Sandra Covino è ordinaria di Linguistica italiana
presso l’Università per Stranieri di Perugia. Ha
dedicato molte delle sue pubblicazioni alla storia
della filologia e della linguistica in Italia; tra le più
recenti: Linguistica e nazionalismo tra le due
guerre mondiali (Il Mulino, 2019); D’Ovidio Schuchardt (http://schuchardt.uni-graz.at, 2022);
(con M. Loporcaro e F. Fanciullo) C. Merlo, Scritti
linguistici (4 voll., Viella, 2022- ); Dal “distacco”
al “connubio”: glottologia e filologie in Italia tra
secondo Ottocento e prima metà del Novecento
(«AGI» 108, 2023: 225-286).
Enrico Terrinoni è professore distaccato presso il
Centro Interdisciplinare “Beniamino Segre”
dell’Accademia Nazionale dei Lincei e ordinario di
Letteratura inglese all’Università per Stranieri di
Perugia. È autore di Occult Joyce: The Hidden in
Ulysses (Cambridge SP, 2007); Oltre abita il
silenzio (Il Saggiatore, 2019); Su tutti i vivi e i
morti. Joyce a Roma (Feltrinelli, 2022); La vita
dell’altro. Svevo, Joyce: un’amicizia geniale
(Bompiani, 2023). Ha curato l’edizione bilingue
dell’Ulisse di Joyce (Bompiani, 2021) e, con Fabio
Pedone, dei libri 3 e 4 del Finnegans Wake (Mondadori, 2017-2019).
(dall’Introduzione al volume)
ISBN 978-88-3613-448-9
€ 40,00
La “varia fortuna di Dante” in Italia e in Europa
Floriana Calitti è ordinaria di Letteratura italiana
all’Università Digitale Pegaso. Le sue ricerche si
sono concentrate soprattutto sulla poesia del
Rinascimento, sulle diverse tipologie di petrarchismi, sulla ricezione di Dante e Petrarca legata
anche al tema dell’esilio e alle questioni di canone
“identitario” italiano, nonché sulle questioni metriche: Fra lirica e narrativa. Storia dell’ottava rima
nel Rinascimento, 2004. Gli studi sulla trattatistica
del Cinquecento sono confluiti nel volume Le
parole della Corte, 2019.
Il titolo di questa raccolta di scritti su La “varia fortuna di Dante” in Italia e in
Europa richiama volutamente il saggio che Carlo Dionisotti compose in occasione delle celebrazioni per il settecentenario della nascita del poeta, «testo ancor
oggi fondamentale – come ha scritto Roberto Antonelli – per la ricezione dantesca fino al Novecento, e realmente ineludibile». Certo, la bibliografia sul tema ha
continuato in seguito ad arricchirsi né sono mancate, in occasione delle celebrazioni per i settecento anni dalla morte, mostre, seminari, convegni e pubblicazioni che si sono proposti di mettere in luce la capacità della Commedia – com’è
tipico dei classici e, in particolare del massimo capolavoro della nostra letteratura
– di farsi leggere, interpretare e riutilizzare da generazioni e pubblici diversi
(nazionali e internazionali), per forme espressive, proiezioni e scopi comunicativi altrettanto vari, da quelli intellettualmente e artisticamente più elevati fino a
quelli più “prosaici” e popolari della pubblicità commerciale e dell’appropriazione “postmoderna” di Dante come icona pop. [...]
Una prima mappa orientativa per il lettore è indubbiamente tracciata dalla stessa
suddivisione del libro in tre parti: nella prima si torna a riflettere sulla questione
del “principato dantesco” dal punto di vista della tradizione storiografica italiana
e del ruolo che a Dante fu attribuito, a partire dal Risorgimento, nella costruzione
dell’identità nazionale e poi nella mitografia del nazionalismo novecentesco;
l’indagine sull’esemplarità dantesca si estende, nella seconda parte della silloge,
alla dimensione europea, toccando varie epoche, contesti culturali e manifestazioni specifiche di impulso creativo o di riflessione teorica stimolate dall’opera
del grande poeta fiorentino. La terza parte, infine, costituisce una sorta di appendice: un’inconsueta messa a fuoco dei significati che assumono oggi le esperienze di traduzione della Commedia nella lingua più diffusa al mondo. Nella tessitura complessiva del volume si intrecciano però più filoni di sviluppo tematico, che
il lettore potrà scegliere di seguire in base ai propri interessi.
LA “VARIA
FORTUNA
DI DANTE”
IN ITALIA E
IN EUROPA
a cura di
Floriana Calitti, Sandra Covino,
Enrico Terrinoni
Edizioni dell’Orso
In copertina:
Luca Signorelli, Ritratto di Dante, Cappella di San
Brizio, Duomo di Orvieto.
Volume pubblicato con un contributo dell’Università per Stranieri di Perugia
Il volume è stato sottoposto a un processo di peer review
che ne attesta la validità scientifica
La “varia fortuna di Dante”
in Italia e in Europa
a cura di
Floriana Calitti, Sandra Covino, Enrico Terrinoni
Edizioni dell’Orso
Alessandria
© 2023
Copyright by Edizioni dell’Orso s.r.l.
