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LA METAPERCEZIONE IN ARISTOTELE: DE AN. III 2, 425B12-261
1. Il contesto
La prima parte di De An. III 2 – capitolo che chiude la trattazione aristotelica della percezione – concerne ciò che può essere chiamato ‘metapercezione’, ovverosia la percezione che si sta percependo secondo l’una o l’altra modalità (vedendo, udendo, gustando etc.). Nel capitolo precedente (III
1) si argomenta che non vi è altro senso oltre ai cinque sensi propri già individuati2 (424b22-425a14), che non vi è un organo né un senso speciale per la
percezione dei sensibili comuni3 (425a14-b24), che l’avere molti sensi, capaci di cogliere il medesimo sensibile comune, rende maggiormente discriminabili i sensibili comuni rispetto ai sensibili propri (425b4-11). La disamina
aristotelica delle capacità psichiche, informata a un principio di parsimonia
ontologica e di economia esplicativa, tende a riportare operazioni cognitive
sofisticate a capacità di base, e la percezione non fa eccezione: le funzioni superiori della percezione sono riportate alle funzioni percettive basilari, per
esempio la percezione dei sensibili comuni alla capacità di percepire i sensibili propri; così anche la ‘metapercezione’, come vedremo, è prestazione genuinamente percettiva nonché riconducibile ai poteri percettivi di base. Il seguito di III 2 ricapitola la teoria per cui l’atto del senso e quello del sensibile sono un unico atto benché con diversa essenza (425a27-426a26) e quella
per cui il senso è una sorta di proporzione o rapporto (λόγος) che può essere distrutto da stimoli eccessivi (426a27-32), e tratta poi della discriminazione percettiva fra sensibili diversi, sia di quella ‘intermodale’ (es. fra bianco e
dolce) che di quella ‘intramodale’ (es. fra bianco e nero), discutendo come
queste siano possibili a partire dall’opera dei sensi propri (426b8-427a14)4.
1 Desidero ringraziare prof. Francesco Ademollo per i pazienti e preziosissimi commenti a una bozza preliminare di questo articolo.
2 I sensi propri sono vista, udito, tatto, olfatto e gusto, ciascuno individuato da un genere proprio di sensibile (rispettivamente: colore, suono, proprietà ‘tangibili’ come durezza
o liscezza e simili, odore, sapore), ciascuno realizzato in un organo (rispettivamente: occhi,
orecchie, cuore, naso, lingua).
3 I sensibili ‘comuni’ sono proprietà percepibili da più sensi: movimento, quiete, figura, grandezza, numero, unità (cfr. De An. II 6, 418a17-19).
4 Sia la discriminazione intermodale che quella intramodale possono essere ‘unificate’
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Così Aristotele si congeda dalla percezione per studiare la phantasia (III 3).
Questa contestualizzazione preliminare di ciò che precede e di ciò che
segue il tema che ci interessa, inquadra quest’ultimo entro una strategia esplicativa generale: percezione dei sensibili comuni, metapercezione, discriminazione percettiva intermodale e discriminazione percettiva intermodale sono
operazioni cognitive sofisticate e complesse5 di cui Aristotele mostra: a) l’essere operazioni della capacità percettiva6 b) l’essere da ultimo riportabili all’integrazione sinergica dei sensi propri di base, senza che si debba postulare il coinvolgimento di ulteriori sensi, organi o parti dell’anima.
2. La struttura dell’argomento
Ciò detto, consideriamo il testo decisivo (scandendone, per comodità d’analisi, i passaggi attraverso numeri e lettere):
1) Dato che percepiamo che vediamo e udiamo, necessariamente o è 1a) con la
vista, che si percepisce che si vede, o è 1b) con altro. 2) Ma lo stesso (senso) sarà della vista e del colore soggiacente. 3) Cosicché o 3a) ci saranno due (sensi) dello stesso, o 3b) lo stesso (senso) sarà di se stesso. 4) Inoltre, se la percezione della vista fosse altra (dalla vista), o 4a) si andrà all’infinito o 4b) lo stesso (senso) sarà di se stesso.
5) Cosicché è meglio che questo sia ammesso del primo (senso). 6) Ma vi è un’aporia: 6a) se infatti il percepire con la vista è vedere, e 6b) si vedrà il colore o ciò che ha
colore, 6c) se qualcosa vede ciò che vede, 6d) anche ciò che primariamente vede avrà
colore. 7) Di conseguenza è chiaro che il percepire con la vista non è una cosa sola.
7a) Infatti anche quando non vediamo, percepiamo con la vista sia il buio che la luce, ma non nello stesso modo. Inoltre 7b) anche ciò che vede è in certo senso colorato: infatti 7b1) l’organo sensorio è ricettivo del ciascun sensibile senza la materia.
Per questo 7b2) anche quando i sensibili sono venuti meno rimangono negli organi
sensorî percezioni e immagini7 (425b12-26).
o ‘non unificate’, a seconda che le proprietà discriminate appartengano allo stesso oggetto
percepito, o a due oggetti differenti; tutte e quattro le possibilità che ne risultano, comunque, rappresentano episodi genuinamente percettivi.
5 Tralascio qui la percezione per accidente, che secondo alcuni (es. CH. KAHN, Sensation and Consciousness in Aristotle’s Psychology, «Archiv für Geschichte der Philosophie»,
1966, pp. 43-81, p. 46, p. 64; ID., Aristotle on Thinking, in Essays on Aristotle’s De Anima,
a c. di M. Nussbaum e A. Rorty, Oxford, Oxford University Press 1995, pp. 359-380; R.D.
HICKS, Aristotle. De Anima, translationwith introduction and commentary, Cambridge, Cambridge University Press 1907, pp. 360-1; J.I. BEARE, Greek Theories of Elementary Cognition.
From Alcmaeon to Aristotle, Chicago, Martino Pub 1906, p. 286) implica la concettualizzazione (ovverosia il νοῦς) dunque non sarebbe prestazione meramente percettiva.
6 Una tesi tutt’altro che scontata: Platone, per esempio, pone qualunque attività di sintesi, soprattutto la discriminazione fra sensibili diversi, come dovuta «all’anima stessa» e non
ai sensi, essenzialmente corporei (cfr. Thaet. 184D-E). Anche Filopono, nel commento al nostro passo (PHILOPONUS, In Aristotelis De Anima Libros Commentaria, Berlin, M. Hayduck
1897, ad loc.) obbietta ad Aristotele che la coscienza di vedere udire etc. è opera di ragione e
intelletto, non della percezione stessa; così anche Simplicio e Damascio, su cui cfr. P. GREGORIC, Aristotle on Common Sense, Oxford, Oxford University Press 2007, p. 175, nota 3: è un
esito in certo senso prevedibile delle letture neo-platonizzanti della psicologia aristotelica.
7 εὶ δ’αἰσθανόμεθα ὅτι ὁρῶμεν καὶ ἀκούομεν, ἀνάγκη ἢ τῇ ὄψει αἰσθάνεσθαι ὅτι ὁρᾷ,
ἢ ἑτέρᾳ. ἀλλ’ ἡ αὐτὴ ἔσται τῆς ὄψεως καὶ τοῦ ὑοκειμένου χρώματος, ὥστε ἢ δύο τοῦ αὐτοῦ
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Il punto (1) esprime un semplice fatto, a noi fenomenologicamente disponibile: si dà il percepire che si vede e che si ode, basta la nostra esperienza ad attestarlo (perciò la prima persona plurale non è casuale): è di questo
fatto, che si cerca una spiegazione in termini di capacità o funzioni psichiche.
Posto il ‘che’ come dato, ci si interroga sul ‘come’, attraverso una disgiunzione esclusiva ed esaustiva (1a)/(1b) posta come necessaria: o è con la
vista, che si percepisce di vedere, o con un’altra percezione/capacità (il femminile ἑτέρᾳ denota qualcosa dello stesso tipo della ὄψις, verosimilmente una
αἴσθησις o una δύναμις)8. Aristotele sembra dare per scontato che la disgiunzione sia esclusiva, dunque non contempla la possibilità che sia con la cooperazione della vista e di qualcos’altro, che percepiamo di vedere. Ad ogni modo, viene tratta una conseguenza (2): lo stesso sarà sia della vista che del colore soggiacente. Ma si tratta di una conseguenza di (1b), o dell’intera alternativa (1a)/(1b)?
Lo ‘stesso’ è lo stesso senso, e ciò ‘di cui’ esso è, è il suo oggetto: dunque lo stesso senso avrà come oggetto sia la vista, che il colore dell’oggetto
che è visto (considerabile come una sorta di sostrato dell’episodio visivo relativo che lo ha come oggetto)9. Da questa conseguenza discende un’altra alternativa (3): o ci saranno due sensi dello stesso (3a), o lo stesso senso sarà di
se stesso (3b). Se (2) è conseguenza solo del disgiunto (1b)10, allora anche l’alternativa (3a/3b), essendo conseguenza di (2), sarà conseguenza solo del disgiunto (1b); se invece (2) è conseguenza dell’intera alternativa (1a)/(1b)11, lo
sarà anche l’alternativa (3a)/(3b). Trovo più plausibile che sia l’intera alternativa (1a)/(1b), a comportare (2) e dunque (3a)/(3b): infatti, sia che sia grazie alla vista, che percepisco di vedere, sia che sia grazie a un altro senso S,
ἔσονται ἢ αὐτὴ αὑτῆς. ἔτι δ’ εἰ καὶ ἑτέρα εἴη ἡ τῆς ὄψεως αἴσθησις, ἢ εἰς ἄειρον εἶσιν ἢ αὐτή
τις ἔσται αὑτῆς· ὥστ’ ἐὶ τῆς ρώτης τοῦτο οιητέον. ἔχει δ’ ἀορίαν· εἰ γὰρ τὸ τῇ ὄψει
αἰσθάνεσθαί ἐστιν ὁρᾶν, ὁρᾶται δὲ χρῶμα ἢ τὸ ἔχον, εἰ ὄψεταί τις τὸ ὁρῶν, καὶ χρῶμα ἕξει τὸ
ὁρῶν ρῶτον. φανερὸν τοίνυν ὅτι οὐχ ἓν τὸ τῇ ὄψει αἰσθάνεσθαι· καὶ γὰρ ὅταν μὴ ὁρῶμεν,
τῇ ὄψει κρίνομεν καὶ τὸ σκότος καὶ τὸ φῶς, ἀλλ’ οὐχ ὡσαύτως. ἔτι δὲ καὶ τὸ ὁρῶν ἔστιν ὡς
κεχρωμάτισται· τὸ γὰρ αἰσθητήριον δεκτικὸν τοῦ αἰσθητοῦ ἄνευ τῆς ὕλης ἕκαστον· διὸ καὶ ἀ
ελθόντων τῶν αἰσθητῶν ἔνεισιν αἰσθήσεις καὶ φαντασίαι ἐν τοῖς αἰσθητηρίοις.
8 P. GREGORIC, op. cit., p. 175, sostiene che l’alternativa sia ristretta non solo alle capacità percettive, in quanto opposte alle razionali, ma anche ai cinque sensi individuali, ad esclusione del senso comune. Ma l’altra capacità non è determinata, ed è difficile capire come si
possa proporre una così bizzarra alternativa, prendendola persino come esaustiva, secondo
cui a farci percepire che vediamo sarebbe o la vista, oppure un altro dei sensi fra udito, olfatto, tatto e gusto.
9 Perché la visione è ad un tempo atto della vista e del visibile, sicché cogliere la vista
in atto è anche cogliere il visibile che la attualizza. Cfr. infra su questo punto.
10 Così, A. KOSMAN, Perceiving that We Perceive: On The Soul III 2, «The Philosophical Review», 84, 1975, pp. 499-519, p. 500; D.W. HAMLYN, Aristotle, De Anima Books II and
III (with passages from book I), translation with introduction and commentary by D.W. Hamlin, Oxford, Oxford University Press 1968, p. 121.
11 Così, C. OSBORNE, Aristotle, De Anima 3.2: How Do We Perceive That We See And
Hear?, «Classical Quarterly» 33 (ii), 1983, pp. 401-411, p. 403; T.K. JOHANSEN, In Defence
of Inner Sense: Aristotle on Perceiving that One Perceives, «Proceedings of the Boston Area
Colloquim in Ancient Philosophy», 2005, pp. 235-276, p. 239, e, in modo oscillante, V. CASTON, Aristotle on Consciousness, «Mind», vol. 111, 444, 2002, pp. 751-815, p. 770 (sembra
però negarlo a p. 765).
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in entrambi i casi sarà vero che lo stesso senso sarà e della vista e del ‘colore
soggiacente’; se con S percepisco che vedo, con S percepirò sia il vedere, che
il colore che la vista vede, indipendentemente dal fatto che il senso S sia identico alla vista o altro dalla vista. E siccome, che sia la vista o un altro senso S
a farmi percepire che vedo (1a)/(1b), ne consegue comunque che lo stesso
senso sarà sia della vista che del colore visto (2), e da ciò (=2) consegue che
o ci sono due sensi dello stesso (oggetto), o un senso sarà di se stesso
((3a)/(3b)), l’intera alternativa (3a)/(3b) consegue alla intera alternativa
(1a)/(1b) attraverso (2). Infatti l’alternativa per cui o ci sono due sensi dello
stesso oggetto, o un senso è di se stesso ((3a)/(3b)), ricalca l’alternativa per
cui o è con la vista, che percepisco di vedere, o con un altro senso ((1a)/(1b)):
se è con la vista (1a), un senso è di se stesso (3b), se è con un altro senso (1b),
ci saranno due sensi dello stesso oggetto (3a) in quanto, posto che il senso S
che percepisce la vista dovrà percepire anche il ‘colore soggiacente’ (2), il ‘colore soggiacente’ sarà oggetto di due sensi, ovverosia della vista e dell’ipotetico senso S con cui percepisco di vedere.
Insomma, se (1a) allora (3b), se (1b) allora (3a), e se (o (1a) o (1b)) allora (o (3a) o (3b)): vi è una relazione condizionale sia fra le alternative come tali (se (1) allora (3)), che fra i corni dell’una e i corni dell’altra (se (1a)
allora (3b); se (1b) allora (3a)): una struttura dialettica complessa e restituita
dal testo in modo denso e contratto, ma abbastanza chiara nelle sue gerarchie inferenziali.
Da un lato è certo che la metapercezione visiva comporta che ci siano
due oggetti dello stesso senso: il senso con cui percepisco di vedere deve cogliere sia il vedere che il colore visto (2); dall’altro a questo stadio di avanzamento dialettico non è detto, invece, che ci siano due sensi per lo stesso oggetto (3a); se infatti è la vista stessa a farmi percepire di vedere (1a), allora
un senso – la vista – sarà di se stesso (3b), sicché non ci saranno due sensi per
lo stesso oggetto, ma caso mai due oggetti per lo stesso senso, in quanto sia
il colore che la vista saranno oggetti della vista.
Perché, se un senso S percepisce la vista, dovrà eo ipso percepire il colore che la vista vede12? Anzitutto perché se il vedere è un ricevere certi colori, percepire il vedere sarà percepire la ricezione di certi colori, dunque i
colori di cui la ricezione è ricezione13; inoltre, come Aristotele ribadisce poco dopo il nostro passo, l’atto del senso e quello del sensibile sono un unico
e identico atto14, per cui percepire la visione del colore C significa percepire
l’attualità del colore C sul senso: è impossibile percepire la passione del paziente senza percepire l’azione dell’agente a essa identica15.
