Profilo del regionalismo in Italia
Studio sul regionalismo dell’Assemblea delle Regioni d’Europa
Enrico Martial
martial.enrico@gmail.com
(originale in lingua inglese)
Giugno 2015
1
The publisher:
The Assembly of European Regions (AER) is the largest independent network of regional
authorities in wider Europe, bringing together regions from 35 countries along with 15
interregional organisations. Further information under: www.aer.eu
Director of publication:
Agnès Ciccarone: https://fr.linkedin.com/pub/agnes-ciccarone/7/216/1b1
Assistant editors: Anne Saline, Andrea Przybyla, Julie Nicolas
Disclaimer: This report is part of an overall study run by AER in 2014-2015 about the state of
regionalism in more than 30 countries in Europe. The other reports can be found under:
http://www.aer.eu/en/knowledge-centre/thematic-expertise-thematicissues/regionalism/aerpublications/20142015-study-on-regionalism.html
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Profilo dell’Autore
Enrico Martial (1962) è laureato in Filosofia. Ha lavorato all’EIPA (Istituto
europeo di amministrazione pubblica) di Maastricht, presso la Regione Valle
d’Aosta, presso il Ministero italiano dei Lavori Pubblici e il Ministero degli Affairi
esteri. E’ stato direttore della Conferenza italiana dei Presidenti delle
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Assemblee regionali, ed è stato Segretario generale della Conferenza europea
delle Assemblee regionali con poteri legislativi (CALRE). Ha pubblicato articoli
in riviste italiane e internazionali (Il Mulino, Relazioni internazionali, Limes,
Economia Esterior, Raum - Österreichische Zeitschrift für Raumplanung und
Regionalpolitik).
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PARTE PRIMA: CONTESTO STORICO
1.1 Contesto storico
Con la fine della Seconda guerra mondiale l’Italia ha intrapreso una profonda riforma istituzionale. Con
il referendum del 2 giugno 1946 è stata adottata la forma repubblicana dello Stato e il 22 dicembre
1947 l’Assemblea costituente ha approvato una nuova Costituzione. Entrata in vigore il 1° gennaio
1948, essa istituiva le Regioni e dava all’organizzazione dello Stato una struttura decentrata e
partecipata: le competenze legislative erano ripartite tra lo Stato e le Regioni. Il 26 febbraio successivo,
con legge costituzionale venivano approvati gli Statuti speciali di quattro Regioni, che già disponevano
di forme di autonomia a seguito dei Decreti luogotenenziali approvati a partire dal maggio 1945, in una
situazione di contrasti separatisti. Nel 1948, nella nuova Repubblica, sarebbero nate quindici nuove
Regioni, affiancata alle quattro Regioni già esistenti, che vedevano confermata nella Costituzione la
loro particolare condizione di autonomia: Valle d'Aosta, Trentino-Alto Adige, Sicilia e Sardegna.
Oltre ad essere l’anno della Costituzione repubblicana a base regionale, il 1948 segnava anche una
svolta politica. Nel pieno dibattito della guerra fredda, un fronte pro-atlantico guidato dal partito della
Democrazia cristiana vinse le elezioni del 18 aprile contro un fronte delle sinistre guidato dal partito
comunista italiano e dal partito socialista, entrambi con legami sovietici. La guerra fredda avrebbe
presto imposto maggiore prudenza nel processo di regionalizzazione: in caso di elezioni regionali,
Emilia Romagna e Toscana avrebbero avuto governi dominati dal partito comunista italiano. Il 16
gennaio 1951, in un intervento al Senato, pur confermando la bontà del sistema regionale, il ministro
Mario Scelba paventò il rischio che esse fossero governate da “forze totalitarie”. Le elezioni per le
Assemblee delle Regioni ordinarie furono rimandate sine die. Solo le quattro Regioni a Statuto speciale
potevano continuare ad esistere: l’Italia del dopoguerra manteneva altrove un’organizzazione ancora
fondata sul vecchio sistema centralistico.
Il modello regionale non era tuttavia abbandonato, ma soltanto parzialmente sospeso in attesa di tempi
migliori. La questione regionale restava sulla scena politica per i casi di Trieste e di Bolzano. Dopo la
lunga discussione e le forti tensioni seguite al Trattato di pace di Parigi del 1947, il territorio di Trieste
tornò all’Italia tra il 1953 e il 1954 e fu poi unito nella Regione Friuli Venezia Giulia, dotata di Statuto
4
Speciale con legge costituzionale il 31 gennaio 1963. Era la quinta Regione a statuto speciale, a
ridosso della cortina di ferro, in un contesto giuridico internazionale che si stabilizzò soltanto nel 1975,
con gli Accordi di Osimo.
Anche alla frontiera con l’Austria i problemi sarebbero stati aperti per anni. L’Accordo tra i primi Ministri
italiano Alcide De Gasperi e austriaco Karl Gruber del 5 settembre 1946 fu accluso al Trattato di pace
del 1947, e lo Statuto speciale del Trentino Alto Adige fu approvato con legge costituzionale il 26
febbraio 1948, con alcuni strumenti di tutela della comunità di lingua tedesca. Tra il 1956 e il 1961 si
ebbero numerosi attentati, che trovarono eco e sostegno politico anche in Austria, in circoli politici e
universitari. Tra il 1959 e il 1961 il governo austriaco sollevò la questione all’Assemblea delle Nazioni
Unite che adottò due risoluzioni, n. 1447 del 31 ottobre 1960 e n. 1661 del 28 novembre 1961, a cui
fece seguito un negoziato italo-austriaco. Un insieme di 147 misure furono recepite nella legislazione
italiana e rafforzarono il ruolo delle Province autonome all’interno della Regione Trentino Alto Adige, e
a esse furono attribuite l’insieme delle competenze legislative. Il procedimento si è in parte completato
nel 1972, con l’entrata in vigore degli attuali Statuti di autonomia ma si è chiuso definitivamente solo
con le ultime norme di attuazione dello Statuto del 22 aprile 1992, e il 19 giugno seguente con la
notifica della chiusura della controversia al Segretario delle Nazioni Unite.