Sede legale:
via Legnano, 46 15121 Alessandria
Sede operativa e amministrativa:
viale Industria, 14/A 15067 Novi Ligure (AL)
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e-mail: info@ediorso.it
http://www.ediorso.it
Redazione informatica e impaginazione a cura di Francesca Cattina
(francesca.cattina@gmail.com)
Grafica della copertina a cura di Paolo Ferrero
(pferrero64@gmail.com)
È vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata, con qualsiasi mezzo effettuata,
compresa la fotocopia, anche a uso interno e didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22.04.41
ISBN 978-88-3613-448-9
INDICE
Introduzione
IX
Parte prima
Dante in Italia
Roberto Antonelli
Prolusione
Dante storiografo della lirica italiana e romanza
3
Sandra Covino
Tra nazionalismo e universalismo: Dante in due interventi
di Ernesto Giacomo Parodi e di Francesco D’Ovidio
negli anni della prima guerra mondiale
9
elena Pistolesi
Dante nella Storia della lingua italiana di Bruno Migliorini
41
Roberta Cella
Dante nei manuali di storia della lingua italiana
63
Fabrizio Amerini
Dante e la filosofia medievale: un percorso storiografico
83
Amedeo De Vincentiis
Dante alla prova della vita. Disillusione biografica e
identità storica settecento anni dopo il 1321
101
Floriana Calitti
Il “mito” delle Tre corone
117
VI
INDICE
Federico Sanguineti
Dante poeta del proletariato
Duccio Tongiorgi
Variazioni di canone. Dante nelle antologie
scolastiche tra Sette e Ottocento
Stefano Jossa
Dante e Pinocchio campioni della nazione
141
155
167
Parte seconda
Dante in Europa
Luca Crescenzi
Due secoli di Dante in Germania
193
Nick Havely
«Qui la morta poesì resurga»:
il Purgatorio di Dante e la letteratura inglese
dal Medioevo ai giorni nostri
203
Giuseppina Giuliano
“Il più grande simbolista”:
Dante nell’opera di Dmitrij Merežkovskij
219
Massimo Lucarelli
Sulla “varia fortuna di Dante” in Francia nel Rinascimento
237
Rossend Arqués
Illustrare la Commedia nel VII centenario della nascita di Dante:
percorsi europei da Joaquín Vaquero Turcios a Salvador Dalí
245
Gabriella Gavagnin
Epigrafi e canoni: Dante in esergo nella letteratura catalana
275
INDICE
VII
Parte terza
Traduttori di Dante in inglese a colloquio
Michael Palma, Marco Sonzogni &
Leonardo Guzzo, Enrico Terrinoni
Undaunted Dante: translation matters
295
Profili degli autori
305
Abstract dei contributi
311
Indice dei nomi
319
Gabriella Gavagnin
EPIGRAFI E CANONI:
DANTE IN ESERGO NELLA LETTERATURA CATALANA
1. Varia presenza di Dante in esergo
Tra le forme più esplicite di intertestualità letteraria, tra quelle che esibiscono
più di altre l’intenzione di rinvio a un autore, un’opera o un passaggio, va considerata la citazione in esergo, se non altro perché la sua collocazione liminare
ne aumenta la visibilità, il suo carattere isolato rispetto al testo, messo in risalto
dalla composizione tipografica, le assegna di per sé maggior protagonismo nonché un ruolo dialogico (tutto da definire, d’altronde, da parte del lettore) rispetto
al titolo, o al testo, o all’autore, o al destinatario del testo. In una letteratura come
quella catalana, in cui la storia della fortuna di Dante comincia in epoca medievale1, non stupisce trovare ampiamente citati suoi versi in epigrafe. Spigolando
il canone alto della letteratura catalana dall’Ottocento in poi è stato possibile raccogliere un corpus di epigrafi dantesche, rinvenute per lo più in opere poetiche,
sebbene la ricerca avesse tenuto parimenti conto dei diversi generi, ma appartenenti alle più svariate epoche ed estetiche e a orientamenti ideologici difformi:
dai romantici (Joaquim Rubió i Ors o Jacint Verdaguer) ai poeti dell’età postmoderna (Narcís Comadira o Miquel Desclot); dalle file cattoliche e conservatrici
(Miquel Costa i Llobera o Manuel de Montoliu) fino a intellettuali engagés o
filoavanguardisti (Bartomeu Rosselló-Pòrcel, Josep Palau i Fabra o Manuel de
Pedrolo).
Non meno variabili sono le finalità con cui le epigrafi vengono impiegate
e il livello di esplicitazione degli interlocutori del gioco intertestuale. Qualche
esempio servirà a mostrare tale diversità tipologica, frutto senza dubbio dell’alto grado di conoscenza e appropriazione del testo dantesco in area catalana.
1
Prende avvio grazie ai contatti diretti con l’Italia (Farinelli 1905; Boni 1967) nei decenni
che vanno dalla ricezione trecentesca di Bernat Metge alla traduzione primoquattrocentesca della Commedia di Andreu Febrer (Gómez 2016; Parera 2018), si rinnova dietro le sollecitazioni della cultura europea negli ambienti romantici e simbolisti (Arquès 2001 e 2016) e si rifrange nei riusi più svariati nel secolo che trascorre tra gli ultimi due centenari della morte di Dante (Gavagnin
2011).
276
GABRIeLLA GAVAGNIN
Riprendendo le sempre preziose indicazioni di Genette (1989: 141-157), la funzione più canonica di un’epigrafe è quella di focalizzare temi, idee o motivi presenti nel testo oppure di suggerire atmosfere. È quanto fa il poeta simbolista ed
espressionista Guerau de Liost che colloca l’incipit di Purg. XXIX, allusivo a un
improvviso effetto di luce nella foresta, al bagliore che l’attraversa («Ed ecco un
lustro subito trascorse / da tutte parti per la gran foresta… / (Dante.)», Guerau
de Liost 1908: 235), in esergo alla sezione conclusiva del libro La Muntanya
d’ametistes, nella quale viene esplorata la forza suggestiva, magica e tellurica
delle forme, delle luci e dei suoni del bosco. Ma non sempre il nesso tematico tra
citazione e testo è interpretabile in modo agevole e univoco. Anzi, spesso è enigmatico e spetta al lettore tracciarne i collegamenti. Ne è prova la ricezione critica dell’epigrafe che Salvador Espriu, poeta riconducibile al postsimbolismo del
secondo dopoguerra, sceglie per esergo di una raccolta, Les hores (1953), le cui
tre sezioni sono una sorta di dialogo nel passato e dal presente con l’amico poeta
Rosselló-Pòrcel, con la madre e con il suo stesso alter-ego anteriore alla frattura della guerra, tutt’e tre fisicamente o simbolicamente morti. C’è chi ha visto
nella citazione («Non so chi sia, ma so ch’ei non è solo. / Purg. XIV, 4», espriu
2013: 181) un’allusione al ricongiungimento anelato dall’io poeta con gli affetti
più intimi in uno spazio situabile nell’oltretomba (cfr. Capmany 1972: 89-90),
o l’appello a un più generale sentimento di solidarietà (cfr. Castellet 1978: 73);
per altri conterebbe l’identità del soggetto che pronuncia queste parole, cioè lo
spirito di un invidioso, perché l’io poeta, che brancola in cerca della completa
coscienza della propria identità, si sente accomunato a lui nella condizione di
cieco (cfr. Lanciani 1979: 365)2.
Senza contraddire le osservazioni riportate, plausibili e compatibili, si potrebbe a mio avviso leggervi ancora un’altra intenzione: l’esplicito rinvio alla
Commedia potrebbe costituire un ulteriore episodio dell’intensa intertestualità attestata nei confronti dell’opera poetica dell’amico scomparso (cfr. Delor
1993). Il filo dantesco servirebbe allora a collegare il libro Les hores alla poesia
Dansa de la mort che Rosselló-Pòrcel aveva composto nel 1935 in risposta ad
una precedente di Espriu, Dansa grotesca de la mort. Infatti, Rosselló-Pòrcel
vi aveva collocato in esergo un verso dell’Inferno, quello in cui Anteo solleva
Dante e Virgilio per deporli sul fondo del pozzo alle porte dell’ultimo cerchio:
«Ma lievemente al fondo. Inf., 31» (Rosselló-Pòrcel 1938: 35). Del resto, Castellet (1978: 74), che aveva analizzato nella loro pregnanza di indizi alcune
epigrafi dell’opera poetica di espriu, aggiungeva che questa dantesca era anche
un modo per porre l’accento su letture fondamentali nella sua formazione. Una
2
Per una sintesi cfr. l’annotazione di Joan Ramon Veny-Mesquida all’edizione critica de Les
hores (espriu 2003: 55).