12
D.W. HAMLYN 1968, ad loc., sottolinea la gratuità di questa implicazione.
L’osservazione aristotelica riprende con evidenza un passo del Carmide platonico, in
cui Socrate afferma che non può avere «una visione che vede sé e altre visioni, ma non il colore». (cfr. Charm. 167C-168A).
14 De An. III 2, 425b26-28.
15 A. KOSMAN, cit., e C. OSBORNE, cit., spiegano la cosa in termini analoghi. V. CASTON,
cit., pp. 783-6, obbietta che la sostituzione di un termine co-referenziale, in un contesto cognitivo, non è legittima, dunque da: ‘percepisco G’ e ‘G=F’ non ne segue necessariamente
‘percepisco F’, sicché dal fatto che percepisco una passione del senso S, e che tale passione
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L’idea che ci siano due sensi per lo stesso oggetto pare violare il principio per cui ogni senso ha un suo oggetto proprio16, mentre, sebbene anche il
porre più di un oggetto per lo stesso senso vìola comunque il principio della corrispondenza uno-a-uno fra senso e oggetto, questo pare prima facie più
tollerabile della prima opzione17; peraltro l’alternativa (3b) evita almeno che
ci siano due sensi per lo stesso oggetto, mentre la (3a) comporta la violazione della corrispondenza ‘uno-a-uno’ in entrambe le direzioni: infatti la molteplicità di oggetti per il senso che ci fa ‘meta-percepire’, espressa da (2) è
semplicemente inevitabile (almeno interpretando, come si è fatto qui, (2) come conseguenza dell’intera alternativa (1a)/(1b)), mentre la molteplicità di
sensi è evitabile, con (3b).
L’alternativa (3) sembra presentare due disgiunti equipollenti quanto a
plausibilità, ma in realtà è già implicito che l’idea di due sensi per lo stesso
oggetto sia implausibile; il senso di (3) è: visto che altrimenti ci dovrebbero
essere due sensi dello stesso oggetto, un senso dovrà essere di se stesso18.
Ma solo a questo punto – 4 e 5 – il testo esplicita una preferibilità dialettica per (3b): se a percepire la vista stessa fosse altro (dalla vista), cioè se
fosse vero (1b), oltre a conseguirne l’indesiderabile (3a), ne conseguirebbe la
seguente alternativa (4): o si avrà un regressus in indefinitum (4a) oppure il
regressus sarà scongiurato ponendo, a un certo punto, un senso che sia di se
stesso (4b). Ma a tal punto sarà meglio conferire l’autoreferenzialità alla vi-
è ‘numericamente’ identica a un’azione dell’oggetto O (sul senso S), non ne segue che percepisco l’azione dell’oggetto O su S. Ma è tutt’altro che pacifico che la percezione sia un
contesto opaco al modo della credenza: al contrario, percepire una percezione individuale,
se essa è identica all’attività di un colore sul senso, significa percepire l’attività, anche se non
come attività (o come passione). Peraltro, Aristotele stesso ci autorizza a operare sostituzioni di questo tipo a proposito della percezione, quando afferma : «[…] se chi vede percepisce di vedere e chi ode di udire, e così per tutti gli altri casi, vi è anche qualcosa che percepisce che noi siamo in attività, cosicché possiamo percepire di percepire e pensare di pensare, mentre percepire di percepire e pensare di pensare è percepire e pensare che noi esistiamo, infatti si è detto che l’esistere è percepire e pensare […]» (Et. Nic. IX 9, 1170a2933): se percepisco di percepire, e percepire è esistere, allora eo ipso percepisco di esistere.
Dunque la sostituzione non solo pare legittima in sé, ma è anche operata altrove da Aristotele. Tuttavia, a mio avviso questo passo dell’Etica a Nicomaco parla di qualcosa di più generale della metapercezione che è oggetto di De An. III 2, ovverosia della coscienza di sé da
parte del percipiente e/o del pensante in quanto tali.
16 Lo osservano A. KOSMAN, cit., p. 502, e D. ROSS, Aristotle. De Anima, translation
with introduction and commentary by sir D. Ross, Oxford, Oxford University Press 1961,
p. 275.
17 È vero che anche i sensibili comuni sono percepibili da più di un senso; ma è purtuttavia vero che nessuno dei comuni è l’oggetto proprio di alcuno dei sensi che possono
percepire i comuni: ogni senso individuale, infatti, ha un suo oggetto proprio che non condivide con gli altri sensi individuali (se non per accidens, ma questo è un altro discorso). È
anche vero che la relazione uno-a-uno fra senso e oggetto proprio è problematizzata a proposito del tatto, che pare avere più di un sensibile proprio (duro/molle, ruvido/liscio,
caldo/freddo): cfr. De An. II 11, 422b23-33. Comunque il fatto che ci siano più sensibili
propri per un solo senso, è molto meno problematico del fatto che ci siano più sensi per
un proprio, giacché il ‘proprio’ in questione non sarebbe tale, bensì per natura comune a
più sensi.
18 C. OSBORNE, cit., p. 402, ritiene invece che le alternative siano perfettamente equivalenti, e che Aristotele resterebbe neutro rispetto a quale delle due sia vera. Cfr. infra.
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sta medesima (5), cioè optare per (1a), ottemperando al principio metodologico di parsimonia ontologica e di economia esplicativa. Così si esclude (1b)
con modus tollendo tollens, sulla base della inaccettabilità della sua conseguenza: la conseguenza è un’alternativa un disgiunto dei quali è teoricamente inaccettabile (infinita moltiplicazione dei sensi), l’altro dei quali è dialetticamente indesiderabile, visto che complica l’oggetto da spiegare senza apportare nessun contributo esplicativo che non apportasse già (1a) ma che (1a) apporta
in modo ben più semplice e lineare: se abbiamo da ammettere l’autoreferenzialità di un senso, che questa sia della vista stessa e non di un senso di più
alto ordine. Allora, meglio porre la vista come senso metapercettivo del vedere stesso, piuttosto che un presunto senso ulteriore.
Perché si dà per scontato, in (4a), che se percepissimo la vista con un
senso S, diverso dalla vista, allora ci sarebbe un regresso all’infinito19? Quale tacita assunzione soggiace alla naturalezza con cui Aristotele afferma che
se ci fosse un senso S1 che percepisce l’operazione di un altro senso S0, ci
dovrebbe essere un senso S2 che percepisce l’operazione di S1, e un senso S3
che percepisce l’operazione di S2, et sic in indefinitum? Donde si legittima
questa struttura logico-dialettica da ‘terzo uomo’? Non pare esserci alcunché
di contraddittorio nell’idea che un senso di ordine superiore monitori l’attività di un altro senso di ordine inferiore, senza che il primo sia a sua volta
monitorato né da un ulteriore senso di ordine ad esso superiore, né da se stesso: allora perché il regressus parte?
Evidentemente, per Aristotele una capacità percettiva non può rendermi conscio di qualcosa – nel nostro caso, di un’altra capacità percettiva in atto – senza esser conscia a sua volta, cioè senza che io ne sia conscio: ma allora qualche capacità che me ne renda conscio andrà a sua volta evocata. Pertanto, se percepisco di star vedendo, dovrò percepire, o almeno dovrò poter
percepire, di star percependo di star vedendo: e siccome, ex hypothesi (4a),
percepisco di vedere con un senso diverso dal vedere, allora percepirò di
percepir di vedere con un senso diverso dal percepire di vedere, ché altrimenti ricadremmo nell’ipotesi (4b) cui è preferibile direttamente (1a), cioè nell’ipotesi per cui il percepire di vedere è diverso dal vedere ma percepisce se stesso, cui è (dialetticamente) preferibile l’idea che sia già la vista stessa, a percepire se stessa: appunto, (1a).
Inoltre, è probabile che in questa assunzione pesi, pur implicitamente,
l’atteggiamento ‘fenomenologico’, alla prima persona, marcato dapprincipio
con quel «percepiamo» (425b12): noi percepiamo di vedere, ma percepiamo
anche di percepire di vedere, e così via; in principio nulla osta a risalire indefinitamente quest’ordine ascensionale di livelli nella coscienza riflessiva;
senza commettere anacronismi e andare troppo oltre l’orizzonte teorico aristotelico, possiamo dire che questa ‘esperienza’, se ogni livello ulteriore comportasse un nuovo senso, implicherebbe una indefinita molteplicità di sensi,
mentre se la coscienza di star vedendo fosse prestazione della vista medesima, allora anche la coscienza della coscienza di star vedendo lo sarebbe, senza regressus.
19 Si lamentano della gratuità del regressus, per esempio, A. KOSMAN, cit., p. 504, e V.
CASTON, cit., p. 774.
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Se è vero che percepisco di vedere, non si vede perché non debba percepire di percepire di vedere, e così via: se il percepire di percepire è esso
stesso un percepire, allora, se percepiamo il percepire in generale e come tale, percepiremo anche il [percepire di percepire], e così via; possiamo pertanto accettare questa assunzione come data per via intuitiva, oltreché per via
‘fenomenologica’. Non vi è in vista alcuna ragione sufficiente perché il regressus, una volta inaugurato, debba fermarsi a un certo punto o a un certo ordine, che non sia anche una ragione sufficiente per conferire poteri metapercettivi direttamente alla vista stessa.
Assodata la preferibilità dialettica della vista come candidato alla metapercezione visiva, si solleva un’aporia (evidentemente, le alternative precedenti non erano aporetiche: infatti avevano una via d’uscita) che grava proprio
sull’unica alternativa percorribile, sull’idea che sia la vista, a consentirci di percepire di vedere; ed è proprio per questo che (6) è un’aporia: posto che percepire con la vista è vedere (6a), e che vedere è percepire i colori e gli oggetti colorati (6b), allora il fatto che qualcosa veda ciò che vede (6c) implicherà
che ciò che vede debba essere colorato (6d), in quanto è, appunto, visto20.
‘Ciò che vede’ e ‘ciò che primariamente vede’ non denotano qui il percipiente21, bensì il complesso unitario, ilemorfico dell’organo/capacità: organo e senso-capacità sono identici quanto a numero e a ‘grandezza’ benché diversi in
essere22; l’occhio e la capacità visiva sono lo stesso, giacché l’occhio come materia prossima della visione è il realizzatore della visione e si individua attraverso la prestazione che possibìlita, cui dà luogo: τὸ ὁρῶν ρῶτον è l’organo
in quanto capacità visiva, o la capacità visiva in quanto realizzata in un organo, e questo sinolo ilemorfico vede ‘primariamente’ in quanto ci sono altre
concause, non primarie, del vedere23.
Che dire dell’idea che percepire che si sta vedendo implichi percepire
‘ciò che vede’?24 La ‘parte’ od organo/capacità che vede è il candidato più
naturale come entità percependo la quale si percepisce il vedere stesso (la sua
attività); una percezione, che non sia misteriosa e inspiegabile, della nostra
stessa visione, deve cogliere un particolare – la percezione è del particolare25
e a quale particolare si rivolgerà tale percezione, se non alla nostra ‘parte’ che
realizza la visione medesima? Il percepire che noi stiamo vedendo non potrà
20 Anche questa affermazione pare riprendere il Carmide platonico, in cui Socrate argomenta che «la vista, se vede se stessa, avrà necessariamente un certo colore, poiché le visioni non potrebbero mai vedere qualcosa di non colorato» (cfr. Charm. 168DE).
21 Come crede D. HAMLYN, op. cit., ad loc.
22 Cfr. De An. II 12, 424a25-28.
23 Per esempio, il medium (aria o acqua) e la superficie dell’occhio. In realtà l’organo
della vista è composito, è il sistema [occhi + cuore], e fra le concause non primarie del vedere vi sono anche, per esempio, le vie sanguigne che connettono gli occhi al cuore.
24 A. KOSMAN, cit., p. 502, lamenta la mancanza di cogenza di quest’inferenza, così come D.W. HAMLYN, op. cit., ad loc.
25 Che si parli di percezione del vedere e non di intelligenza del vedere, è già una forte presa di posizione antiplatonica. In Aristotele la coscienza è fenomeno psichico eminentemente percettivo (cfr. CH. KAHN, Sensation and Consciousness… cit.), anche se, naturalmente, esiste anche l’autocoscienza intellettuale o meta-intellezione (cfr. De An. III 4). Cfr. Met.
XII 9, 1074b33-36: «conoscenza, percezione, opinione e ragionamento sono sempre di qualcos’altro, ma di sé come attività collaterale (ἐν αρέργῳ)».
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che darsi come un percepire la parte che in noi sta vedendo come attiva, ovverosia come un percepire una certa condizione di ‘ciò che primariamente vede’. Certo il passaggio a ‘ciò che vede’ non è logicamente necessario, ma è
nondimeno altamente plausibile.
Perché l’aporia è tale? Perché prima facie risulta quantomeno controintuitiva l’idea che il percepire di vedere consista nel vedere il colore dell’organo-capacità visiva, così come è controintuitiva l’idea che l’organo stesso sia
colorato o abbia colore al modo in cui le superfici ambientali hanno colore.
L’aporia ha un’implicita anticipazione in (2): lo stesso senso dovrà essere e della vista, e del ‘colore soggiacente’; se questo senso è la vista medesima, come è oramai risultato preferibile dal primo argomento, a maggior ragione esso sarà ‘del colore’ che la vista vede: non solo perché per percepire
la vista occorre percepire il colore che la vista vede – ciò varrebbe anche se
a percepire la vista non fosse la vista stessa – ma anche perché il vedere è ricevere forme cromatiche da oggetti visti, pertanto il vedere il vedere sarà possibile solo se non solo gli oggetti esterni visti dal vedere, ma il vedere stesso
ha forme cromatiche (cioè colori): il ricevere i colori ambientali dovrà essere esso stesso colorato! L’implicazione ha tutto il sapore di ciò che noi chiameremmo un errore categoriale.
Lo scioglimento dell’aporia è duplice; anzitutto (7) si osserva che dunque26 percepire con la vista non potrà essere una cosa sola (pena, il porre la
ricezione dei colori come colorata a sua volta), e si fornisce un esempio di
‘percezione con la vista’ che non coincide col vedere stricto sensu: quando non
vediamo, percepiamo con la vista buio e luce, ma non allo stesso modo (7a).
Che significa ‘quando non vediamo’, qui? E ‘non allo stesso modo’ riguarda
il diverso modo del ‘percepire con la vista’ il buio quando non vediamo dal
‘percepire con la vista’ la luce quando non vediamo27, oppure riguarda il diverso modo di ‘percepire con la vista’ il buio e la luce quando non vediamo,
rispetto al modo di ‘percepire con la vista’ in cui il vedere stricto sensu consiste, cioè rispetto al vedere i colori delle superfici, quando vediamo28? Le due
questioni sono correlate: trovo plausibile pensare a casi in cui c’è buio pesto
e non vedo nessun colore, non ricevo forme cromatiche proprio perché senza la luce la visibilità delle superfici non si attualizza, eppure ‘percepisco con
la vista’ che c’è buio, e che non sto vedendo alcun colore; questo è un controesempio concreto e intuitivo, disponibile nell’esperienza ordinaria, alla riduzione del ‘percepire con la vista’ al ‘vedere’ come ricevere colori.