Proprio negli anni Sessanta, con l’avvento dei governi di centro-sinistra (con il Partito socialista ora
fedele al Patto Atlantico) si riprese a parlare di Regioni, nei programmi dei governi e nel dibattito
parlamentare. Con la legge 17 febbraio 1968 n. 108 furono convocate le elezioni per le Regioni a
Statuto ordinario, che si tennero il 7 e 8 giugno 1970, e videro il costituirsi di maggioranze con il Partito
comunista italiano in Umbria, Toscana ed Emilia Romagna.
Seguì un periodo di relativa stabilità, con lenta crescita delle funzioni nelle Regioni ordinarie e un
ulteriore consolidamento in quelle speciali, nei poteri e nelle risorse finanziarie. Dopo il primo slancio
del 1970-1975, che vide tra l’altro l’inizio del trasferimento dallo Stato alle Regioni dell’organizzazione
sanitaria, con la legge 17 agosto 1974, n. 386, la sostanziale instabilità politica ed economica degli anni
Settanta e Ottanta rallentò l’attuazione del sistema regionale soprattutto nelle Regioni ordinarie. Il 16
gennaio 1981 nacque la Conferenza dei Presidenti delle Regioni, sul modello delle conferenze tedesca
e statunitense. Per favorire la cooperazione con gli organi centrali dello Stato e la partecipazione delle
Regioni all’elaborazione delle linee di politica generale, con decreto del 12 ottobre 1983 fu costituita la
5
Conferenza Stato-Regioni (a cui seguirono la legge 23 agosto 1988, n.400 e il decreto 16 dicembre
1989, n.418).
La crisi politica italiana che accompagnò la caduta del muro di Berlino diede avvio a un nuovo tentativo
di regionalizzazione del Paese. Con la crisi organizzativa e morale del sistema politico dei partiti, che
ebbe il suo culmine nel periodo di “Mani Pulite” (1992-1993), maturò l’idea - anche sul modello di altri
Paesi europei – che occorresse un più ampio trasferimento di responsabilità a livello locale e regionale.
Il dibattito avviato già nel 1991 in Parlamento fu seguito da varie Commissioni di studio e di riforma
istituzionale (De Mita-Iotti nel 1992, Comitato Speroni nel 1994, Commissione bicamerale d’Alema nel
1997).
Nel frattempo veniva approvato un decentramento delle funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni
e agli enti locali con le leggi Bassanini (n. 59 del 1997, n. 17 del 1997 e n. 191 del 1998) mentre le
Regioni, ordinarie e speciali, si rafforzavano nella gestione dei fondi strutturali e dei programmi europei,
con uffici e capacità amministrative spesso migliori di quelli centrali. La Conferenza Stato-Regioni fu
ampliata in una seconda formazione per coinvolgere anche le città e le altre autonomie territoriali, con il
decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.
Dopo un decennio di tentativi, la riforma costituzionale fu infine approvata con le leggi costituzionali n.1
del 1999 (che prevedeva l’elezione diretta del Presidente della Regione) e n.1 del 2001. La riforma
introdusse alcuni principi federali (inversione del principio di attribuzione delle competenze legislative
ed estensione del potere delle Regioni, risorse finanziarie, funzioni in materia internazionale) e fu
parzialmente seguita da una legislazione di attuazione, come sulle competenze fiscali e finanziarie
(“federalismo fiscale”) o in materia internazionale. La riforma fu sottoposta a referendum confermativo il
7 ottobre 2001, che non richiedeva quorum minimo per essere valido, e che ottenne il 64,20% di voti a
favore, con un numero di votanti che si fermò al 34,10%1.
Il sistema amministrativo e in parte politico centrale rispose con una forte resistenza alla concreta
attuazione della riforma, esprimendo una tendenza verso un neocentralismo. Un contenzioso sulle
competenze si accumulò negli anni successivi presso la Corte costituzionale, originato spesso dalla
mancata collaborazione nelle materie concorrenti e dalle impugnazioni del governo. Intanto, proprio
mentre sarebbe stato necessario uno slancio delle Regioni verso il buon governo, i Consigli regionali,
1
Stelio Mangiameli (ed.), Federalism, regionalism and territory, Milano, 2013; Enrico Martial, Der italienische
Traum vom Föderalismus, "RAUM - Österreichische Zeitschrift für Raumplanung und Regionalpolitik", 31, Sept.
1998, p. 32-33.
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che dovevano adottare nuovi Statuti, si concentrarono anche sull’aumento del numero dei propri
membri, sull’espansione della spesa, sui rimborsi ai gruppi politici.
Come il sistema centrale, anche il modello regionale ordinario doveva entrare in crisi. Nella
stagnazione e declino politico-economico dell’Italia del ventennio seguito a Mani pulite (1994-2014), il
distacco tra istituzioni e società civile si sarebbe ancora allargato, e anche nelle Regioni ordinarie. La
stampa e i cittadini prestato sempre meno attenzione alle Regioni e agli enti locali, in cui è affermata
una classe politica spesso inadeguata, si è ridotta trasparenza e si è diffusa la cattiva amministrazione.
Un migliore funzionamento democratico e del governo locale si è salvato soltanto nella vita politica di
alcune Regioni a Statuto speciale e in alcune esperienze di Comuni medi e piccoli, in aree con più forte
coesione e identità 2.
Proprio in questa fase di difficoltà, nell’ambito della maggioranza parlamentare di centro destra (Popolo
delle Libertà e Lega Nord) è maturata rapidamente una nuova proposta di riforma istituzionale,
presentata dal governo il 17 ottobre 2003 e approvata in ultimo dal Senato il 16 novembre 2005. La
riforma da un lato cercava di portare a compimento gli obiettivi mancati nel 2001, cioè il superamento
del bicameralismo perfetto con l’istituzione di un Senato territoriale, e dall’altra di porre rimedio al
contenzioso nascente sul perimetro di potere tra Stato e Regioni, assegnando a queste ultime alcune
competenze ora esplicitamente esclusive. La proposta, più regionalista, era inoltre accompagnata da
una riforma dello Stato con un Primo Ministro con maggiori poteri, nella sostanza eletto direttamente e
posto a indirizzo e guida del governo. La proposta, largamente contestata soprattutto riguardo i rischi di
un eccessivo accentramento di potere, fu quindi respinta con un forte 61,3% da un referendum
popolare il 25 e 26 giugno 2006, a cui partecipò il 52,46% degli elettori. Soltanto in Lombardia e Veneto
da raccolse un certo sostegno, rispettivamente con il 54,6% e 55,3% di voti a favore.
