Automobili con motore a 16 cilindri 29/02/2024 Montebruni Angelo Premessa L’evoluzione del motore endotermico policilindrico a distribuzione comandata, applicabile ad un’automobile, è stata la diretta conseguenza alla ricerca sui motori di questo tipo dapprima per la motonautica, subito soppiantata da quella, fertilissima, innescata dal primo conflitto mondiale per il predominio aeronautico. Ai tecnici dell’epoca era comunque già noto che il frazionamento della cilindrata consentiva di aumentare la velocità del pistone e di ottenere maggiore potenza, ma l’angolazione dei cilindri tra loro doveva seguire delle soluzioni obbligate per non alterare il ritmo regolare nella successione delle fasi di funzionamento del ciclo termodinamico: l’angolo tra i cilindri doveva essere di oppure di per un V8 e di o di per un V12. Nel 1915 la Lancia di Torino brevettò un manovellismo con bottoni di manovella doppi e sfasati tra loro con un angolo complementare alla differenza tra l’angolo obbligato e quello che si voleva ottenere per ridurre l’ingombro trasversale nella disposizione dei cilindri in un motore V12. Brillante soluzione il cui costo di fabbricazione non era, però, compensato da un aumento della potenza. Nel motore a cilindri, che poteva essere assimilato ad un doppio cilindri, era possibile ottenere l’angolo di , ed i suoi multipli, e , semplicemente sfasando tra loro l’angolazione delle metà dell’albero a manovelle oppure delle coppie di bottoni di manovella. Oltre alla possibilità offerte da un più ampio spazio a disposizione nelle imbarcazioni e negli aeroplano, nei quali si doveva comunque ridurre la sezione frontale, per alloggiarvi motori di grandi dimensioni i cui organi erano difficilmente miniaturizzabili per le possibilità tecnologiche dell’epoca, un incentivo importante alla ricerca del molteplice frazionamento della cilindrata fu la conseguente considerevole riduzione delle irregolarità della coppia motrice, determinante soprattutto in aeronautica. In queste due specialità della locomozione meccanica l’evoluzione del motore endotermico era già avviata all’inizio del secolo, culminando nel monumentale motore per aviazione Bugatti a cilindri disposti ad H, costruito nel 1924, e nello sterminato motore a cilindro a V di progettato da Léon Lévavasseur nel 1907 per il motoscafo da record “Antoinette V”, della cui effettiva realizzazione non esistono, però, notizie certe. Figura 1 – Il motore Lévavaseur cilindri a V di . Il cilindri sarebbe stato lungo il doppio. Figura 2 – Il motoscafo da record “Antoinette IV” con accanto il motore Lévavasseur V24 pronto per essere assemblato. Figura 3 – Vista posteriore del motore per aviazione Bugatti H32 del 1924. Gli monoblocchi di cilindri erano montati sopra e sotto un affusto comune. Alimentato da carburatori Zenith, aveva doppia accensione e distribuzione a valvole per cilindro e assi a camme. Con una massa il motore erogò a . Il meccanismo posteriore è un disgiuntore/congiuntore ad ingranaggi dei alberi motore disinseribili dal riduttore centrale, con l’asse dell’elica che attraversava tutto il motore. Limitando questa rassegna ai motori multicilindro per automobile, trascurando lo sfruttatissimo e relativamente semplice motore a cilindri, il cui funzionamento è pari a quello di un doppio cilindri, la ricerca sul motore a cilindri, particolarmente nel periodo tra le due guerre mondiali, appare come l’apice del pensiero tecnico quasi fosse, a torto od a ragione, una consacrazione. Qualche cosa di vero deve esserci perché le rare automobili con motore a cilindri sono sempre guardate come un traguardo mistico, raggiungibile da pochi eletti. Nella rassegna che segue, redatta in ordine cronologico, non sono comprese due vetture: la Duesenberg da record del 1919 e l’Alfa Romeo Bimotore del 1935. Su queste automobili erano stati montati due motori cilindri indipendenti e separati nel loro funzionamento, collegandoli alle ruote motrici per mezzo di particolari accorgimenti meccanici di trasmissione. A = motori ottenuti collegando due motori a 8 cilindri = 1 B = motori realizzati con due blocchi di 8 cilindri = 6 C = motori realizzati con quattro blocchi di 4 cilindri = 6 D = motori sedici cilindri monoblocco = 9 E = motori funzionanti secondo il ciclo 2 tempi = 2 Anno Paese d’origine Marca/Tipo Categoria 1906 Inghilterra Adams Mfg. A 1925 Germania Wegscheider D 1927 USA Stutz Record (1) C 1928 Francia Bugatti 45/47 B 1929 USA Duray Special E - Italia Maserati V4 B 1930 Francia Bucciali Double Huit B - USA Cadillac 452 D - USA Sampson Special (1) C 1931 USA Marmon Sixteen D - USA Miller 303 (1) C - USA Peerless (The) D 1932 Italia Maserati V5 B 1933 Germania Auto Union P D - Spagna Nacional Pescara D 1935 Italia Trossi Monaco E 1937 USA Cadillac 90 D 1938 Italia Alfa Romeo 316 C 1939 Francia Talbot Grand Prix D 1940 Italia Alfa Romeo 162/163 B 1950 Inghilterra BRM V16 C 1965 Inghilterra Coventry Climax FWMW C 1966 Inghilterra BRM H16 B 1988 Italia Cizeta V16T D Tabella 1 – Motori a 16 cilindri. Adams – Inghilterra – 1906 – Cat. A Ingegnere elettrotecnico licenziato dal Massachusetts Institute of Technology, Antony Adams fu mandato a Parigi dalla Western Electric Co., alla fine del secolo scorso. Nel 1904 si associò ad Edward Hewitt, un chimico formatosi a Princeton, il quale, dopo aver costruito delle locomotive a vapore, aveva fondato la Hewitt Motor Co. a New York. I due tecnici fondarono a Bedford, in Inghilterra, la Adams Manufacturing Ltd, un’impresa che iniziò l’attività commerciale importando dalla Francia i motori V8 per automobile e motonautica costruiti dalla Soc. Antoinette di Puteaux, così chiamata dal nome della figlia di Robert Gastambide, finanziatore di Léon Lévavasseur, la cui licenza di fabbricazione era stata acquistata da Hewitt per gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. A differenza dei motori di Lévavasseeur, che avevano le valvole di aspirazione automatiche a depressione, i motori V8 fabbricati su licenza Adams Mfg. avevano tutte le valvole comandate. Nel 1907 due motori V8 furono accoppiati in tandem per un propulsore V16 da imbarcazione. Ogni gruppo motore, di di cilindrata, aveva i cilindri separati con camicie di circolazione del liquido di raffreddamento ed erano montati su un basamento monoblocco in ghisa. Ogni testata smontabile aveva una camera di compressione ad L e la distribuzione era a due valvole laterali per cilindro, comandate direttamente da un solo asse a lobi eccentrici che girava nell’apice dell’angolo di formato dai cilindri. Le misure alesaggio/corsa erano con una cilindrata totale, per due motori uniti da un grosso giunto universale, di , erogando la potenza di a . Figura 4 – Il motore Adams V16 era costituito da due motori V8, a cilindri separati, riuniti in tandem da un grosso giunto universale. Uno di questi V16 fu allestito per essere montato su una vettura da record che doveva partecipare alle corse inaugurali dell’autodromo di Brooklands, notizia peraltro non confermata. Wegscheider – Germania – 1925 – Cat. D Sui periodici specializzati dell’epoca apparve la descrizione del motore prototipo sperimentale cilindri Wegscheider, forse il nome del suo progettista, dalle origini e finalità abbastanza oscure. Ottenuti per fusione di un monoblocco in ghisa acciaiosa i cilindri erano allineati su quattro ranghi paralleli, ognuno dei quali aveva una camera di compressione comune. Le camere erano ricavate in una testata unica, smontabile, anch’essa in ghisa. La distribuzione avveniva tramite undici valvole, verticali e parallele, per ogni fila di cilindri: per l’aspirazione e per lo scarico. Le valvole erano tutte uguali ed erano comandate da bilancini multipli disposti a pettini incrociati. Ogni pettine era comandato alle estremità, per mezzo di aste e punterie, da due assi a camme laterali, sistemati sotto il basamento cilindri e paralleli agli alberi a manovelle. Questi erano due, paralleli e sincronizzati, ed erano comandati da teste di biella doppie, munite di grossi cuscinetti di rotolamento a doppia corona di sfere, sulle quali si imperniavano le bielle collegate agli stantuffi. In pratica il cilindri Wegscheider era costituito da motori a cilindri affiancati e funzionanti simultaneamente. Progettato inizialmente per essere montato su una vettura da corsa tipo “cyclecar”, questo motore aveva misure alesaggio/corsa , pari a di cilindrata. Ogni pistone in lega d’alluminio, pesava, completo di asse e segmenti, ; le bielle, in duralluminio forgiato, avevano massa di e le valvole, con alzata limitata a , pesavano solo ciascuna. Il motore era raffreddato con circolazione di liquido ed era alimentato con un carburatore Zenith, disposto su un lato, mentre lo scarico avveniva dal lato opposto. L’accensione, con un magnete AT, era data da due candele per ogni linea di cilindri, montate alle estremità opposte della camera d’esplosione. Figura 5 – Il motore cilindri Wegscheider lato aspirazione. Figura 6 – Il doppio manovellismo del motore Wegscheider visto dal disotto. Figura 7 – Monoblocco e testata del motore Wegscheider cilindri. Figura 8 – Motore Wegscheider cilindri. Complessivo in elevazione longitudinale. Figura 9 – Motore Wegscheider. Imbiellaggio di una fila di cilindri. Le bielle erano semplici connessioni articolare sull’unico piede di biella doppio, montato su voluminosi cuscinetti a doppia corona di sfere. Il cilindri Wegscheider doveva erogare a , regime di rotazione notevolissimo per i motori endotermici dell’epoca, ma non è dato sapere se l’esperimento fu completato e quale fine abbia fatto questo singolare prototipo. Stutz Record – Stati Uniti – 1928 – Cat. B Discendente da una famiglia di puritano olandesi, emigrati nell’Ohio verso la meta del secolo scorso, Harry Clayton Stutz fu un autodidatta appassionato di automobilismo, convinto che la competizione era il migliore banco di prova per le sue realizzazioni. A trentacinque anni, nel 1910, era già proprietario della Stutz Auto Parts Co., che nel 1913 trasformò nella Stutz Motor Cars Co. Nel 1919 fondò la HCS Motor Cars Co. dalle iniziali del suo nome, e negli anni ’20 costruì diverse vetture per partecipare alla Miglia di Indianapolis impiegando motori Miller da competizione. La fama di Harry C. Stutz si diffuse in America nel 1915, quando il corridore Edward George Baker, soprannominato da quel momento “cannonball” (palla di cannone) attraversò gli USA da costa a costa, percorrendo i da San Diego a New York in poco più di giorni pilotando, in solitario e senza alcuna assistenza, la propria Stutz Bearcat di serie. Nel 1927 Harry C. Stutz costruì una vettura da record la cui carrozzeria fu disegnata seguendo le indicazioni ottenute dai modelli provati nella galleria del vento della General Dynamics. Il motore era un V16 Miller costituito da due motori a cilindri in linea tipo 91, montati su di un carter comune con un angolo di . Le misure alesaggio/corsa erano e la cilindrata . Per evitare particolari accorgimenti nella messa in fase, il motore aveva due alberi a manovelle sincronizzati con ingranaggi anteriori e posteriori. Sul davanti gli ingranaggi dei manovellismi comandavano una serie di pignoni che trasmettevano il movimento ai quattro alberi a camme in testa. Posteriormente gli ingranaggi degli alberi a manovelle comandavano un pignone centrale montato sull’albero primario del cambio di velocità e, tramite ingranaggi ausiliari, due compressori centrifughi che giravano con rapporto , sul regime di rotazione del motore, aspirando il carburante da due carburatori Miller a doppia bussola. La distribuzione era a valvole per cilindro, contrapposte con un angolo di , con camera di compressione emisferica. Poiché i monoblocchi erano a testata fissa, con sedi e guide delle valvole riportate, queste erano montate passando dall’interno del cilindro. I due manovellismi giravano su supporti di banco ciascuno, allineati da diaframmi di bronzo imbullonati a prigionieri predisposti all’interno del carter comune, realizzato in lega d’alluminio, chiuso da piastre di visita. Il rapporto volumetrico di compressione era e la potenza erogata a . Una così elevata potenza specifica, quasi fu dovuta in parte allo specialista di carburanti a miscela ternaria Leon Duray, il cui vero nome era George Gardener Stewart, famoso pilota delle monoposto da corsa Miller, in quale, per la Stutz da record, studiò una particolare miscela benzina-benzolo-alcool e disegnò uno speciale scambiatore di calore per regolare la temperatura di carburazione. Il Miller V16, alcuni specialisti lo classificano come U16, fu installato in un telaio monoposto molto stretto, carenato da una carrozzeria molto affilata realizzata con fogli di alluminio sagomati a mano e rivettati. Poiché la vettura doveva percorrere una linea retta sulla lunga spiaggia di Daytona, il meccanismo dello sterzo a volante centrale fu dotato di timoneria doppia, senza barra di connessione tra le ruote direttrici con possibilità limitata di correzione di traiettoria. Questo permise la carenatura di tutte le ruote, che risultarono completamente nascoste. Figura 10 – L’autotelaio della Stutz da record in corso di assemblaggio nella officina di Harry Miller a Los Angeles. Sopra il motore, quale complemento della carrozzeria, si vedono gli scambiatori di calore dell’alimentazione fornita dai due compressori centrifughi, montati dietro il motore. L’assale anteriore era carenato e lo sterzo era a doppio comando, senza barra di connessione. Figura 11 – La Stutz da record. La forma filante della carrozzeria era stata ottenuta secondo i dati della galleria del vento. Anche gli assali rigidi erano rivestiti da una carenatura aerodinamica: quello anteriore era un tubo orizzontale sospeso al telaio da molle semiellittiche parallele a lame talmente corte da impedire quasi ogni sobbalzo alle ruote mentre, per quello posteriore col ponte differenziale la sospensione era con molle ellittiche a lame dirette all’indietro. Il 25 aprile 1928 la Stutz Black Hawk da record fu trasportata a Daytona Beach in Florida da Franck Lockhart, promotore del tentativo e pilota designato. Nel corso del primo passaggio, mentre stava oltrepassando i , per lo scoppio di un pneumatico la vettura si capovolse ripetutamente uccidendo il ventisettenne coraggioso pilota. Bugatti 45/47 – Francia – 1928 – Cat. B In previsione della formula libera per le