In questa interpretazione, la discriminazione del buio dalla luce è l’altro
modo di percepire con la vista rispetto al modo più ristretto consistente nel
ricevere le forme cromatiche. Il discriminare il buio dalla luce è attivo anche
26 Anche se τοίνυν non ha di solito valore avversativo, qui (riga 20) introduce una risposta all’aporia: siccome se il vedere è cogliere colori e il percepire di vedere è un vedere,
anche la vista dovrà essere colorata, e questo è aporetico, di conseguenza è evidente (φανερὸν
τοίνυν) ci dovrà essere un altro modo di ‘percepire con la vista’ che non sia un mero ‘ricevere forme cromatiche’.
27 Così, per esempio, THEMISTIUS, In Libros Aristotelis De Anima Paraphrasis, Berlin,
R. Heinze 1899, ad loc.
28 Così, per esempio, D. ROSS, op. cit., ad loc.
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quando sia buio pesto, in quanto se colgo il fatto che sia buio (proprio per il
fatto che colgo di non cogliere forme cromatiche) colgo eo ipso il fatto che
non c’è luce. Un’altra possibilità, sempre coerente con l’idea che il ‘diverso
modo’ sia il percepire buio e/o luce rispetto al percepire colori, è che citando anche il discriminare la luce, Aristotele alluda alla mia coscienza della presenza di luce o di buio anche quando io abbia gli occhi chiusi, quando io sia
cioè sveglio e vigile ma con le palpebre abbassate: non sto ricevendo colori,
eppure sono in grado di ‘percepire con la vista’ se fuori ci sia buio oppure
luce29. Inoltre, se discrimino il buio dalla luce quando non sto vedendo, è anche vero che discrimino il buio dalla luce quando sto vedendo: non vedo la
luce come tale30, ma percepisco, grazie all’esser la vista attiva nel ricevere colori e grazie al mio cogliere questo stesso suo esser attiva, che non è buio, e
che c’è luce che mi consente di vedere i colori. L’esempio del caso in cui non
sto vedendo colori è un esperimento mentale sottrattivo: prendo un caso in
cui non sto vedendo colori, e mostro che sto percependo certe cose grazie alla vista, cose di un tipo che posso percepire anche quando sto vedendo colori, ma che posso isolare dal vedere i colori, anche argomentativamente, considerando anzitutto il caso in cui sia inequivocabilmente assente la ricezione
di colori: dunque quando sia buio pesto, o quando io abbia le palpebre abbassate31.
Dunque non si tratta solo di un esempio con la funzione generica di aprire lo spazio logico per pensare a un ‘percepire con la vista’ che non sia ‘vedere colori’, ma si tratta già di un esempio specifico, puntuale, di metapercezione visiva: non vedo di non star vedendo, ma percepisco con la vista – o,
se si preferisce, vedo* – di non star vedendo (e quindi, in modo analogo, percepirò con la vista anche di star vedendo, quando sto vedendo). Dunque non
è vero, come (6d) conclude, che se percepire di vedere è operazione della vista allora anche ‘ciò che vede’ dovrà avere colore: ci sono casi ben noti e inequivocabili in cui percepisco con la vista: 1) cose che non hanno o non sono
colore (luce e buio), 2) senza star ricevendo colori (al buio, o alla luce con le
palpebre abbassate).
La seconda risposta all’aporia, sulle prime pare essere alternativa alla pri-
29 Questa ipotesi (delle palpebre abbassate) è stata avanzata informalmente da David
Sedley a Gregoric, che la riporta in P. GREGORIC, op. cit., p. 180. Non capisco la lettura di
T.K. JOHANSEN, cit., p. 250, per il quale il contrasto è fra quando vedo la luce, ma non sto
vedendo nulla di colorato, e quando, al buio, percepisco l’assenza della luce (e dunque dei
colori): non mi è chiaro quando è, che vediamo la luce ma non cogliamo nulla di colorato
(a meno che non si intendano casi come quello delle palpebre abbassate o situazioni analoghe). Di solito, se c’è luce e vedo, vedo qualcosa di colorato: tutto ciò che ha superficie è colorato (cfr. De Sensu 1, 439a30-32). Cfr. De an. II 10, 422a20-23: «La vista è sia del visibile
che dell’invisibile (infatti il buio è invisibile e la vista discrimina anche il buio), e anche di
ciò che è molto risplendente (infatti esso è invisibile ma in modo diverso dal buio)».
30 La luce è atto del trasparente, e il trasparente è invisibile (cfr. De An. II 7, 418b411).
31 Oppure quando, appena ricevuto uno stimolo luminoso eccessivo, il λόγος-proporzione che costituisce il mio senso visivo si corrompe temporaneamente impossibilitando la
visione (situazione cui si allude nel seguito del capitolo, a 426a27-32): anche in questo caso
posso apprezzare in modo ‘in certo senso’ visivo che il mio senso è privo di recettività, che
non è attualizzato dai colori.
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ma risposta: infatti accetta proprio la conseguenza data per aporetica, che ciò
che vede è colorato, perlomeno che lo sia ‘in un certo modo’ (7b). La spiegazione si rifà alla stessa definizione di percezione come ricezione di un certo genere di forme sensibili senza la materia (7b1)32; trascurando qui la vexata quaestio del significato di quel ‘senza la materia’, questa definizione serve
qui per concludere che anche quando il sensibile – la forma cromatica ambientale – non è più presente, restano nell’organo percezioni e immagini
(7b2).
Ma dire che rimangano effetti della percezione nel sensorio, qui è solo
un’osservazione aggiuntiva?
No, è osservazione decisiva dal punto di vista argomentativo: che restino nell’organo percezioni e immagini, significa che le forme cromatiche ricevute, pur senza la materia, permangono oltre lo stimolo ambientale, e dunque possono essere percepite ‘con la vista’: dunque c’è un senso in cui il ‘percepire con la vista’ che si sta vedendo è un cogliere forme cromatiche, ovverosia colori; ma non è un mero cogliere le forme cromatiche ambientali, bensì è un cogliere i loro effetti in noi: le forme cromatiche ricevute nell’organo
visivo dagli oggetti ambientali colorati.
Anche questo, (7b), è un argomento ‘sottrattivo’: si considera il caso in
cui l’oggetto ambientale non c’è più ma rimangono ‘percezioni e immagini’
in noi (esperibili da noi nella modalità visiva), che mostra il fatto che certe
forme cromatiche esperibili non possono essere solo nell’oggetto percepito,
il quale per ipotesi non c’è più; e dunque si fa spazio alla possibilità che anche quando gli oggetti sono presenti, noi abbiamo disponibilità d’accesso
non solo alle forme cromatiche degli oggetti che stiamo vedendo, ma anche
agli effetti della nostra stessa ricezione di queste forme cromatiche nel nostro
senso (organo/capacità), e che il cogliere queste forme cromatiche ricevuteritenute nel nostro senso sia, o possa essere, il nostro percepire di essere in
attività con la vista, cioè di star ricevendo forme cromatiche dall’ambiente
esterno. Così, ad un tempo sono visivamente conscio dell’ambiente e del mio
stesso esserne visivamente conscio, e una cosa dipende dall’altra.
Ma che rapporto logico sussiste fra la prima risposta all’aporia (7a), e la
seconda risposta (7b)? Ritengo che non si tratti di risposte alternative (o vale
l’una, o vale l’altra), né di una giustapposizione dialettica ad abundantiam, ma
che anzi esse vadano lette come articolazioni di un unico argomento complesso, del quale si mancherebbe di cogliere la robustezza se le due risposte si ritenessero isolate, indipendenti o addirittura alternative ma incompatibili.
(7a) distingue ‘percepire con la vista’ da ‘vedere’: benché il ‘vedere’ sia
l’attività propria e individuante della vista e il colore individui cosa è il ‘vedere’ – una capacità è individuata dall’attività rispettiva, un’attività dall’oggetto proprio – il ‘percepire con la vista’ è più esteso del vedere, anche se lo
include: in effetti, ‘percepire con la vista’ significa ‘percepire grazie al vedere’, e il percepire di star vedendo è operazione resa possibile proprio dallo
star vedendo; inoltre non percepisco solo di star vedendo, ma percepisco anche di essere capace di vedere: se è buio, sono conscio della ‘inattività croma-
32
De An. II 12, 424a17-22.
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tica’ del mio organo/capacità visiva, capacità che è comunque attiva in quanto ‘pronta’ a ricevere il colore qualora si desse la luce che, ad un tempo, attualizza senso e colore. La mia capacità visiva è in attività in quanto capacità, se non sto dormendo33 o non sono affetto da cecità: infatti sono, per esempio, in grado di avere l’informazione visiva che non c’è luce.
Dunque il ‘percepire con la vista’ che non è un vedere in senso stretto
(definitorio), è un essere in rapporto al vedere in senso stretto, o come percezione della sua assenza (al buio, o con gli occhi chiusi ma in stato di veglia),
o come percezione della sua presenza e attività (nel caso normale).
(7b) parrebbe rendere inutile (7a): si potrebbe credere che se è vero che
‘ciò che vede’ è in certo modo colorato, allora non si sarà più alcun bisogno
di evocare un significato di ‘percepire con la vista’ che non sia la ricezione
cromatica, che non sia il vedere propriamente detto.
Ma questa apparenza di alternatività fra (7a) e (7b) è fuorviante: il ‘vedere’ metapercettivo che può vedere ciò che è in certo modo colorato (7b) è
solo ‘in certo modo’ un ‘vedere’, è un aver a che fare con la ricezione cromatica in cui il vedere consiste, ma non è una ricezione cromatica propriamente detta. Non vedo i colori dell’organo/capacità (o la loro assenza) nello stesso senso e modo in cui vedo il colore della superficie di una rosa o di una
vacca: dunque il fatto che anche l’organo/capacità è in certo modo colorato,
non è sufficiente a rendere pleonastica o inservibile (7a), cioè il fatto che il
‘percepire con la vista’ possa anche non essere un ‘vedere’ stricto sensu: infatti non lo è nemmeno quel ‘vedere*’ che percepisce il ‘vedere’ grazie al fatto che quest’ultimo comporta l’esser in certo modo colorato del senso. Pertanto (7a) e (7b) sono i momenti reciprocamente necessari di un unico argomento: non essendo punto argomenti indipendenti34, non sono né giustapposti35 né alternativi36.
L’autoriflessività che viene conferita alla vista, per quanto non esplicitata entro una teoria dettagliata, è ben lungi dal comportare la rozza idea per
cui la vista vedrebbe se stessa al modo in cui vede – o meglio, ci fa vedere –i
colori mondani: qui è a tema il ‘come’ – con che capacità, con che senso – si
realizzi la percezione di vedere (si assume come esempio la vista), e si argomenta che si realizza grazie al vedere stesso, anche se non è a sua volta un vedere nello stesso senso in cui il vedere l’ambiente è un vedere. L’autocoscienza del sistema visivo, e percettivo in genere, è una faccenda complessa e irri-
33 La veglia stessa è definita come attività della percezione (con almeno uno dei sensi), in De Somn. et Vig. 1, 454a1-7.
34 Come ritiene P. GREGORIC, op. cit., pp. 179-180, secondo cui De an III 2 presenta
tre alternative: o percepiamo di vedere i) con un senso diverso dalla vista ii) con la vista, vedendo iii) con la vista, ma non vedendo; (7b) favorirebbe (ii) mentre (7a) favorirebbe (iii).
A mio avviso, (7a) e (7b) insieme favoriscono una seconda unica alternativa che è una sorta
via media di fra (ii) e (iii): percepiamo con la vista, ‘vedendo*’, e ‘vedere*’ è aver fare con
qualcosa che è ‘in certo modo’ colorato, un cogliere un λόγος attualizzato nell’organo-capacità, o la sua rottura, o anche la sua ‘inattività cromatica’ (al buio, o alla luce ma con gli occhi chiusi, o di fronte a un risplendere eccessivo, e simili).
35 Come sembra ritenere V. CASTON, cit., pp. 790-791.
36 Come ritiene A. KOSMAN, cit., p. 512-13. T.K JOHANSEN, op. cit., p. 250, riconosce
perlomeno che sono «complementari».
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mediabilmente sfuggente, e non solo per Aristotele: occorrerebbe provare a
esplicitare e sostanziare quel ‘certo modo’ in cui: i) l’organo/capacità è colorato ii) vediamo* di vedere, sulla base della teoria aristotelica della percezione per come è precedentemente espressa.
Noi percepiamo che vediamo grazie alla vista, ma non vediamo che vediamo, sebbene il percepire che vediamo sia attività che ha a che fare col cogliere qualcosa che è ‘in certo modo’ colorato.
Ma prima di provare a comprendere ‘come’ la vista ci possa consentire
di percepire che vediamo, dobbiamo chiederci ‘cosa’ sia la metapercezione
di cui Aristotele sta parlando: qual è il tipo di fenomeno che egli ha in mente, la coscienza visiva costitutiva della visione37, o la ‘auto-coscienza’ riflessiva, introspettiva, che di tanto in tanto ci orienta a considerare e a eleggere a
oggetto la nostra stessa coscienza visiva? O forse una via di mezzo fra questi
due fenomeni?
3. Di che metapercezione si tratta?
Secondo un’opzione interpretativa38, il nostro passo starebbe parlando
della percezione stessa come costitutivamente cosciente, e fungerebbe da risposta alla questione posta sul finire di De An. II 12 e sin qui inevasa, relativa a cosa sia il percepire oltre all’essere un certo subire39: è, appunto, un subire (άσχειν) dell’organo di cui siamo consci, e questo nostro esserne consci,
ovverosia percepirlo, sarebbe ciò che rende quel subire certe affezioni un
percepire, a differenza del subire le stesse affezioni, per esempio, da parte dei
media quali aria o acqua (che ricevono odori ma non li odorano: non ne sono consci): così l’αἰσθάνεσθαι di cui si parla sarebbe la coscienza percettiva,
che rende percezione la percezione. Ecco cosa è la percezione oltre al subire
dell’organo: un subire cosciente.
Ma se così fosse, perché Aristotele dice che percepiamo chevediamo e
udiamo, anziché dire che percepiamo che subiamo colori e odori? Proprio in
sede di determinazione dell’essenza del percepire si concederebbe una tale
ridondanza, una caratterizzazione così approssimativa? Infatti, il vedere e l’udire sono già percezioni, non abbisognano di essere percepite, per essere percezioni40.
Peraltro, se si stesse parlando di percezione simpliciter, che senso avrebbe prospettare l’ipotesi – pur poi dismessa – che non sia con la vista, che si
percepisce di vedere? In quel caso, cosa farebbe la vista, visto che non percepirebbe, diventando essa un percepire solo grazie a quel percepire di cui
ci si chiede grazie a cosa si dà? Sarebbe un subire i colori al modo in cui li
37
Così V. CASTON, cit., p. 755
Proposta da A. KOSMAN, cit., p. 511, pp. 517-18.
39 Cfr. De An. II 12, 427b16-18.
40 Inoltre l’uso di αἰσθάνομαι con ὅτι che regge una clausola proposizionale, solitamente non è usato per descrivere la percezione dei propri, per i quali è preferibilmente usato il
complemento diretto (percepire un colore, o un oggetto colorato): altro indicatore che non
si tratta, dunque, di percezione ‘semplice’.