Esaurito malamente anche questo tentativo, a ridosso della crisi economica del 2007-2009, è emerso
quindi un vasto movimento di opinione contro la classe politica in generale e in particolare contro quella
regionale e locale (denominata “La Casta”3). Sono emersi numerosi scandali di corruzione e di spreco
del denaro pubblico. Nel frattempo il numero delle società controllate o partecipate da Regioni e
Comuni era salito a oltre 8.000 unità.
2
Marcantoni Mauro -Baldi Marco, Regioni a geometria variabile. Quando, dove e perché il regionalismo funziona,
Roma, 2013.
3
Gian Antonio Stella - Sergio Rizzo, La casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili, Milano, 2007: nel
primo anno furono vendute 1,2 milioni di copie.
7
In un clima di crisi economica e di sfiducia nelle istituzioni, è stato quindi avviato un nuovo processo di
riforma, con due linee d’azione. Da un lato sono state ridotte le risorse finanziarie trasferite dallo Stato
ai Comuni e alle Regioni, e sono state sostanzialmente soppresse le province. In secondo luogo è stata
avviata sin dal giugno 2013 una nuova riforma della Costituzione, con un disegno di legge ora
all’esame del Parlamento.
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PART TWO: THE PRESENT SITUATION
2.1 Aspetti giuridici
Le Regioni in Italia hanno fondamento nella Costituzione, che le elenca all’art . 131 e le identifica all’art.
114 come soggetto costitutivo della Repubblica insieme allo Stato e alle altre entità territoriali. Le
Regioni condividono il potere legislativo con lo Stato, mentre tutte le entità territoriali hanno autonomia
finanziaria e di spesa, (art. 119 e legge 5 maggio 2009, n. 42).
La Costituzione distingue tra un organo legislativo, il Consiglio regionale, un esecutivo, la Giunta
regionale, a cui si aggiunge il Presidente della Regione, a cui è affidata la rappresentanza, la direzione
politica e amministrativa, la promulgazione di atti e leggi.
Le Regioni sono a Statuto ordinario (Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana,
Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria) e a Statuto speciale
(Valle d'Aosta/Vallee d'Aoste, Trentino-Alto Adige/Südtirol, Friuli Venezia Giulia, Sardegna e Sicilia),
per le quali sono disposte particolari condizioni di autonomia al primo comma dell’art. 116 e dalle leggi
costituzionali relative a ognuna. Le Regioni costituiscono anche circoscrizione elettorale unica per
l’elezione del Senato, ma senza che questo conduca a una rappresentanza regionale in senso stretto,
se non per il prevalere di alcuni partiti in alcune Regioni, come in Veneto e Lombardia.
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A differenza di quelle ordinarie, le Regioni a Statuto speciale dispongono di uno Statuto di rango
costituzionale, che disciplina separatamente e per ognuna di esse le competenze legislative e la loro
organizzazione. Un procedimento prevede l’adeguamento dei loro poteri nel caso le Regioni a Statuto
ordinario ottengano competenze più ampie. L’attuazione degli Statuti speciali avviene per mezzo di
norme di attuazione, che si formano nell’ambito di una Commissione paritetica Stato-Regione per
ognuna delle Regioni a Statuto speciale e delle due Province autonome.
La Costituzione e le leggi costituzionali prevedono che la
Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol sia composta dalle
Province autonome di Trento e di Bolzano. Le competenze
legislative e regolamentari sono quasi integralmente attribuite
alle due Province autonome, mentre restano alla Regione
competenze per esempio in materia di catasto: da qui il diverso
peso politico delle tre entità. Lo stesso Consiglio regionale ha
un carattere “federale” ed è composto per metà dai membri del
Consiglio provinciale di Trento e per metà dai membri del
Consiglio provinciale di Bolzano.
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Alcune Regioni italiane partecipano a forme di organizzazione internazionale dotate di base giuridica.
La Regione Friuli Venezia Giulia e il Veneto partecipano al GECT “Euregio senza Confini” con la
Carinzia e con un possibile allargamento alla Slovenia e dalla Croazia, le Province autonome di Trento
e Bolzano partecipano al GECT “Euregio Tirolo-Alto Adige-Trentino” con il Land del Tirolo, le Regioni
Sardegna e Sicilia al GECT “Archimed” con la Regione delle Baleari e un’agenzia di sviluppo di Cipro.
Altre Regioni fanno parte di comunità di dialogo transfrontaliero come il Piemonte, la Valle d’Aosta e la
Liguria, sebbene non abbiamo ancora visto autorizzare il proprio GECT.
2.2 Competenze
La Costituzione elenca all’art. 117 le competenze esclusive dello Stato, nelle aree della politica estera
(e temi connessi tra cui immigrazione e diritto di asilo), difesa esterna e sicurezza (comprese armi ed
esplosivi), ordine pubblico e sicurezza interna (con i rapporti con le confessioni religiose, la cittadinanza
e lo stato civile), giustizia (con l’ordinamento civile e penale e con la giustizia amministrativa), moneta,
tutela dell’ambiente e dei beni culturali, norme generali sull’istruzione, organizzazione dello Stato, delle
province, dei comuni e delle città metropolitane nonché le corrispondenti norme elettorali, quella per il
Parlamento europeo e per i referendum nazionali. Lo Stato ha competenza esclusiva in materia sociale
e di previdenza, e soprattutto stabilisce i “livelli essenziali delle prestazioni” (LEP) che riguardano i diritti
sociali e civili che devono essere accessibili in tutto il territorio. Per assicurare questi livelli minimi, la
Costituzione indica che il governo nazionale può sostituirsi alle Regioni e agli enti territoriali così come
per ragioni di sicurezza interna o di pericolo grave, o per la tutela dell’unità giuridica o economica del
Paese, nel rispetto del principio di sussidiarietà e di leale collaborazione.
Le competenze concorrenti tra Stato e Regioni hanno carattere settoriale oppure sono complementari a
competenze esclusive dello Stato: in politica estera (rapporti internazionale con l’Unione europea delle
Regioni e nel commercio con l’estero), sviluppo socio-economico (governo del territorio, porti e
aeroporti civili, produzione e trasporto dell’energia, casse di risparmio e rurali, ricerca scientifica e
sostegno all’innovazione, istruzione, salvo la disciplina generale, l’autonomia scolastica e la formazione
professionale. In questi ambiti il ruolo delle Regioni è ridotto: il commercio con l’estero, per esempio, è
largamente gestito a livello statale, anche per mezzo di enti nazionali, così come la materia
aeroportuale e portuale, malgrado qualche nomina nei consigli di amministrazione sia di spettanza
degli enti territoriali.