DANTE IN ESERGO NELLA LETTERATURA CATALANA
277
formazione in molta parte condivisa con l’amico e compagno di studi RossellóPòrcel. Potremmo definire questo uso dell’epigrafe ‘duale’, nella misura in cui
consente un doppio rimando, quello esplicito all’autore citato (l’epigrafato), e
quello implicito a un altro autore con cui l’autore, l’opera o il luogo è condiviso.
In certa misura Rosselló-Pòrcel, che è tra i dedicatari espliciti della stessa raccolta, diventerebbe anche una sorta di epigrafitario implicito.
Un analogo sistema di rinvio a due livelli è riscontrabile a mio parere nella
citazione aggiunta da Narcís Comadira alla fine del componimento collocato in
chiusura della prima sezione di Usdefruit (1995), un testo in cui il poeta svolge
una riflessione autobiografica sul passato recente, sulla sua leggerezza o inconsistenza o vacuità, simile a paglia data in pasto al cavallo. Dopo l’ultima strofa
(che nella poesia funge al tempo stesso da titolo) si legge il verso con cui, in
Purg. XXVI, 148, Dante aveva indicato l’uscita di scena di Arnaut Daniel. La
citazione, tra parentesi e in corsivo come se fosse appunto una didascalia, è preceduta dall’avverbio italiano da capo, a voler ribadire la fine di un ciclo vitale
(cfr. Comadira 2002: 451):
Això són aquests anys que ja han passat:
una bala de palla ben lligada
que el vell cavall grufa amb el morro.
Da capo
(Poi s’ascose nel foco che li affina)
È difficile non pensare che Comadira, attento lettore della poesia inglese, qui
non ammiccasse a T.S. Eliot, e in particolare alla strofa di explicit della Terra
desolata dove ricompare, mediante questo medesimo verso, il canto dantesco
citato nella dedica a Ezra Pound che apre il libro.
I sat upon the shore
Fishing, with the arid plain behind me
London Bridge is falling down falling down falling down
Poi s’ascose nel foco che gli affina
Quando fiam uti chelidon – O swallow swallow
Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie
These fragments I have shored against my ruins
Why then Ile fit you. Hieronymo’s mad againe.
Datta. Dayadhvam. Damyata.
Shantih shantih shantih (eliot 1980: 50)
Un’altra funzione ben presente nelle epigrafi inventariate è quella che interagisce con il titolo, volta, come avviene con un sottotitolo, ora a delimitarlo o
giustificarlo ora a ribaltarlo in controcanto. In tale prospettiva va interpretata
278
GABRIeLLA GAVAGNIN
l’intenzione della citazione dantesca che il poeta primonovecentesco Miquel
Costa i Llobera aggiunge in limine a una poesia dal tono oratorio il cui titolo
riporta meramente l’occasione che l’ha generata, Per l’anniversari de la mort
de Mossèn Jacinto Verdaguer. Il verso in epigrafe, «Onorate l’altissimo poeta / (Dante)» (Costa 1904), con doppia allusione a Virgilio e a Dante, precisa che
l’intervento commemorativo intende sottolineare e giustificare il ruolo di poeta
nazionale svolto dal maggior poeta catalano dell’Ottocento, cui si devono due
poemi epici, l’uno in chiave iberista, L’Atlàntida, l’altro sulla fondazione della
Catalogna, Canigó. Fa da appendice al titolo anche l’esergo posto da Miquel
Desclot in un sonetto che si ispira all’episodio di Matilde (Desclot 2021: 38).
La terzina in cui Dante descrive la sorprendente apparizione della donna serve
infatti sia a identificare il locus cui allude il titolo, El jardí de Matilde, sia anche
a delimitare l’immagine precisa su cui è costruito il sonetto:
I aleshores allí se’m presentà,
com presentar-se sol el que ens desvia,
meravellant, de qualsevol pensar…
Dante-Sagarra3
Purgatori XXVIII, 37-39
Tanto insolito quanto significativo di questo vincolo tra esergo e titolo è l’esempio fornito da una poesia d’El Príncep di Joan Teixidor, in cui l’autore scandaglia la dolorosa esperienza della morte del figlio. Qui la citazione non occupa
più il consueto spazio a destra, liminare al componimento e sottostante al titolo,
ma viene promossa essa stessa a titolo abbattendo i confini tra questi due tipi
di paratesto. Il titolo, E VENNI DAL MARTIRIO A QUESTA PACE (1954: 51),
è costituito infatti da una citazione nella sostanza e nella forma, nella sostanza
perché corrisponde al verso conclusivo del discorso di Cacciaguida in Par. XV,
e nella forma perché l’aspetto tipografico evidenzia questo carattere ibrido: il
verso è riprodotto nell’originale italiano ed è in corsivo, alla stregua di una citazione, ma è centrato, in carattere maiuscolo e privo di qualsiasi riferimento a
luogo e autore, alla stregua degli altri titoli della raccolta.
3
Miquel Desclot, traduttore oltre che poeta, e traduttore peraltro delle rime petrose e altri versi danteschi, ha voluto qui citare la Commedia dalla traduzione catalana di Josep Maria de Sagarra
edita nel 1950 e molto ammirata nella cultura catalana novecentesca per la sua qualità poetica. Tutte le altre citazioni che abbiamo riportato, invece, sono nell’originale italiano, sia perché tra Otto e
Novecento la fruizione della cultura letteraria italiana avveniva in modo diretto tra gran parte degli intellettuali catalani, sia anche perché l’unica traduzione integrale di riferimento fino a quella di
Sagarra era quella di Andreu Febrer, celebrata come un monumento letterario ma ormai poco utilizzabile nella sua funzione strumentale.