38
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subisce l’aria? Ma allora perché sarebbe vista, cioè una capacità con un suo
atto psichico-cognitivo corrispettivo, e non semplicemente precondizione fisiologica della vista? Ancora: perché una componente essenziale del percepire – ciò in virtù di cui il percepire è tale! – sarebbe semplicemente omessa
dalla definizione del percepire di De An. II 12, definizione poi spiegata diffusamente attraverso esempi e analogie (seppure da ultimo notoriamente criptiche)? Questa interpretazione mi pare dunque da scartare.
Le evidenze testuali rendono ben più percorribile l’opzione più intuitiva per cui ciò che è a tema è una funzione speciale, superiore e sofisticata dell’anima percettiva e ulteriore alla percezione, e cioè la metapercezione41: altra questione è se si debba intendere per metapercezione una coscienza dello star percependo che accompagna ogni attività percettiva, dunque che sia
costitutivamente associata al percepire, oppure una operazione riflessiva di
tipo introspettivo, sulla propria attività percettiva, che sia contingente e saltuaria (magari, orientabile dalla volontà42), cioè possibile ma non necessaria:
certo è che, in questo secondo caso, sarebbe singolare attribuire un tale potere alla vista.
Una terza possibilità43 è che sia a tema il coglimento contrastivo dello star
percependo (certe cose), per esempio, con la vista piuttosto che con l’udito;
la metapercezione investigata sarebbe la capacità di discriminare la specifica,
distintiva modalità sensoriale secondo cui si sta percependo (qualcosa) in
quanto diversa da altre possibili modalità sensoriali, come il coglier di vedere anziché di udire.
In tal caso, la metapercezione sarebbe un equivalente di più alto ordine
della discriminazione percettiva intermodale: analogamente a come discrimino il bianco dal dolce, così, se sto vedendo percepisco di star vedendo (discriminando colori) piuttosto che di star gustando (discriminando sapori);
non discrimino solo fra colori e sapori (discriminazione percettiva intermodale) bensì anche fra il mio discriminare colori (=vedere) e il discriminare sapori (=gustare), la qual cosa è del resto comprensibile se si tiene conto che è
il genere di sensibile, l’oggetto proprio, a individuare il senso o modalità percettiva (l’organo periferico è diverso di conseguenza: per poter cogliere quel
genere di sensibile). Dunque, non solo per percepire di vedere debbo percepire i colori visti (‘soggiacenti’) ma, se percepisco di vedere piuttosto che di
udire, percepire di star ricevendo colori e non suoni è sufficiente al percepire di star vedendo piuttosto che udendo: l’oggetto determina la modalità.
A supporto di questa idea vi è il fatto che si parli di ‘percepire di vedere e di udire’, ma mai di ‘percepire di percepire’44, il che pare rendere mas-
41
Cfr. CH. KAHN, Sensation and Consciousness… cit., p. 73.
Forse l’uso della prima persona plurale (αἰσθανόμεθα) potrebbe legittimare l’ipotesi che si tratti di prestazione squisitamente nostra, cioè umana. Ma null’altro, di ciò che Aristotele dice, è in grado di confermare o falsificare una siffatta ipotesi.
43 Possibilità sostenuta da Osborne, op. cit., p. 406 sgg. Come si vedrà, non condivido
la linea della Osborne, ma tale lettura ha il raro pregio di sforzarsi di spiegare il passo in
questione secondo i suoi nessi tematici e argomentativi col resto del capitolo III 2.
44 Se non si parla mai di ‘percepire di percepire’ nel De Anima e nei Parva Naturalia;
se ne parla invece nell’Etica a Nicomaco (IX 9, 1170a29-33, come già osservato nella nota
42
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simamente rilevante la metapercezione della modalità specifica secondo cui
si sta percependo, piuttosto che il fatto generico di star percependo.
Tuttavia, tale lettura prevede che il nostro passo non abbia un esito positivo, anzi, che la sua conclusione sia patentemente errata secondo Aristotele stesso45: perché Aristotele dice che è meglio conferire poteri metapercettivi alla vista stessa, se poi la sua teoria positiva sarebbe che vi deve essere
una unità trascendente i sensi individuali che performi la funzione metapercettiva? Infatti, se per ‘percepire che si vede’ si intende ‘percepire che si vede piuttosto che udire, gustare, toccare etc.’, allora è ovvio che una tale operazione cognitiva non possa essere attribuita alla vista46: ma a che pro sondare questa ovvia falsità anche solo come opzione dialettica (per tacere del fatto che è quella evidentemente decretata come preferibile)? E perché mai si
controargomenterebbe contro l’opzione poi favorita mostrando che implica
un inaccettabile regresso all’infinito?47 Mentre non vi è traccia di una contro-replica al problema del regressus, vi sono due argomenti pertinenti e puntuali per sciogliere il presunto status aporetico della tesi per cui è la vista a
farci percepire di vedere: quale mai sarebbe la ratio di sciogliere un’aporia
sorta dall’unica tesi dichiarata percorribile, se questa unica tesi fosse ritenuta falsa dallo stesso Aristotele? Sarebbe un saggio di ginnastica dialettica?
È vero che nel De Somno et Vigilia48 Aristotele sembra negare che sia la
vista, a farci percepire di vedere, e affermare che sia una capacità percettiva
comune a tutti i sensi: ma non si può proiettare la tesi di un altro testo qui
sino al punto di negare ciò che il nostro testo afferma apertis verbis; inoltre,
esistono dei modi per interpretare i due passi in modo compatibilista (cfr. infra), ma anche se non si potesse sarebbe più corretto registrare una incompatibilità (magari da spiegare in termini evolutivi)49 che destituire di autorevolezza la lettera delle affermazioni esplicite del nostro testo di De An. III 2.
A mio parere, il nostro testo parla del «percepire di vedere e di udire»
in senso, per così dire, distributivo: un fenomeno è il percepire di vedere, un
altro è il percepire di udire; poi si assume come esempio la metapercezione
visiva, e se ne ascrive la capacità alla vista medesima dando per scontato che,
14), ma in un passo in cui a tema è qualcosa di più ampio di ciò che è a tema nel nostro passo, ovverosia la consapevolezza di esistere come dei soggetti percipienti (e pensanti).
45 Osborne, cit., la bolla come «inconclusive» (p. 407): sarebbe un’esplorazione dialettica preliminare, poi confutata e superata dalla fine del capitolo nonché da De Somn. et Vig.;
così anche R.D. HICKS, op. cit., ad loc.
46 Lo si argomenta poco dopo, che la differenza fra generi di sensibili deve manifestarsi a «qualcosa di uno» che non può essere uno dei sensi coinvolti. De an. III 2; cfr. anche De
Sensu 7.
47 Poco importa che, come osservano C. OSBORNE, cit., p. 407 (nota 29) e P. GREGORIC,
op. cit., p. 176, il regressus sarebbe evitabile ponendo un senso comune che non percepisca
se stesso; ciò che importa è che Aristotele ritiene che quella opzione comporti il regressus.
48 De Somn. et Vig. 2, 455a12-22.
49 Secondo CH. KAHN, Sensation and Consciousness… cit., I. BLOCK, Truth and Error in
Aristotle’s Theory of Sense Perception, «Philosophical Quarterly», 11, 1961, pp. 1-9, ID.,
Three German Commentators on Common Sense in Aristotle’s Psychology, «Phronesis», 9,
1964, pp. 59-63, C. OSBORNE, cit., il punto di vista ‘maturo’ e positivo di Aristotele è quello
del De Somn. et Vig., non quello di De An. III 2. Come argomento sotto, i passi sono invece compatibili, nonostante le apparenze.
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analogamente, si dovrà ascrivere all’udito la percezione che si sta udendo, etc.
senza alludere affatto alla discriminazione contrastiva fra percezione di star
vedendo e di star udendo.
Qui non è a tema, dunque, la metapercezione discriminativa intermodale o multimodale. Per ricapitolare: si tratta della metapercezione visiva, non della percezione visiva simpliciter (Kosman) né della metapercezione contrastiva
intermodale (Osborne), né della metapercezione multimodale unificata (cogliere di: [vedere + udire + odorare etc.]); la si ascrive alla sola vista, e lo sviluppo dialettico è costruttivo, ha un esito positivo (contra Osborne) e costituisce
un’argomentazione serrata in cui emergono con nettezza la tesi preferita da Aristotele e la natura irrimediabilmente aporetica delle alternative, mentre la natura aporetica della tesi favorita, da ultimo, si palesa essere solo apparente grazie a un duplice ma complementare trattamento dell’aporia medesima.
La metapercezione di cui si tratta non pare però essere nemmeno l’introspezione, operazione volontaria con cui rivolgiamo la nostra attenzione tematica verso la nostra stessa esperienza percettiva50: è infatti un percepire, e
il percepire aristotelico è essenzialmente passivo, cagionato dall’oggetto stesso piuttosto che dal percipiente, mentre la possibilità di attivare una certa cognizione ad libitum è, per Aristotele, appannaggio del solo intelletto, o del
soggetto in quanto ha intelletto51.
Deve invece trattarsi di quel fenomeno meno sofisticato connesso allo stato di veglia, per cui cogliamo in modo spontaneo e immediato che uno o l’altro dei nostri sensi sono attivi nei confronti di un certo oggetto: quella coscienza di star percependo qualche proprietà ambientale, che solo talvolta viene fatta oggetto dalla introspezione tematica volontaria, e che è potenzialmente disponibile alla nostra tematizzazione per il solo fatto che vegliamo, cioè abbiamo i sensi attivi (verso certi oggetti di un certo genere)52. Resta fermo, pace
Kosman, che il percepire di vedere è distinto dalla percezione visiva, benché
con questa intimamente intrecciato da un punto di vista causale e funzionale.
4. Attività o capacità?
Un’altra questione divenuta rilevante nel recente dibattito, è se il nostro
passo parli in primo luogo di capacità, oppure di attività, oppure di entrambe. Caston attacca quella che caratterizza come capacity reading e che identifica con la lettura standard, classica, del nostro passo: secondo quest’ultima,
50
Su ciò concordo con V. CASTON, cit., p. 761.
Cfr. De An. III 4, 429b6-10.
52 Cfr. V. CASTON, cit., p. 771: «It is perceiving that we are undergoing a visual experience with a particular content»: concordo con Caston, anche se ritengo preferibile non adottare la nozione di ‘contenuto’ come strumento ermeneutico, giacché la caratterizzazione semantica degli stati percettivi è cosa che non si riscontra in Aristotele. Più in generale, l’articolo di Caston è di grandissima utilità, ma spesso mi pare indugiare in riletture potenzialmente anacronistiche delle affermazioni aristoteliche mediante un apparato concettuale completamente estraneo ad Aristotele (contenuto, intenzionalità, carattere fenomenico, qualia,
etc.): un’operazione ardita di ermeneutica retroattiva a partire da nozioni posteriori, che può
illuminare ma anche fuorviare.
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ci si chiede se è con la capacità visiva (τῆς ὄψεως, b13) che percepiamo di essere capaci di percepir di vedere, visto che il senso metapercettivo dovrà avere ad oggetto sia la capacità visiva (τῆς ὄψεως, b14) che il colore che la attualizza. Così o ci saranno due oggetti per la stessa capacità, o una capacità sarà
di se stessa (αὐτὴ αὑτῆς, b15). E se fosse una diversa capacità (ἑτέρα, b15), la
percezione della capacità visiva (τῆς ὄψεως, b 15-16), allora o ci sarà un regresso all’infinito (delle capacità) o la stessa capacità sarà oggetto di se stessa (αὐτή
τις ἔσται αὑτῆς, b16), dunque è meglio ritenere la prima capacità (la vista) responsabile della capacità di percepire che si è capaci di vedere. In realtà questa è la versione ‘estrema’ della capacity reading, ma ve ne è anche una ‘moderata’, battuta per esempio da Alessandro53 e Temistio54: secondo quest’ultima
ci si chiede con quale capacità si percepisce di vedere, ma l’oggetto di tale capacità, ovverosia il vedere, è una attività, non una capacità a sua volta; dunque, ci si chiede con quale capacità noi percepiamo l’attività visiva (non: la capacità visiva). Si cerca quale senso-capacità abbia a oggetto un’attività.
In realtà la versione moderata della capacity reading è la più naturale – e
mi pare essere più ‘standard’ di quella ‘estrema’ – ma secondo Caston55 essa
comporterebbe un’oscillazione testualmente inaccettabile fra termini denotanti capacità e termini denotanti attività: ὁρῶμεν καὶ ἀκούομεν (b12) denoterebbero attività, τῇ ὄψει, τέρᾳ, αὐτὴ (b13) capacità, ὁρᾷ (b13) e τῆς ὄψεως
(b14) attività, δύο e αὐτὴ (b14-15) capacità, poi – argomenta Caston – l’espressione αὐτὴ αὑτῆς (b16) dovrebbe denotare rispettivamente capacità e attività, ma il pronome riflessivo non consentirebbe un’alternanza così ravvicinata, al contrario implica che αὐτὴ e αὑτῆς denotino lo stesso referente.
Caston sostiene che il passo parli primariamente di attività: percepiamo
di vedere e di udire o col vedere o con un’altra attività: e sarà sia del vedere
che del colore, ed entrambi gli atti percettivi saranno dello stesso, o il vedere sarà di sé. E il paventato regressus sarebbe di attività, non di capacità56. Si
delineano così almeno tre opzioni ermeneutiche del nostro passo:
A) Capacity reading estrema:
Con quale capacità percepiamo che siamo capaci di vedere? Con la capacità visiva stessa.
B) Capacity reading moderata:
Con quale capacità percepiamo che stiamo vedendo? Con la capacità visiva stessa.
53 Cfr. ALEXANDER APHRODISIENSIS, Quaestiones 3.7, 91.24-93.22; THEMISTIUS, In De an
83.15-16; cfr. V. CASTON, op. cit.
54 Cfr. THEMISTIUS, op. cit., ad loc.
55 V. CASTON, cit., p. 768.
56 L’assunzione tacita sarebbe che quando abbiamo una percezione, abbiamo anche percezione di quella percezione; Secondo Caston l’argomento del regressus funzionerebbe meglio, ma a me pare che funzioni peggio, come nota anche T.K. JOHANSEN, cit.: se si sta parlando di capacità, il regressus è più giustificato, poiché basta la sola capacità (anche non esercitata) di percepire che si percepisce che si vede, a rendere necessaria l’evocazione di un senso di più alto ordine che la realizzi. Invece l’assunzione tacita che sempre, quando si vede si
percepisce che si vede e dunque si percepisce che si percepisce che si vede et sic in indefinitum, sembra ben più gratuita.
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C) Activity reading57:
Con quale attività percepiamo che stiamo vedendo? Con l’attività visiva
stessa.