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Va comunque segnalato che in alcuni casi vi è stato reale trasferimento di competenze, anche prima
della riforma costituzionale: sin dal decreto legislativo n.422 del 1997 per esempio le Regioni sono
subentrate allo Stato nel finanziamento e nella stipula dei contratti di servizio ferroviario regionale, e
possono svolgere gare per individuare il gestore del servizio, malgrado le difficoltà del processo di
liberalizzazione del mercato. La competenza di maggior rilievo che rimane in capo alle Regioni è la
sanità, che fu regionalizzata a partire dagli anni Settanta, e che riguarda circa il 75% della spesa delle
Regioni a Statuto ordinario. Si tratta di funzioni organizzative, con un sistema di aziende sanitarie
dotate di relativa autonomia di bilancio e gestionale, e con politiche in capo alle Regioni. Sullo sviluppo
economico-territoriale le Regioni dispongono di competenze in ambito urbanistico e paesaggistico, e
hanno con il tempo creato numerosi strumenti operativi, per mezzo di società partecipate, non sempre
efficaci, per esempio nell’informatica, nell’innovazione e nei parchi tecnologici.
- distribuzione della spesa per livelli di governo e raffronto con una Regione a Statuto ordinario, l’Umbria
12
Gli Statuti speciali attribuiscono un raggio di azione più ampio alle cinque Regioni e alle due Province
autonome, non soltanto grazie alle loro competenze ma soprattutto in ragione dell’esercizio concreto di
attività e politiche. Ogni Regione e Provincia a Statuto speciale ha un proprio percorso di autonomia
differenziata fissato dagli statuti e da norme di attuazione, che in generale si articola nella difesa del
suolo e nella sicurezza, nell’istruzione e nella formazione professionale, nello sviluppo economico e
nelle infrastrutture. Per le tre Regioni speciali e due Province autonome del nord esistono poi particolari
competenze in materia culturale e di tutela delle minoranze linguistiche (francese in Valle d’Aosta,
tedesco e ladino nelle Province di Bolzano e Trento, sloveno in Friuli Venezia Giulia). Nel solo caso
della Valle d’Aosta, il Presidente della Regione assume anche le funzioni di prefetto, ed è quindi a capo
dei servizi di sicurezza interni.
Le Regioni a Statuto speciale sono responsabili dell’organizzazione degli enti locali (province e
comuni), del loro finanziamento, e delle norme per l’elezione di loro organi, con un ampio grado di
autonomia che tuttavia si esplica in un quadro politico nazionale con tendenze politiche simili, per
esempio a favore di sistemi elettorali di tipo maggioritario. Malgrado l’ampia estensione delle
competenze, gran parte delle tendenze e riforme nazionali vengono recepite autonomamente e con
qualche adattamento anche nelle Regioni a Statuto speciale, come è stato il caso recente in materia di
revisione della spesa, di riforma delle province, oppure di politiche del lavoro.
La riforma costituzionale del 2001 ha poi eliminato il controllo di legittimità ex-ante sugli atti regionali,
mentre ha nel concreto rafforzato l’iniziativa del governo centrale nei conflitti di attribuzione presso la
Corte costituzionale.
Il Prefetto di nomina statale svolge in ogni provincia funzioni in materia di ordine pubblico, di
collegamento con le autonomie territoriali e a volte di intervento in aree con problemi di sicurezza o di
coesione sociale, o soggetti a problemi di tipo finanziario o amministrativo.
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2.3 Sistema finanziario
Per le entrate, il sistema finanziario è regolato dall’art. 119 della Costituzione e da disposizioni
particolari per le Regioni a Statuto speciale. La legge di attuazione, la legge n.42 del 2009 e i relativi
decreti attuativi4, prevedeva che le entrate delle Regioni fossero da fissare in base ai livelli essenziali
delle prestazioni (LEP) di cui parla l’art.117 della Costituzione in sanità, assistenza, istruzione e
trasporto pubblico locale. Esse dovevano derivare da una compartecipazione dell’IVA, da
un’addizionale sull’imposta sulle persone, da un’imposta sulle imprese e sul lavoro (IRAP) e da quote di
un fondo perequativo da costituire. Tale norma statale non ha però ancora avuto attuazione sia per
ragioni tecniche, sia per le urgenze determinate dalla crisi dei conti pubblici, sia in previsione di una
nuova riforma costituzionale. A oggi, le fonti di finanziamento delle Regioni ordinarie sono ancora
quelle precedenti alla legge n.42 del 2009 e quindi fondate su principi precedenti alla riforma
costituzionale del 2001. La partecipazione all’imposta sulle imprese e sul lavoro (IRAP) è uguale nei
due sistemi, ma in quello vigente il restante è composto da tributi pagati sul territorio: è il caso della
compartecipazione all’IVA che riguarda però quella versata dai consumatori finali all’interno della
Regione. A questa si aggiungono altre imposte minori: compartecipazione sulle accise sulle benzine
dell’autotrasporto, sul gas naturale, nonché tasse e tributi sullo studio all’università e sui rifiuti solidi. Ad
oggi soltanto la Sicilia riscuote le imposte direttamente.
4
Jens Woelk, Federalismo fiscale tra differenziazione e solidarietà. Profili giuridici italiani e comparati, Bolzano
2010; Renato Murer, Il federalismo fiscale, Padova 2011; Luca Antonini, La rivincita della responsabilità. A
proposito della nuova Legge sul federalismo fiscale, Milano 2009.
14
La legge n.42 del 2009 ha dato origine ad Accordi bilaterali tra lo Stato e ognuna delle Regioni e
Province autonome, che hanno innalzato le quote di gettito di tutti i tributi erariali che già confluivano
nelle loro casse, e che ora si collocano in generale tra il 70% e il 100% dei tributi.