DANTE IN ESERGO NELLA LETTERATURA CATALANA
279
Al di là della specificità di questo caso singolare, tutte le epigrafi fin qui
richiamate mostrano anche la varia morfologia della citazione riguardo all’identificazione dell’epigrafato e del passo citato. Per quanto sia poco operativo
vincolare in modo sistematico un proposito preciso al tipo di formato, se non
altro perché spesso sono fattori esterni a condizionarlo, non va trascurato però
che esso in taluni casi può rivelare intenzioni deliberate. Per esempio, quanto più viene precisato il riferimento bibliografico del luogo citato, indicando,
come nelle epigrafi qui riportate da Rosselló-Pòrcel, espriu e Desclot, la cantica, il numero del canto e, negli ultimi due, anche il numero dei versi, tanto
più è plausibile supporre che ci sia una consapevolezza e una determinazione
forte nella scelta del contenuto, che esso cioè sia rilevante di per sé, in modo
autonomo rispetto all’opera o all’autore. Al polo opposto, lo scarno riferimento
al nome dell’epigrafato può riflettere la volontà di attribuire più importanza
all’identità dell’autore citato che al significato o alla specificità della citazione.
La scelta da parte di Costa i Llobera di un passo fin troppo popolare («Onorate
l’altissimo poeta»), venendo da un intellettuale che conosceva a fondo l’opera
dantesca in tutta la sua complessità, risponde alla strategia del ricorso all’argomento d’autorità (cfr. Mortara Garavelli 1993: 79) allo scopo di amplificare
il significato di riconoscimento e di tributo insito nel testo. Importa qui soprattutto la voce autorevole di Dante piuttosto che il verso selezionato. Genette
(1989: 155-157) attribuiva a questa funzione dell’epigrafe orientata verso l’epigrafato un carattere obliquo, che implica di rimbalzo una minore pregnanza
del significato testuale.
Un esempio paradigmatico di questo uso obliquo è nella raccolta di versi di
Manuel de Montoliu Llibre d’amor, scritta in stretto rapporto cronologico con la
sua traduzione in catalano della Vita nuova (1902)4 e stimolata dall’interesse di
origine preraffaellita per lo stilnovismo e per la figura di Beatrice che influenza
profondamente il movimento modernista catalano finisecolare (cfr. Cerdà 1981;
Arquès 2016). Il libriccino di Montoliu (1903) si articola in quattro sezioni, le
prime tre delle quali dotate in esergo di versi della Vita Nuova e delle Rime riportati con la sola indicazione in calce del nome dell’autore. Quel che conta qui
è tout court il mero richiamo a Dante (e nello specifico al Dante stilnovista) in
quanto bandiera di un preciso movimento culturale di cui il testo vuole essere
espressione. C’è tuttavia un altro aspetto di questa funzione obliqua che vorrei
prendere in considerazione nelle pagine seguenti per le implicazioni che essa ha
con l’idea di canone.
4
Riedita di recente in edizione anastatica (Alighieri 2021), era la prima versione integrale in
forma di prosimetro in area iberica. Su questa versione e sul dantismo di Montoliu si veda Ardolino (2007) e (2021).
280
GABRIeLLA GAVAGNIN
2. epigrafi e canoni
2.1. Dall’epigrafe al sistema di epigrafi
L’epigrafe, da elemento isolato, può diventare elemento di una serie più o meno
numerosa di epigrafi copresenti nel testo. Genette (1989: 156-157) ha sottolineato
l’uso sovrabbondante che in determinate epoche e movimenti se n’è fatto (e se ne
fa) all’interno di uno stesso testo, poste non solo a inizio di libro, ma anche a inizio
di sezione, di capitolo, di singole unità testuali, impiegate per lo più per imprimere
un marchio di intellettualità alla propria opera, usate in certo modo come strumento di autoconsacrazione letteraria. Genette ne prende le distanze definendo tale pratica come una débauche épigraphique (1987: 148 [«orgia epigrafica» nell’edizione
italiana 1989: 157]), quasi una immodesta esibizione o un atto di snobismo. Vorrei
osservare, però, che non sempre, non necessariamente, ci troviamo di fronte a una
moltiplicazione disordinata di riferimenti in direzione centrifuga, perché ci sono
testi in cui le epigrafi sono concepite come pezzi di un sistema, fungendo da collante interno all’opera. Non è un caso che spesso esse vengano inserite a posteriori,
quando singole unità o intere sezioni in precedenza pubblicate in solitario sono poi
rifuse in edizioni di più ampio respiro. Servirebbero allora a fornire indizi sugli
elementi di coesione del nuovo contesto-libro. D’altra parte, senza escludersi a
vicenda, le diverse funzioni possono combinarsi: può essere pregnante il passaggio
prescelto e, nello stesso tempo, si può voler sottolineare il vincolo con un autore
significativo e inoltre usare la citazione come pinza nella struttura architettonica
del libro. Non solo, il reticolo di epigrafi può costituire esso stesso un sistema, in
cui anzi le singole citazioni acquistano un significato più preciso anche in funzione
di quelle adiacenti o correlate, una «superstructure» che «se prête à une existence
autonome» (Pittin-Hédon 2004: 105). Quando le epigrafi conformano in modo
preordinato una compagine organica di rinvii a autori e testi, diventano anche una
sorta di canone personale in cui l’inclusione di questo o quell’autore ne precisa al
tempo stesso una rilettura in chiave convenzionale o più originale. Canoni, s’intende, con un grado elevato di soggettività nella misura in cui l’epigrafatore definisce
una tradizione di riferimento che ha contribuito a generare quel testo. Certo, è
possibile incorrere nel rischio di confondere, per dirla con Umberto Eco (1990: 1538), la intentio auctoris o intentio operis con la intentio lectoris, ma ci sono casi
in cui la volontà di articolare internamente l’insieme di epigrafi e di epigrafati, di
pensarli in funzione degli altri appare più che evidente, o addirittura è sorretta da
dichiarazioni esplicite. È da questo punto di vista che vorrei soffermarmi su come
il riferimento dantesco in esergo, proposto non nella sua singolarità ma come tessera di un corpus di autori e opere semanticamente, culturalmente, letterariamente
o stilisticamente significativo, sia stato messo in alcuni casi in rapporto dialogico
con il canone della tradizione letteraria catalana.
DANTE IN ESERGO NELLA LETTERATURA CATALANA
281
2.2. Canone universale e canone locale
Nella vasta tipologia di canoni, oggetto di un dibattito accesissimo sotto la
spinta dei cambiamenti della società postmoderna (cfr. Ceserani 1999: 417427), non solo per la revisione e la relativizzazione della loro composizione
interna ma anche per la messa in discussione della loro validità intrinseca5,
uno dei fattori classificatori di riferimento continua ad essere malgrado tutto
l’orizzonte geoculturale (cfr. Bianchini/Landolfi 2007; Domenichelli 2009),
in virtù del quale si può operare una distinzione preliminare tra canone internazionale (universale, mondiale, occidentale, europeo, etc.) e canone locale
(nazionale, regionale, etc.), immediato riflesso dello sviluppo moderno di due
prospettive parallele e antagoniste della storia letteraria, quella universale o
mondiale e quella nazionale (cfr. Gnisci 1999: 7-16; Casanova 2001: 148155). Canoni ambedue intesi, sempre più largamente, non in quanto cataloghi
di opere o autori dotati di fissità nel tempo, ma in quanto strumenti duttili e
aperti, condivisibili in grado diverso da gruppi e movimenti letterari, che permettono in un determinato momento storico di promuovere o difendere valori estetici, culturali e ideologici, di proiettare o di definire identità culturali6.