Secondo Caston, C catturerebbe meglio la posizione aristotelica, la quale implicherebbe l’idea che lo stesso atto visivo è diretto ai colori mondani
così come a sé, dunque lo stesso token ricadrebbe sotto due types, essendo
ad un tempo una percezione visiva, avente come contenuto colori, ed una metapercezione visiva, avente come contenuto la stessa visione dei colori. Con
questa sofisticata teoria, Aristotele offrirebbe una via d’uscita teoretica originale e percorribile all’alternativa fra teorie contemporanee della coscienza
‘del più alto ordine’ e teorie della coscienza come ‘intrinseca’: secondo le prime, uno stato mentale è conscio se e solo se è oggetto di un altro stato a esso diretto; dunque la coscienza è una proprietà relazionale di un certo stato:
l’essere oggetto intenzionale di un altro stato di più alto ordine58; secondo la
teoria alternativa, la coscienza sarebbe una proprietà intrinseca a certi stati
mentali, i quali sarebbero, per così dire, ‘illuminati dall’interno’59. La ‘terza
via’ aristotelica salverebbe le virtù di entrambe le alternative aggirandone i
rispettivi aspetti problematici: se un token di stato mentale è sia una percezione visiva che una metapercezione visiva, è vero sia che la coscienza è un
affare relazionale, legato all’essere, lo stato conscio, oggetto di un altro tipo
di stato, sia che è un affare intrinseco, in quanto è lo stato medesimo a essere strutturalmente auto-riflessivo, cioè cadente sotto due tipi, dunque non è
ciò che è indipendentemente dall’esser conscio o meno (dall’esser oggetto intenzionale di un altro stato-token). Non è un altro stato mentale a rendere
conscio uno stato visivo, ma quello stato stesso in quanto cade anche sotto
un tipo diverso, che ha diverso contenuto, cioè altre – più ricche – condizioni di accuratezza: infatti quel token, in quanto cadente sotto il tipo [visione],
ha come contenuto un certo colore, ed è accurato se la superficie vista è di
quel colore; in quanto cadente sotto il tipo [percezione della visione], ha come contenuto il fatto che si stia vedendo quel certo colore, dunque è accurato se si sta effettivamente vedendo quel colore. La metapercezione, così, risulta essere costitutiva della percezione stessa: un token percettivo deve cadere sotto i tue types.
Senza entrare nel merito di questo complesso dibattito contemporaneo
– il quale, naturalmente, presenta molte nuances e posizioni intermedie rispetto alla sommaria alternativa indicata sopra – vorrei muovere qualche obiezione all’interpretazione di Caston sia quanto ad alcuni problemi testuali della
57 Secondo V. CASTON, cit., la sua activity reading sarebbe anticipata da Brentano (in F.
BRENTANO, Psicologia da un punto di vista empirico, Roma-Bari, Laterza 1997, ed. originale
1874).
58 Cfr., per esempio, D. ARMSTRONG, A Materialist Theory of Mind, London, Routledge 1968; D. ROSENTHAL, Two Concepts of Consciousness, «Philosophical Studies», 49, 1986,
pp. 329-359; W. LYCAN, Consciousness and Experience, Cambridge Mass., MIT Press 1996.
59 Cfr., per esempio, D. CHALMERS, The Conscious Mind, Oxford, Oxford University
Press 1996; N. BLOCK, The Higher-Order Approach to Consciousness is Defunct, «Analysis»,
71, 2011, pp. 429-431.
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sua activity reading, che quanto alla lettura attualizzante della teoria aristotelica della metapercezione in termini di unicità di token e duplicità di types.
Andiamo per ordine, partendo dalla questione: capacità vs. attività.
Il De Anima è un immenso sforzo architettonico teso a produrre una tassonomia gerarchizzata di capacità60 unificate, cui ricondurre certe attività
corrispettive individuate a loro volta da rispettivi oggetti: ove si dia un’attività vitale o cognitiva o locomotoria, che riveste una funzione propria nell’economia teleologica dell’organismo vivente – della specie di cui è membro –
vi è una capacità che fonda i vari esercizi come espressioni di quella capacità; perché la metapercezione deve fare eccezione? Quando ci si chiede se è
‘con la vista’ o ‘con altro’, che si percepisce che si vede, siamo in presenza
del dativo strumentale tipicamente adoperato per denotare funzioni-capacità cui ricondurre attività come esercizi occorrenti di tali capacità reiterabili61.
Gli esercizi sono episodi in cui certe disposizioni si esprimono e si manifestano. E il significato primario di ὄψις è ‘capacità visiva’, non ‘esercizio di visione’, il quale è tipicamente denotato da ὅρασις: ρασις γὰρ λέγεται ἡ τῆς
ὄψεως ἐνέργεια, afferma in modo lapidario Aristotele proprio nel nostro capitolo (III 2, 426a13-14), senza lasciare adito a dubbi62.
Tuttavia, le capacità sono individuate dai loro esercizi positivi: la funzione di φ-are è individuata dal φ-are in atto, che a sua volta è individuato anzitutto dall’oggetto cui per natura è rivolto; così si può parlare della ‘vista’
anche come capacità-in-attività: è ciò che, a mio avviso, si fa nell’occorrenza
di τῆς ὄψεως alla linea b14, ove si afferma che lo stesso (senso) sarà della vista e del colore soggiacente (2); dunque non ci sono problemi per la capacityreading moderata, visto che anche se l’oggetto della metapercezione è un’attività, e quel τῆς ὄψεως si riferisce all’attività colta dalla metapercezione visiva, non si tratterebbe di ammettere che ὄψις può significare anche esclusivamente ‘attività’ e dunque è possibile la activity-reading, ma solo di accettare
che ὄψις può denotare la capacità-in-esercizio63. La capacità di percepire che
vedo, se coglie la capacità visiva in quanto attualizzata, coglierà anche il colore soggiacente (che questa riceve solo in quanto sia attualizzata): il colore
c’è solo quando la capacità sia attualizzata, ma ciò non toglie che si stia dicendo che per cogliere la capacità in quanto attualizzata, si debba vedere anche il colore che la attualizza. L’oggetto della metapercezione visiva non è una
mera attività, anche se non è una mera capacità: è una capacità – quella visiva – colta tipicamente nel suo esser in esercizio. Dunque il modo più sensato di leggere questo primo brandello nel nostro passo è una via media fra ca-
60 Le capacità basilari sono anche «parti dell’anima», quelle derivate no, sono capacità appartenenti a certe parti dell’anima.
61 L’anima stessa è un insieme di capacità (o anime).
62 Cfr. De Ins. 1, 458b 3: l’impiego della vista è la visione (εἰ δ’ἡ χρῆσις ὄψεως ὅρασις
[…]). V. CASTON, cit., cita l’index del BONITZ (H. BONITZ, Index Aristotelicus, Graz, Akademische Druck- und Verlagsanstalt, 1955, ed. originale 1870) il quale riporta alcune occorrenze in cui sembra denotarsi l’attività e non la capacità; ma a parte il fatto che i casi da lui
indicati sono tutti dubbi, comunque non è l’uso tipico di Aristotele.
63 È solo se τῆς ὄψεως a b14 denota la capacità-in-attività, che ha senso osservare che
il senso che la coglie dovrà cogliere anche il colore che essa vede: solo se la capacità è in esercizio, è necessario, per coglierla, cogliere l’oggetto che la sta attualizzando.
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pacity-reading estrema e capacity-reading moderata (nei termini di Caston): si
va in cerca di una capacità, la quale ha ad oggetto una capacità-in-attività, o
l’attività di una certa capacità, e per questo b14 ha τῆς ὄψεως piuttosto che
τῆς ὅρᾱσεως. In realtà la stessa tripartizione proposta da Caston è opinabile
come tale: una certa capacità può essere diversa da una certa attività anche
solo quanto a ‘essere’ benché non ‘numericamente’; un episodio visivo è essenzialmente un esercizio della capacità visiva, e coglierlo significa cogliere la
capacità relativa in quanto in esercizio. Cosicché mi pare cadere anche l’obiezione per cui, quando si dice che se il senso che coglie la vista è la vista
stessa allora «lo stesso (senso) sarà di se stesso» (αὐτὴ […] αὑτῆς, b16), il pronome riflessivo non consentirebbe che αὐτὴ si riferisca a una capacità e αὑτῆς
a un’attività: lo stesso referente può ben essere una certa capacità che coglie
se stessa in quanto è attualizzata, in quanto è in esercizio, dunque il pronome riflessivo non impone né che se è una capacità la metapercezione dovrà
essere una capacità anche il suo oggetto (capacity-reading estrema), né che se
è un’attività il suo oggetto dovrà essere un’attività anch’essa (activity-reading).
Per esempio, quando qualcosa muove se stesso, qualcosa in quanto agente
muove sé in quanto paziente: quando si caratterizza un processo come automovimento ‘l’agente’ e ‘il paziente’ sono coreferenziali, anche se l’esser agente non è identico all’esser paziente64, parimenti se la metapercezione visiva è
capacità coincidente con la vista stessa, la capacità in cui la vista consiste potrà cogliere sé in quanto attività, anche se ‘essere una capacità’ non è identico a ‘essere un’attività’: naturalmente, anche la capacità visiva in quanto metapercettiva, quando coglie se stessa in atto, è attività, sta attualizzando il potere metapercettivo in un concreto esercizio; ma questo è cosa triviale, che
non implica certo che non si sia in cerca di una capacità!
Il pronome riflessivo non impone un aut-aut fra capacity-reading estrema
e activity-reading, ma è affatto compatibile con una capacity-reading moderata, a patto che si colga il fatto che non v’è contraddizione fra l’avere ad oggetto una capacità e l’avere ad oggetto un’attività, giacché un’attività non è
che una capacità in quanto espressa in una manifestazione individuale occorrente. Di conseguenza, l’alternanza continua e ravvicinata fra occorrenze di
un termine in quanto denotante capacità e lo stesso termine in quanto denotante attività non costituisce affatto un problema, né filosofico né testuale. Gli
argomenti di Caston contro la capacity-reading in generale sono resistibili, ma
è anzitutto resistibile la sua stessa, artificiosa dicotomia fra una capacity-reading ‘moderata’ ed una ‘estrema’.
Il seguito del passo, ove si prospetta l’aporia (6), mi pare comunque incompatibile con l’activity-reading avanzata da Caston: si dice che se percepire con la vista è vedere, e si vede il colore o ciò che ha colore, allora se qualcosa vedrà ciò che vede (τὸ ὁρῶν), ciò che primariamente vede avrà colore:
non solo è altamente implausibile che un articolo con participio presente denoti un atto verbale65, ma τὸ ὁρῶν è ‘ciò che vede’, non già il vedere; solo in
64
Cfr. Phys. III 3.
Cfr. T.K. JOHANSEN, cit., p. 247, per una brillante articolazione di questa obiezione
a Caston.
65
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quanto τὸ ὁρῶν è l’organo-capacità – che pure è tipicamente colto dalla metapercezione visiva in quanto sia attualizzato da forme cromatiche – ha senso il secondo trattamento dell’aporia tramite l’ammissione che τὸ ὁρῶν è in
certo modo colorato: non solo sarebbe casomai fonte di aporia piuttosto che
soluzione il considerare che il vedere è in certo modo colorato66, ma poi diviene chiaro cosa sia, che è in certo modo colorato, quando si dice che infatti l’organo è recettivo della forma senza la materia e che percezioni e immagini permangono negli organi anche quanto il sensibile sia svanito. È difficile negare che τὸ ὁρῶν debba essere identificato con l’αἰσθητήριον, il realizzatore della rispettiva capacità (pur individuata dalla rispettiva attività), il suo
atto primo che è anche la sua essenza.
Inoltre, anche la prima risposta all’aporia mal si confà alla activity-reading: vi si osserva che anche quando non stiamo vedendo discriminiamo con
la vista il buio dalla luce; comunque si interpreti l’osservazione (cfr. supra),
essa pare alludere già a un esempio di metapercezione visiva in assenza di visione di colori. Dunque percepisco che c’è buio con la vista, ovverosia percepisco una condizione solo potenziale della mia capacità visiva in senso stretto: Aristotele adduce un esempio di metapercezione dell’inattività visiva, e ciò
non si giustifica granché entro la lettura per cui la metapercezione sarebbe
essenzialmente attività che coglie un’attività: piuttosto, l’osservazione è sensata ed efficace solo se si sta argomentando che la metapercezione visiva è capacità realizzata grazie alla vista stessa, che può cogliere sé sia come capacità attualizzata dai colori (caso ‘normale’) che come capacità contingentemente non attualizzata dai colori (caso addotto nell’esempio).
In DA III 2 Aristotele si chiede con quale capacità noi cogliamo che un
certo nostro senso-capacità percettiva è in esercizio, oppure non lo è, se e
quando non lo sia: solo così tutto il passo trova senso.
Veniamo ora alla lettura attualizzante del passo che prevede «un unico
token per due types».
L’ardita interpretazione di Caston prevede che un certo stato o episodio
mentale, per natura dotato di un certo contenuto, non sia individuato in base al suo contenuto: dunque non vi sarebbe nulla di metafisicamente stravagante nell’idea che lo stesso stato mentale individuale possa avere due tipi, e
a ciascun tipo sotto cui cade possa essere associato un diverso contenuto: una
rappresentazione con due contenuti uno dei quali è più elementare, l’altro dei
quali è più ricco e inclusivo del primo; lo stesso token, per esempio, avrebbe
come contenuto il [blu] in quanto percezione visiva, e il contenuto [sto vedendo: (blu)] in quanto metapercezione visiva, così da essere sussumibile
sotto due types.
Johansen67 obbietta che le condizioni di verità, o accuratezza, di uno stato mentale, ovverosia il suo contenuto, individuano lo stato medesimo, cosicché è implausibile ritenere che due stati con diverse condizioni di verità
66 Per Caston si parlerebbe di qualia: ma mi pare una forzatura anacronistica, parlare
di qualia entro un tale contesto teoretico. Del resto, nulla spinge a ritenere che Aristotele sia
caratterizzando le proprietà soggettive dell’esperienza, qui.
67 T.K. JOHANSEN, cit., pp. 269-261.
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siano uno stato numericamente unico. Dunque lo stato metapercettivo potrebbe al limite accompagnare sempre un corrispondente stato percettivo, ma
andrebbero ammessi due tokens, unoper ciascuno dei due types: due tokens
pur causalmente connessi in modo sistematico.
L’obiezione di Johansen, però, pare non cogliere nel segno nonostante
appaia molto intuitiva. Ammesso e non concesso che si possano applicare le
nozioni di ‘contenuto’ e di ‘rappresentazione’ alla teoria della percezione aristotelica senza distorcere quest’ultima, comunque non vi è nulla di bizzarro
nel ritenere che a un certo stato mentale siano associate diverse condizioni di
verità: vedo un grande quadrato rosso sopra un piccolo triangolo grigio, la
mia percezione sarà accurata se il quadrato è rosso, il triangolo è grigio, il quadrato è grande, il triangolo è piccolo, il quadrato è sopra il triangolo. Ci sono molte condizioni di accuratezza di questa mia individuale percezione visiva, alcune delle quali possono essere soddisfatte anche se altre non lo sono:
può darsi che il quadrato non sia rosso, ma il triangolo sia grigio, che l’oggetto che è sotto il quadrato sia un poligono ma non un triangolo, o che il
quadrato sia piccolo e il triangolo sia grande, e così via.