Regione a Statuto speciale
e Province autonome
Sicilia
Sardegna
Entrate
100% di tutti i tributi, ad esclusione delle accise,
dei tabacchi e del lotto
il 70% delle imposte sulle persone e sulle
imprese, e il 90% di IVA e altre imposte minori
60% dell’imposta sulle persone, il 45%
Friuli Venezia Giulia
dell’imposta sulle società, il 90% dell’IVA e circa il
30% delle accise su benzina e gasolio
2/10 dell’IVA generale, 100% le imposte
Trentino-Alto Adige
ipotecarie, 9/10 delle imposte sulle successioni e
donazioni e dei proventi del lotto
Province autonome di Trento e di Bolzano
9/10 di quasi tutte le imposte erariali, salvo quelle
devolute alla Regione Trentino Alto Adige
100% delle imposte dell'IVA, dell'accisa sulla
Valle d’Aosta
benzina e sugli altri prodotti energetici, tabacchi,
energia elettrica, il 90% delle imposte sugli affari
(registro, bollo, ipotecarie) e del gioco del lotto;
Gli Accordi bilaterali hanno tuttavia introdotto per alcune delle Regioni a Statuto speciale (Valle d’Aosta,
Province autonome di Trento e Bolzano, Friuli Venezia Giulia) un vincolo di compartecipazione e
solidarietà all’equilibrio della finanza pubblica nazionale. Per queste Regioni, malgrado un formale
ampliamento delle entrate, si è assistito a tagli profondi. E’ il caso della Valle d’Aosta, il cui bilancio si è
ridotto del 40% tra il 2008 e il 2014.
Le Regioni a Statuto speciale hanno in completo carico la spesa sanitaria e a seconda dei casi pagano
gli stipendi agli insegnanti, i trasferimenti finanziari ai Comuni, i servizi di sicurezza del territorio
(protezione civile, pompieri), oltre a funzioni che lo Stato svolge nelle Regioni a Statuto ordinario con
propri servizi decentrati.
15
Dal punto di vista dell’equilibrio della ripartizione delle risorse tra le Regioni il dibattito rimane invece
aperto. Secondo alcuni studi promossi durante la discussione della legge n.42 del 2009 risultava un
elevato residuo fiscale in alcune Regioni del nord (in particolare Lombardia, Veneto, Piemonte) con un
conseguente trasferimento finanziario annuale verso le altre Regioni, in particolare del sud, pari a circa
70 miliardi di euro5.
In attesa dell’attuazione della legge n.42 del 2009, la perequazione avviene quindi caso per caso e
senza un procedimento formalizzato da parte del governo centrale, che si trova peraltro dinanzi a molte
Regioni in crisi finanziaria. Essa è dovuta anche al debole controllo della Corte dei Conti, organo
statale con sezioni decentrate, che però può intervenire solo ex-post. Anche il ruolo della politica, e la
sorveglianza di cittadini e dei media è mancato, come una solida capacità tecnica nelle Regioni stesse.
Il Ministero dell’economia e finanze e specifici gruppi di lavoro assistono alcune Regioni nella migliore
gestione del loro debito, spesso poco trasparente: esistono sono piani di rientro in diverse Regioni a
Statuto ordinario, in particolare in ambito della spesa sanitaria6. Un unico sistema di contabilità
nazionale entrerà in funzione grazie alla legge n. 42/2009 così come strumenti di misura comuni (livelli
essenziali di prestazione –LEP, sistema dei conti pubblici territoriali, costi standard).
La piena attuazione della riforma del sistema delle entrate per le Regioni a Statuto ordinario prevista
dalla Costituzione e dalla legge del 2009 è quindi rallentata. I segnali per il futuro restano discordanti.
Da un lato si notano alcune riforme di tipo strutturale anche a livello regionale, nella revisione della
spesa, nell’organizzazione sanitaria, nella gestione delle società partecipate, con riduzione del
personale e dei costi della politica. Dall’altro lato il funzionamento non sembra migliorare: varie Regioni
ordinarie raramente approvano i loro bilanci preventivi entro il 31 dicembre e danno vita a esercizi
provvisori fino ai mesi di marzo o aprile, con ulteriori difficoltà per i controlli e per la buona
amministrazione.
5
Regione Lombardia, Analisi del residuo fiscale e studio comparativo Regione Lombardia nord, sud e centro
Italia, Milano 2014, Regione del Veneto e Unioncamere Veneto, I costi del non-federalismo, pp.22-26 e Luca
Ricolfi, Il sacco del Nord. Saggio sulla giustizia territoriale, Milano, 2010.
6
Banca d’Italia, Finanza pubblica, fabbisogno e debito - Supplemento al Bollettino Statistico, Roma, 2015. Gianni
Trovati, Regioni, debiti per 130 miliardi, Il Sole 24 ore 21 gennaio 2013,
16
2.4 Cooperazione
La riforma della Costituzione del 2001 ha introdotto la possibilità per le Regioni di concludere accordi
con Stati e ed enti territoriali interni ad altro Stato, nei limiti disposti poi dalla legge 5 giugno 2003, n.
131. Le Regioni hanno ampie possibilità di cooperazione, mentre quelle dei Comuni e delle Province è
stata limitata al semplice scambio di esperienze e ai gemellaggi, e sotto il controllo delle Regioni. Per
ogni accordo o iniziativa è necessaria l’autorizzazione del Ministero degli affari regionali, che verifica la
coerenza con le politiche del governo nazionale. Le Regioni devono inoltre produrre ogni anno una
relazione sull’attività internazionale ed europea. I progetti finanziati dall’Unione europea costituiscono
inoltre un mezzo operativo per ampliare la collaborazione transfrontaliera ed europea. Le Regioni di
frontiera partecipano tutte a forme di collaborazione territoriale, sia con i programmi della cooperazione
sia per mezzo di comunità di lavoro o euroregioni che interessano le Alpi, il Mediterraneo, lo spazio
adriatico e i grandi spazi transeuropei. Le Regioni partecipano anche al “sistema italiano della
cooperazione allo sviluppo” di cui alla recente legge n.125 del 2014, in particolare nel Medio Oriente, in
Africa, e in altre zone, specie nei casi in cui vi sono relazioni con l’emigrazione otto-novecentesca.