Sicché, visti con lo sguardo di poi, potrebbero essere considerati persino
uno strumento atto a delineare una storia della letteratura, identificabile nella
«storia dei canoni che organizzano e mettono in prospettiva le nostre conoscenze sui testi letterari» (Segre 2007: 41-42). Pur in questo carattere mobile
della loro composizione, Dante, com’è noto, trova da subito una sua stabile
collocazione all’apice di ambedue i canoni ottocenteschi, in quello occidentale, consacrato dai romantici tedeschi, come già mise in evidenza Auerbach
(cfr. Kofler 2019), e in quello nazionale, restituito a pieno titolo nel canone
fondazionale della letteratura italiana alla vigilia della storia risorgimentale
(cfr. Dionisotti 1967; Conti 2021).
Paradossalmente, però, la svalutazione della nozione di canone non ha impedito la proliferazione di ulteriori tipi di canone. L’esempio più eclatante è la proposta di David Damrosch, che,
pur definendo l’epoca attuale come postcanonical, propone tre possibili raggruppamenti canonici («our system has three levels: a hypercanon, a countercanon, and a shadow canon», Darmosch
2006: 45) in sostituzione dei tradizionali due livelli dei ‘maggiori’ e ‘minori’.
6
Come osservano Gino Roncaglia e Giovanni Solimine (2015: 6), «ogni canone sembra contemperare – anche se in proporzioni diverse, fortemente dipendenti dall’epoca e dalla tipologia del
canone considerato – l’aspirazione a una qualche oggettività almeno normativa, e un fondo ineludibile di soggettività e di arbitrio».
5
282
GABRIeLLA GAVAGNIN
Fig. 1: Dipinto allegorico delle discipline umanistiche che decora la sala del Paranimf della
sede ottocentesca dell’Università di Barcellona. Tra i venti nomi che circondano il dipinto si
leggono, in rappresentazione della letteratura di tutti i tempi, quelli di Omero, Sofocle, Dante
e Shakespeare.
Da una prospettiva non italiana, il ripetuto richiamo a Dante avviene, come
pare ovvio, grazie appunto alla sua permanenza nel canone occidentale ben oltre
il romanticismo. Così appare ampiamente testimoniato anche in ambito catalano.
Un campione interessante in tal senso è ricavabile dalle risposte al questionario
di Proust fornite dagli intellettuali e artisti che, nel corso degli anni sessanta del
secolo scorso, erano stati sollecitati a partecipare da Lluís Permanyer (1967).
Alla domanda su quali fossero i poeti da loro preferiti, alcuni risposero senza identificare autori, altri selezionarono un orizzonte omogeneamente locale
o strettamente contemporaneo, mentre tredici dei quarantatrè intervistati fornirono un breve personale catalogo di poeti o testi di respiro universale. Cinque
tra questi includevano Dante: i poeti Josep Carner («Dant, Shakespeare, Sant
Joan de la Creu, Paul Valéry», Permanyer 1967: 39) e Joan Oliver («L’Odissea
DANTE IN ESERGO NELLA LETTERATURA CATALANA
283
(Riba)7, Isaïas, l’“Infern”, Ausias March, Garcilaso, Sant Joan de la Creu, Villon,
Rimbaud, Shakespeare. el rigor de Riba, la tibantor d’espriu…», Permanyer
1967: 104), i narratori Joan Perucho («Heràclit, Pedro de espinosa, la misteriosa
autora de Peregrinatio ad sancta loca, el Dant, Góngora, Baudelaire, Rimbaud,
Apollinaire. entre els qui han deixat de viure, acabo amb Carles Riba», Permanyer 1967: 186) e Blai Bonet («Homer, Dant, Verlaine, César Vallejo, SalvatPapasseit, Péguy, eluard, Supervielle, Blas de Otero, Valverde. Bastants més»,
Permanyer 1967: 233), e il lessicografo Joan Coromines («Maragall, Costa i
Llobera, Dant, Chénier, Quevedo, l’autor de l’Odissea, Kalidasa», Permanyer
1967: 126). Il primo dato da rilevare è la presenza niente affatto marginale che
Dante continua ad avere in questo contesto storico, considerando oltretutto la relativa esiguità numerica degli autori menzionati da ciascuno e il carattere orale e
immediato delle interviste. Il secondo dato, anch’esso a mio avviso indicativo, è
il peso che continuano ad avere i paradigmi promossi dalla tradizione romantica.
In quattro delle cinque liste, infatti, Dante compare affiancato da Omero e/o da
Shakespeare8. D’altronde, è proprio la persistenza nel sedimento della cultura
moderna di quei valori universali e atemporali che erano stati assegnati all’opera
di Dante, e quindi il riconoscimento di una sua indiscussa fruibilità nell’orizzonte della modernità come avevano fatto per primi i romantici, ciò che consente di
costruire, in alternativa ai più o meno prevedibili accostamenti, percorsi originali
in cui Dante interagisce con discorsi letterari di ogni tempo e luogo.
Tornando alla specola che ci forniscono le epigrafi come strumento di una
intertestualità esercitata all’interno dello spazio paratestuale, ne troviamo un
esempio interessante nella raccolta poetica di Manuel de Pedrolo Ésser en el
món, dove il recupero dantesco si iscrive in un canone europeo tematicamente
personalizzato. L’opera, scritta nel 1948 sotto lo stimolo del clima esistenzialista
del secondo dopoguerra, porta quattro epigrafi distribuite a inizio di ciascuna
delle tre sezioni in cui è organizzato il libro. I passi citati, tutti arcinoti, sono
scelti in rapporto ai motivi del libro: la non speranza («Lasciate ogni speranza voi ch’entrate! / Dante, “Inferno”», Pedrolo 1996: I, 93), la profondità dei
gorghi da raggiungere per riconquistare la possibilità di ripresa («Every poem
an epitaph. And any action / is a step to the block, to the fire, down the sea’s
throat / or to a illegible stone: and that is where we start. / T.S. elIot, “Little
Gidding”», ibidem), l’angoscia del nulla («Qu’est mon néant auprès de la tupeur
7
La parentesi rinvia al traduttore in catalano dell’Odissea, Carles Riba.