Questo è vero anche per Aristotele: sebbene egli sostenga – in maniera
per noi sorprendente – che un senso possa essere attualizzato solo da una forma sensibile alla volta (al tempo t, posso vedere solo rosso, non rosso e verde)68, se si considera la percezione visiva di un sensibile comune in quanto
resa possibile dalla percezione di un proprio69, come quando percepisco una
figura [triangolare] insieme al suo colore [rosso], anche secondo Aristotele,
presumibilmente, è lecito ritenere che lo stesso stato percettivo individuale
possa: a) cadere sotto due types (percezione comune e percezione propria)
b) avere diverse condizioni di verità ‘cumulabili’ ([---è un triangolo]; ---[è rosso]) tali che una potrebbe essere soddisfatta e l’altra no: per esempio, nel caso in cui l’oggetto che vedo è effettivamente rosso ma non triangolare70 come pure mi appare visivamente.
Tuttavia, anche se non per le ragioni che adduce Johansen, l’interpretazione di Caston mi sembra impercorribile, perlomeno in quanto la si intenda attribuire ad Aristotele: questi non parla di condizioni di accuratezza o di
verità degli stati percettivi, ma tratta i processi percettivi entro la cornice teoretica della sua teoria generale del mutamento: la percezione è un mutamento – sebbene sia una alteratio perfectiva piuttosto che un divenire alterativo
simpliciter e come tutti gli episodi di mutamento percettivi e non, ogni esempio di percezione ha determinati criteri di individuazione. Dunque, per sapere se una metapercezione visiva di [vedere blu] e una percezione visiva di
[blu] possono essere lo stesso token, dobbiamo capire se questi due muta-
68 Cfr. De Sensu 7, 447b16-22; De An. III 2, 427a7-14. La parte recettiva dell’organo
è semplice e omeomera, perciò può essere attualizzata solo da un ‘grado’ di sensibile alla volta (uno dei contrari che individuano il genere, o un intermedio); cfr. De Part. An. II 1, 647a58, Hist. An. I 4, 489a23-36.
69 Cfr. De An. III 1, 425a15-23.
70 Il contrario è ben più improbabile, visto che la percezione dei propri è pressoché
infallibile (De An. II 6, 418a15-18); quella dei comuni, invece, è la più soggetta a errore (De
An. III 3, 428b25-26).
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menti possono o meno essere processi numericamente identici entro la teoria generale aristotelica del mutamento.
Cosa individua un certo token di mutamento? Un mutamento M è individuato da: a) un paziente, in cui ha luogo il mutamento b) una proprietà,
nella cui perdita o acquisizione il mutamento consiste c) un agente che, per
esser motore del mutamento medesimo, deve avere in atto la proprietà che il
paziente ha dapprima solo in potenza e poi, nel risultato del mutamento, possiede in atto. Un A, che è F, fa diventare F un B (da non-F che era), in un
certo tempo continuo71. Ora, le condizioni di individuazione numerica di un
mutamento dipendono dall’unicità del paziente, dall’unicità della proprietà
acquisita (e, in modo derivativo, dall’unicità del motore): l’atto del motore
(azione) e l’atto del mosso (passione) sono numericamente identici, anche se
hanno diverso ‘essere’, e questa identità costituisce l’unità numerica, l’individualità, di quel processo che pure cade sotto due types, cioè è ad un tempo la passione di un paziente e l’azione di un agente72.
Nel caso della percezione, l’agente è il sensibile, il paziente è il senso, il
quale è in potenza la forma sensibile: nel risultato del processo, il senso ha la
proprietà sensibile in atto; quest’ultima era già in atto ciò che il senso dapprima era solo in potenza, perciò è in grado di attualizzare la stessa proprietà nel senso73. L’atto del sensibile e l’atto del senso sono numericamente lo
stesso, anche se hanno diverso ‘essere’: sono infatti, rispettivamente, l’azione
dell’agente e la passione del paziente.
Tutto ciò implica che un mutamento è individuato da una sola proprietà acquisita, e se invece si acquisiscono due proprietà ad un tempo, i mutamenti saranno due, anche se concomitanti e concernenti il medesimo paziente (e, al limite, il medesimo agente). Ma la proprietà [blu] è diversa dalla proprietà [vedere blu], anche se l’una contiene l’altra: l’una è un colore, l’altra è
un token di attività visiva, cioè un movimento del senso; due proprietà diverse, quando acquisite, danno luogo a due mutamenti numericamente diversi,
anche se concomitanti e causalmente intrecciati.
Si consideri un corpo caldo A, che riscalda un corpo dapprima freddo
B: il mutamento rispettivo M è individuato dal paziente B, dalla proprietà F
(=[caldo]) acquisita, dall’agente A che ha F già in atto. Tipicamente, quando un corpo ne riscalda un altro, ne viene raffreddato: dunque A è anche paziente nel mutamento M1 in cui A diventa G (=[freddo]74) grazie al motoreagente B; noi descriveremmo il riscaldamento-raffreddamento in questione
come un semplice trasferimento di calore da A a B – eleggeremmo una certa quantità di calore a soggetto del processo – la teoria aristotelica invece prevede che ci siano due mutamenti concomitanti, uno dovuto all’altro: il riscaldamento di B da parte di A, e il raffreddamento di A da parte di B; per quanto possa apparirci ridondante, è essenziale per Aristotele che i processi ‘ac-
71
Cfr. l’articolata indagine sull’unità del movimento in Phys. V 4.
Cfr. Phys. III 3, 202b7-28.
73 Tralasciamo qui l’acceso dibattito su cosa significhi che il senso ‘diventa’ il sensibile, essendolo dapprima solo in potenza.
74 Più freddo di come era, si intende.
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cadano’ a sostanze individue (a proposito di certe proprietà acquisite o perdute da dette sostanze): se c’è un solo processo, c’è una sola sostanza che lo
subisce: sono le sostanze, le entità fondamentali che ‘sorreggono’ i processi
e gli stati di cose.
Si badi che il riscaldamento di B da parte di A e il raffreddamento di A
da parte di B non sono numericamente identici benché diversi ‘in essere’ al
modo in cui lo sono, rispettivamente, l’essere scaldato di B da parte di A e lo
scaldare B da parte di A, da un lato, e l’essere sfreddato di A da parte di B e
lo sfreddare B da parte di A, dall’altro lato: ciascuno dei mutamenti concomitanti, M e M1, ha la propria coppia azione/passione, coppia di processi numericamente identici ma specificamente diversi; ma non vi è ragione di ritenere le due coppie siano fra loro numericamente identiche a loro volta: sebbene un certo scaldare (A → B) è identico a un certo esser scaldato (B → A)
e un certo sfreddare (B → A) è identico a un certo esser sfreddato (A → B),
lo scaldare (o esser scaldato) non è identico allo sfreddare (o esser sfreddato): diverso paziente e diversa proprietà, diverso divenire.
Nel caso del rapporto fra il percepire di vedere un colore C e il vedere
il colore C, ci sono anche due diversi agenti, oltre a esserci due diverse proprietà, anche se il paziente è comunque lo stesso senso della vista: il vedere
C è causato dal colore ambientale C, agente-motore che attualizza la vista, invece il percepir di vedere C è causato dalla proprietà del [vedere il colore C],
che pure è a sua volta causata dal colore C. Le proprietà ‘ricevute’, che sono
anche cause/motori/agenti del loro stesso esser ricevute, sono differenti, anche se la ricezione di una proprietà [=C] causa la ricezione dell’altra proprietà [=ricezione di C]. Il senso, in quanto metapercettivo, riceve la ricezione di
C, ed è dunque attualizzato non già (meramente) da C, bensì dalla ricezione
di C: C è una proprietà ambientale, la ricezione di C – di cui la metapercezione è a sua volta ricezione – non è proprietà ambientale, ma una proprietà
interna al percipiente e al senso, sebbene sia una proprietà relazionale che coinvolge mediatamente l’ambiente: è, infatti, ricezione del colore ambientale
C, e questa sua storia causale la rende ciò che è75.
Una percezione visiva e la metapercezione di essa sono dunque due processi distinti, anche se il loro intreccio causale è analogo a quello che sussiste
fra M, in cui il corpo A scalda il corpo B, e M1, in cui il corpo B sfredda il
corpo A; due tipi di processo, e due tokens, per quanto concomitanti.
Parlo di intreccio causale analogo, perché sussistono differenze significative fra i due casi: in primo luogo, [caldo] e [freddo] sono due contrari interni allo stesso genere [temperatura] dunque sia lo scaldarsi che lo sfreddarsi sono due tipi mutamento entro questo genere; in secondo luogo, sempre
quando un corpo ne scalda un altro, ne viene sfreddato in una certa misura76. Al contrario, le proprietà [blu] e [vedere blu] non sono affatto contra-
75 Se non fosse la reale e presente attività di un sensibile ambientale, quello stato del
senso non sarebbe una percezione bensì un φάντασμα, solo soggettivamente indistinguibile
dalla ricezione di un colore ambientale, ma con una diversa natura o essenza.
76 Diciamo, sempre o perlopiù: il Sole potrebbe essere un’eccezione, in quanto scalda
i corpi naturali senza esserne sfreddato proporzionalmente. Ti tenga comunque a mente che
per Aristotele il mutamento avviene per contatto fra motore e mosso: quando un corpo è
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ri o gradi intermedi dello stesso genere di proprietà, ma sono proprietà di generi diversi: uno è un esempio di colore, l’altro è un esempio di percezione;
inoltre, che il senso veda il [blu] e insieme colga il proprio stesso [vedere blu],
non pare necessario allo stesso modo in cui lo è che un corpo scaldato raffreddi in certa misura il corpo, con cui è a contatto, che lo sta scaldando: quest’ultima correlazione causale è sistematica e necessaria, mentre l’eventualità
che si dia un caso di vedere-blu senza che si dia il cogliere lo stesso vedereblu non sembra problematica, anche se Aristotele sembra ritenere che la metapercezione accompagni sempre o per lo più la percezione77; ma, ribadiamo, può trattarsi di un nesso causale ‘perlopiù’, non costitutivo, che a differenza del nesso fra lo scaldare e lo sfreddare può anche non darsi.
Può darsi un’occorrenza di percezione cromatica senza la sua rispettiva
metapercezione, o un’occorrenza di (fallace) metapercezione cromatica senza la sua rispettiva percezione78? Chi intende la metapercezione aristotelica
alla maniera di un ‘senso interno’ che monitora le attività dei sensi individuali producendo stati di second’ordine vertenti su rispettivi stati (di prim’ordine) dei sensi stessi79, deve ammettere perlomeno la possibilità che si diano
stati dell’un tipo senza stati dell’altro tipo. Chi invece, come Caston, intende
la tesi aristotelica dell’autoriflessività di ciascun senso individuale proprio come negazione di un senso interno ‘monitorante’ separato da ciascun senso,
deve porre la metapercezione come costitutiva della percezione rispettiva, e
negare la possibilità che l’una abbia luogo senza l’altra80. Posto che la metapercezione è verosimilmente una prestazione del cosiddetto senso comune81,
questo dibattito si inquadra nel dibattito più generale fra chi sostiene che il
senso comune aristotelico trascenda i sensi individuali e ne ‘usi’ le informazioni, e chi sostiene che il senso comune sia una sorta di epifenomeno dei sensi individuali in quanto connessi in modo sinergico, cioè l’effetto della loro
stessa sinergia piuttosto che un loro ‘coordinatore’82 che li unifichi e ne coglia i responsi, per così dire, dall’alto.
Ma concentriamoci sulla metapercezione come tale. Johansen ipotizza il
caso in cui sto percependo accidentalmente che qualcosa è giallo, e scambio
scaldato da un corpo con cui non è a contatto, è scaldato tramite altri corpi intermedi, in
contatto fra loro, l’ultimo dei quali è in contatto col corpo scaldato, il primo dei quali è in
contatto col corpo scaldante, dimodoché vi è una causazione transitiva tramite motori/mossi che sono mediatamente tutti in contatto.
77 Cfr. Phys. VII 2, 244b12-245a2, ove si afferma non solo che all’ente animato «non
sfugge» (οὐ λανθάνει) di essere alterato secondo i sensi, ma anche che all’animato può sfuggire di essere alterato, quando l’alterazione non è «secondo i sensi»: il che pare sottintendere che ogniqualvolta l’animato è alterato in senso percettivo, ne è in qualche modo conscio.
78 Una metapercezione cromatica senza la rispettiva percezione non può che essere fallace: la metapercezione ha come contenuto [vedo del blu] ma non vedo del blu, pertanto,
se mai è possibile, dovrà essere una metapercezione inaccurata.
79 T.K. JOHANSEN, cit., p. 255ss., difende una tale posizione.
80 A maggior ragione dovrà negare la possibilità che l’una si dia senza l’altra chi come
Kosman 1975 ritiene che il percepire di vedere non è altro che la coscienza percettiva che rende percezione un certo mutamento, dunque ciò in virtù di cui la percezione è percezione.
81 Su ciò, cfr. P. GREGORIC, op. cit., Cap. 4.
82 L’idea ‘massimalista’ del senso comune risale a Teofrasto, poi è difesa da Alessandro,
mentre l’idea ‘minimalista’ è riconducibile a Filopono.
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questa percezione accidentale (magari basata su una percezione gustativa) per
una percezione propria, cioè per una percezione visiva di giallo: certo è a dir
poco improbabile che cogliendo il giallo mediante il gusto – poniamo, dolce
– ci sembri di star vedendo quel giallo; tuttavia, non può escludersi per principio che ciò possa accadere83.
Tuttavia, non è il caso di andare a scovare esempi empiricamente improbabili, o possibili solo concettualmente, giacché Aristotele stesso esemplifica: a) casi che potremmo considerare di metapercezione fallace, ovverosia di
(apparente) percezione di star vedendo senza che si stia vedendo, dunque di
percezione di second’ordine senza rispettiva percezione del prim’ordine; b)
casi di percezione senza la corrispettiva metapercezione, cioè senza la percezione che si sta vedendo o udendo etc. Entrambi i casi, a mio avviso, sono
oggetto di esplicito riferimento nel De Insomniis.
Il primo caso è quel comune tipo di esperienza onirica in cui non v’è coscienza alcuna di star sognando84, cosicché ci pare di star esercitando i sensi
e di essere in rapporto causale con l’ambiente, invece siamo sdraiati nel nostro letto coi sensi inattivi: «nei sanguigni, dopo che il sangue si è stabilizzato e separato, il movimento delle percezioni provenienti da ciascuna parte,
produce sogni saldi, genera un’immagine e fa apparire qualcosa e ci fa credere (ritenere) di vedere qualcosa con la vista o udirla con l’udito» (De Ins.