gare internazionali del 1928, Ettore Bugatti realizzò due vetture con motore a cilindri: il tipo 45 Grand Prix ed il tipo 47 per le corse in formula sport. Per ambedue i motori Bugatti si servì dell’architettura da lui ideata nel 1915 per i motori d’aviazione la cui licenza di fabbricazione era stata venduta al Governo americano: due bancate di cilindri affiancate e parallele su un carter comune. I due motori differivano tra loro solo per le misure alesaggio/corsa e la cilindrata; tipo 45 ; tipo 47 . Ogni bancata da cilindri, ottenuta con una fusione unica in ghisa acciaiosa, era a testata fissa ed ogni cilindro aveva la distribuzione a valvole in testa, verticali e parallele: per l’aspirazione ed per lo scarico, quest’ultima aveva una superficie maggiore della somma delle altre due. Nonostante avesse progettato motori con distribuzione a quattro valvole fin dal 1914 Ettore Bugatti era sempre fedele al suo sistema a tre valvole, studiato fin dal 1912, perché lo considerava più efficace. Figura 12 – In questa inedita fotografia del reparto manutenzione vetture da gara della Bugatti di Molsheim nel 1932, si vedono rimessate le due vetture a cilindri: la Grand Prix tipo 45, la Grand Sport tipo 47 e le due Miller tipo 91 acquistate nel 1929 a Milano. Per ogni bancata la distribuzione era comandata da un asse a lobi eccentrici che azionavano le valvole attraverso bilancini incrociati e doppie molle di richiamo. Causa la testata cieca le valvole ed i pistoni con le bielle erano infilati dal di sotto dei cilindri, poi l’albero a manovelle, ottenuto per rettifica di un’unica barra d’acciaio venuta di forgia, era appeso al monoblocco tramite nove supporti, in due elementi in acciaio forgiato imbullonato a prigionieri, i quali contenevano i cuscinetti di rotolamento: quello centrale era una voluminosa bronzina con metallo antifrizione mentre gli altri erano cuscinetti a rulli. A parte i monoblocchi ed i particolari in movimento i motori erano costruiti con un largo impiego di leghe leggere ed erano a carter secco, con un semplice coperchio protettivo che ne chiudeva il fondo. Sul davanti dei motori era montata una grossa pompa centrifuga a due vie che convogliava il liquido di raffreddamento ai monoblocchi tramite canalizzazioni esterne. Nella zona posteriore del motore erano alloggiati i ruotismi di comando della distribuzione, degli accessori e della trasmissione, comprendente ingranaggi opportunamente calcolati. Gli alberi motore erano muniti di ruote dentate sincronizzate su un ingranaggio centrale che portava il volano, nel cui interno era alloggiata la frizione multidisco a bagno d’olio azionata da un meccanismo di levette formante un parallelogramma elastico comandato da un pedale. Questo dispositivo molto efficiente era stato brevettato da Ettore Bugatti nel 1907. Figura 13 – Il motore Bugatti U16 in corso di finizione: lato pompa acqua (sopra) e lato compressori di alimentazione (sotto). Figura 14 – Complessivo in elevazione longitudinale ed in pianta del telaio della Bugatti a motore U16 (sotto) e disposizione dell’assieme posteriore dei pignoni di comando dei magneti di accensione, degli assi a camme, dei compressori volumetrici, della pompa circolazione acqua e della trasmissione centrale con in due manovellismi sinistro e destro (sopra). I ruotismi posteriori trasmettevano il moto ai due magneti di accensione, ai due compressori d’alimentazione e, per mezzo di un albero orizzontale che percorreva tutta la lunghezza del motore, alla pompa dell’acqua. Sul davanti gli alberi motore comandavano tre pompe di lubrificazione: una di recupero e rinvio dell’olio al serbatoio separato, una a bassa pressione per lubrificare gli assi a camme e la distribuzione mentre la terza, ad alta pressione, lubrificava i cuscinetti di banco e le bronzine di biella e questo spiega l’impiego di una grossa bronzina di banco centrale che doveva permettere il passaggio dell’olio nelle canalizzazioni forate nella massa dell’albero a manovelle. Figura 15 – Recuperando dalla fabbrica una serie completa di parti staccate, negli anni Settanta un collezionista riuscì ad assemblare un terzo motore Bugatti U16, qui completo di candele, frizione e alberi di comando dei magneti di accensione. Il compressore Roots di ogni bancata aspirava la miscela da un carburatore Zenith orizzontale, con condotti d’alimentazione sistemati tra le bancate, mentre i collettori di scarico erano imbullonati all’esterno e la potenza erogata a era di per il tipo 45 e di per il tipo 47. I motori furono installati in autotelai di disegno tipicamente Bugattiano, con sospensioni ad assali rigidi guidati sul davanti da molle semiellittiche e posteriormente ellittiche, e differivano solo nelle misure del passo che era: per il tipo 45 Grand Prix e per i tipo 47 Grand Sport. Entrambe le vetture avevano cambio di velocità a rapporti più retromarcia, separato dal motore, e impianto frenante meccanico con comando a cavo e meccanismo ripartitore della frenata. Le Bugatti a cilindri non ebbero molta fortuna. All’epoca furono fabbricati i particolari necessari alla produzione di una piccola serie di quattro vetture per ogni tipo ma solo due esemplari, una Grand Prix ed un Grand Sport, furono completati e collaudati per la stagione corse 1929, tuttavia fu solo nel 1930 che il tipo 45, la cui velocità avvicinava i fu visto in alcune gare in salita. I telai approntati per il tipo 47, a passo lungo, furono impiegati per la serie 55 montando il motore da competizione tipo 51 bialbero a compressore. Visto il successo del tipo 55, magnificamente carrozzeria a “roadster” due posti, Bugatti vagheggiò all’idea di produrne alcuni esemplari motorizzati con l’U16 di , ma il prezzo di vendita, previsto in franchi, era improponibile ed il progetto di una Bugatti Super Sport a cilindri fu abbandonato. Figura 16 – Il famoso campione monegasco Louis Alexander Chiron al volante della Bugatti Grand Prix tipo 45 nella corsa in salita del Colle de la Tourbie del 1929. La griglia tubolare davanti al radiatore è il radiatore dell’olio. Duray Special – USA – 1929- Cat. E Affascinati dal problema posto dallo scozzese Dugal Clerck, ideatore della teoria del motore tempi a fasi abbinate, chiamato tempi, molti ricercatori tentarono di risolverlo adattandolo a motori multicilindro per alta competizione. Un motore endotermico che in un solo tempo riunisse le fasi aspirazione/scarico ed in un altro quelle della compressione e dell’esplosione avrebbe permesso di ridurre della metà il regime di rotazione dell’albero motore. Conseguentemente, in teoria, con il medesimo regime di rotazione di un motore tempi era possibile raddoppiare la potenza erogata. Figura 17 – Il motore U16 della Duray Special, cilindri ciclo tempi, visto dal lato scarico. Notare l’enorme compressore volumetrico a due lobi verticali raffreddato dalla circolazione dell’aria. Figura 18 – Vano motore, lato aspirazione della Duray Special a motore cilindri tempi, costruita per Indianapolis. L’alesaggio corsa era con una cilindrata totale di . Ogni camera d’esplosione aveva due candele di accensione. Nel 1926 la FIAT fabbricò un prototipo sperimentale di motore da corsa, ciclo tempi di di cilindrata, con sei cilindri e dodici pistoni concorrenti che erogò al banco a il cui perfezionamento non fu continuato causa il ritiro della Casa dalla competizione. Nello stesso anno l’americana Duesenberg costruì un motore da corsa tempi per correre a Indianapolis: era un cilindri in linea biblocco che aspirava da un distributore orizzontale a cilindro rotante, comandato al centro del manovellismo da un alberino verticale e due coppie coniche mentre lo scarico avveniva tramite fessure, praticate nel cilindro, e pistoni a testa deflettrice. Alimentato da un compressore volumetrico, con regime di rotazione superiore agli il motore Duesenberg tempi fu abbandonato causa gli insormontabili problemi di surriscaldamento. Sempre con l’obiettivo di vincere a Indianapolis, nel 1929 il famoso meccanico-pilota americano Léon Duray convinse Clifford Durant, figlio di William Crapo Durant, fondatore della General Motors, a finanziare la fabbricazione di due vetture da competizione a motore cilindri, ciclo tempi, sovralimentato. Impostato secondo la tecnica dei cilindri gemellati a lavaggio equicorrente, brevettata nel 1918 da Arnold Zoller in Germania, il motore della Duray Special era costituito da monoblocchi di cilindri. Ogni coppia di cilindri, entro i quali i pistoni con piede di biella a doppia articolazione si muovevano simultaneamente, aveva una camera di compressione comune. Alimentato da un enorme compressore volumetrico, questo U16 avrebbe dovuto erogare a ma anche le speranze di Léon Duray e Cliff Durant si infransero contro l’ostacolo rappresentato dal surriscaldamento. Alla 500 Miglia del 1931 abbandonò al sesto giro mentre Durant non riuscì neppure a qualificarsi. Figura 19 – Il pilota americano Léon Duray al volante della Duray Special ad Indianapolis nel 1929. Maserati V4 – Italia – 1929 – Cat. B Alfieri Maserati è stato l’unico costruttore di automobili ad ammettere onestamente di essersi ispirato ai lavori di Ettore Bugatti nel progettare il motore cilindri tipo V4. Nel 1929 due motori a cilindri in linea sovralimentati, di due litri di cilindrata della serie 26B, furono affiancati su un carter comune espressamente disegnato e realizzato in lega leggera. Ogni motore, il monoblocco destro fu girato di per risultare con lo scarico esterno, erogante a era completo dei propri accessori: il compressore volumetrico d’alimentazione, l’accensione e la distribuzione a due alberi a camme in testa. Il Maserati V16 doveva essere montato in un telaio già esistente tipo 26B così, per contenere l’ingombro trasversale, i due motori furono allineati con un angolo divergente di . Modifiche furono apportate ai condotti di alimentazione, che dovevano passare tra le due bancate, e nuovi carburatori Weber sostituirono i Menini originali. Ad eccezione del monoblocco, in ghisa acciaiosa, tutte le parti fisse furono fabbricate in lega d’alluminio. La distribuzione era a valvole per cilindro, contrapposte con un angolo di , comandate da assi a lobi eccentrici con presa di forza, tramite una serie di pignoni montati nella parte anteriore del motore, sui due alberi a manovelle. La pignoneria anteriore azionava anche i compressori volumetrici d’alimentazione, le due pompe centrifughe di circolazione dell’acqua di raffreddamento, una per ogni bancata, e quelle della lubrificazione ad alta pressione. Dietro al motore i alberi a camme comandavano due magneti alta tensione per l’accensione ed un contagiri per ogni bancata. Figura 20 – Complessivo in elevazione longitudinale della Maserati Grand Prix tipo V4 a motore cilindri. Figura 21 – Complessivo in elevazione trasversale del motore V16 della Maserati Grand Prix tipo V4. L’alesaggio e la corsa del motore cilindri erano i medesimi del motore tipo 26B, ossia , con una cilindrata totale di . Col rapporto volumetrico di compressione la potenza erogata fu di a . Sia i pistoni che le bielle tubolari erano forgiati in lega leggera e l’assieme dei manovellismi guidati da supporti di banco, e dell’imbiellaggio girava su bronzine antifrizione. Il cambio di velocità a rapporti più retromarcia era accollato al motore con una frizione multidisco a secco e la trasmissione finale era con una coppia conica e differenziale al ponte posteriore. La Maserati cilindri tipo V4 debuttò in gara il 15 settembre 1929 al Gran Premio di Monza. Tra gli invitati dell’Automobile Club di Milano si trovava Ettore Bugatti, che festeggiava il suo compleanno assieme a sua figlia Lidia. L’ospite d’eccezione era in Italia già da alcuni giorni per acquistare il progetto di Giulio Cesare Cappa di un autotelaio da corsa a quattro ruote motrici e le due Miller a trazione anteriore tipo 91 pilotate da Léon Duray nel Gran Premio d’Italia di una settimana prima. Figura 22 – L’autotelaio a motore cilindri a V della Maserati Grand Prix tipo V4 visto dal davanti. A Monza Alfieri Maserati si ritirò, ma al secondo giro la sua V4 aveva stabilito il giro più veloce a quasi . La domenica seguente, sul Circuito di Cremona, Mario Umberto Borzacchini stabilì il nuovo primato mondiale sui lanciati in di media nei due sensi. Stimolati dalla potenza e dalla velocità della V4, che arrivava ai , i fratelli Maserati decisero di partecipare alla miglia di Indianapolis del 1930. Per ottemperare al regolamento della corsa americana, i due compressori furono deposti e sostituiti da carburatori Weber doppio corpo ed al posto del cambio di velocità a rapporti ne fu montato uno con rapporti, più leggero. Ad Indianapolis la Maserati U16 tipo V4 si qualificò facilmente, ma i tecnici della Casa si accorsero subito dell’insidia nascosta nel modo con il quale doveva essere condotta la gara. La pista di Indianapolis è costituita da quattro rettilinei, due corti e due lunghi, raccordati da quattro curve uguali, con uno sviluppo totale di da percorrere duecento volte sempre nello stesso senso, girando a sinistra. In queste condizioni la forza centrifuga, a poco a poco, avrebbe spostato il lubrificante verso il lato destro del motore che era a carter secco, con conseguente impoverimento della lubrificazione del monoblocco sinistro. Il problema si manifestò al settimo giro, quando la Maserati V16 dovette ritirarsi per il grippaggio di due bielle della bancata sinistra. Bucciali Double Huit – Francia – 1930 – Cat. B I fratelli Angelo e Paolo Albero Bucciali, nati in Corsica, dopo la Prima Guerra Mondiale si stabilirono nei dintorni di Parigi per dedicarsi alla costruzione di automobili in piccola serie, anche di un solo esemplare, in un’officina di loro proprietà. A partire della metà degli anni ’20 si applicarono alla ricerca di autotelai a quattro ruote indipendenti e trazione anteriore proponendo, anno dopo anno, delle vetture sempre più lussuose e raffinate, dotate di meccanismo di trazione molto complessi; per esempio, nel 1928 costruirono un modello di autotelaio con sospensioni indipendenti ottenute per mezzo di molle elicoidali orizzontali. Nel 1930 presentarono un gigantesco autotelaio, siglato Double Huit, di di passo e di carreggiata, dotato di un cambio di velocità a rapporti più retromarcia sistemato trasversalmente nell’avantreno e funzionante da assale anteriore. Gli ingranaggi del