Paradigma di cui Piero Boitani ha sottolineato l’indiscussa continuità nella cultura occidentale del nuovo millennio sulla sponda opposta dell’altrettanto indiscussa mobilità dei canoni:
«Sappiamo benissimo che i canoni sono transitori e dipendono da una quantità di fattori che possono mutare, ma non c’è dubbio che del canone ancora oggi valido in Occidente fanno parte (faccio esempi eclatanti) Omero, Dante e Shakespeare» (Roncaglia/Solimine 2015: 8).
8
284
GABRIeLLA GAVAGNIN
qui vous attend? / rImbauD: Les illuminations», ivi: 109), la sterilità delle azioni («… seu louco amor, dissolva-se no seio / d’esse infecundo, d’esse amargo
mar! / anthero De Quental»9, ivi: 129). Il loro accostamento comporta, nella
fattispecie dell’epigrafe dantesca, una rilettura operata dall’immediato orizzonte
filosofico culturale di Pedrolo, sicché l’Inferno, evocato mediante uno dei versi
più stigmatizzanti, è assunto come metafora della vita terrena, perché è il mondo
e non l’oltretomba l’autentico luogo della non speranza, dell’assenza di riscatto
o di salvezza. Metafora non estranea alla letteratura europea di un secondo Novecento che dolorosamente deve assumere la consapevolezza delle atrocità della
guerra10. Intanto, si osservi che la scelta degli autori sembra rispondere anche
alla volontà di rappresentare, grazie a una non aleatoria pluralità di tradizioni
linguistico-letterarie, un orizzonte di riferimento marcatamente europeo, al margine o al di sopra di qualsiasi ipotesi di canone locale. Né si direbbe aleatoria la
collocazione, in coppia con quella di Dante, della citazione da Little Gidding, un
testo attraversato da un’ampia intertestualità con l’Inferno. Lontani ormai dall’orizzonte romantico, Dante penetra a pieno titolo in un canone tutto novecentesco
in quanto a estetica e a visione del mondo.
2.3. Dante e il canone della poesia catalana
Quella transnazionale o universale non è però l’unica prospettiva geoculturale dalla quale si guarda a Dante. Alcuni esempi mostrano come, finanche in
una logica più schiettamente locale, a Dante possa essere attribuito un ruolo
diretto o indiretto nella formazione della propria tradizione. Se ci riferiamo a un
possibile canone linguistico-letterario nazionale catalano, va da sé che Dante è
suscettibile di farne parte attraverso traduzioni che possano essere recepite nella
loro autonomia di testi linguisticamente notevoli, come invita a fare la nozione
di polisistema della scuola di Tel Aviv (even-Zohar 1990). È quello che succede in fondo con la traduzione quattrocentesca di Andreu Febrer. Sul rilievo che
essa ha avuto nella cultura medievale ma soprattutto su quello che la storiografia
letteraria moderna le ha voluto attribuire non ci sono dubbi. Basti pensare che
l’edizione critica che ne fece Anna Maria Gallina (Alighieri 1974-1983) è stata
9
È l’unica epigrafe senza rinvio al titolo dell’opera, forse perché Pedrolo probabilmente aveva
letto la poesia di Anthero de Quental nell’antologia con testo a fronte pubblicata da Yunque (Quental 1940). I versi citati sono gli ultimi del sonetto Sepultura romàntica (1880).
10
È in questa stessa direzione, per esempio, il riuso che ne fa in quegli stessi anni Peter Weiss
(cfr. Miglio 2011), o testi della letteratura concentrazionaria polacca come Libro su Kolyma di
Andrzej Krakowiecki, in cui uno dei capitoli è intitolato Lasciate ogni speranza… (cfr. Marinelli 2011: 267-268).
DANTE IN ESERGO NELLA LETTERATURA CATALANA
285
accolta nella collana di classici catalani Els nostres clàssics. Autors medievals.
D’altronde, in virtù della natura bifida del canone come costruzione collettiva e
identitaria, in quanto «de l’un costat representa la identitat nacional i de l’altre
col·labora a constituir-la» divulgandone i valori culturali (Sullà), la Commedia,
mediante la traduzione di Febrer, è stata promossa nella cultura novecentesca
catalana a forza reattiva nel circuito della tradizione (cfr. Gavagnin 2011).
Ma accanto a questa prospettiva, è possibile individuarne un’altra che, con
indipendenza dalla mediazione linguistica di Febrer, tende a identificare altri
legami che possano riflettere una sorta di interazione tra l’opera di Dante e la
tradizione letteraria catalana. In tal senso, ci è parso appunto di trovare degli
elementi di contatto nei due sistemi di epigrafi che costruiscono, da un lato,
Joaquim Rubió i Ors (1818-1899) nella sua opera poetica, dall’altro, J.V. Foix
(1899-1986) nella prima delle sue raccolte poetiche.
2.3.1. Dante e le epigrafi de Lo Gaiter del Llobregat
Rubió i Ors, cui spetta il merito di aver rinnovato la poesia in lingua catalana
a partire dalle tematiche e dai modelli stilistici del romanticismo europeo, riunì le sue poesie nell’opera che ha per titolo lo pseudonimo con cui firmò tutta
la sua produzione letteraria, Lo Gaiter del Llobregat11. Titolo e componimenti,
che riflettevano la ripresa di figure ed episodi del passato medievale, facevano appello alle modalità e ai motivi della poesia trobadorica, coniugando così
mode europee con un dialogo rinnovato nei confronti degli scrittori classici della
letteratura catalana (cfr. Domingo 2018: 118-119). L’opera fu pubblicata per la
prima volta nel 1841 ma vi confluivano poesie apparse previamente in pubblicazioni periodiche. Molte di esse portano in esergo un’epigrafe, che solo in pochi
casi era presente anche nell’edizione dispersa, anteriore al volume12. Infatti, in
sede di costruzione del libro, Rubió i Ors, oltre a provvedere all’ordinamento,
tematico e non cronologico, delle singole unità, riassetta l’insieme di citazioni,
sostituendo, eliminando e soprattutto aggiungendone ex-novo molte altre (solo
sei poesie avevano originariamente epigrafe, mentre nel volume sono ben venti
su ventisette a portarne). Questa sistematizzazione degli eserghi, peraltro sottoposta a varianti nelle edizioni posteriori, non solo indica la volontà inequivoca
di attribuire un carattere organico all’insieme di questi paratesti, ma conferisce
11
Lo pseudonimo rinviava a una figura di suonatore popolare [gaiter = ‘zampognaro’] che
abitava appartato dal mondo in una capanna del fiume Llobregat, luogo geografico simbolico delle origini della Catalogna (cfr. Mestres 2021: I, 72-75).