L’esercizio della cooperazione territoriale e l’impiego dei fondi strutturali ha facilitato l’emersione di
strutture tecniche nelle Regioni nonché il trasferimento di alcune buone pratiche ed esperienze, come
in materia ambientale o della formazione. Tuttavia il processo di europeizzazione delle Regioni italiane
è stato limitato da una prevalente cooperazione interna, in cui domina una visione nazionale dei
problemi e uno scarso confronto reale con le sfide europee e globali. Le stesse Regioni di frontiera e a
Statuto speciale dopo gli inizi positivi degli anni Novanta hanno avuto un ripiegamento interno, e il
dialogo con le Regioni vicine è a volte diventato più formale e meno profondo.
Le Regioni partecipano inoltre sia alla fase ascendente che discendente della legislazione europea,
anche se con esiti assai ridotti. La legge n. 52 del 1996 ha previsto che quattro esperti di nomina
regionale lavorino presso la Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione europea. Sulla parte
ascendente, le Regioni partecipano a Comitati e gruppi di lavoro di Consiglio e della Commissione,
nonché alla delegazione italiana al Consiglio nella formazione che riguarda la loro competenze, anche
come capo-delegazione, come stabilito dalla legge n. 131 del 2003, e sulla base di un Accordo tra lo
Stato e le Regioni. Le esperienze sono state finora limitate alla parte tecnica e sporadiche quelle
politiche. Le Regioni sono anche tenute a recepire le direttive nelle materie di loro competenza e in
caso di infrazione assumono il danno economico conseguente. Sulla base della legge n. 183 del 1997
17
e dell’art. 6 della legge 422 del 2000 le Regioni possono formulare osservazioni su regolamenti,
raccomandazioni, direttive, progetti degli atti normativi e di indirizzo. Esse possono proporre ma anche
obbligare il Governo, con un voto a maggioranza, a ricorrere alla Corte di Giustizia dell’Unione europea
contro atti ritenuti non legittimi, secondo un procedimento indicato all’art.5 della legge 131 del 2003. Si
tratta di strumenti ancora poco utilizzati, a fronte di un procedimento di recepimento non sempre
efficace a livello regionale. La delegazione italiana al Comitato delle Regioni è composta da 24
rappresentanti titolari, di cui attualmente 14 di provenienza dalle Regioni e 10 dai comuni e dalle
province.
2.5 Governance multilivello: le Regioni al lavoro
a. Democrazia
L’Italia sta attraversando un periodo di turbolenza politica, che trae origine nel mancato superamento
delle difficoltà emerse con la crisi di Mani pulite, nel 1992-1993. La fase che si aprì ha dato vita a un più
ridotto ruolo dei partiti politici nella vita pubblica (la società liquida), a una trasformazione della vita
associativa, e al consolidamento della separazione tra cittadini e istituzioni, malgrado momenti di
intensa vita nazionale, legati a celebrazioni sportive, ai 150 anni dell’unità nazionale o a momenti di
partecipazione civile contro la criminalità organizzata. Nelle Regioni a Statuto ordinario il distacco dei
cittadini delle istituzioni regionali è maggiore rispetto all’interesse che si presta alla vita politica
nazionale. Nelle Regioni a Statuto speciale il panorama è invece più vario, e il contatto tra politica e
cittadini è più solido dove hanno resistito e si sono evoluti i partiti politici nati nel dopoguerra, come in
Alto Adige e in Valle d’Aosta.
Numerosi scandali e un forte movimento di opinione, sostenuto dai giornali e da intellettuali, posiziona
oggi le Regioni in quella parte dell’Italia che “non funziona”. Ve ne sono le ragioni: oltre agli scandali
(nella città di Roma con “mafia capitale” e nelle Regioni con i rimborsi ai membri delle assemblee
regionali) le Regioni hanno dimostrato difficoltà di funzionamento nella gestione finanziaria, hanno
spesso accumulato debiti importanti, gestiscono società controllate o partecipate con funzioni spesso
sovrapposte tra loro, con ulteriori oneri per le casse pubbliche e personale in eccesso. I procedimenti di
spending review inoltre non hanno avuto origine al loro interno, ma vengono promossi dal governo
18
centrale, che incontra resistenze in quasi tutte le Regioni, a esclusione di quelle che si sono adattate in
tempo ai tagli di finanza pubblica.
Dall’epoca di Mani pulite nelle Regioni a Statuto ordinario del nord si è sviluppata una forza politica
legata agli interessi regionali e a una visione tradizionale della società, la Lega Nord. Al sud hanno
prevalso alcuni partiti più legati alla pubblica amministrazione e alla gestione della cosa pubblica. Il
“familismo amorale”, cioè una sostanziale mancanza di civismo nelle Regioni del sud descritta dallo
studio di Robert D. Putnam nel 19927 si è mostrato capace di diffondersi anche nel resto del Paese,
sebbene con alcune reazioni e momenti di rilancio di un’Italia civile.
Gli stessi giornali prestano in generale poca attenzione alla vita politica regionale, e i cittadini tendono a
porre le Regioni sullo stesso piano delle altre organizzazioni territoriali, come provincia e comune. Nel
primo dopoguerra i cittadini votanti erano circa il 92-94%, negli anni di Mani Pulite erano circa l’80%,
mentre nel 2010 erano soltanto il 63%, scesi al 53% nel 2015 nelle sei Regioni a Statuto ordinario in cui
si è votato. E’ un dato che mostra un netto disinteresse per la vita politica regionale, peggiore rispetto a
quella nazionale che ancora nel 2013 vedeva una partecipazione del 73%.
Sebbene l’astensione sia un fenomeno diffuso nelle democrazie occidentali, il disinteresse per il voto in
Italia contrasta con espressioni spesso vivaci della vita civile e politica: secondo l’Istat, l’Istituto
nazionale di statistica, nel 2013 il 10,8% della popolazione ha svolto attività politica diretta, mentre circa
l’80% della popolazione oltre i 14 anni discute di politica e si informa8.