cambio erano a dentatura diritta per facilitare lo scorrimento dei pignoni, mentre il differenziale incorporato, nell’intento di ottenere la massima silenziosità possibile, aveva la coppia conica a taglio Klinckhenberger con doppia dentatura ipoide contraria. Posteriormente la sospensione era ad assale rigido e molle semiellittiche longitudinali; quella anteriore era costituita da parallelogrammi deformabili, semiassi di trazione con due giunti di Cardano, molla semiellittica trasversale, con biellette tiranti registrabili, e ammortizzatore orizzontale a doppio telescopio. Causa la posizione degli organi di trazione e di sospensione, non era possibile collegare convenientemente le ruote anteriori, così lo sterzo a vite e settore elicoidale aveva una timoneria doppia, senza barra di connessione trasversale. Con l’interposizione di una robusta frizione bidisco a secco, questo complesso meccanismo trattore/sterzante doveva essere azionato da un motore a cilindri a U di , realizzato impiegando due motori americani Continental a cilindri in linea. Con alesaggio/corsa la cilindrata totale era di e la potenza, a , era annunziata in . Figura 23 – L’autotelaio Bucciali a motore Continental U16 come era presentato nel catalogo della Casa. Figura 24 – Il cambio di velocità trasversale anteriore della Bucciali Double Huit. Visto dal davanti. Figura 25 – Vista posteriore del cambio di velocità trasversale anteriore della Bucciali Double Huit. La corona del differenziale era a doppia dentatura ipoide contraria. I due monoblocchi a testata smontabile avevano distribuzione a valvole in testa comandate da aste e bilancieri. Completi dei propri imbiellaggi, manovellismi ed accessori, dovevano essere affiancati su un carter comune appositamente disegnato e realizzato in lega leggera. I due alberi motore erano sincronizzati su un ingranaggio surmoltiplicatore per compensare la demoltiplicazione dei pignoni del cambio di velocità. Per una vettura carrozzata a “Coupé-Chauffeur” posti ed una massa di quintali, il costruttore proclamò una velocità massima oltre i , tuttavia nessuno ha mai saputo se il motore Bucciali Double Huit è stato veramente costruito perché il magnifico autotelaio presentato al Salone di Parigi del 1931 esibiva uno stupendo motore magistralmente ma ingannevolmente imitato in legno! Figura 26 – Il vano motore della Bucciali Double Huit al Salone di Parigi. Il motore Continental cilindri a U era un simulacro realizzato con particolari metallici ed elementi in legno. Figura 27 – Complessivo in elevazione trasversale della trasmissione anteriore e della sospensione della Bucciali Double Huit. La timoneria dello sterzo era doppia, senza barra di connessione tra le ruote. Figura 28 – Il complesso meccanismo di trazione anteriore della Bucciali Double Huit esposto al Salone di Parigi. Cadillac 452 – USA – 1930 – Cat. D Contrariamente agli Europei, negli anni tra le due guerre mondiali gli Americani non vedevano nel motore policilindrico la possibilità di ottenere soltanto una maggiore potenza, ma soprattutto la silenziosità e dolcezza di funzionamento. Con questo obiettivo nel 1930 la Cadillac Motor Car Co., lanciò sul mercato il modello 452, caratterizzato da un motore cilindri di più di di cilindrata, che doveva dare alla Casa di Detroit l’assoluta supremazia nel campo delle vetture di lusso di serie fabbricate in America. L’elemento più interessante della Cadillac 452 era costituito dal motore: il telaio, rispondendo alle norme ed alle esigenze in uso negli USA, era del tutto convenzionale anche se imponente e robustissimo. Incaricato dello studio del cilindri Cadillac fu Ernest Seaholm, già da parecchi anni responsabile dell’ufficio progetti di motori e telai e che, durante la guerra, aveva coordinato il coinvolgimento della Casa nella realizzazione del motore d’aviazione Liberty V12. Nei quindici anni precedenti, grazie alla ricerca sui motori aeronautici, la metallurgia aveva notevolmente progredito, sviluppando tecniche di fonderia sempre più raffinate e sicure. Era quindi logico che una grande impresa industriale, quale era la General Motors, avesse a disposizione le attrezzature necessarie per realizzare in una fusione unica l’assieme dei cilindri il quale fu il primo monoblocco di questo tipo ad essere prodotto in serie. Inserito in un carter in lega leggera, anch’esso venuto di fusione, il monoblocco era in ghisa acciaiosa e le due file di cilindri erano allineate con un angolo di . L’alesaggio/corsa era di per una cilindrata di , ossia . Le testate smontabili, nelle quali erano ricavate le camere d’esplosione, comportavano una candela d’accensione e due valvole per cilindro: una per l’aspirazione ed una per lo scarico. Disposte parallele su una stessa fila, le valvole erano comandate, tramite aste e bilancieri, da un unico asse a lobi eccentrici, alloggiato nel vertice dell’angolo dei cilindri, a sua volta messo in moto da una catena silenziosa montata sul davanti dell’albero motore. Figura 29 – Il gruppo motopropulsore Cadillac V16 tipo 452 del 1930 visto dal lato destro. La catena della distribuzione comandava il generatore di elettricità e, tramite un alberino a due giunti elastici, la pompa di circolazione dell’acqua di raffreddamento. Figura 30 – Sezione trasversale del motore cilindri Cadillac tipo 452, 1° serie. Figura 31 – Il motore tipo 452 V16 Cadillac serie D del 1935. Figura 32 – Complessivo e sezione trasversale della distribuzione del motore cilindri Cadillac col meccanismo idraulico di regolazione automatica del gioco delle punterie dele valvole. Figura 33 – Vista in pianta dell’autotelaio della Cadillac a motore cilindri tipi 452. La silenziosità di funzionamento della distribuzione era ottenuta con un ingegnoso meccanismo idraulico: ogni bilanciere era montato su un eccentrico, inserito su un asse fisso, munito di un incavo nel quale agiva un pistoncino telescopico a molla elicoidale, frenato dall’olio dell’impianto di lubrificazione del motore. La disposizione dell’insieme consentiva al pistoncino di premere costantemente sull’eccentrico, abbassando l’asse di oscillazione del bilanciere, il quale era, quindi, sempre in pressione sulla coda della valvola da un lato e sull’asta di trasmissione dall’altro lato, eliminando ogni possibilità di gioco e di pulsazioni rumorose. Nell’eventualità di un surriscaldamento, con la coda della valvola in allungamento, l’asse di oscillazione risaliva e l’eccentrico si trovava a forzare la resistenza del pistoncino comprimendolo. I collettori di aspirazione e scarico erano montati sui lati esterni del monoblocco ed ogni bancata era alimentata da un carburatore verticale Detroit Lubricator riscaldato con circolazione dei gas di scarico in una campana che manteneva la miscela carburante alla temperatura ideale al momento dell’aspirazione. Muniti di tre segmenti di tenuta ed un raschiaolio doppio i pistoni a testa piana erano fusi in ghisa al nichel mentre le bielle erano in acciaio forgiato. Realizzato per rettifica di un’unica barra venuta di forgia l’albero a manovelle era bilanciato staticamente e dinamicamente e dotato, sul davanti, di un antivibratore: era guidato da supporti di banco di di diametro, con le bielle accoppiate su bottoni di manovella. tutto l’assieme era montato con cuscinetti antifrizione. L’accensione avveniva con un distributore a poli e due bobine e la dinamo, comandata sul lato destro del motore della catena della distribuzione, aveva il proprio asse che si prolungava in un alberino, con due giunti elastici, che trasmetteva il moto ad una grossa pompa centrifuga a pale e due uscite per convogliare il liquido di raffreddamento alle due bancate. La prima serie della Cadillac tipo 452, presentata nel dicembre 1929 al Salone di New York, fu subito sostituita dalla 452° che aveva l’impianto frenante meccanico potenziato da un servofreno a depressione, le due bobine d’accensione raffreddate da un piccolo ventilatore a termostato ed il sistema di alimentazione a depressione con serbatoio ausiliario a gravità (“exhauster”) fu sostituito da una pompa di benzina meccanica. I motori della prima serie avevano un rapporto volumetrico di compressione ed a erogavano . Nelle serie successive il rapporto di compressione fu portato a e la potenza aumentò a . Nell’ultima serie, la 452D prodotta nel 1935, la potenza del motore era di a , non contando una ventina di assorbiti dagli accessori. Con una frizione bidisco a secco, alloggiata nel volano-motore, il cambio di velocità era montato in blocco col motore. Secondo le norme in uso in America aveva rapporti più retromarcia, comandati da una lunga leva manuale con articolazione a rotula, ed era dotata di dispositivo, denominato “Synchro-Mesh”, che facilitava lo scorrimento silenzioso degli ingranaggi. Il telaio aveva di passo e di carreggiata, era sospeso su lunghe molle semiellittiche a grande flessibilità frenate da grossi ammortizzatori idraulici Delco-Rémy. Carrozzata dai migliori stilisti americani, la Cadillac V16 tipo 452 è stata la risposta americana alle regine europee della strada, le Hispano-Suiza, la Isotta-Fraschini e le Rolls Royce. Sampson Special – USA – 1930 – Cat. C Un facoltoso industriale di nome Alden Sampson, arricchitosi nel commercio di parti di ricambio per l’automobile, nel 1930 fu coinvolto da Clifford Durant nel finanziamento della cilindri tempi che Léon Duray stava preparando per correre ad Indianapolis. Più di ogni altra manifestazione americana, il prestigio della gara di Indianapolis era in potente richiamo per le straordinarie ricadute pubblicitarie in tutto il paese, ma Alden Sampson voleva una vettura che portasse il suo nome e si ritirò quasi subito dal progetto “Duray Special” per finanziare Riley Brett, un abile preparatore di automobili da corsa, che aveva anche lavorato nello “staff” di Harry Miller. Brett aveva recuperato il motore V16 della Stutz Black Hawk, rimasto danneggiato durante il capottamento nel tentativo di record del 1928 a Daytona Beach, ed aveva convinto il finanziere sulle possibilità di una Sampson Special a motore cilindri. Del motore originale della Stutz da record furono ricuperati i due biblocchi a cilindri in linea, completi di distribuzione, imbiellaggi e manovellismi, i quali furono riallineati per formare due bancate parallele disposte a U su un nuovo carter in lega leggera disegnato da Brett. I lavori di ristrutturazione furono effettuati nell’officina di Harry Miller a Los Angeles e per ottemperare al nuovo regolamento di gara in vigore in America i due compressori centrifughi furono eliminati e sostituiti con due carburatori doppio corpo invertiti, uno per bancata. Nel tentativo di convogliare in uguale quantità il flusso della miscela carburata ad ogni cilindro, Riley Brett disegnò un collettore d’aspirazione a cascata multipla che fu montato in testa ad ogni bancata: un’idea che fu ripresa, qualche anno più tardi dallo stesso Miller. Sprovvisto dei compressori d’alimentazione e senza poter impiegare le miscele ternarie antidetonanti formulare da Léon Duray, vietate dal nuovo regolamento di gara, il motore U16 Miller aspirato fu installato in un telaio monoposto convenzionale, erogando solo a , tuttavia si comportò onorevolmente classificando la Sampson Special al quarto posto nella Miglia del 1930 e nell’edizione del 1933. Figura 34 – Il motore U16 della Sampson Special in corso di assemblaggio nell’officina di Harry Miller a Los Angeles. Notare i collettori di alimentazione allineati a cascata. Questo motore fu ottenuto ristrutturando il motore Miller V16 della Stutz da Record del 1927. Marmon Sixteen – USA – 1931 – Cat. D Nonostante che il primo volo meccanico abbia avuto luogo negli USA e che numerose fabbriche di motori ed automobili, grandi e piccole, sparse un po’ ovunque nel Paese avessero avviato la creazione di un’industria metalmeccanica, all’entrata dell’America nella Prima Guerra Mondiale, il Governo di Washington si accorse che questa industria, benché attiva, era fondata su concetti meccanici embrionali, se non empirici, scoprendo improvvisamente di non poter disporre neppure di una aviazione militare operativa. Ford, Wright, Packard, Marmon, Curtiss, Knox, Cadillac, Lincoln e poche altre aziende producevano una grande quantità di motori che differivano tra loro soltanto per il numero e la disposizione dei cilindri, ma che impiegavano, quasi esclusivamente, il tipo di distribuzione detta “a valvole laterali”, pratico ed economico ma inadatto a propulsori aeronautici per velivoli da combattimento. Nel giugno del 1917 una missione militare fu inviata in Europa per studiare i motori FIAT, Rolls Royce, Anzani, Isotta Fraschini, Benz, Hispano-Suiza, Mercedes, Renault e Lorraine Dietrich. Capo degli ingegneri civili era Howard Carpenter Marmon, specialista di motori raffreddati ad aria ed erede di una importante industria meccanica, il quale rimase fortemente impressionato dal motore d’aviazione a cilindri costruito da Ettore Bugatti ed insistette affinché gli USA ne acquistassero la licenza di fabbricazione. Dieci anni più tardi Howard Marmon costruiva un motore a cilindri. Figura 35 – Il motore Marmon V16 del 1931. Nell’inverno 1926-27 l’ufficio progetti della Marmon Motor Car Co. di Indianapolis, avviò lo studio di un motore a cilindri che utilizzava due monoblocchi cilindri della Marmon tipo L di di cilindrata, la cui distribuzione era a valvole laterali con aste e bilancieri e albero a camme nel basamento. Alla fine del 1927 due motori prototipo con cilindri a V di e di cilindrata, valvole laterali con un albero a eccentrici nel fondo del V formato dai cilindri, furono costruiti e provati al banco, ma all’inizio del 1928 il progetto fu sospeso. Problemi finanziari interi all’azienda e le notizie secondo le quali la Cadillac stava lavorando ad un progetto similare furono all’origine della decisione che però non era definitiva. Infatti, due anni più tardi lo studio del motore V16 fu ripreso ed i disegni ed i calcoli matematici furono rifatti avendo deciso di produrre un motore di cilindrata maggiore il cui affusto cilindri e basamento del manovellismo dovevano risultare dalla fusione di un unico monoblocco. Il motore V16 della Marmon Sixteen, presentato al Salone di New York del 1931, aveva alesaggio/corsa con una cilindrata totale di che, con un rapporto di compressione , erogava effettivi a . Per ottenere