12
Per la genesi dell’opera e per le citazioni mi baso sull’edizione critica pubblicata nella Tesi
di Dottorato di Albert Mestres (2021).
286
GABRIeLLA GAVAGNIN
anche un notevole protagonismo a questi riferimenti. Ecco intanto la lista degli
epigrafati secondo la prima edizione13: [in esergo al libro] Gauselm Faidit (1); [I]
Lo Rey en Pere (2) / Aribau (3); [II] [Obra de Mosent Sent Jordi é de Cavalleria]
(4); [III] Comte de Poitiers (5); [IV] Romances del rey Rodrigo (6); [V] Peire
Cardinal (7) / Folquet de Marsella (8); [VII] Guilhem Figueira (9); [IX] Alegret
(10); [X] Ausiàs March (11) / Raimon Menudet (12); [XI] Raimbaut d’Orange
(13); [XIII] Balzac (14); [XIV] Bertrans de Born (15); [XVI] Raimbaut d’Orange (16); [XVIII] Guillem Uc d’Albi (17); Albertet de Sisteron (18); [XIX] Guillems d’Autpol (19); [XX] Pistoleta (20); [XXII] Dante (21); [XXIV] Joan esteve
(22); [XXVI] Peire de Cols d’Aorlac (23); [XXVII] J. Reboul (24).
Se diamo uno sguardo all’insieme degli autori citati (e alla loro distribuzione
nell’architettura del libro) possiamo osservare che, tranne due concessioni alla
più stretta contemporaneità – le citazioni tratte da Balzac (14) e dal poeta di Nimes Jean Reboul (24) –, collocate l’una a metà del volume, l’altra in esergo alla
poesia di congedo, le altre epigrafi chiamano in causa la letteratura medievale.
Quella in lingua catalana, con i versi di Pietro il Cerimonioso (2) e di Ausias
March (11) o la lode a Barcellona attinta a un testo in prosa medievale (4), e
soprattutto quella trobadorica, cui appartengono gli autori di quindici delle restanti epigrafi, considerata la scuola poetica fondazionale della poesia catalana.
Lo Gaiter del Llobregat si propone, infatti, nella veste di nuovo trovatore, proprio come segnala la captatio benevolentiae dell’esergo in apertura del libro, il
verso «Mercé del paubre trobador» di Gaucelm Faidit (Mestres 2021: II, 146)14.
A quello stesso universo poetico rinviano inoltre, in modo indiretto, sia i versi di
Aribau (3), antesignano del movimento della moderna rinascita letteraria catalana il cui esergo rivendica la continuità della nuova poesia con la lingua limosina
delle origini, sia la citazione dantesca (21) che dà voce a Arnaut Daniel: «Sovegna vus a temps de ma dolor. Dante. “Purgatori”, c. XXVI.» (Mestres 2021: II,
187). Occorre qui distinguere due livelli dell’epigrafe: il significato del verso in
rapporto al contenuto della poesia (il crociato «Arnau lo de Rocafort» si congeda
Li trascrivo senza modificarne la grafia e indicando tra parentesi tonde la successione con
cui i ventiquattro eserghi appaiono nel volume, e, tra parentesi quadre, il luogo del libro o il numero del componimento. Racchiudo tra parentesi quadre anche il titolo dell’opera anonima dell’epigrafe (4).
14
A differenza delle altre citazioni di testi trobadorici, attinte per lo più alla raccolta di Raynouard (Mestres 2021: I, 76), questa non è tratta dalla stessa fonte e trascrive un verso della cobla «Ben
auria obs pans e vis» ricavandolo dall’opera di Giovanni Maria Barbieri Dell’origine della poesia
rimata (1790), testo che circolava in area catalana dal momento che se ne conserva un esemplare
nel Fondo Borja della Biblioteca d’esade-Sant Cugat. La lezione paubre trobador, infatti, è una lezione singolare attestata da Barbieri divergente da quella seguita nelle edizioni posteriori, paubre
peccador (si veda l’apparato critico dell’edizione di Barachini 2014). A questo stesso testo è attinta la citazione dell’epigrafe (20).
13
DANTE IN ESERGO NELLA LETTERATURA CATALANA
287
dall’amata in una ballata d’ambientazione medievale, e l’amata, rielaborando
in chiusura la preghiera di Arnaut Daniel a Dante, lo prega di non dimenticare
quando sarà sul campo di battaglia che il cuore di lei si strugge di nostalgia), e il
significato obliquo, per riprendere la terminologia di Genette, che fa leva prima
sulla condizione di trovatore del poeta/personaggio cui sono attribuite queste
parole e poi sull’autorevole mediazione di Dante che ne aveva sancito esplicitamente il ruolo di maestro di stile. Nel gioco di prospettive, Dante entra a far parte
di questo sistema di autori proprio per i legami che la sua opera intratteneva con
la lirica provenzale e in particolare con quella di Arnaut Daniel (cfr. Perugi 1978;
Beltrami 2004), legami che egli stesso aveva contribuito a mettere in evidenza in
un percorso che, prima di approdare al superamento dei suoi predecessori, implicava la consapevolezza dell’assimilazione della loro lezione (cfr. Asperti 2004).
2.3.2. Dante e le epigrafi di Sol, i de dol
Dopo gli esordi avanguardisti con prose poetiche di matrice metafisica e
surrealista, J.V. Foix allestisce negli anni trenta la sua prima raccolta di sonetti
all’insegna di una dialettica tra modernità e tradizione (cfr. Sansone 1963), sistemando nei paratesti una successione di citazioni che rinviano a una costellazione
non casuale di testi e autori, la tradizione appunto cui sono debitrici o con la quale si misurano le istanze moderne e avanguardiste15. Di quale tradizione si tratti è
innanzitutto il prologo a informarci, ritagliandone i confini in una dichiarazione
di intenzioni dove si afferma che il libro intende dar ragione dell’appartenenza
dell’autore «alla vasta comunità che accoglie, nell’arco di un millennio, i suoi, i
provenzali e i toscani»16. All’idea di viscerale connessione tra lirica trobadorica
e lirica catalana che abbiamo trovato in Rubió i Ors e della quale si alimenta
la rinascita letteraria catalana nel corso dell’Ottocento, si affianca ora il polo
toscano, integrabile in un comune orizzonte culturale che ben rifletteva l’idea di
panlatinismo (cfr. Litvak 1987) così come l’aveva costruita Mistral, cioè vertebrandola sulla centralità anche geografica del provenzale nell’arco mediterraneo.