La situazione è relativamente diversa nelle Regioni a Statuto speciale. Negli ultimi venti anni, rispetto
alla liquefazione dei partiti nazionali nel resto del Paese, si sono consolidate forze politiche di natura
regionale. Nel 2013 In Valle d’Aosta, i partiti regionali hanno raccolto quasi l’80% dei voti validi (Union
Valdôtaine, Union Valdôtaine progressiste, ALPE, Stella Alpina, Fédération autonomiste), lasciando
soltanto il 20% dei consensi ai partiti nazionali. Nella Provincia di Bolzano la SüdTiroler Volkspartei e le
altre formazioni hanno raccolto l’83% dei consensi. Nella Provincia di Trento, le forze politiche di
rappresentanza ladina e trentina raggiungono il 53% dei voti. In Sardegna i partiti regionali sono divisi
in molte formazioni, che superano il 30% dei voti. In Friuli Venezia Giulia, oltre ai movimenti delle
minoranze che raggiungono il 3,5% dei voti, sotto le etichette dei partiti nazionali si sviluppa una cultura
7
Robert D. Putnam, Making Democracy Work. Civic traditions in modern Italy, Princeton, 1992; Edward C.
Banfield, The Moral Basis of a Backward Society, New York 1958.
8
ISTAT, La partecipazione politica in Italia, Statistiche Report, 29 ottobre 2014.
19
regionale marcata. Una tendenza alla regionalizzazione dei partiti esiste da decenni anche in Veneto,
in cui è molto forte la questione territoriale, sia di rappresentanza sia riguardo allo sviluppo economico
e sociale, con un dibattito relativamente inteso e diffuso tra i cittadini, anche sull’indipendenza.
Le Regioni a Statuto speciale, con un più ampio raggio di autonomia nella loro organizzazione, hanno
competenza in materia di referendum. La Valle d’Aosta, con la legge regionale 25 giugno 2003, n. 19
dispone di referendum propositivi, abrogativi, consultivi, o confermativi per leggi a carattere statutario;
quello di maggiore rilevanza e partecipazione politica ha rifiutato la costruzione di un pirogassificatore,
il 19 novembre 2012. La Provincia di Bolzano ha adottato leggi sul referendum dal 2002 (17 luglio
2002, n. 10, 18 novembre 2005 n.11) sulla cui base si sono tenuti alcuni referendum del 2009 che non
hanno superato il quorum del 40% dei votanti. Una legge provinciale che aboliva il quorum per alcune
materie è poi stato bocciato da un ulteriore referendum confermativo, il 9 febbraio 2014. Il 15 e 16
maggio 2012 si è tenuto in Sardegna un referendum volto ad abolire le province, in assenza però di
norme regionali aggiornate.
Nel nord Italia esistono numerosi giornali settimanali, spesso diffusi in valli laterali o in zone di identità
territoriale. Tale vitalità dell’informazione locale ha origine nell’Ottocento, e da circa quarant’anni si è
ulteriormente diffusa, di solito in comunità di 150-180.000 abitanti. Nelle Province di Bolzano e di
Trento, come in Valle d’Aosta esiste poi una stampa quotidiana e settimanale che presta molta
attenzione alla vita politica e che si esprime anche nelle lingue minoritarie e in quelle che sono oggetto
di protezione costituzionale (sloveno, tedesco, francese e ladino).
b. Diversità
L’Italia è un Paese con forti diversità territoriali che ne costituiscono una grande ricchezza, nel
patrimonio culturale e nel paesaggio urbano, negli stili di vita, nel linguaggio e nella gastronomia. Il
sistema regionale in parte recupera alcune delle identità preunitarie spesso a loro volta diversificate al
loro interno, come in Emilia Romagna, in Lombardia, nel Friuli Venezia Giulia, e nella stessa Toscana.
La legge nazionale tutela diverse minoranze linguistiche storiche (greca, albanese, francoprovenzale,
occitana, ladina, friulana ecc.) ma anche tedesca, francese e slovena, che sono oggetto di tutela anche
da parte degli Statuti speciali di Bolzano e Trento, della Valle d’Aosta, del Friuli Venezia Giulia. Le
lingue minoritarie sono protette e sono insegnate nelle scuole primarie in vari Comuni. I regimi di
bilinguismo delle zone a Statuto speciale del nord sono invece diversi tra loro. In Valle d’Aosta vige un
20
bilinguismo paritario (che ha visto l’affermarsi della lingua italiana, soprattutto nella Valle centrale), nella
Provincia di Bolzano esiste una separazione linguistica, in particolare nella formazione scolastica, in
Friuli Venezia Giulia esistono scuole e forme di tutela della minoranza linguistica slovena. All’interno
delle minoranze del nord vi sono altre forme di tutela e promozione di minoranze più piccole, come i
circa 1200 Walser di antica lingua tedesca in Valle d’Aosta, oppure i ladini in Provincia di Bolzano e di
Trento, che esprimono specifici partiti politici (Ladins Dolomites e Union Autonomista Ladina).
Le esplicite tendenze separatiste in Sicilia, Valle d’Aosta e Bolzano nel primo dopoguerra si sono con il
tempo stemperate e sono oggi limitate a qualche esponente politico, a qualche circolo intellettuale e a
qualche associazione. In Veneto si registrano invece movimenti indipendentisti con qualche seguito
nell’opinione pubblica, così come in parte nella base elettorale nel nord della Lombardia per la Lega
Nord. Il consiglio regionale del Veneto ha approvato le leggi regionali 19 giugno 2014, n. 15 e n.16 per
l’indizione di un referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto, leggi poi impugnate dal governo
dinanzi alla Corte costituzionale, che sta ancora esaminando il caso.
La legge 23 novembre 2012, n. 215 ha introdotto il principio della parità di genere nelle elezioni
regionali, che è poi stato in parte recepito dalle Regioni a Statuto ordinario e speciale. Il risultato è stato
deludente: dopo le elezioni del 2015 in sei Regioni ordinarie i Consigli regionali avranno soltanto tra il
10 e il 20% di membri di genere femminile, con una punta del 27% in Toscana. La Puglia non aveva
adeguato le proprie leggi per favorire la parità di genere.
21
PARTE TERZA: Dibattito e riforme in corso
3.1 Riforme precedenti
La riforma costituzionale del 2001 ha avuto un esito molto inferiore alle sue ambizioni e si è scontrata
con una classe dirigente e una vita politica in pieno declino in molte Regioni italiane, coinvolte in
numerosi scandali. Alcuni partiti politici auspicano il superamento delle Regioni a favore di un
accentramento statale – tra questi il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, ma anche in alcune aree del
centro destra e del centro sinistra. Nel sistema politico tuttavia non si vede alternativa al sistema
regionale, considerato che l’accentramento di risorse e delle decisioni al livello centrale porta con sé
una storia negativa sin dall’unità d’Italia, segnata da scandali gravi, ripetuti e ancora presenti.