il miglior rapporto peso/potenza si fece ricorso ad un impiego sistematico di particolari realizzati in lega di alluminio: oltre al monoblocco in un pezzo unico col basamento, che risultò avere massa di solo dopo la rettifica, furono ottenute le testate, smontabili e con le guide e le sedi delle valvole riportate in bronzo d’alluminio, i coperchi della distribuzione, la coppa dell’olio, i pistoni, i semicarter del cambio di velocità, i collettori di aspirazione, la pompa centrifuga dell’acqua a doppia turbina, il coperchio della catena della distribuzione ed il supporto posteriore del motore. In questo modo la massa totale del gruppo motore-cambio risultò in , inferiore di al V16 Cadillac. Figura 36 – Il monoblocco in lega leggera della Marmon Sixteen subito dopo la sabbiatura. Nel monoblocco le camicie dei cilindri, del tipo umido, in ghisa acciaiosa, dopo la rettifica ed il trattamento termico venivano lucidate ed infilate a pressione. Bloccate dalle testate, nella parte inferiore avevano un anello circolare in gomma che impediva le infiltrazioni di umidità. Le bielle in acciaio forgiato erano gemellate su cuscinetti antifrizione e l’albero a manovelle, che aveva una massa di solo completo di ammortizzatore antitorsionale, girava su cinque supporti di banco, anch’essi con cuscinetti in metallo antifrizione. Montate in asse col cilindro le valvole verticali erano per bancata, allineate in fila e comandate, tramite aste e bilancieri da un solo asse a lobi eccentrici alloggiato nel vertice del V dei cilindri. Un dispositivo cilindrico a doppio telescopio, munito di un piattello sagomato, posto tra l’asta e la camma permetteva di registrare il gioco delle punterie soltanto ogni , risultando altrettanto silenzioso che il sistema idraulico del V16 Cadillac. I collettori di alimentazione, montati al centro del monoblocco, aspiravano da un carburatore invertito Stromberg doppio corpo la cui cartuccia filtrante aspirava i vapori di lubrificazione dai coperchi della distribuzione. Figura 37 – Inserzione delle camicie cilindri nel monoblocco cilindri della Marmon Sixteen. Figura 38 – Il gruppo motopropulsore della Marmon Sixteen visto dal lato pompa di alimentazione. Figura 39 – L’autotelaio della Marmon Sixteen. Figura 40 – Marmon Sixteen. Il coprivalvole della bancata sinistra è stato tolto per mostrare l’allineamento delle punterie. Alle basse temperature il carburatore poteva essere riscaldato dalla circolazione dell’acqua di raffreddamento del motore. Figura 41 – Complessivo in elevazione trasversale del motore V16 della Marmon Sixteen. Questa era comandata da una catena tripla messa in moto dall’albero a manovelle sul davanti del motore, azionando la pompa meccanica del carburante sulla sinistra, con filtro a bicchiere, mentre sul lato destro comandava la dinamo e la pompa dell’acqua montate in tandem. Il motore era lubrificato da di olio, contenuti nella coppa, forzati ad alta pressione nelle canalizzazioni da una grossa pompa ad ingranaggi messa in moto dalla catena della distribuzione. Come per tutte le vetture di fabbricazione americana l’impianto elettrico era a e l’accensione con un distributore a poli, due bobine ed una candela per cilindro inserita all’esterno delle bancate. Il circuito di raffreddamento conteneva di liquido che passava attraverso un radiatore e persiane termostatiche con ventola comandata da una cinghia trapezoidale. In blocco col solito cambio di velocità a rapporti più retromarcia e frizione bidisco a secco, il V16 Marmon fu installato in un telaio a longheroni e traverse estremamente robusto che misurava di passo e di carreggiata. Dotato di un impianto frenante Bendix Duplex servoassistito l’autotelaio era sospeso su assali rigidi tramite molle semiellittiche a grande flessibilità, frenate da robusti ammortizzatori idraulici a leva. Splendidamente carrozzata con una estetica spoglia da cromature eccessive, che si distaccava dalla voga americana in uno stile che fu giudicato troppo austero, la Marmon Sixteen raggiungeva facilmente la velocità di ed era offerta ad un prezzo inferiore alla Cadillac V16 tuttavia, nonostante le sue ineccepibili qualità estetiche, le moderne soluzioni adottate e l’estrema accuratezza di fabbricazione, nei tre anni durante i quali fu costruita, dal 1931 al 1933, ne furono prodotti soltanto esemplari, dei quali trovarono un acquirente. Miller 303 – USA – 1931 – Cat. C Nel folklore automobilistico americano Harry Armenius Miller (Armenius è la latinizzazione del nome tedesco Hermann) appare come l’apprendista stregone che ha scoperto il segreto della meccanica motoristica ideale. Direttamente ispirata dal motore da corsa della Peugeot Grand Prix del 1912, la formula dalla quale Miller non si dipartì quasi mai era semplice: monoblocco cilindri, distribuzione bialbero, manovellismo indeformabile. A questo principio di base era possibile adattare qualsiasi accessorio e, modificando le forme di fonderia, offrire un ampio ventaglio di alesaggi e di cilindrate. Subito dopo la Prima Guerra Mondiale Miller inventò una lega leggera a base di rame, alluminio e nichel le cui caratteristiche di durezza e resistenza all’allungamento erano vicine a quelle dell’acciaio, pur avendo un peso nettamente inferiore alla metà. I suoi motori erano così muniti di bielle tubolari forgiate e pistoni leggeri e resistenti. Una caratteristica peculiare ai motori Miller era la tecnica da lui ideata per garantire l’assenza di vibrazioni all’albero a manovelle: consisteva nel sopportare i cuscinetti di banco per mezzo di diaframmi in bronzo imbullonati all’interno del carter-motore, il quale non era altro che un guscio vuoto, munito di larghe aperture di visita, chiuse da piastre metalliche. Costituiti da un gran numero di particolari, lavorati ed aggiustati alle tolleranze volute con precisione maniacale, i motori di Harry Miller erano molto costosi da realizzare, ma per molti anni furono i più veloci, i più resistenti ed i più estetici motori da competizione reperibili sul mercato americano. Essi avevano, in più, il pregio di adattarsi facilmente alla nautica ed all’aviazione diventando motori pluricilindro per semplice moltiplicazione degli organi. Nel 1926 Miller costruì un motore con cilindri a V di e di cilindrata che erogava a , poi un cilindri a W di e a . Studiati in origine per le gare motonautiche furono largamente impiegati durante il proibizionismo sia dai contrabbandieri d’alcool che dalle motovedette della guardia costiera della costa del Pacifico tra il Canada e gli USA. Riunendo su un carter comune due motori biblocco tipo 91 a cilindri in linea, nel 1927 Miller realizzò il motore V16 per la Stutz da record, poi, nel 1930, fu costruito un cilindri a V di da installare su un autotelaio da corsa a ruote motrici, sponsorizzato dal costruttore di autocarri Four Wheels Drive il quale, temendo un costo eccessivo, preferì ripiegare su un motore V8. Il V16 fu allora impiegato per una vettura sportiva commissionata nel 1931 da un milionario di New York. Il motore era costituito da blocchi di cilindri allineati su due file con un angolo di . I blocchi cilindro, in ghisa acciaiosa, erano a testata fissa con camera di compressione emisferica e le guide e le sedi delle valvole erano riportate in lega bronzo-alluminio. La distribuzione era a due valvole inclinate per cilindro, contrapposte con un angolo di ; munite di piattelli di regolazione e di bicchierini-guida delle molle di richiamo, erano comandate da assi a camme in testa messi in moto da ingranaggi a cascata sul davanti del motore. L’albero a manovelle era montato su bronzine di banco in metallo antifrizione, guidate da altrettanti diaframmi in bronzo ed aveva le bielle tubolari, anch’esse su cuscinetti in metallo bianco, gemellate due a due sui bottoni di manovella. Le misure alesaggio/corsa erano per una cilindrata totale di ; con pistoni a testa bombata e rapporto volumetrico di compressione la potenza erogata fu di a che salì a quando fu montato un compressore d’alimentazione tipo Roots. Grazie all’impiego sistematico di leghe leggere la massa complessiva del motore era di soltanto. Figura 42 – L’autotelaio ed il motore Miller tipo 303 costruito nel 1931 in esemplare unico. La trasmissione era a ruote motrici con sospensioni ad assali rigidi tipo De Dion montati su doppie molle quartoellittiche sovrapposte e parallele, sia davanti che dietro, montate contrapposte. Il motore fu montato in posizione normale in un telaio che era un adattamento di uno di quelli costruiti per la Four Wheels Drive. Era costituito da longheroni in acciaio stampato, e rinforzati da traverse, alle cui estremità erano montati, contrapposti, due assali trattori a ponte De Dion delle Miller a trazione anteriore, completi delle loro sospensioni a coppie di molle quartoellittiche sovrapposte, ma solo l’assale anteriore aveva le ruote sterzanti. Al cambio di velocità a rapporti più retromarcia, in blocco col motore, era incorporata la scatola di ingranaggi di trasferimento con differenziale longitudinale dal quale si dipartivano due alberoni di trasmissione, uno al differenziale anteriore, l’altro al differenziale posteriore. La vettura fu completata con una spartana carrozzeria posti e risultò, a conti fatti, essere una vettura da competizione munita di fari, capottina e parafanghi tipo motocicletta che raggiungeva facilmente le . Costruito in esemplare unico, al costo di dollari nel 1932, il “roadster” Miller V16 anticipò di sessant’anni le “supercar” attuali. Peerless (The) – USA – 1931 – Cat. D Le origini de The Peerless (l’incomparabile) Company risalgono al 1869 quando un gruppo di carpentieri e meccanici di Cincinnati si associò per fabbricare in serie apparecchi per casalinghe, soprattutto centrifughe manuali per lavanderia. Nel 1890 l’impresa, trasferita nel frattempo a Cleveland, cominciò a produrre biciclette ed all’inizio del ‘900 a costruire automobili arrivando, a poco a poco, ad occupare un livello di primo piano sul mercato americano. Per l’eleganza, la potenza e la qualità di esecuzione, le Peerless degli anni ’20 rivaleggiavano con le Packard e le Pierce Arrow, ma il persistere di uno stile austero ed antiquato segnò l’inizio di un declino che si accentuò col sopravvenire della grande crisi economica del 1929. Nel vano tentativo di attirare la clientela perduta e rinsaldare la tesoreria dell’impresa, nel 1930 i dirigenti commisero lo stesso errore di valutazione che condusse al fallimento tanti produttori di automobili in quel periodo, quello di voler produrre una imponente e lussuosa vettura, in questo caso con motore cilindri. Il progetto era stato ventilato già nel 1927, quando la Peerless aveva assunto alcuni tecnici provenienti dalla Marmon e dalla Cadillac, i quali avevano lavorato ai progetti dei motori V16 di quelle imprese, ai quali il V16 Peerless finì per assomigliare. Ritardato da indecisioni e tentennamenti del Consiglio di Amministrazione, il progetto prese l’avvio alla fine del 1930, quando le sorti della Peerless erano ormai segnate. Realizzato in lega d’alluminio, il monoblocco con il carter per il manovellismo aveva i cilindri in ghisa acciaiosa riportati e disposti a V di . L’alesaggio/corsa era con una cilindrata totale di ; la distribuzione era a valvole in testa per cilindro, verticali e parallele su una sola fila per bancata, comandate, tramite aste e bilancieri, da un solo asse a lobi eccentrici situato nell’angolo del “V” dei cilindri. Se la distribuzione, comandata dal davanti con catena silenziosa a maglie, pareva copiata dal motore Marmon, l’imbiellaggio a bielle gemellate assomigliava come una goccia d’acqua a quello della Cadillac V16. I pistoni e le bielle erano in alluminio forgiato e l’albero a manovelle, bilanciato da contrappesi, girava su supporti con tutti i cuscinetti in metallo antifrizione. I collettori di aspirazione e di scarico, anch’essi in lega leggera, erano applicati sui lati esterni del motore, alimentato da un carburatore verticale doppio corpo per ogni bancata. All’interno del “V” dei cilindri fu alloggiato il distributore d’accensione Delco a poli e le candele, una per cilindro, nascoste sotto i coperchi della distribuzione. Il motore erogò a e fu installato, con l’interposizione di grossi tamponi di gomma, in un robustissimo telaio a longheroni e traverse tubolari, rinforzate da una crociera centrale, sospeso su molle a lame semiellittiche, longitudinali di grande flessibilità. Il cambio di velocità, in blocco col motore, con rapporti più retromarcia era del tipo in uso in America e l’impianto frenante a comando idraulico Duplex aveva tamburi di di diametro. I cerchi delle ruote della Peerless V16 furono realizzati in alluminio secondo un disegno che ricordava molto quelle a turbina disegnate da Ettore Bugatti per la “Royale”. Il telaio aveva un passo di e di carreggiata ed i tre prototipi costruiti furono splendidamente carrozzati da Walter Murphy di Pasadina. Figura 43 – Benché imponente questa limousine luci, posti su telaio Peerless a motore cilindri, appare molto equilibrata ed è una delle tre vetture costruite dalla Casa e lussuosamente interpretate dallo stilista californiano Walter Murphy. Malgrado le dimensioni imponenti la Peerless V16 aveva una massa ridotta a e raggiungeva i . Purtroppo, nel giugno del 1931 l’impresa cessò l’attività automobilistica e lo stabilimento fu trasformato in fabbrica di birra, la notissima “The Peerless”. Maserati V5 – Italia – 1932 – Cat. B Dalla Maserati cilindri tipo V4 del 1929 erano stati assemblati due esemplari. Uno fu venduto mentre l’altro partecipò a diverse gare prima di ricevere un nuovo motore. Siglata V5 la seconda Maserati a motore cilindri fu realizzata impiegando due monoblocchi a cilindri in linea di di alesaggio della serie 8C, introdotta nel 1931, appositamente adattati per ricevere il manovellismo di del motore 26B della seconda generazione. L’architettura generale del nuovo motore era la medesima del precedente tipo V4, con i supporti di banco montati su cuscinetti a rulli, i due alberi a manovelle con le bielle tubolari munite di bronzine antifrizione, i due compressori volumetrici e le due valvole in testa contrapposte a , comandate da assi a camme. Tuttavia, con le nuove misure di alesaggio e corsa il motore Maserati V5 aveva una cilindrata di , erogando la potenza di a con una velocità massima che si avvicinava