1, 461b25-30). L’interpretazione di siffatti casi è complicata dal fatto che il
verbo ‘percepire’ è generalmente inteso (anche da Aristotele) come un verbo implicativo, ovverosia: se ascrivo a qualcuno la percezione di un oggetto
O, legittimo l’inferenza o la supposizione che l’oggetto O esista85; dunque si
potrebbe obbiettare che questa presunta metapercezione fallace non è punto un caso di metapercezione bensì una esperienza soggettiva in cui al soggetto ‘sembra’ di star meta-percependo: non essendoci l’oggetto [vedere C],
l’esperienza non può essere un caso di percepire di vedere C. Ma, a parte questa circostanza linguistica per cui il ‘percepire’ funziona in modo implicativo, è chiaro che nel sogno, del cui essere un sogno non v’è coscienza, vi è una
esperienza di tipo percettivo-sensoriale86, in cui i sensi vengono ‘rappresentati’ come attivi e attualizzati dall’ambiente, mentre non è il caso: dunque nel
sogno non consaputo vi sono due livelli di erroneità, in quanto sbagliamo sia
a ‘rappresentare’ che lì c’è un oggetto blu (non c’è un oggetto blu di fronte
a noi), sia a ‘rappresentare’ che noi stiamo vedendo un oggetto blu (non stiamo vedendo). Noi non stiamo vedendo alcun oggetto blu, poiché il senso vi-
83 Ancora più forzato e bizzarro è l’altro esempio proposto da T.K. JOHANSEN, cit., p.
258: può darsi che qualcuno colga che la vista di un altro stia vedendo, e scambi ciò per un
caso in cui egli/ella sta vedendo. Lo stesso Johansen osserva che questa non è una genuina
possibilità concreta, ma è sufficiente una tale circostanza che sia concettualmente possibile.
84 Cfr. De Ins. 1, 459a6-7.
85 Adotto il termine «implicativo» come equivalente ‘oggettuale’ del termine «fattivo»,
che è usato per verbi denotanti atteggiamenti proposizionali, come ‘sapere’: al modo in cui,
se so che P allora P è vero, e perciò ‘sapere’ è un verbo fattivo, così se vedo O allora O esiste, dunque vedere è un verbo implicativo.
86 Infatti è la parte percettiva a farci sognare, non già la parte opinante. Meglio, la parte percettiva in quanto immaginativa. Cfr. De Ins. 1, 459a2-6: nel sonno non si vede niente,
ma si hanno affezioni sensibili, sebbene non come durante la veglia.
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sivo non sta venendo attualizzato da forme cromatiche ambientali presenti;
vi è un errore di tipo percettivo87, e un errore di tipo metapercettivo, anche
se a rigore non vi è né un reale percepire di vedere, né un reale vedere.
Ma se l’esempio onirico risulta troppo border-line come esempio di metapercezione, Aristotele adduce anche casi di metapercezione fallace in stato
di veglia:
Anche da svegli si crede di percepire e di vedere e di udire perché il movimento giunge dall’esterno al principio, e a volte diciamo di vedere perché crediamo che
la vista sia stata mossa anche se non vi è stato alcun movimento […]. (De Ins. 461a31461b3)
Mi sembra, visivamente, di vedere C, anche se è il mio senso a essersi
mosso nei modi tipici in cui è mosso quando a muoverlo è un esempio ambientale di C; dunque mi sembra – secondo la mia attuale esperienza visiva
– di vedere C, ma non sto vedendo C: questo è un esempio di metapercezione fallace, di percezione di second’ordine avente ad oggetto l’oggetto di prim’ordine consistente nel vedere qualcosa, senza che si dia quel vedere qualcosa, che infatti è oggetto solo ‘presunto’ dell’esperienza metapercettiva: diremmo noi, sporgendoci ben oltre Aristotele, che ne è un oggetto intenzionale. Percepisco di vedere C, ma mi sbaglio, perché non vedo C: può darsi
che non stia proprio vedendo88, o che veda A, B, o D, ma non il C che mi
sembra di star vedendo. Nulla osta a che un movimento interno del senso abbia luogo anche quando, pur in stato di veglia, ho gli occhi chiusi e non sto
vedendo, per cui questo esempio si può ben applicare al percepire di vedere simpliciter, oltre che al percepire di vedere A o B o C o D: ci sono situazioni in cui percepisco di vedere qualcosa, ma non sto vedendo nemmeno
qualcos’altro, giacché non sto vedendo alcunché. Se la metapercezione fosse
costitutiva della percezione, non avrebbe luogo senza la prima, ma ogni suo
token sarebbe appartenente a entrambi i types (percezione, metapercezione).
Un caso di percezione di prim’ordine senza la rispettiva metapercezione è più difficile da reperire, e questa stessa circostanza parla a favore del fatto che per Aristotele la metapercezione è, per natura, sempre o perlopiù attiva in concomitanza con l’attività dei sensi, come Aristotele, del resto, sembra affermare: tuttavia, almeno un caso viene addotto, e ciò mi pare sufficiente a escludere l’idea che la metapercezione sia costitutiva della percezione stessa (Caston):
Certuni, poi, che avevano gli occhi socchiusi durante il sonno, da svegli hanno
riconosciuto immediatamente che la luce di quella lanterna che vedevano debolmente dormendo era effettivamente quella della lanterna, come pensavano, e la voce dei
galli e dei cani, che dormendo sentivano debolmente, da svegli l’hanno riconosciuta
distintamente. (De Ins. 462a22-26)
87 Ribadisco: non è un errore strettamente percettivo visto che non vi è punto percezione, ma è un’esperienza di tipo percettivo – qualcosa che ha i caratteri soggettivi dell’esperienza percettiva – che rappresenta certe cose, fallacemente.
88 Oltre al caso onirico, possiamo pensare ai casi ricordati sopra a proposito dello scioglimento dell’aporia di De An. III 2: sono sveglio ma al buio, oppure ho gli occhi chiusi, etc.
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Si parla di un caso inverso a quello precedente: sto ‘sognando’ certi contenuti percettivi, ma sono contenuti esemplificati nell’ambiente circostante,
infatti è l’ambiente che causa la mia esperienza onirica; nella transizione dal
sogno al risveglio, mi avvedo che ciò che mi si presentava come contenuto
onirico è effettivamente presente (il canto di un gallo, la luce di una lanterna); dunque, vi è un momento, per quanto evanescente e istantaneo, in cui
sto percependo certi sensibili (nel senso ambientale, relazionale e implicativo del ‘percepire’) senza cogliere di starlo facendo, ma anzi esperendo questi contenuti sensibili come sogno: infatti i miei sensi sono pur debolmente
attualizzati dall’ambiente, anche se solo la transizione allo stato di veglia mi
rende retroattivamente conscio di questo fatto. Dunque, quando sogniamo
poco prima di risvegliarci e l’esperienza onirica è accompagnata dalla coscienza di star sognando, ma tale esperienza è causata da proprietà ambientali, prima di realizzare, svegliandoci ‘a dovere’, che quella luce è reale e quel
canto di gallo proviene davvero dal gallo in carne e ossa che annuncia il mattino in cortile, vi è un momento in cui stiamo percependo proprietà ambientali, ma senza percepire di starlo facendo89. Ecco un caso di percezione senza metapercezione: per quanto anche questo esempio sia legato a momenti
di confine fra sonno e veglia, esso prova che il percepire è normalmente, in
stato di veglia, accompagnato dal metapercepire ma è purtuttavia possibile
(empiricamente e non solo concettualmente) che si dia senza il metapercepire. Dunque, un token dell’uno può darsi senza un token dell’altro, e il loro
nesso è causale, non costitutivo. Normalmente, una percezione causa una
metapercezione rispettiva, ma un episodio non è essenziale all’altro, tanto
che l’uno può essere esemplificato senza l’altro.
5. La metapercezione è un esempio di percezione accidentale?
Tuttavia non si tratta di un nesso causale così estrinseco da consentirci
di assimilare la metapercezione a un esempio di percezione accidentale, come prova a fare, pur in maniera brillante e sottile, Johansen90.
Una percezione visiva accidentale è un episodio in cui vedo qualcosa che
89 Si potrebbe obbiettare che, seppure in modo ‘non implicativo’ (cfr. supra) ho comunque metapercezione onirica, cioè percepisco di star esperendo certe proprietà che pure scambio erroneamente per contenuti onirici; ma è anche vero che ci sono situazioni oniriche in cui non vi è alcuna coscienza di star sognando: e se si considerano queste, solo il
postulare arbitrariamente che è impossibile percepire senza metapercepire – sia ciascuno dei
due fenomeni inteso in senso implicativo o meno – ci impedirebbe di concepire questa circostanza come un esempio di percezione senza corrispettiva metapercezione. Se sto ‘esperendo’ il canto di un gallo mentre sono ancora addormentato, ma senza alcuna coscienza di
star sognando, e, nella fase evanescente del risveglio, realizzo che sto percependo il canto
del gallo nel mio cortile, allora ciò che aggiungo alla mia esperienza, anche da un punto di
vista fenomenologico, è la coscienza metapercettiva che prima era assente, non sostituisco
semplicemente una coscienza metapercettiva fallace («sto sognando») ad una coscienza metapercettiva genuina e veridica («sto percependo»): altrimenti neppure si spiegherebbe la fenomenologia della ‘aggiunta’.
90 Cfr. T.K. JOHANSEN, cit., pp. 260 sgg.
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ha un certo colore (o figura, o un’altra proprietà sensibile comune per se) e
ne colgo un’altra proprietà che stricto sensunon vedo: per esempio, riconosco il figlio di Diare perché è bianco, ma io vedo per se il suo esser bianco,
non già il suo esser il figlio di Diare; quest’ultima proprietà la ‘vedo’ per accidens, cioè in virtù del vedere per se la sua bianchezza (o la sua figura, o il
suo movimento, etc.): grazie al vedere certe sue proprietà visibili, lo riconosco, o ne riconosco altre proprietà non visibili (o non viste)91, quindi in un
senso accidentale vedo anche queste ultime. L’esser accidentale di questo ‘vedere’ consiste nel fatto che la proprietà accidentalmente vista, come [il figlio
di Diare] non ha un diretto impatto causale sul mio organo/capacità coinvolto, non è forma che, a rigore, il mio occhio riceva92. Evidentemente io uso ciò
che riceve il mio senso, per cogliere altre proprietà su basi mnemonico-associative, in quanto in passato ho constatato che certe proprietà visibili caratterizzano quell’oggetto che ora sto vedendo. Riconosco un certo individuo,
o un tipo di oggetto, a partire dal suo profilo sensibile, per esempio dai suoi
colori, forme, modi di muoversi, e così via; o colgo del miele, che sto gustando, come qualcosa di giallo in quanto ne assaporo la tipica dolcezza, sì da associare il dolce al giallo sulla base di correlazioni già esperite in passato: in
tal caso, il giallo, che pure è come tale un visibile proprio, è ‘visto’ accidentalmente, grazie a un altro senso/sensibile proprio (il gusto, il dolce); il giallo esemplificato dal miele non sta attualmente esercitando alcun impatto causale sulla mia vista.
Secondo Johansen93 questo è proprio ciò che accade con la metapercezione: al modo in cui [figlio di Diare] è attribuito al bianco, il quale soltanto è propriamente visto, così la nostra metapercezione attribuisce ciò che ha
colore – propriamente visto – al nostro senso/organo visivo. Così io non vedo il mio senso stesso, ma vedo qualcosa di colorato: questa percezione visiva di prim’ordine mi presenta l’oggetto O come avente il colore C, mentre la
concomitante percezione accidentale di second’ordine attribuisce il colore,
che è visto nella percezione di prim’ordine, al mio senso stesso.
Tuttavia, tale assimilazione della metapercezione alla percezione accidentale pare una forzatura.
Anzitutto, come ben osserva Gregoric94, la percezione accidentale ha
una tipica contingenza che non sembra caratterizzare la metapercezione: quest’ultima non abbisogna affatto di una sequela di esperienze passate che fissi il nesso mnemonico-associativo fra la proprietà ‘di partenza’ e quella ‘d’arrivo’ (il dolce gustato, il giallo ‘visto’ accidentalmente col gusto); la metapercezione è piuttosto una capacità innata e naturale, non già una competenza
empiricamente appresa. A ciò possiamo aggiungere che ciò che rende il coglimento del giallo nel miele gustato una percezione accidentale visiva, è il
91 Posso percepire anche un colore con la vista per accidens; vedo un kiwi tagliato, ne
vedo il colore marrone ma ‘vedo’ accidentalmente anche il suo essere verde: la superficie verde della parte tagliata non è ora in vista, ma grazie a mie esperienze pregresse ne colgo l’esser verde, al modo in cui colgo l’esser figlio di Diare nell’uomo bianco (o pallido).
92 Cfr. De An. II 6, 418a21-25; III 1, 425a25-27.
93 Cfr. T.K. JOHANSEN, cit., p. 260 sgg.
94 P. GREGORIC, op. cit., p. 182.
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fatto che in passato ho visto, in senso proprio, il giallo di un pezzo di miele
che ho anche gustato: posso vedere per accidente delle proprietà che in passato ho esperito per se; se la metapercezione fosse percezione accidentale, dovrebbe potersi essere data una circostanza passata in cui ho visto, propriamente, il colore del mio senso/capacità, la qual cosa non si è mai data o, se
si credesse che secondo Aristotele si dà anche solo una volta, allora sarebbe
sensato argomentare che la metapercezione visiva è normalmente una percezione propria, non già che è percezione accidentale (anche se talvolta può esserlo). Ma per Aristotele essa non è una percezione propria.
Inoltre, perché mai Aristotele tacerebbe questo fatto, visto che in III 1
ha appena riproposto la tassonomia fra percepibili introdotta in II 6, e ha studiato con molta cura il modo in cui si possono percepire i comuni a partire
dalla percezione dei propri? Ricondurre la metapercezione a percezione accidentale, sarebbe stato un ottimo modo di ottemperare al principio di economia esplicativa, invece Aristotele è affatto silente su ciò.
Ma anche il duplice trattamento dell’aporia nei punti (7a) e (7b) parla a
sfavore di tale assimilazione: l’aporia sorge perché, se è con la vista che percepiamo di vedere, allora ciò che vede dovrà essere colorato, giacché l’oggetto della vista è il colore; al che si risponde, da un lato, che percepiamo con
la vista anche buio e luce, persino quando non cogliamo colori, dall’altro, che
ciò che vede è, in certo senso, colorato. Entrambe le risposte implicano che
la metapercezione, pur non essendo un vedere proprio, è possibile in quanto coinvolge informazione non accidentalmente visiva (sebbene non cromatica, nel caso di (7a)) anche relativamente alla ‘proprietà d’arrivo’, cioè lo star
vedendo. Si pensi alla proprietà [figlio di Diare]: in tal caso, l’esser figlio di
Diare non ha nulla a che fare col colore, nemmeno in un senso lato, è una
proprietà che come tale è causalmente inerte rispetto al sistema visivo; se la
metapercezione fosse percezione accidentale, non avrebbe senso che Aristotele si preoccupasse di ricondurre il contenuto metapercepito al sistema visivo stesso; né l’aporia sorgerebbe: non comporta alcun problema teorico, per
Aristotele, il fatto che se ‘vedo’ il figlio di Diare in quanto tale (il suo esser
figlio di Diare), allora il figlio di Diare dovrà essere colorato.
L’asimmetria è evidente: il cogliere la proprietà [vedere C] non è legato
al vedere C nel modo estrinseco e arbitrario in cui il cogliere la proprietà [figlio di Diare] è legato al [bianco] che è visto per se. La metapercezione, pertanto, non è un esempio di percezione accidentale, pace Johansen.
Perlopiù, pressoché ogni esempio di metapercezione è legato in modo intimo, naturale e causale-funzionale, a un esempio di rispettiva percezione di prim’ordine: anche se si tratta di due tokens distinti, la loro relazione non esibisce quell’accidentalità tipica della percezione per accidente, che la rende tale.
