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Fisco. È possibile una maggiore equità?
di A. Lalomia - In un testo apparso qualche tempo fa su questo portale (1) , ho messo in evidenza (come
peraltro avevo già fatto in altre occasioni), la sostanziale iniquità del nostro fisco e in particolare del sistema delle
aliquote, un sistema che è stato introdotto dal governo precedente quello in carica oggi. Qui vorrei proporre
qualche ulteriore elemento di riflessione. Vediamo se ci riesco.
Gli scaglioni IRPEF previsti attualmente sono cinque:
1. per redditi fino a 15.000,00 € : 23 % di imposta.
2. per redditi superiori a 15.000,00 e fino a 28.000,00 € : 27 % di imposta.
3. per redditi superiori a 28.000,00 e fino a 55.000 € : 38 % di imposta.
4. per redditi superiori a 55.000,00 e fino a 75.000,00 € : 41 % di imposta.
5. per redditi superiori a 75.000,00 : 43 % di imposta.
Basta una rapida lettura del prospetto per rendersi conto che, pur con tutte le detrazioni possibili, ci troviamo di
fronte ad aliquote ‘stravaganti’, ben lontane, appunto, dal principio di equità. Oltretutto, questi scaglioni non
riflettono neppure la realtà economica e sociale del Paese. Con l’attuale sistema, infatti:
a. sono penalizzate in primo luogo le categorie a basso e medio reddito, che rappresentano poi la maggioranza
dei contribuenti. Al riguardo, a parte la presenza incredibile di quel 23 % di imposta per chi percepisce forse
meno di 1.000,00 € netti al mese, va segnalata la sostanziale equiparazione tra redditi lontanissimi tra loro, e cioè
28.001,00 € e 55.000,00 €. In base a quale principio logico si può affermare che un reddito di 28.001,00 € è
equivalente ad uno di 55.000,00 € ? È troppo pensare che l’ideatore di questa aliquota avrebbe bisogno,
quantomeno, di andare a ripetizioni di Matematica ?
b. Non si tiene conto del fatto che, sia pure in misura inferiore rispetto a paesi più fortunati, anche in Italia la
categoria di chi può vantare redditi annui di centinaia di migliaia di € è piuttosto consistente. Con l’assetto
odierno, invece, chi guadagna anche 55.001,00 € l’anno viene messo sullo stesso piano dei miliardari (in vecchie
lire) e dei milionari (in €). È evidente che ciò si traduce in una mortificazione per i primi e in un allegro vantaggio
per gli altri.
Questo meccanismo diabolico rappresenta una delle più grosse anomalie del nostro Paese e trovo sorprendente
che sia stato concepito da un governo che si presentava come il paladino dei lavoratori, o meglio dei prestatori
d’opera. Ancora più curioso è il fatto che certi sindacati (quelli, per intenderci, che si considerano gli unici
depositari della volontà popolare) non abbiano avviato iniziative mirate -per esempio, attraverso lo strumento del
referendum- per porre fine a tale ingiustizia.
In realtà, non si può rimanere passivi di fronte ad una situazione del genere. Anche perché -e non mi stancherò
mai di dirlo- a fronte di questo ‘esproprio da bucanieri’, il cittadino non riceve servizi pubblici adeguati e spesso
deve rivolgersi al settore privato (che non di rado se ne approfitta, imponendo tariffe molto care). E d’altronde, gli
stessi servizi pubblici sono tutt’altro che gratuiti. Il cosiddetto welfare italiano, a ben vedere, non è nient’altro che
lo scimmiottamento -talvolta farsesco e patetico- del vero welfare che esiste nei paesi a democrazia avanzata.
Unico elemento in comune: il costo, pesantissimo e (almeno per noi) ormai insostenibile.
Posto che il primo passo da compiere, per cercare di rendere meno opprimente questo scenario di statalismo
forsennato (e per sostenere la domanda, favorendo così la ripresa economica e l’occupazione), è quello di
abolire il sostituto d’imposta per i lavoratori dipendenti (una misura perorata da un economista di fama
internazionale come Antonio Martino) e di introdurre in alternativa bollette semestrali o, meglio ancora, annuali,
emesse direttamente dall’Agenzia dell’Entrate (2) , è necessario, come seconda tappa, ridisegnare il sistema
delle aliquote.
Intanto, bisognerebbe aumentare il numero degli scaglioni, in particolare per i redditi medio-bassi (quelli, diciamo,
compresi tra i 20.000,00 € e i 40.000,00 €), con piccoli scostamenti tra uno scaglione e l’altro di questo
segmento, in modo da non fare di ogni erba un fascio. Il drenaggio fiscale sui redditi di questo segmento
dovrebbe andare dal 10-14 % al 16-20 % .
D’altra parte, bisognerebbe proteggere anche le categorie medio-alte o decisamente alte, diversificandole tra loro
e differenziandole in modo netto dai redditi compresi tra i 400.000,00 € e il milione di €. Per redditi superiori al
milione di € non mi sembrerebbe azzardato prevedere imposizioni particolarmente significative (per esempio,
intorno al 55-60 %), imposizioni che sarebbero comunque rese più accettabili per il contribuente grazie ai
correttivi che indico oltre.