ai . Nonostante, queste premesse la Maserati V5 non riuscì ad imporsi. L’eccessiva usura degli pneumatici, già caratteristica della V4, l’autotelaio era sempre il medesimo, e la preponderanza della massa sul treno anteriore, resero la vettura difficile e penosa da condurre in gara. Nel 1933 altri due esemplari del motore V5, uno con rotazione a sinistra e l’altro con rotazione a destra, furono costruiti dalla Maserati per conto ddi Theo Rossi di Montelera che li utilizzò in gare motonautiche, poi, nel 1934 l’unica Maserati cilindri tipo V5 partecipò al Gran Premio di formula libera di Tripoli, ma al sesto giro la vettura uscì di strada, concludendo rovinosamente la sua carriera. Auto Union P-Wagen – Germania – 1933 – Cat. D Il 12 gennaio 1934, sull’anello di velocità e curve sopraelevate dell’Autodromo di Monza, in presenza di pochi, selezionatissimi, inviati ebbe luogo la presentazione ufficiale della nuova e rivoluzionaria Auto Union P-Wagen Grand Prix. Benché interessanti, e sotto molti aspetti illustrativi, i risvolti politici ed economici all’origine della P-Wagen (P=Porsche) esulano da questa sintetica descrizione. Dopo essere stato direttore dell’ufficio progetti della Daimler-Benz, Ferdinand Porsche aveva aperto a Stoccarda, nel 1929, il proprio ufficio studi e consulenze. Nel suo “staff” di tecnici c’era Willy Walb, già collaudatore-capo alla Benz di Mannheim, il quale, nel 1922-23 aveva lavorato alla messa a punto della Tropfenrennenwagen del prof. Edmund Rumpler l’antesignano delle vetture di Formula 1 di oggi. Convinto dalle argomentazioni di Walb, nell’inverno 1932 Porsche completò lo studio di una vettura da Grand Prix con motore cilindri sovralimentato, in posizione centrale, e trasmissione posteriore con sospensioni indipendenti sulle ruote, ma causa la mancanza di fondi sufficienti, il progetto incontrò difficoltà a concretizzarsi. Quando il governo presieduto dal Cancelliere Hitler decise di stanziare un fondo corse da dividersi tra Daimler-Benz ed il consorzio Auto Union quest’ultimo acquistò il progetto della cilindri P-Wagen. Il primo esemplare della Auto Union tipo A fu costruito nel 1933 nello stabilimento Horch di Zwickau, che era quello meglio equipaggiato in macchinari utensili moderni del gruppo, poi fu portato in Italia per essere presentato e collaudato in gran segreto a Monza. Il prototipo aveva un motore a cilindri a V di realizzati in una sola fusione in lega leggera con canne in acciaio riportate. Le misure alesaggio/corsa davano una cilindrata totale di . Le due testate smontabili erano ottenute ugualmente da una fusione in lega leggera ed una volta assemblate formavano col monoblocco un canale centrale d’alimentazione con condotti di aspirazione molto corti per ogni bancata e tutto l’assieme era rettificato e lucidato. Le camere d’esplosione emisferiche avevano una valvola di scarico di di diametro ed una di aspirazione di di diametro ed erano montate in testa, contrapposte con un angolo di . Figura 44 – Complessivi in elevazione trasversale e longitudinale del motore cilindri della Auto Union P-Wagen. Disegni originali di fabbrica. Figura 45 – Disegno di fabbrica quattro viste della disposizione degli organi principali dell’autotelaio Auto Union P-Wagen tipo A. Figura 46 – Il monoblocco cilindri della Auto Union P-Wagen in corso di assemblaggio. Figura 47 – Autodromo di Monza. Gennaio 1934 Ferdinand Porsche assiste alla messa a punto della Auto Union cilindri. La vettura era stata collaudata il giorno prima sull’autostrada dei Laghi. Figura 48 – Prospettiva del vano motore e della sospensione posteriore della Auto Union P-Wagen tipo A con i collettori di scarico passanti tra gli organi della sospensione. Figura 49 – L’autotelaio Auto Union P-Wagen tipo A esposto al Salone dell’Auto di Berlino nel 1934. Figura 50 – Da destra il Prof. Ferdinando Porsche, il pilota Hans von Stuck ed il collaudatore Willy Walb sulla pista dell’Avus con l’Auto Union P-Wagen tipo A. Figura 51 – Auto Union P-Wagen. Dettaglio della tecnica di assemblaggio del manovellismo Hirth. Figura 52 – Disposizione degli organi delle sospensioni anteriori e posteriori a barre di torsione della Auto Union P-Wagen tipo C. Il radiatore era in due parti; la superiore, a “V”, per l’acqua, l’inferiore per l’olio. Figura 53 – Il gruppo motopropulsore della Auto Union P-Wagen tipo C. Figura 54 – Prospettiva posteriore dell’autotelaio a motore cilindri Auto Union P-Wagen tipo C. Figura 55 – Complessivo in prospettiva della Auto Union P-Wagen tipo C del 1937, illustrante la disposizione degli elementi principali. Figura 56 – Il posto del pilota della Auto Union P-Wagen. Figura 57 – Vista posteriore della carenatura integrale delle Auto Union P-Wagen tipo C preparate per i “record” di velocità. Figura 58 – Il vano motore delle Auto Union P-Wagen a carrozzeria aerodinamica del 1938. Figura 59 – 28 gennaio 1938. Autostrada Francoforte Darmstadt. Il pilota Bernd Rosemeyer ascolta le raccomandazioni di Ferdinand Porsche poco prima del tentativo di record durante il quale troverà la morte a con la sua Auto Union. Le sedi e le guide delle valvole, di bronzo speciale, erano inserite nelle testate e la distribuzione era comandata da un unico asse a lobi eccentrici, parallelo alle testate, sistemato al centro, nella parte alta del “V” dei cilindri. Il moto dell’asse a camme era trasmesso dall’albero motore per mezzo di un corto asse verticale posteriore e due coppie di ingranaggi conici. Gli eccentrici comandavano direttamente i bilancieri delle valvole di aspirazione e tramite aste trasversali quelli delle valvole di scarico. Dopo una serie di prove con alberi a gomito forgiati in un solo pezzo, fu deciso di ricorrere alla ditta Hirth AG che costruì un manovellismo con cuscinetti a rulli per impiegare bielle forgiate in un pezzo unico, anch’esse montate su rulli. L’albero a manovelle era quindi costituito da elementi realizzati separatamente muniti di scanalature, che si incastravano gli uni negli altri, permettendo di inserire i contrappesi, i cuscinetti di banco e le bielle complete dei pistoni forgiati, fabbricati dalla ditta Elektron. L’alimentazione avveniva con un voluminoso compressore Roots, fortemente alettato per essere raffreddato dall’aria, il quale pompava direttamente la miscela aspirandola da un carburatore Solex doppio. Il motore tipo A del 1934 erogò a con una coppia massima di a . Questo regime di rotazione ridotto con coppia motrice elevata fu volutamente ricercato da Porsche per ottenere quella elasticità di funzionamento ai bassi regimi e quelle accelerazioni fulminee che le vetture rivali non possedevano. Il motore era imbullonato alla scatola del differenziale, realizzata in ghisa d’acciaio, mentre il cambio di velocità a rapporti, con ingranaggi a presa costante tranne la 1° velocità e la retromarcia, aveva il carter in elektron ed era montato a sbalzo, dietro il ponte posteriore, con l’alberino di comando della frizione multidisco passante al di sopra della coppia conica finale. Il cambio era lubrificato ad alta pressione da una pompa speciale e la 4° e 5° velocità risultavano surmoltiplicate. Nel 1935, per la P-Wagen tipo B, furono montati i cilindri di di alesaggio, portando la cilindrata a con allo stesso regime di rotazione e la coppia massima arrivò a a . Nel 1936, per il tipo C, fu fabbricato un nuovo monoblocco ed un nuovo manovellismo con alesaggio/corsa pari a . A la potenza erogata raggiunse i con una coppia massima di a . Per il motore da impiegare nei tentativi di record di velocità del 1937, un monoblocco della terza serie fu equipaggiato con canne di di alesaggio per una cilindrata totale di . La potenza raggiunse quasi a e la coppia massima a . Il rapporto volumetrico di compressione era passato da della prima serie a della seconda ed a per il tipo C. Su tutti i modelli l’accensione era con una candela per cilindro e due magneti AT Bosch a poli. Il telaio delle Auto Union cilindri consisteva in due longheroni tubolari di di diametro, in acciaio al cromo-molibdeno, entro i quali correvano le tubazioni del circuito di raffreddamento dal radiatore anteriore al motore posteriore. I longheroni erano rinforzati aa due traverse saldate, delle stesse dimensioni e materiale, mentre la traversa anteriori era di diametro maggiore per permettere il passaggio delle barre di torsione trasversali della sospensione anteriore. Questa era costituita, su entrambe i lati, da biellette sovrapposte fissate mozzo porta-ruota; la bielletta inferiore era collegata alla barra di torsione, quella superiore all’ammortizzatore. Per sopportare la massa del motore e della trasmissione la traversa posteriore era di disegno particolare ed era imbullonata ai longheroni. Nei primi modelli la sospensione posteriore consisteva in una molla a lame semiellittiche disposta trasversalmente, sopra i due semi assi oscillanti di trazione, con le ruote guidate da puntoni articolati di reazione-spinta convergenti sul davanti. Tutte le carrozzerie delle Auto Union da corsa erano realizzate con foglio di alluminio ed erano leggerissime; quelle delle monoposto da gara avevano una massa di appena con un rapporto peso/potenza a pieno carico di per il tipo A, per il tipo B e per il tipo C le cui rispettive velocità massime erano e . Famosi sono rimasti gli esemplari preparati per i tentativi di record su strada, le cui carrozzerie furono modellate secondo i dati forniti dalla galleria del vento e che potevano raggiungere i . Nel 1938 l’Auto Union fece costruire due esemplari di una vettura sportiva con motore V16 di da proporre alla clientela. Su un telaio di di passo e di carreggiata, avevano una carrozzeria chiusa con parafanghi avvolgenti, due porte e tre posti affiancati con guida centrale. Prima che la Casa abbandonasse il progetto, il grande pilota Bernd Rosemeyer collaudò uno di questi esemplari a più di sul circuito dell’Avus. Nacional Pescara – Spagna – 1933 – Cat. D Durante la Prima Guerra Mondiale il giovane ingegnere Edmondo Moglia era impiegato come disegnatore nell’ufficio progetti della FIAT, all’epoca sotto la direzione di Giulio Cesare Cappa. Nel 1921, assieme ai colleghi Walter Becchia e Vincenzo Bertarione, Moglia si trasferì in Inghilterra, assunto nell’ufficio studi della Sunbeam. Circa un anno dopo, non sopportando il clima inglese, Moglia tornò sul Continente e si stabilì a Parigi dove fu ingaggiato dal principe egiziano Djellaljedine per progettare una vettura da record, la “Djelmo”, nome formato dalle iniziali dei due personaggi, che fu costruita in Inghilterra. La vettura aveva un motore a cilindri in linea di di cilindrata che erogava . La distribuzione era a valvole per cilindro contrapposte a , con due alberi a camme in testa. Il motore era di disegno tecnicamente progredito ma complesso, la cui messa a punto si trascinò per anni, durante i quali Moglia lavorò nel 1923 per Ettore Bugatti disegnandogli un compressore volumetrico a due lobi, poi progettò un’altra vettura da record, simile alla “Djelmo” ma con due motori, uno anteriore ed uno posteriore al sedile del pilota e trazione sulle ruote. Figura 60 – Complessivo in elevazione longitudinale ed in pianta dell’autotelaio Nacional Pescara a motore cilindri in linea di , che non fu costruito ma sostituito da un cilindri a V di . Nel 1927 la prima “Djelmo fu pilotata da Giulio Foresti in alcuni tentativi di record di velocità sulla spiaggia inglese di Pendine, ma rimase accidentata in un capottamento. Scomparsa dalla scena, fu ritrovata dopo la Seconda Guerra Mondiale rimessa nel “garage” parigino di Bugatti. Nel 1929 Edmondo Moglia aveva a Suresnes, al n. 11 della Rue du Ratrait, il suo ufficio studi e consulenze. In quel periodo fu ingaggiato dal ricchissimo marchese Raoul de Pescara in qualità di ingegnere consulente e direttore tecnico della Nacional Pescara, un’impresa fondata poco tempo prima a Barcellona. Per la Nacional Pescara Moglia progettò alcune vetture da corsa con motore cilindri in linea a monoblocco in alluminio, canne in acciaio riportate e distribuzione bialbero in testa che vinsero numerose gare in salita. Nel 1933 Moglia completò l’intero studio di un autotelaio per una vettura da turismo con motore monoblocco a cilindri in linea, di cilindrata e distribuzione monoasse in testa a due valvole per cilindro, che però non fu realizzata ma sostituita da un V16 monoblocco a di . Da Pescara commissionò la fabbricazione del V16 alla Schweitzerische Locomotiv un Maschinen Fabrik di Winterthur che lo costruì in tre esemplari. Il motore V16 della Nacional Pescara aveva un albero a camme per bancata e due valvole verticali per cilindro a comandi diretto dalle camme. Le due catene della distribuzione erano sul davanti e comandavano una pompa centrifuga a due vie per il liquido di raffreddamento e due distributori d’accensione a poli, sistemati al centro del “V” dei cilindri assieme ai due carburatori Zenith doppi, i collettori di aspirazione e le candele di accensione, una per cilindro. Il motore fu realizzato con largo impiego di leghe leggere, anche per i pistoni e le bielle forgiate. L’avviamento avveniva con una grossa dinamo-“starter” montata in testa all’albero motore, che era equilibrato staticamente e dinamicamente e sopportato da cuscinetti antifrizione. Il volante era a sinistra ed il cambio di velocità a rapporti più retromarcia faceva corpo col motore. Il telaio, di disegno classico, era con longheroni stampati in lamiera di acciaio, rinforzato dai sostegni del motore, da tre traverse scatolate ed una crociera centrale, ed era sospeso su assali rigidi tramite molle semiellittiche longitudinali. Il passo era di e la carreggiata di . Due esemplari della Nacional Pescara V16 furono completati a Barcellona e carrozzati entrambi a “cabriolet” porte, posti. Figura 61 – Il cabriolet spider disegnato nel 1934 da Enrique Pateras Pescara, fratello di Raoul, per la Nacional Pescara a motore V16. Uno pare sia andato distrutto durante la Guerra Civile Spagnola, ma l’altro faceva parte, pochi anni fa, della collezione dello stilista Brook Stevens. Trossi Monaco – Italia – 1935 – Cat. E Nel 1934 l’ing. Augusto Monaco completò lo studio di un motore a cilindri sovralimentato, funzionante secondo il ciclo tempi, da installare in una vettura da competizione a trazione anteriore. Dopo averne iniziata la costruzione, la FIAT abbandonò il