La riforma istituzionale in preparazione vede lo scontro tra due modelli: il primo centralista e il secondo
fedele al decentramento avviato sin dal dopoguerra. Le due tendenze convivono nella nuova proposta:
a favore di un Senato delle Regioni, ma con uno svuotamento di poteri, anche se mai realmente
trasferiti alle Regioni. Le Regioni a Statuto speciale sono preoccupate dalle nuove riforme, sebbene un
principio politico di intesa paritaria con lo Stato le metta per il momento al riparo dal nuovo centralismo.
3.2 Le riforme in corso
Il processo di riforma ha avuto origine in un quadro assai drammatico per i conti pubblici e per la tenuta
politica del Paese, che portò alla caduta del Presidente Berlusconi, alla nascita del governo Monti e alle
successive difficili elezioni del 24 e 25 febbraio 2013. In tre mesi il progetto era pronto. Mentre il
parlamento faticava a trovare una maggioranza per costituire un nuovo governo – che sarebbe nato
solo il 30 marzo 2013, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano affidava a un gruppo di esperti
(“i Saggi”) il compito di formulare proposte per le riforme. L’11 giugno, il Senato iniziò a esaminare il
disegno di legge costituzionale proposto dal Governo. Tuttavia, il testo è stato approvato in prima
lettura dal Senato l’8 agosto 2014, a pochi mesi dall’avvio del governo di Matteo Renzi, per passare poi
alla Camera, e poi nuovamente al Senato dove si trova oggi in discussione. Malgrado la velocità di
avvio del procedimento nel 2013, la discussione si è rallentata, per altre urgenze sui conti pubblici e su
altre riforme strutturali nonché per l’indebolimento politico dello stesso processo di riforme. Opposizioni
22
e parte della maggioranza si oppongono alla fine del bicameralismo perfetto e a un Senato non eletto
direttamente e di marca regionale.
Il disegno di legge costituzionale modifica il funzionamento delle istituzioni (procedimento legislativo,
quorum per l’elezione del presidente della Repubblica, referendum) e lo snellisce (soppressione delle
Province e del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro).
Le modifiche più importanti riguardano la ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni e
la trasformazione del Senato in una Camera di rappresentanza territoriale ma con minori poteri. La
Camera dei Deputati avrà il rapporto di fiducia con il Governo e l’indirizzo e il controllo politico e gran
parte del procedimento legislativo nazionale. Il Senato sarebbe eletto in modo indiretto, con 95 membri
votati dai Consigli regionali tra i consiglieri regionali ed i sindaci del territorio, mentre 5 senatori che
potranno essere nominati dal Presidente della Repubblica per 7 anni.9
Le forze politiche concordano nella revisione della ripartizione dei poteri legislativi tra Stato e Regioni a
Statuto ordinario in cui viene soppressa la categoria delle competenze concorrenti, ridistribuite
prevalentemente a favore dello Stato (come le reti di trasporto), al quale vengono attribuite nuove
competenze, in particolare di coordinamento della finanza pubblica e dei tributi, di uniformazione delle
norme sul lavoro nel settore pubblico, e in materia di previdenza e lavoro. Le Regioni, ordinarie e
speciali, continueranno l’esercizio di partecipazione alla fase ascendente e discendente del
procedimento legislativo dell’Unione europea.10
La riforma costituzionale introduce infine una «clausola di supremazia», che rafforza l’esistente ruolo
dello Stato nell’intervento in materie di competenza regionale a tutela dell'unità giuridica o economica
della Repubblica o dell'interesse nazionale.
La discussione parlamentare ha confermato che le Regioni a Statuto speciale manterranno la loro
autonomia differenziata grazie all’art. 116 della Costituzione. Tuttavia gli Statuti speciali delle cinque
Regioni e delle due Province autonome saranno adeguati alla riforma, sulla base di intese tra ognuna
di esse e lo Stato.
9
Camera dei deputati - Servizio studi, Superamento del bicameralismo paritario e revisione del Titolo V della
Parte seconda della Costituzione, Roma, 2014. Stelio Mangiameli (eds.), Italian regionalism: between Unitary
Traditions and Federal Process, Zurich, 2014.
10
Camera dei deputati - Servizio studi, Il riparto delle competenze legislative nel Titolo V, Roma, 2014.
23
3. Prospettive
Il successo delle riforme costituzionali dipende non soltanto dalla tenuta e dalla forza del governo di
Matteo Renzi ma anche dalla capacità del Paese di proseguire sulla strada delle riforme strutturali.
Diverse forze, politiche, corporative e sociali le ostacolano, sia in materia di revisione della spesa sia in
materia di riforme costituzionali o elettorali. Per quanto riguarda le leggi elettorali si propone un premio
di maggioranza a favore della coalizione rispetto al singolo partito, mentre si propone di mantenere
l’elezione diretta del Senato.
I prossimi passaggi politici restano difficili e gli umori del Paese non aiutano le riforme. La protesta
diffusa viene espressa attraverso forze politiche che rappresentano almeno il 40% dei voti, mentre va
considerato anche che il 30-40% dei cittadini non va a votare. Giornali e televisioni non perdono
occasione per dipingere con tinte fosche la forma regionale della Repubblica. E’ possibile che la
leggera ripresa economica del 2015-2016 addolcisca gli animi, ma anche che renda meno urgenti le
riforme strutturali, comprese quelle costituzionali.
Nella parte alta dell’amministrazione e del sistema decisionale è tuttavia chiaro che la riforma non
cambia molto l’equilibrio di poteri tra Stato e Regioni. Il margine d’intervento delle Regioni ordinarie
rimarrà residuale come oggi, salvo che in sanità e nel trasporto locale e ferroviario, mentre per le
Regioni a Statuto speciale resterà probabilmente invariato, malgrado i tagli di bilancio. La riforma
costituzionale non dovrebbe fare paura: serve principalmente a rendere più veloce il sistema
decisionale, concentrandolo, almeno in parte, nella sola Camera dei deputati. Quindi, malgrado le
rumorose resistenze e forse qualche modifica, è una riforma che potrebbe essere approvata presto, a
meno che la protesta aumenti ancora e che l’orientamento politico generale cambi profondamente.
(maggio 2015 – rev agosto 2015)
24