6. De Anima e De Somno et Vigilia sulla metapercezione: due passi incompatibili?
Rivolgiamoci ora a un noto passo del De Somno et Vigilia, il quale presenta un’apparente incompatibilità col nostro passo di De Anima III 2:
Ma (a) siccome secondo ciascuna percezione vi è alcunché di proprio e alcun-
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ché di comune – per esempio, proprio della vista è il vedere, dell’udito l’udire, e allo stesso modo secondo ciascuno degli altri sensi – (b) vi è però una certa capacità
comune che li accompagna tutti, con la quale si percepisce sia di vedere che di udire ((c) non è infatti con la vista, che si vede che si vede, e non si discrimina né si è in
grado di discriminare che le cose dolci sono diverse da quelle bianche, né col gusto
né con la vista né con entrambi, bensì con una parte comune a tutti i sensorî. (d) Infatti la percezione è una, e uno è il sensorio principale, ma l’essere è diverso per la
percezione di ciascun genere, come del suono e del colore) […]. (De Somn. et Vig. 2,
455a12-22)95
Chi ritiene che la contraddizione col passo di De An. III 2 sia insanabile, tende a considerare il passo di De An. III 2come un’esplorazione dialettica senza conclusione positiva96, e individua in questo passo del De Somno et
Vigilia la posizione matura di Aristotele97 in cui si affermerebbe che la metapercezione visiva (e non) è competenza del senso comune, sito nel cuore, e
non della vista stessa (o di un altro senso proprio) come ipotizzato nel De Anima98. Ma, come la nostra ricostruzione ha sperabilmente palesato, il passo del
De Anima ha una struttura argomentativa cogente e una conclusione positiva, che non è affermata esplicitamente ma che è più che legittimo inferire: è
mediante la vista, che percepiamo di vedere. Il passo testé riportato afferma
il contrario?
L’intento del passo è quello di mostrare che il sonno è affezione del senso comune, non dell’uno o l’altro dei sensi individuali, e che dunque è affezione che riguarda l’organo che realizza il senso comune: il cuore. Ciò che vi
è di comune fra i sensi individuali è realizzato, a livello fisico, ove si dà la loro intersezione: tutte le informazioni recepite dai sensi periferici confluiscono nel cuore99.
Che con la capacità comune ai sensi propri si percepisce e di vedere e di
udire ((b): ᾗ καὶ ὅτι ὁρᾷ καὶ ἀκούει αἰσθάνεται, 16-17a) qui va inteso non in
senso ‘distributivo’ bensì in senso congiunto: la capacità comune spiega il fenomeno multimodale del percepire di [vedere + udire]100, non già il perce-
95 εὶ δ’ὑάρχει καθ’ ἑκάστην αἴσθησιν τὸ μέν τι ἴδιον, τὸ δέ τι κοινόν, ἴδιον μὲν οἷον
τῇ ὄψει τὸ ὁρᾶν, τῇ δ’ ἀκοῇ τὸ ἀκούειν, καὶ ταῖς ἄλλαις ἑκάστῃ κατὰ τὸν αὐτὸν τρόον, ἔστι
δέ τις καὶ κοινὴ δύναμις ἀκολουθοῦσα άσαις, ᾗ καὶ ὅτι ὁρᾷ καὶ ἀκούει αἰσθάνεται (οὐ γὰρ
δὴ τῇ γε ὄψει ὁρᾷ ὅτι ὁρᾷ, καὶ κρίνει δὴ καὶ δύναται κρίνειν ὅτι ἕτερα τὰ γλυκέα τῶν λευκῶν
οὔτε γεύσει οὔτε ὄψει οὔτε ἀμφοῖν, ἀλλά τινι κοινῷ μορίῳ τῶν αἰσθητηρίων ἁάντων· ἔστι
μὲν γὰρ μία αἴσθησις, καὶ τὸ κύριον αἰσθητήριον ἕν, τὸ δ’ εἶναι αἰσθήσει τοῦ γένους ἑκά-στου
ἕτερον, οἷον ψόφου καὶ χρώματος) […].
96 Per esempio, C. OSBORNE, cit., R.D. HICKS, op. cit., ad loc.
97 Così, anche CH. KAHN, Sensation and Consciousness…cit.
98 Caston argomenta che la sua activity-reading del passo del De Anima lo renderebbe
compatibile col passo del De Somno et Vigilia in quanto quest’ultimo parla di capacità, e il
primo di attività e – per ragioni che qui non possiamo riassumere – solo l’attività metapercettiva sarebbe da attribuire alla vista stessa. Ma abbiamo già evidenziato ragioni indipendenti per rifiutare la activity-reading del passo del De Anima, che propone Caston.
99 Cfr. De Juv. et Sen. 467b28, 469a10; De Gen. An. II 6, 743b35-744a5; De Part. An.
III 4, 666a10-11.
100 Una simile interpretazione è sposata da T.K. JOHANSEN, op. cit., pp. 271-2. Tuttavia, non lo seguo quando utilizza questa interpretazione per argomentare che la metapercezione visiva è percezione per accidente. Cfr. supra.
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pir di vedere, da una parte, e il percepir di udire, dall’altra, fenomeni che invece sono oggetto del passo del De Anima. Se è così, i due passi parlano di
fenomeni cognitivi differenti, ancorché prossimi, visto che il percepire di [vedere + udire] coinvolge e il percepire di vedere, e il percepire di udire. Il punto (c) infatti spiega che non si discrimina e non si è capaci di discriminare che
il dolce è diverso dal bianco: 1) né con la vista 2) né col gusto 3) né con entrambe, bensì con qualcosa di comune: altrove101 si argomenta che la discriminazione intermodale è competenza del senso comune e di ‘qualcosa di uno’
che non può essere alcuno dei sensi propri coinvolti; qui si rileva che, come
la discriminazione intermodale di prim’ordine non è affare che concerna i soli sensi propri coinvolti, anche la discriminazione intermodale metapercettiva, di second’ordine, non è affare che concerna i soli sensi propri. Lo schema sarebbe dunque il seguente:
Percezione di prim’ordine:
1) Vedere il colore C → Vista
2) Gustare il sapore S→ Gusto
3) Cogliere la differenza fra C e S → Senso comune (né vista, né gusto in quanto propri)
Metapercezione (second’ordine):
1*) Percepire di vedere il colore C → Vista
2*) Percepire di gustare il sapore S → Gusto
3*) Percepire di [vedere C e gustare S] → Senso comune (né vista né gusto
in quanto propri)
La simmetria è perfetta, e se il passo del De Anima concerne (1*) e (2*)
mentre il passo del De Somno et Vigilia concerne (3*), allora essi cessano di
risultare irrimediabilmente incompatibili.
L’unico elemento problematico per questo approccio compatibilista è il
fatto che al principio del punto (c) del nostro passo si affermi che «infatti non
è con la vista, che si vede che si vede» (17a).
Ma occorre notare, anzitutto, che non è con la vista, che si vede che si
vede, giacché non si vede che si vede simpliciter: come il passo del De Anima illustra nella duplice soluzione all’aporia ((7a), (7b)), il coglier di vedere,
che pure è prestazione da riportare alla vista stessa, non è un vedere stricto
sensu; infatti si colgono con la vista buio, luce, e la loro differenza, senza vederli nel senso di riceverne forme cromatiche, e ciò che si coglie quando si
coglie di star vedendo – il senso come organo/capacità – è colorato ‘in un certo modo’, dunque non al modo delle superfici viste dal senso102.
101
Cfr. De An. III 1, 426b8ss.; De Sensu 7, 449a7-20.
Si potrebbe obbiettare che nell’affermazione per cui οὐ γὰρ δὴ τῇ γε ὄψει ὁρᾷ ὅτι
ὁρᾷ la posizione del γε pone l’enfasi su τῇ ὄψει, dunque secondo la lettura più naturale si
dice che non è con la vista, che si vede che si vede, bensì è con altro, che si vede che si vede. Ma non mi pare così forzato supporre che l’enfasi sulla vista in certo senso ‘attragga’ il
contenuto successivo, dimodoché anche il contenuto successivo risulti negato: se si vedesse
che si vede, lo si farebbe con la vista, pertanto se non è con la vista, il vedere che si vede sem102
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Dunque osservare che non si vede che si vede con la vista, non è contraddire ciò che si sostiene nel passo del De Anima; non è che si veda che si
vede con qualche senso ulteriore che non sia la vista, ma non si vede che si
vede in alcun modo; piuttosto, si percepisce che si vede, con la vista, ma non
in quanto senso proprio, cioè non con la vista considerata come ricezione di
forme cromatiche, ciò che essa è per essenza in quanto senso proprio. La capacità della vista di percepir di vedere, è capacità che la vista possiede in quanto è qualcosa di ulteriore a ciò che essa è in quanto senso proprio, e questo
qualcosa di ulteriore è potere che essa condivide con gli altri sensi propri: ciascuno di questi dispone di un potere autoreferenziale metapercettivo, anche
se la metapercezione multimodale come tale, è prestazione metapercettiva in
cui non solo ciascun senso è coinvolto in quanto è qualcosa di ulteriore al suo
essere senso proprio (recettore di certi generi sensibili), ma in cui è coinvolta la coscienza percettiva unificata, trascendente i sensi individuali, che è fisicamente ubicata nel crocevia ove tutte le informazioni sensoriali confluiscono e si fanno sinergiche, ovverosia nel cuore (punti (c) e (d)). Dunque: la metapercezione ‘monomodale’, oggetto del passo del De Anima, è dovuta al rispettivo senso coinvolto nella percezione di prim’ordine, anche se tale senso
è metapercettivo non in quanto senso proprio; la metapercezione multimodale unificata, oggetto del passo del De Somno et Vigilia, non è dovuta solo
ai sensi individuali considerati in modo distributivo ([vista] + [udito]) ma al
senso comune, allo stesso modo in cui anche la discriminazione percettiva intermodale di prim’ordine non è dovuta né a uno né all’altro dei sensi coinvolti, e nemmeno alla loro somma o mera giustapposizione (punto (c)), bensì a qualcosa di unitario, cioè il senso comune il cui organo è il cuore. Naturalmente, il senso comune non è da intendersi alla maniera di un sesto senso, bensì come l’unità dei sensi individuali stessi, che sono diversi in essere
ma ‘numericamente identici’ nel confluire nel cuore (punto (d)).
Il sistema visivo è un organo composito che consta di [occhi + cuore],
quello uditivo un altro organo composito che consta di [orecchie + cuore] e
così via, e grazie al fatto di condividere il sensorio principale [cuore], i cinque sensi possono avere delle funzioni superiori che trascendono la loro funzione propria primaria. Dunque, è disponibile una interpretazione compatibilista delle due opere, sotto la quale i rispettivi passi appaiono ben coerenti in sé stessi, oltreché l’uno con l’altro.
plicemente non è. Peraltro, se il senso del passo fosse che si vede che si vede non con la vista, bensì con altro, si affermerebbe qualcosa di patentemente contraddittorio: se si percepisce di vedere con altro che non sia la vista, allora non può certo trattarsi di un vedere. E mi
pare implausibile intendere il primo ‘vedere’ nel senso metaforico o generico di ‘cogliere’,
‘percepire’: nella lapidaria espressione “ὁρᾷ ὅτι ὁρᾷ” la prima e la seconda occorrenza debbono avere lo stesso senso, soprattutto in un passo così delicato e denso di espressioni tecniche tipiche del lessico psicologico aristotelico.
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7. Conclusione
De Anima III 2, 425b12-26 non presenta un’esplorazione dialettica preliminare, bensì un argomento cogente e costruttivo, dalla struttura inferenziale complessa, il cui esito positivo è che il percepire di vedere è opera della vista medesima. L’argomento si inscrive nello spirito generale dell’opera,
tesa a riportare la complessità manifesta delle operazioni psichiche a un insieme di poteri di base: in questo caso, certe funzioni superiori della percezione ai poteri percettivi di base, consistenti nei cinque sensi. La mia ricostruzione dell’argomento prevede che l’opzione favorita venga riscattata da
un’aporia apparente, mediante un trattamento della stessa unitario benché duplice: essere una funzione visiva non significa essere semplicemente ricezione cromatica; l’organo-capacità reca in sé un λόγος cromatico, causato dal colore ricevuto e nel cui coglimento lato sensu visivo, dunque autoriflessivo –
la metapercezione consiste.
Ciò di cui il passo parla non è quella coscienza costitutiva della percezione che rende un certo patire materiale una percezione; ne è il coglimento
contrastivo intermodale dello star vedendo piuttosto che udendo (qualcosa),
e neppure è il coglimento multimodale unificato dello star [udendo + vedendo + gustando etc.]; ma non è nemmeno la tematizzazione introspettiva, volontaria e contingente, delle proprie esperienze visive (o uditive, od olfattive
etc.). Piuttosto è alcunché di ulteriore alla percezione stessa, ma che spontaneamente e atematicamente accompagna perlopiù quest’ultima. Tuttavia, la
metapercezione relativa a una data modalità sensoriale non è costitutiva della percezione di quella modalità sensoriale, sebbene un token di percezione
visiva causi perlopiù un (distinto) token di metapercezione visiva. Si tratta infatti di tokens numericamente distinti ancorché intimamente relati da un punto di vista causale-funzionale: sono distinti ma dipendenti.
Il nostro passo non concerne né una mera capacità, né una mera attività, ma indaga intorno a quale capacità sia responsabile di cogliere una certa
capacità-in-attività (come la visione), e conclude che è meglio ascrivere alla
stessa capacità di prim’ordine (es. vista) il compito di cogliere sé in quanto
attualizzata (o, al limite, in quanto attualizzabile dall’irrompere di oggetti cromatici ambientali).
Sebbene la metapercezione sia una prestazione percettiva, essa non è riportabile alla percezione accidentale, nonostante vi siano suggestive e seducenti analogie fra l’uno e l’altro tipo di percezione: la metapercezione non riposa su nessi arbitrari ed estrinseci che debbano essere stati appresi nell’esperienza passata, ma è capacità naturale e innata, dovuta alla vista in un senso ‘genuino’ (benché allargato rispetto al senso stretto di ‘ricezione cromatica’), non in un senso accidentale.
Il passo del De Somno et Vigilia dedicato alla capacità metapercettiva,
riporta quest’ultima al senso comune e la nega ai sensi propri; ma la contraddizione col nostro passo del De Anima si rivela essere solo apparente, non
appena si comprenda che il passo del De Anima verte sulla metapercezione
secondo ciascuno dei sensi di prim’ordine (in senso ‘distributivo’: metapercezione visiva dovuta alla vista, metapercezione auditiva dovuta all’udito,
etc.), mentre il passo del De Somno et Vigilia verte sulla metapercezione multimodale unificata (percepire che si [vede + ode + gusta etc.]); mentre la me-
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tapercezione visiva è dovuta alla vista, la percezione di star sia vedendo che
udendo non è dovuta né all’udito né alla vista né alla giustapposizione di entrambi, bensì al senso comune che rappresenta la loro confluenza unificata –
il cui realizzatore è il cuore – esattamente al modo in cui anche la discriminazione di prim’ordine fra due sensibili eterogenei (es. [rosso] da [dolce]) non
è realizzata da alcuno dei due sensi coinvolti, ma da «qualcosa di uno».
DIEGO ZUCCA