progetto, che fu ripreso dal noto sportivo conte Carlo Felice Trossi, coadiuvato dal pilota-collaudatore Giulio Aymini. Nel 1932 Trossi aveva assunto la presidenza, e la maggior parte dell’onere finanziario, della Scuderia Ferrari, la quale aveva perso l’importante supporto materiale ed economico dell’Alfa Romeo. Dovendo reperire delle vetture in grado di sostituire degnamente le Alfa tipo B (P3), Trossi investì molto denaro per acquistare delle monoposto da competizione di altre marche. Nel 1932 si recò ad Indianapolis, regno delle famose Duesenberg e Miller, dove conobbe Franck Clemons, uno di quei folkloristici preparatori di auto da corsa che gravitano attorno al variegato mondo delle piste americane, dal quale acquistò una vettura ch’egli credeva essere una Duesenberg, ma che si rivelò, in seguito, essere un ibrido curioso: su un telaio di una vecchia monoposto Duesenberg del 1927, Clemons aveva montato un motore di a cilindri in linea realizzato copiando i motori Miller bialbero degli anni ’20. Questa “Duesenberg” arrivò a Modena nell’estate del 1933 dove i meccanici della Scuderia la prepararono per disputare il Gran Premio di Monza, al quale la vettura fu iscritta e pilotata da Trossi con i colori delle Scuderia Ferrari. Quella gara è tristemente celebre perché Duesenberg, mentre Trossi era all’inseguimento della Bugatti di Cziaikowsky, si ritrovò col carter sfondato da una biella, spandendo l’olio del motore all’uscita della curva sud; incidente che causò la tragica fine dei grandi Campari e Borzacchini e dello stesso Cziaikowsky. Trossi fece riparare la vettura, che non fu più utilizzata, poi, nel 1934 la rivendette ed acquistò il progetto dell’ingegner Monaco che, al suo spirito indagatore, appariva di grande interesse tecnico. Per risolvere il problema del surriscaldamento, caratteristica dei motori tempi multicilindro, Monaco aveva adottato la disposizione dei cilindri a struttura radiale, convergente attorno all’albero motore, come si usava in aviazione. Normalmente, per la regolarità di funzionamento di un motore stellare, il numero dei cilindri è dispari per il ciclo tempi e pari per quello tempi, da qui la scelta di un motore radiale cilindri. Infatti, il motore preconizzato da Monaco consisteva in una doppia stella, di cilindri ciascuna, disposti sui due piani successivi di un ottagono regolare. Ogni coppia di cilindri, a testata smontabile, aveva una camera di compressione comune; i cilindri anteriori, essendo i più esposti al raffreddamento della circolazione dell’aria, scaricavano i gas combusti mentre l’aspirazione avveniva dai cilindri posteriori, con l’applicazione di un compressore volumetrico per accelerare e facilitare il lavaggio equicorrente. Il doppio imbiellaggio, montato con cuscinetti e rulli, si articolava sui bottoni dell’ingranaggio di comando dell’albero motore, nel modo usuale per i motori a stella fissa, e la trasmissione comandava le ruote anteriori tramite un cambio di velocità a rapporti più retromarcia, un differenziale e due semiassi a doppio giunto di Cardano. Le misure alesaggio/corsa erano con cilindrata totale di . Alimentato da due grossi carburatori, il motore erogò a ; l’assemblaggio e la messa a punto furono eseguite nell’officina che il conte Trossi aveva installato nel suo castello di Gaglianico. La carrozzeria della Trossi-Monaco, disegnata da Mario Ravelli, era molto affusolata e dava alla vettura l’aspetto di un grosso insetto senza ali. Il passo misurava e le carreggiate , con una massa totale a secco di . Il telaio era del tipo detto “a gabbia” costituito da tubi d’acciaio al manganese-molibdeno saldati autogeni mentre la carrozzeria, in lamiera d’alluminio, era sostenuta da un’armatura in tubi di duralluminio. Per realizzare questa monoposto molto promettente sul piano tecnico, Trossi investì delle somme di denaro colossali. Infatti, la Trossi-Monaco presentava altre soluzioni d’avanguardia, quali una sospensione a quattro ruote indipendenti, con parallelogrammi deformabili montati su barre di torsione, e le ganasce dei freni a tamburo, a comando idraulico, avevano un meccanismo di compensazione dell’usura dei ceppi. La Trossi- Monaco si presentò alle prove del Gran Premio d’Italia del 1935, ma la vettura, oltre a rivelarsi pericolosamente sottosterzante, causa il peso preponderante sul treno anteriore, era stata affrettatamente preparata e non partecipò alla gara, malgrado dimostrasse di raggiungere i sui rettilinei della pista di Monza. Il conte Trossi rinunziò alla prosecuzione dei lavori e la vettura, oggi, fa parte della collezione custodita nel Museo dell’Automobile di Torino. Figura 62 – Il motore radiale cilindri, ciclo tempi della Trossi Monaco. Figura 63 – Il vano accessori della Trossi Monaco. Sopra le gambe del pilota si trovano i serbatoi dell’olio ed il compressore che nasconde il cambio sottostante. Figura 64 – La carrozzeria della Trossi Monaco disegnata da Mario Revelli. Figura 65 – Per migliorare il raffreddamento del motore, la Trossi Monaco fu completata da un convogliatore frontale. Cadillac 90 – USA – 1937 – Cat. D Alla fine del 1936, dopo aver prodotto poco meno di esemplari delle serie 452 V16, e riconquistata la supremazia nel settore delle vetture di lusso ai danni dell’acerrima rivale, la Packard, i dirigenti della Cadillac Motor Cars, verificando che la fabbricazione della 452 era crollata al livello di una cinquantina di esemplari negli ultimi tre anni, scoprirono che i due terzi di tutta la produzione era stata venduta nel corso del solo 1930. Questo malgrado la ricerca ed i continui miglioramenti apportati al telaio. Maurice Olley, un ingegnere specialisti di sospensioni, che aveva lavorato alla Rolls-Royce di Springfield, dopo aver provato un meccanismo Dubonnet sulla Cadillac tipo 452D del 1934, aveva adottato la sospensione anteriore a ruote indipendenti e rinforzato il telaio con una doppia crociera a “X”. La causa prima della caduta vertiginosa della 452 V16 era stata la intempestiva decisione di affiancarle un nuovo modello con motore V12 montato sui telai della serie 355 (V8) in corso di produzione dal 1927. A parte le dimensioni del motore, molto simile al V16 e col medesimo meccanismo a punterie idrauliche, la qualità e le rifiniture della V16 e della V12 erano dello stesso livello mentre la differenza di prezzo era quasi il , creando un dannoso quanto simile problema di auto-concorrenza. Al fine di aggiustare la situazione e diminuire i costi di produzione in quel difficile periodo di crisi congiunturale, nel 1937 l’ingegner Seaholm fu incaricato di progettare un nuovo motore V16 il quale, pur mantenendo le medesime caratteristiche di potenza, silenziosità ed elasticità, risultasse di fabbricazione più economica: nello stesso tempo la 452 e la V12 cessarono di essere prodotte. Ridisegnando un nuovo monoblocco, nel quale i cilindri erano disposti su due file con un angolo di e riutilizzando appena la metà dei particolari del motore precedente. Seaholm realizzò un motore, siglato tipo 90, più compatto e più leggero di . L’alesaggio/corsa era con cilindrata ridotta a e con un ordine di accensione differente. Il manovellismo riposava su bronzine di banco e la distribuzione non era più in testa ma a valvole laterali con camera di compressione ad L. Disposte all’interno del V dei cilindri, le valvole erano comandate da un solo asse a camme, al centro del motore, i cui eccentrici erano a contatto diretto con i pistoncini idraulici di pressione in testa alla coda delle valvole, che era piuttosto lunga. Per facilitare le operazioni di manutenzione molti accessori, quali i distributori di accensione, le candele, i carburatori, le bobine alta tensione e la pompa di alimentazione furono sistemati sopra il motore e tra le due bancate. Anche se la nuova disposizione e regolazione degli organi pulsanti migliorò il funzionamento del motore, le prestazioni furono deludenti. Il passaggio dei collettori di scarico sopra il motore, inoltre, causò continui problemi di regolazione e surriscaldamento, incomodando anche i passeggeri. Decisa in un momento poco propizio, i molto più economici motori V8 avevano progredito considerevolmente, questa operazione di rifacimento di rivelò fallimentare. Nei quattro anni durante i quali il motore Cadillac tipo 90 V16 fu fabbricato, la produzione superò di poco le unità. Figura 66 – Il motore cilindri a V di della Cadillac serie 90 del 1937. Figura 67 – Complessivo in sezione trasversale del motore cilindri a valvole laterali della Cadillac serie 90 del 1937. Alfa Romeo 316 – Italia – 1938 – Cat. C Dopo aver realizzato, alla fine del 1935, una vettura da “record” munita di due motori a cilindri in linea, uno anteriore ed uno posteriore al sedile del pilota, alla fine del 1937 l’Alfa Romeo decise di produrre una vettura monoposto da competizione con motore a cilindri. Incaricato dello studio fu l’ingegner Gioacchino Colombo il quale, nella primavera precedente, era stato mandato a Modena dalla Casa milanese per dirigere l’ufficio tecnico della Scuderia Ferrari che, com’è risaputo, all’epoca era praticamente il reparto corse dell’Alfa Romeo. Colombo aveva da poco completato lo studio del motore tip0 158 (cilindri) che era in fase di montaggio: per l’Alfa 316 ( cilindri) impiegò due biblocchi della 158 affiancati su un carter comune con un angolo di . Con alesaggio/corsa la cilindrata totale risultò di . Realizzati in lega leggera i quattro blocchi di cilindri erano a testata fissa con canne in acciaio avvitate mentre le sedi e le guide delle valvole erano riportate in lega di bronzo. Nelle camere di compressione emisferiche le due valvole per cilindro, entrambe di di diametro con piattelli di registro, erano contrapposte con un angolo di . La distribuzione a assi a lobi eccentrici, alloggiati dietro le bancate, convergenti su un ingranaggio centrale di connessione con presa di forza sull’albero motore, sul quale si inserivano anche gli ingranaggi di comando dei due compressori volumetrici alloggianti nel “V” dei cilindri; sormontati dal proprio carburatore doppio, col rapporto giri/motore di ogni compressore alimentava una fila di cilindri, completa del proprio manovellismo. Questi giravano su bronzine antifrizione ciascuno, mentre le bielle erano montate su cuscinetti a rullini. I due motori tipo 158 erano montati in un basamento di disegno particolare realizzato in lega di magnesio (elektron). La lubrificazione a carter secco era ad alta pressione con una pompa di mandata e due di ritorno al serbatoio separato dell’olio. I due alberi motore ingranavano su un pignone riduttore centrale; con un rapporto volumetrico di compressione il motore erogò a , ridotti a sull’albero primario di trasmissione al cambio di velocità, a rapporti più retromarcia che era montato in blocco col ponte posteriore. Figura 68 – Il motore da corsa Alfa Romeo tipo 316 del 1938. Visto dal davanti. Figura 69 – Il motore da corsa Alfa Romeo 316 del 1938 visto dal lato della trasmissione. Costruito in tre esemplari il motore tipo 316 fu montato sul telaio a quattro ruote indipendenti della monoposto 12C del 1937. Dopo i collaudi a Monza, nel maggio del 1938, durante le prove del Gran Premio di Tripoli, davanti alle potentissime Mercedes W 125, l’Alfa 316 fece registrare il giro più veloce sul Circuito della Mellaha con , ma la vettura non fu iscritta alla gara. Nel 1939 un esemplare, notevolmente perfezionato per contrastare lo strapotere delle Auto Union V12 tipo D e delle Mercedes Benz tipo W 163, capace di oltrepassare i , partecipò al Gran Premio del Belgio, ma dovette abbandonare a metà corsa causa il funzionamento irregolare del motore. La sua ulteriore messa a punto fu interrotta dalla Seconda Guerra Mondiale. Figura 70 – Disegni della monoposto da corsa Alfa Romeo. Motore cilindri litri tipo 316 del 1938. Figura 71 – Complessivo in sezione trasversale del motore Alfa Romeo tipo 316. Figura 72 – Gran Premio di Tripoli 1938. Appoggiato al volante, Clemente Biondetti in paziente attesa delle ultime regolazioni per le prove di qualificazione. Malgrado un promettente di media sul giro, l’Alfa 316 non disputò la gara. Talbot-Lago Grand Prix – Francia – 1939 – Cat. D Nel 1934 la società anglo-francese Sunbeam Talbot Darracq, le cui origini risalivano al 1903, passò sotto il controllo del gruppo Rootes. I nuovi dirigenti delegarono l’ingegnere Antonio Lago, specialista di cambi di velocità epicicloidali Wilson a preselezione manuale della Sunbean, quale direttore generale del ramo francese il cui stabilimento, creato da Alexander Darracq nel 1893, era a Suresnes al n. 33 del Quai Galliéni. Nato a Venezia nel 1893, Antonio Lago si era laureato in ingegneria meccanica al Politecnico di Milano nel 1915. Ufficiale del Genio militare durante il primo conflitto europeo, alla fine del 1918 fu congedato col grado di maggiore. Nel 1920 ottenne la rappresentanza generale della Isotta Fraschini per l’Inghilterra e si trasferì a Londra ma qualche anno più tardi, conservando una quota del capitale sociale, cedette l’impresa per entrare alla Sunbeam di Wolverhampton. Poco conosciuto in Italia era, invece, molto noto in Inghilterra come Major Tony Lago ed in Francia dove era chiamato Monsieur Antoine Lagò. Tecnico di valore Antonio Lago aveva dimostrato notevoli doti di amministratore ed organizzatore e, pur conservando il posto direttivo raggiunto alla Sunbeam, alla fine del 1934 si trasferì a Parigi dove ritrovò l’amico Walter Becchia e l’ingegner Vincenzo Bertarione, mandato dalla società madre a dirigere l’ufficio progetti della Talbot francese una decina d’anni prima. Sostituito Bertarione con Becchia, in poco tempo Lago ridiede smalto al blasone della declinante società, producendo una varietà di nuovi e moderni autotelai per vetture da turismo, sport e competizione. In previsione della nuova formula -litri sovralimentata del 1939, fin dall’estate 1938 Antonio Lago incaricò l’ingegner Walter Becchia, assistito dal collega Giulio Marchetti, di progettare una nuova monoposto Grand Prix con motore a cilindri. Per finanziare la ricerca su di una vettura da competizione capace di contrastare le Auto Union e le Mercedes Benz, la Società Talbot-Lago (Antonio Lago aveva, nel frattempo, acquisito la proprietà della Talbot francese) ottenne la sovvenzione statale di franchi, raccolta dall’aumento della tassa sulle patenti di