Una riforma del genere -che dovrebbe rientrare in un piano di revisione globale del mercato del lavoro, nonché
dei meccanismi del reddito e della fiscalità- consentirebbe di ottenere :
I. un vasto consenso trasversale nel Paese, determinato dalla consapevolezza di una maggiore giustizia a livello
tributario;
II. una forte diminuzione del lavoro nero e dell’evasione fiscale.
Per quanto riguarda l’evasione, si realizzerebbero indubbi vantaggi proprio per il segmento compreso tra
28.001,00 € e 55.000,00 €, il segmento che costituisce poi una quota rilevante delle entrate tributarie. D’altra
parte, per i redditi di centinaia di migliaia di € o di milioni di €, potrebbero -e dovrebbero- essere introdotte
sostanziose forme di ‘alleggerimento’ (che renderebbero inutile l’evasione fiscale), per esempio attraverso questi
due canali:
i. detassando i profitti di Borsa inferiori a 20.000,00 € l’anno e prevedendo prelievi fiscali compresi tra il 2 e il 15
% per quelli che vanno da 20.001,00 € a 200.000,00 €. In questo modo, tra l’altro, si creerebbero una buona volta
le condizioni per pilotare molti risparmiatori verso il mercato di Borsa, completamente snobbato da milioni di
Italiani anche a causa degli oneri tributari. “Meglio i titoli di Stato, almeno sono sicuri, anche se rendono poco o
niente”, pensano in molti. E la conseguenza di questo modo di ragionare è che la nostra Borsa figura tra le
cenerentole d’Europa.
ii. Dotando finalmente il Paese di una legislazione chiara, leggibile, concreta e davvero realizzabile in materia di
donazioni e di relative detrazioni. Questa soluzione tutelerebbe i detentori di patrimoni particolarmente cospicui e
li farebbe anzi diventare dei benefattori e dei mecenati agli occhi dell’intero Paese, con una notevole ricaduta
sotto il profilo dell’immagine. Incoraggiando i comportamenti virtuosi dei magnati, si consentirebbe nello stesso
tempo allo Stato di realizzare ingenti risparmi (con evidenti benefici sull’indebitamento pubblico) e si
migliorerebbe in misura sensibile la qualità dei servizi. Penso soprattutto al settore della sanità pubblica, che è
forse quello più disastrato e che spesso finisce nelle pagine di cronaca giudiziaria: qui, a fronte delle donazioni
dei privati, lo Stato sarebbe costretto ad intervenire in modo tempestivo ed energico per evitare lungaggini,
inefficienze, abusi, mancanza di professionalità, comportamenti aggressivi e vere e proprie sevizie da parte di
alcuni dipendenti. In non pochi luoghi di cura pubblici, insomma, si ristabilirebbe un minimo di legalità e di rispetto
del paziente, troppo spesso vittima della scarsa voglia di lavorare, dell’incompetenza e dei soprusi di un certo tipo
di personale.
Un discorso analogo, anche se più sfumato (perché non credo che esista un settore così ‘terremotato’ come
quello della sanità pubblica), si può fare per l’istruzione, per la ricerca, per la tutela dei beni archeologici ed
ambientali. Più o meno come accade nei paesi più evoluti, a partire dagli Stati Uniti.
Non pretendo che tutte le nostre leggi siano scritte in modo comprensibile, come quelle americane o inglesi; però,
almeno in un settore così delicato come quello della fiscalità, ritengo che uno sforzo si possa e si debba fare. Una
parte considerevole della nostra classe politica ignora (o fa finta di ignorare) che le rivolte e le rivoluzioni che
hanno segnato il cammino della Storia sono state causate sovente proprio da motivi fiscali e sono nate comunque
a seguito dell’imposizione di tributi esosi, vessatori, arbitrari e senza corrispondenti vantaggi né per il singolo, né
per la collettività.
Credo quindi che una riforma radicale del nostro fisco convenga alle stesse forze politiche, che in gran parte
sottovalutano il problema e che rischiano di trovarsi spiazzate dalle conseguenze di questo "vuoto di memoria".
Note
(1) “Sindacati e sostituto d’imposta. Brevi riflessioni.”, pubblicato il 29-12-09 nella sezione ‘Varie’
(http://www.orizzontescuola.it/node/2437).
Cfr. anche “Imprese che resistono. Il volto coraggioso dell’Italia” e “Fisco e sostituto d’imposta. Nuove prospettive
anche per la didattica.”, presenti entrambi nella mia pagina su www.atuttascuola.it/
(http://www.atuttascuola.it/collaborazione/lalomia/2010/imprese_che_resis...
http://www.atuttascuola.it/collaborazione/lalomia/2010/fisco_e_sostituto...).
(2) Con un elenco dettagliato e chiaro delle singole trattenute.