Un’idea che si ravviva nel clima germanofobo acuito dal conflitto bellico anche
grazie al contributo della dottrina politica promossa da Charles Maurras, la quale
Le epigrafi di questo libro sono state ripetutamente oggetto di attenzione da parte della critica, che ne ha messo in luce i nessi tematici con i motivi del libro e le ragioni poetiche e stilistiche
della scelta, come pure ha approfondito aspetti relativi all’uso delle fonti e ha usato le informazioni che esse apportano sulla genesi del libro. Si segnalano almeno gli studi di Sansone (1963), Gimferrer (1974), Romeu (1985) e Ruiz-Ruano (2019).
16
«a la vasta comunitat que acull, en un mil·lenari, els seus, els provençals i els toscans» (Foix
1947: 10).
15
288
GABRIeLLA GAVAGNIN
esercitò una forte suggestione nella cultura catalana (cfr. Pla 2012), non da ultimo negli ambienti legati alle avanguardie cubiste e surrealiste. È sulla scorta di
questi orientamenti ideologici, che si innestavano nelle rivendicazioni catalane
di segno nazionalista, che va interpretata la scelta di Foix di autori o testi posti
a esponenti delle origini letterarie condivise di quella “vasta comunità” a cui
riteneva di appartenere. Una scelta tutta poetica e stilistica quanto mai attenta a
visualizzare le radici tripartite segnalate nel prologo. Ciascuna delle sei sezioni
in cui si articola la raccolta è introdotta da un gruppo di due, tre o quattro epigrafi, di cui alcune fungono al tempo stesso da titolo della sezione sfruttando
quella possibilità di sovrapposizione di funzioni cui si presta, come si è già visto,
la prossimità dell’esergo al titolo. L’insieme forma una «cornice»17 al testo che,
oltre ad annunciare di volta in volta tematiche e scelte stilistiche, mette in evidenza, in virtù di una oculata disposizione degli autori nei diversi blocchi, questa
triplice confluenza di tradizioni poetiche.
Dante è chiamato in causa nella prima sezione con i primi versi della canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro18, una dichiarazione di poetica che
il secondo sonetto provvede a riecheggiare segnalando tra i modelli stilistici
da emulare «l’aspriva manera / Dels qui en vulgar parlaren sobirà» (1947: 14).
L’esergo dantesco, in chiusura del gruppo, è preceduto da un verso di Ausiàs
March, che fa da titolo alla sezione, e da due citazioni, di Raimbaut de Vaqueiras e di Ramon Llull, sulla condizione di solitudine e di sconforto all’origine
della creazione poetica. Seguono, nella seconda sezione, versi di Cecco Angiolieri e di Pere Torroella, poeta attivo presso la corte di Alfonso il Magnanimo, allusivi alla dialettica tra i due opposti esplorata nei sonetti di questa
sezione; il titolo è costituito dall’autocitazione dell’incipit di un sonetto, Si
pogués acordar raó i follia (1947: 31 e 33), che intrattiene una fitta intertestualità con la canzone di Torroella citata (cfr. Ruiz-Ruano 2019: 18). Nelle tre
sezioni seguenti il tema amoroso è introdotto da tre coppie di autori e/o testi:
in primo luogo Guido Cavalcanti – dal cui esergo è prelevato il primo verso,
Chi è questa che ven, ch’ogn’om la mira (1947: 51) per promuoverlo a titolo
della sezione – e Jordi de Sant Jordi (altro poeta legato alla corte napoletana);
seguono nella sezione seguente Bernart de Ventadorn (del cui esergo il verso
incipitario è riprodotto sotto forma di titolo di sezione, come già in Cavalcanti)
e Guido delle Colonne; poi, nella successiva, Boccaccio (di cui è citato solo il
17
La definizione, molto appropriata, è di Ilaria Zamuner (2015: 98), che stabilisce tra l’altro
un interessante parallelismo tra questo sistema di riferimenti e quello costruito da Petrarca nella
canzone 70.
18
Per un errore di stampa nella prima edizione sono riprodotti i versi 1, 2 e 4 della canzone
(Foix 1947: 11). Il v. 3, presente nel dattiloscritto originale, viene ripristinato in edizioni posteriori, in vita dell’autore.
DANTE IN ESERGO NELLA LETTERATURA CATALANA
289
verso usato come titolo della sezione, M’allegro e canto nella stagion novella,
1947: 71) fa coppia con un componimento anonimo d’area provenzale19. Infine, nella sesta e ultima sezione, che comprende sonetti di tematica religiosa,
sotto un titolo costituito da una citazione biblica (Genesi 3: 21), campeggiano i
versi di congedo della sestina 142 del Canzoniere di Petrarca (Altr’amor, altre
frondi et altro lume) e due versetti del Libro dei Salmi nella traduzione quattrocentesca di Roís de Corella.
A differenza di tutte le altre citazioni, quella dantesca spicca perché è l’unica
di natura metalinguistica, anzi metastilistica. Ma è rilevante al tempo stesso il
fatto che mette a fuoco proprio l’esperienza stilistica in cui Dante, com’è noto
e com’è stato attentamente rilevato (cfr. Perugi 1978), sperimenta con grande
intensità i modi del poetare del trobar clus e sfrutta a pieno la lezione stilistica di
Arnaut Daniel. Per quanto il discorso poetico di J.V. Foix si colleghi a un universo culturale, letterario e ideologico completamente diverso da quello di Rubió i
Ors, o forse proprio per questo, appare interessante individuare questo trait d’union tra il Dante evocato dall’uno e quello illuminato dall’altro: il Dante, cioè,
che, ora come storiografo ora come allievo, guarda alla tradizione trobadorica e,
in modo particolare, al precedente di Arnaut Daniel.
3. Conclusione
Se è vero che nella storia culturale italiana Dante appare fortemente vincolato alla costruzione dell’identità nazionale, non è meno vero che in una storia culturale come quella catalana, con cui Dante certo non fa corpo in termini
linguistico-naturali, la figura e l’opera di Dante non solo è stata letta e rivisitata
da un’ottica europea o universale, ma anche da una prospettiva geoculturalmente
molto più specifica in senso areale, in virtù della sua appartenenza a un orizzonte
fondazionale che coinvolge in modo stringente la propria tradizione lirica e grazie alla possibilità di ubicarlo in una zona di interazione e di ibridismo tra canone
locale-nazionale e possibili canoni romanzi. Questi sistemi di epigrafi ne sono al
tempo stesso spia e riverbero.
19
Foix lo aveva attinto all’antologia Els trobadors di Serrà-Baldó, che la identificava come
dansa peitavina (cfr. Ruiz-Ruano 2019: 19-20).
290
GABRIeLLA GAVAGNIN
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