guida, corrispondenti ad una ventina di miliardi di lire attuali (1994). Malgrado fossero realizzati diversi particolari; monoblocco, carter, albero a manovelle, bielle e pistoni, nessun motore fu mai assemblato. Esso doveva essere costruito da un monoblocco di cilindri a V di realizzato in alluminio con canne in acciaio riportate. La cilindrata era di con misure alesaggio/corsa , le medesime del motore Talbot a cilindri in linea disegnato da Bertarione nel 1927, del quale si dovevano utilizzare le bielle ed i pistoni. L’albero a manovelle era ottenuto per fresatura di una grossa barra d’acciaio forgiata ed aveva supporti di banco di di diametro e di larghezza, montati su rullini a doppia corona di mantenuti da conchiglie registrabili ed il manovellismo era inserito sotto il vertice del “V” dei cilindri. Le bielle in acciaio forgiato avevano lo stesso tipo dei cuscinetti a rullini del manovellismo e di misure identiche, ed erano montate due a due nel modo usuale. L’albero motore comandava, sul davanti, una cascata di ruotismi che metteva in moto due compressori volumetrici d’alimentazione, uno per bancata, due magneti d’accensione e due assi a lobi eccentrici, uno per fila di cilindri. Le due testate smontabili erano munite di coperchi, uno ogni due cilindri, ed avevano le sedi e le guide delle valvole riportate in lega al bronzo fosforoso. Le valvole, due per cilindro e di di diametro entrambe, erano richiamate da molle elicoidali, con la molla centrale a spirale contraria, ed erano contrapposte co angolo di . Gli alberi a camme comandavano le valvole di scarico, con l’interposizione di una linguetta oscillante, mentre quelle di aspirazione erano comandate da un’asta trasversale e da un bilanciere ognuna. Le camere di compressione erano emisferiche ed i pistoni in alluminio forgiato avevano testa a cupola, segmenti di compressione ed un raschiaolio doppio. I due compressori volumetrici erano sincronizzati, aspiravano da due carburatori Solex doppi, montati ai lati del monoblocco, e pompavano la miscela nei collettori sistemati al centro del “V” dei cilindri mentre i collettori di scarico erano esterni. Il raffreddamento era assicurato da una grossa pompa centrifuga di circolazione a due vie, montata sul lato sinistro del monoblocco, e la lubrificazione era con due pompe ad alta pressione; una per la distribuzione ed una per l’imbiellaggio con una pompa supplementare per il ritorno dell’olio nella coppa. Figura 73 – Complessivi in sezione traversale del motore V16 Talbot del 1939. Sezione (a) all’altezza dei primi due cilindri; (b) all’altezza degli ultimi due; (c) complessivo in elevazione frontale. Figura 74 – Disegno di fabbrica della monoposto Talbot Grand Prix del 1939. Il motore a cilindri di litri non fi costruito e fu sostituito da un cilindri a compressore di . Il motore Talbot-Lago V16 non fu mai completato ma, secondo i calcoli, con rapporto volumetrico di compressione avrebbe dovuto erogare a . Antonio Lago rimase alla testa della Talbot francese fino al 1959, quando l’azienda passò sotto il controllo della SIMCA di Enrico Teodoro Pigozzi. Lago morì a Parigi nel 1960. Alfa Romeo 162/163 – Italia – 1940 – Cat. B Nel 1937, dopo quindici anni di collaborazione, Vittorio Jano si dimise dall’incarico di capo-progettista dell’Alfa Romeo. Per sostituirlo, mentre Gioacchino Colombo era ancora a Modena, fu chiamato l’ingegnere spagnolo Wilfredo Richart, specialista di camere di esplosione ad alta turbolenza. Alla fine del 1939 disegnò la monoposto Alfa tipo 162 con un progetto ex-novo costituito da due monoblocchi a cilindri in linea, a testate smontabili e canne in acciaio nitrurato sostituibili, realizzati in lega leggera in una fusione unica comprendente i due semi-carter e disposti secondo un’angolazione di . Con l’interposizione di linguette oscillanti la distribuzione a assi a lobi eccentrici comandava valvole per cilindro, contrapposte in una camera di compressione a tetto con un angolo di . Le valvole di aspirazione avevano di diametro, quelle di scarico di diametro ed erano tutte richiamate da doppie molle a spirale orizzontale chiamate, in gergo, molle a spillo. Figura 75 – L’ingegner Wilfredo Richart al volante della monoposto Alfa Romeo 162 si appresta alla sola prova su strada effettuata dalla vettura. Figura 76 – L’unico autotelaio Alfa Romeo 162 in attesa di essere completato dalla carrozzeria. Figura 77 – Complessivo in sezione trasversale e longitudinale del motore Alfa Romeo tipo 162 cilindri a V di , quattro alberi a camme, quattro compressori volumetrici. L’alimentazione a doppio stadio era prevista con compressori volumetrici a lobi, montati sopra il motore; due a bassa pressione e due ad alta pressione con un centrifugatore e due carburatori triplo corpo invertiti. La lubrificazione era assicurata da una voluminosa pompa ad ingranaggi ad alta pressione e da pompe di recupero e ritorno al serbatoio separato di litri di capacità. L’alesaggio/corsa davano un totale di di cilindrata e l’albero a manovelle, del tipo “a dischi”, in acciaio da cementazione era in due tronchi riuniti da un cono, munito di contrappesi e di antivibratore. Sia gli alberi a camme, anch’essi in due tronchi, che l’albero a manovelle erano montati su cuscinetti in acciaio, quello centrale era doppio, rivestiti in lega antifrizione rame-indio, mentre le bielle forgiate, con pistoni a testa a cupola, giravano su cuscinetti a rullini. L’assieme della distribuzione e dei compressori d’alimentazione era comandato posteriormente, con presa di forza sull’albero motore, da un gruppo di ruotismi a dentatura diritta montati su cuscinetti di rotolamento. Con rapporto volumetrico di compressione il motore Alfa erogò a poi, convenientemente regolato, raggiuse i a , ma era prevista la potenza teorica di a . Il motore fu installato in un robusto telaio costituito da longheroni stampati e traverse tubolari saldate. L’indipendenza delle ruote anteriori era ottenuta con molle elicoidali guidate da cilindri telescopici verticali mentre l’assale posteriore era del tipo De Dion, con incorporato il ponte-cambio a rapporti più retromarcia, e l’indipendenza delle ruote era guidata da barre di torsione longitudinali. Il consumo di carburante fu calcolato in così, per una autonomia di la vettura fu dotata di un serbatoio posteriore di litri e di due serbatoi laterali di litri ciascuno. La vettura aveva di passo con carreggiata anteriore e posteriore e massa totale, a secco, di . Furono fabbricati tutti gli elementi necessari alla costruzione di esemplari, ma una sola vettura fu completata e collaudata una sola volta, pochi giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia. All’inizio del 1941, per disputare le gare della Formula Sport, un motore tipo 162, dal quale furono tolti i compressori, fu montato in posizione centrale sul telaio prototipo serie 512, modificato per ricevere una carrozzeria aerodinamica, 2 porte, 2 posti, interamente carenata e siglata tipo 163, ma la sua prosecuzione, quando mancavano poche rifiniture, fu abbandonata causa il conflitto. Figura 77 – Complessivo in sezione longitudinale ed in pianta dell’Alfa Romeo tipo 163 che utilizzava il motore da corsa tipo 162 aspirato. BRM V16 – Inghilterra – 1950 – Cat. C Nel 1947, appena costituita, la British Racing Motors avviò la costruzione di una vettura Grand Prix per la formula 1.500 a compressore. Presentata ufficialmente nel 1949, la vettura aveva un poderoso motore costituito da due motori V8 biblocco, riuniti tra loro da un complesso meccanismo di ruotismi in serie che collegava i due manovellismi, comandava la distribuzione a assi a camme in testa ed il compressore centrifugo d’alimentazione a due stadi fornito dalla Roll-Royce. I quattro monoblocchi di cilindri ciascuno erano allineati su bancate che formavano tra loro un angolo di e la distribuzione, a valvole per cilindro, raffreddate al sodio e richiamate da mollette “a spilla da balia”, erano contrapposte con un angolo di . L’alzata delle valvole era stata ridotta al minimo indispensabile di al fine di ottenere il massimo regime di rotazione possibile. Il motore era stato studiato, inizialmente, per essere alimentato da un meccanismo di iniezione diretta che però si rivelò inefficace appunto per il limite imposto all’apertura delle valvole e fu subito sostituito da un voluminoso compressore a doppo stadio Rolls-Royce che girava volte il regime di rotazione del motore. Tuttavia, i tecnici non riuscivano ad ottenere i a sperati, dovendosi accontentare di a , potenza oltre la quale il BRM V16 non riuscì mai ad innalzarsi. Il telaio della nuova monoposto fu definito, all’epoca convenzionale: aveva una sospensione anteriore a doppie biellette tirate, introdotta da Ferdinand Porsche sulle Auto Union, mentre quella posteriore era a ponte De Dion, come sulle Mercedes Grand Prix del 1939. Nel ponte posteriore era incorporato trasversalmente un cambio di velocità a rapporti più retromarcia. I quattro blocchi-cilindro erano in lega leggera con canne di acciaio umide riportate. Alesaggio/corsa e cilindrata totale di ; la potenza erogata fu di a poi si elevò a a con rapporto volumetrico di compressione e velocità massima di . I assi a camme e l’albero motore, tutti in tronchi, giravano ognuno su cuscinetti a rullini ed il compressore centrifugo a due stadi, montato sul davanti del motore, era alimentato da carburatori SU. L’asse longitudinale del motore non era allineato con quello della vettura, ma era deviato verso la destra per permettere all’albero di trasmissione, dal motore al cambio posteriore, di passare sul fianco sinistro del pilota. Figura 78 – Complessivo in sezione prospettica del cilindri da competizione costruito dalla British Racing Motors per la Formula 1 del 1950. Figura 79 – Sezione trasversale del motore BRM V16 all’altezza dei due cilindri posteriori. Notare le molle a spillo di richiamo delle valvole, già adottate dall’Alfa Romeo dieci anni prima. Figura 80 – Complessivo in prospettiva della monoposto di Formula 1 BRM a motore cilindri a V di . Figura 81 – Il vano motore della monoposto BRM , cilindri del 1950. Dal 1950 al 1955 la BRM partecipò a 73 corse vincendone 19, tutte di secondo piano, ma fu costretta al ritiro per noie meccaniche in 24 gare mentre nelle altre ottenne solo dei piazzamenti. Coventry Climax FW/MW – Inghilterra – 1965 – Cat. C È risaputo che la città di Coventry è la culla dell’industria metalmeccanica inglese. Nel 1903 un oscuro meccanico di nome Pelham Lee impiantò una piccola officina per costruire motori per conto terzi. L’originaria Coventry Simplex Ltd del 1917 divenne la Coventry Climax Ltd, reputata produttrice di motori di qualità per mezzi antincendio, innaffiatrici stradali e per manutenzione. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, a dirigere l’ufficio studi fu chiamato l’ingegnere Wally Hassan, tecnico di talento che aveva lavorato per W. O. Bentley, la ERA e la Jaguar, il quale abbordò lo studio di nuovi motori per autopompe come se dovesse progettare dei motori da corsa, trascinando l’azienda nell’ambito dei fabbricanti di automobili da competizione, diventandone una fornitrice rinomata. La ricerca sistematica del rendimento, della resistenza e della leggerezza condusse la Coventry Climax a produrre motori altamente competitivi siglati FW (“Feather Weight”, peso piuma). Nel 1965 la serie FW culminò nel motore cilindri FWMW costruito per la formula aspirata. Lo scopo di questo studio, impostato alla fine del 1964, mirava a due obiettivi principali: ridurre l’ingombro dei turbocompressori, raggiungere la mitica potenza specifica di che parve assillare gli ingegneri dell’epoca. La progettazione fu indirizzata, in un primo tempo, verso lo studio di un motore cilindri a “V” di che però fu accantonato perché il suo baricentro risultava troppo alto e non era possibile accollarvi un cambio di velocità già esistente. Walter Hassan e Harry Mundy, i due ingegneri della Coventry Climax, pensarono allora di adottare la disposizione dei cilindri a V invertito, chiamato anche “ala pendente”, ma vi rinunziarono quasi subito causa i problemi che avrebbero incontrato nel disegno dei collettori di scarico e le difficoltà nel posizionare un motore di quella forma nei telai da competizione. La soluzione adottata fu quella del motore con cilindri orizzontali contrapposti, costituito da due motori “flat-8” riuniti al centro tramite l’interposizione di tutta la serie di ingranaggi necessari alla presa di forza per il comando della distribuzione e della demoltiplicazione finale. Questa soluzione permise anche di ridurre i costi di fabbricazione poiché comportava monoblocchi a cilindri, alberi a manovella e assi a camme divisi in tronchi, un frazionamento che facilitava le fasi di lavorazione dei vari elementi. I alberi a manovelle, forgiati e contrappesati, erano induriti in superficie mediante un trattamento di nitrurazione ed erano sopportati da bronzine in metallo antifrizione di grande diametro. Le bielle anch’esse forgiate in acciaio e gemellate, uno per lato, sui bottoni di manovella, giravano su cuscinetti ad aghi. I pistoni, in lega leggera e mantello ridotto, avevano disegno elaborato, con testa a cupola ad incavi corrispondenti all’alzata delle valvole. Le camicie dei cilindri, del tipo umido, erano in ghisa acciaiosa e riportate nei monoblocchi dal disopra. I monoblocchi, le testate ed i semi-carter furono realizzati in lega leggera con tutte le canalizzazioni interne forate nella massa e le camere di compressione emisferiche avevano valvole per cilindro contrapposte con un angolo di . Figura 82 – Il motore di Formula 1 Coventry Climax tipo FWMW di è l’unico motore cilindri “boxer” costruito. Figura 83 – Una delle testate smontabili del Coventry Climax cilindri “boxer” mostra le camere di compressione perfettamente emisferiche. Figura 84 – Il motore cilindri della Coventry Climax in fase di assemblaggio. Calettati su un pignone centrale a denti, i manovellismi erano sfasati tra loro di mentre la sfasatura delle manovelle era . Una volta montato l’albero motore girava su supporti di banco con le bielle molto corte, la distanza tra il centro dell’asse del pistone e del piede di biella era di . L’alesaggio/corsa era con una superficie totale dei pistoni di ed una cilindrata totale di . La potenza erogata fin dal primo collaudo al banco risultò essere quella calcolata a tavolino con a . Nella primavera del 1965 furono assemblati quattro esemplari del Coventry Climax tipo FWMW e le fasi di messa a punto e collaudo al banco condotte rapidamente poi, mentre era allo studio l’applicazione di turbo compressori, da montare uno per lato al motore, lo sviluppo del cilindri fu sospeso. In giugno la Jaguar Cars Ltd, che non aveva intenzione alcuna di tentare l’avventura della Formula 1, aveva rilevato in blocco l’intero reparto motori da corsa e la Coventry Climax tornò ad occuparsi di motopompe e di carrelli elevatori. BRM H16 – Inghilterra – 1966 – Cat. B Per la formula litri senza compressore, nel 1966 la BRM costruì un motore da competizione a cilindri la cui architettura ad “H” era stata introdotta nel 1924 da Ettore Bugatti per un motore d’aviazione costruito per Louis Breguet. Il vantaggio principale della disposizione dei cilindri ad “H” risiede nella maggiore compattezza della meccanica col massimo frazionamento della cilindrata in numero di cilindri. Il motore Bugatti H32 per aviazione consisteva in due motori U16, uno rovesciato sotto l’altro, con i alberi a manovelle che ingranavano sul meccanismo riduttore dell’asse dell’elica. Gli ingegneri della British Racing Motors adottarono lo stesso principio ma per ovvie ragioni di ingombro la “H” fu disposta orizzontalmente. Figura 85 – Il motore BRM H16 in fase di assemblaggio. Una volta riuniti i due monoblocchi di cilindri formavano un assieme molto compatto. Figura 86 – Complessivi in pianta (a), laterale (b) e posteriore (c) del motore BRM H16 costruito per la formula litri. Il complessivo in sezione trasversale (d) illustra la disposizione dei manovellismi orizzontali, della distribuzione e dei ruotismi anteriori di comando. Figura 87 – Una volta completato il motore BRM H16 si presentava come un poderoso monolito che però fu abbandonato causa la delicatezza della messa a punto e gli alti oneri di costruzione. Il motore fu costruito impiegando monoblocchi di cilindri assemblati su due piani, costituendo, di fatto, due motori cilindri “boxer” sovrapposti ed il gruppo era talmente compatto da risultare lungo , alto e largo . I blocchi a cilindri erano i medesimi del motore BRM V8 del 1961. Le forme di fonderia furono modificate ed accoppiate per formare un monoblocco ad “U” di cilindri. Impiegando leghe ultraleggere al magnesio, la massa complessiva del motore risultò inferiore a . I due monoblocchi erano chiusi, su entrambi i lati, da due testate in lega leggera nella cui mass erano ricavate le camere di compressione emisferiche, i passaggi dell’acqua e le canalizzazioni di aspirazione e scarico. Le valvole erano due per cilindro, con guide e sedi riportate, ed erano contrapposte con un angolo di . La distribuzione era costituita da assi a lobi eccentrici in testa, comandate sul davanti ad gruppi di ingranaggi ciascuno con presa del moto sui manovellismi. Le canne cilindri, del tipo umido, erano in lega d’alluminio, cromate internamente e montate con due anelli di tenuta in gomma. I due alberi a manovelle, forgiati e contrappesati, erano induriti in superficie con trattamento di nitrurazione, sfasati tra loro di e sopportati da grosse bronzine in metallo antifrizione. Le bielle, forgiate in lega leggera, erano gemellate una per lato, guidate da cuscinetti a rullini ed i pistoni in alluminio avevano testa a cupola con incavi per l’alzata delle valvole e mantello ridotto. Per questo motore, il cui regime di rotazione era molto elevato, i sistemi di lubrificazione e raffreddamento furono studiati accuratamente. Tutte le canalizzazioni erano fresate nella massa dei particolari e calibrate; sotto l’ingranaggio inferiore della trasmissione nella parte posteriore del motore, era alloggiata la pompa di lubrificazione ad alta pressione che aspirava olio dal serbatoio separato e lo mandava in una scatola di derivazione, posta sopra il motore, e da qui alle canalizzazioni dei supporti di banco, ai bottoni di manovella ed agli assi a camme. Dietro la pompa principale di mandata ve n’era una di recupero a tre ingranaggi che provvedeva a ridurre la velocità del flusso prima di mandarlo al serbatoio. L’olio era depurato da un voluminoso filtro posto sopra la scatola di derivazione, ma poteva essere spostato, per ridurre l’ingombro del motore in altezza. Altre due pompe più piccole, comandate sul davanti dagli ingranaggi degli assi a camme dello scarico inferiore provvedevano a recuperare l’olio che si accumulava nei carter della distribuzione. Il raffreddamento era invece doppio, con un circuito indipendente per ogni monoblocco e due pompe centrifughe di circolazione del liquido, montate sul davanti e comandate dagli ingranaggi degli assi a camme inferiori. Il ritorno dell’acqua al radiatore avveniva attraverso cinque passaggi superiori per monoblocco, ricavati tra i collettori di scarico e l’asse a camme delle valvole di scarico. Nella parte posteriore del motore due ingranaggi a dentatura diritta, calettati sui due alberi motore, comandavano l’ingranaggio centrale della trasmissione. Il motore era alimentato ad iniezione, con due pompe sistemate sui coperchi della distribuzione e gli iniettori coassiali alle trombette di aspirazione. Le pompe erano comandate da cinghie dentate mentre il distributore di accensione a transistor, con una sola candela per cilindro, era montato sul davanti del motore ed azionato da dischi a frizione, uno per ogni albero a camme superiore. Per questo motore, che aveva misure alesaggio/corsa con cilindrata pari a , i tecnici avevano previsto la potenza di a e di avvicinare i dopo le inevitabili regolazioni, ma non riuscirono ad andare oltre i a . Alla fine della stagione di Formula 1 del 1966, con la Lotus a motore posteriore BRM H16, Jim Clark vinse il Gran Premio degli USA poi l’entusiasmo della Casa per il cilindri cominciò a diminuire. Le difficoltà di fabbricazione e la laboriosità della messa a punto divennero estremamente onerose così l’ufficio studi fu indirizzato verso un motore V12, meno potente ed esaltante, ma più accessibile e sicuro e nel 1968 la BRM rinunziò al programma H16. Cizeta V16T – Italia – 1988 – Cat. D Alla fine dell’estate del 1988 gli occupanti di un elicottero della polizia stradale che sorvolava le interminabili e solitarie strade che attraversano il deserto Moyave, nel sud della California, videro apparire in lontananza un puntolino che, passando davanti a loro a velocità folle, scomparve in direzione Los Angeles. Il solito automobilista scatenato. Quando, dopo un inseguimento di parecchi minuti, la polizia riuscì a raggiungere il bolide, l’anemometro dell’elicottero segnava la velocità di nodi; . Quella automobile era il primo esemplare della Cizeta V16T, in ordine cronologico l’ultima ed attualmente l’unica vettura in produzione con motore a cilindri. Il suo nome Cizeta è formato calla pronunzia delle iniziali del suo ideatore e la sigla significa “ cilindri a V-Trasversale”. Dopo essere stato molti anni capo-collaudatore alla Lamborghini, all’inizio degli anni ’80 Claudio Zampolli si trasferì a Los Angeles per gestire un commercio di vetture sportive e di lusso, completo di officina meccanica per l’assistenza dei clienti. L’idea di costruire un’automobile che ritornasse ai canoni di estetica, di estro meccanico e di audacia sportiva che avevano caratterizzato gli anni d’oro dell’automobilismo gli venne dopo una visita al Museo dell’Automobile di Briggs Cunningham a Costa Mesa, nei pressi di San Diego. Le straordinarie Duesenberg, le magnifiche Hispano-Suiza e le irripetibili Bugatti furono una rivelazione, una scintillazione improvvisa che ha originato l’ultimo esempio della poderosa vettura sportiva spinta all’estremo limite. Il gruppo moto-propulsore ideato da Claudio Zampolli consiste in un motore a cilindri disposto in posizione trasversale, tra il posto del pilota ed il ponte posteriore, accoppiato ad un cambio di velocità montato perpendicolarmente al motore. Questa soluzione, motore trasversale con trasmissione centrale a “T”, è una novità nell’intorpidito settore dell’automobile sportiva e pare ispirarsi all’estro spregiudicato di Ettore Bugatti, il quale l’avrebbe sicuramente approvata. Il motore consiste in un monoblocco di cilindri, disposto a “V” con n angolo di , nel cui centro è inserito un assieme di ingranaggi a taglio elicoidale che comandano le due catene della distribuzione, gli accessori e la coppia conica primaria della presa di forza rinvio perpendicolare. Il monoblocco, dal disegno assai elaborato, e le testate smontabili, due per bancata, sono realizzate in lega leggera con le guide, le sedi delle valvole e le canne cilindri in acciaio riportate, queste ultime del tipo umido e sostituibili. La distribuzione avviene con valvole di aspirazione e di scarico per ogni cilindro, allineate su due file per ogni bancata e contrapposte con un angolo di con camera di compressione a tetto. Gli assi a lobi eccentrici, ognuno guidati da cuscinetti, sono calettati due a due su una ruota dentata centrale poi assi a camme sono alloggiati in ogni testata e comandati da una catena a maglie per bancata. I pistoni in alluminio con testa a cupola, presentano degli incavi per l’alzata delle valvole e sono muniti di segmenti di tenuta ed raschiaolio doppio. Le bielle forgiate a sezione ad I sono gemellate sui bottoni di manovella e l’albero motore, in due tronchi è ottenuto per lavorazione di barre piene in acciaio forgiato e cementato dopo rettifica; una volta calettato sull’ingranaggio centrale della presa di forza, l’assieme viene bilanciato staticamente e dinamicamente. Come gli alberi della distribuzione il manovellismo gira su supporti di banco e tutti i cuscinetti sono in metallo antifrizione. Essendo trattato come un motore doppio, il Cizeta V16T ha gli impianti di raffreddamento e lubrificazione sdoppiati; ogni gruppo di cilindri, destro e sinistro ha una pompa ad alta pressione che invia l’olio nelle canalizzazioni forate nella massa dei particolari fino alla distribuzione ed una pompa di ritorno del lubrificante nel carter secco. Il raffreddamento è assicurato da due pompe centrifughe esterne, una per lato, per la circolazione del liquido ed i due radiatori sono montati alle estremità del motore, ognuno con la propria ventola azionata da una cinghia dentata e munita di un meccanismo di frizione a mercurio. L’alimentazione ad iniezione è fornita da due pompe a comando elettronico regolate dal sistema “multipoint” e sono montate sopra il motore con i collettori di aspirazione alloggiati nel “V” dei cilindri mentre quelli di scarico sono esterni. Per facilitare l’evacuazione dei gas combusti nella fila di cilindri anteriore, il motore è inclinato verso l’avanti di , una posizione che, inoltre, abbassa il baricentro. Le misure alesaggio e corsa sono con una cilindrata totale di e con rapporto volumetrico di compressione , la potenza erogata al banco è di a , ossia una potenza specifica di . Montato sulla vettura, dotata di marmitte catalitiche, la potenza effettivamente utilizzata scende a a con coppia massima di a . Il disegno della parete esterna del carter monoblocco del basamento nella fila di cilindri posteriore confluisce in una campana centrale nel cui interno è alloggiato il volano porta-frizione bidisco a secco, attraversato dall’albero di trasmissione perpendicolare. Quest’asse collega la trasmissione a doppio T ad una estremità, all’albero motore trasversale tramite una coppia comica ipoide, ed all’altra estremità al differenziale autobloccante con i due semiassi trattori. Accollato al differenziale il cambio di velocità è a sbalzo posteriore con rapporti più retromarcia tutti sincronizzati e con la 4° e 5° velocità surmoltiplicate. Questo insolito propulsore è installato in un telaio portante realizzato con tubi di sezione ellittica in acciaio al cromo-molibdeno, saldati autogeni e rinforzati da traverse e da archi anticollisione. La sospensione è a quattro ruote indipendenti, con parallelogrammi snodabili trasversali e molle elicoidali convergenti con ammortizzatori telescopici incorporati; per il retrotreno, che sopporta la massa del propulsore, gli elementi elastici ed ammortizzatori sono doppi. L’impianto frenante a comando idraulico, con doppio circuito e servocomando, è a dischi autoventilanti e doppia pinza e la direzione ha lo sterzo a cremagliera servoassistito. Rivestita da una carrozzeria porte, posti, realizzata in lamiera d’alluminio, la vettura ha profilo aerodinamico a cuneo con prese d’aria laterali; è lunga , larga , alta ed a pieno carico, con due persone a bordo, ha una massa totale , velocità massima . Figura 88 – Vista posteriore del motore cilindri della Cizeta V16T. Causa la posizione centrale della coppia conica primaria, la posizione della trasmissione perpendicolare è spostata sulla destra. Figura 89 – Il motore della Cizeta V16T inclinato di verso l’avanti. I filtri dell’olio sono accessibili da sotto. Figura 90 – Motore Cizeta V16T. Complessivo in pianta della trasmissione perpendicolare, l’albero a manovelle, la coppia conica primaria, le pompe centrifughe di circolazione del liquido di raffreddamento, la frizione bidisco al carbonio e la posizione del cambio di velocità a sbalzo dei semiassi propulsori. Sommario Premessa 3 Adams – Inghilterra – 1906 – Cat. A 5 Wegscheider – Germania – 1925 – Cat. D 5 Stutz Record – Stati Uniti – 1928 – Cat. B 7 Bugatti 45/47 – Francia – 1928 – Cat. B 9 Duray Special – USA – 1929- Cat. E 11 Maserati V4 – Italia – 1929 – Cat. B 12 Bucciali Double Huit – Francia – 1930 – Cat. B 14 Cadillac 452 – USA – 1930 – Cat. D 16 Sampson Special – USA – 1930 – Cat. C 18 Marmon Sixteen – USA – 1931 – Cat. D 19 Miller 303 – USA – 1931 – Cat. C 22 Peerless (The) – USA – 1931 – Cat. D 24 Maserati V5 – Italia – 1932 – Cat. B 25 Auto Union P-Wagen – Germania – 1933 – Cat. D 26 Nacional Pescara – Spagna – 1933 – Cat. D 30 Trossi Monaco – Italia – 1935 – Cat. E 31 Cadillac 90 – USA – 1937 – Cat. D 33 Alfa Romeo 316 – Italia – 1938 – Cat. C 35 Talbot-Lago Grand Prix – Francia – 1939 – Cat. D 36 Alfa Romeo 162/163 – Italia – 1940 – Cat. B 38 BRM V16 – Inghilterra – 1950 – Cat. C 40 Coventry Climax FW/MW – Inghilterra – 1965 – Cat. C 41 BRM H16 – Inghilterra – 1966 – Cat. B 43 Cizeta V16T – Italia – 1988 – Cat. D 45 Automobili con motore a 16 cilindri Automobili con motore a 16 cilindri 39 40 1