«Saxorum veneratio»
MAURIZIO ROSSI (1)
Premessa (2015)
Il testo qui di seguito pubblicato fu scritto nel lontano 1980, come parte di un
capitolo di una tesi di laurea (2). L’anno seguente, l’intero capitolo fu edito come fascicolo a sé, inaugurando la collana Orco Anthropologica del CoRSAC di Cuorgné (3). Poiché nel 1980 lo scrivente aveva 23 anni, l’opera evidenziava pregi e difetti tipici della gioventù.
Ai pregi non sarebbe corretto accennare, se non fosse che fanno sí che, a 35 anni
di distanza, il contributo sia ancora giudicato degno di ristampa (4). Benché all’epoca
andasse – come del resto va ancora, almeno in parte – contro corrente, esso compare
abbastanza spesso negli apparati bibliografici di archeologia rupestre, a riprova di
un certo grado di condivisione di quanto vi si sostiene. Personalmente, il sottoscritto
ha sempre trovato abbastanza sconcertante che alcuni suoi scritti successivi, che del
testo del 1980 sono la logica conseguenza, in chiave, a seconda dei casi, di verifica,
precisazione, correzione, ampliamento o approfondimento, non godano di pari considerazione. Un po’ come per le tasse: si è tutti d’accordo che vadano pagate, ma, se
toccano, si fa di tutto per evitarle.
Quando il testo fu concepito, a un qualunque segno inciso su roccia all’aperto poteva accadere di passare per preistorico: anche in assenza di indizi cronologici oggettivi, coppelle, vaschette, canaletti, orme, lisciatoi, croci, figure umane e animali e persino certe iscrizioni, incomprese, erano rimandate come minimo all’età del ferro, ma
anche più in là nel tempo, sino al neolitico più antico o (perché no?) al mesolitico. Erano anni in cui, in Piemonte e Valle d’Aosta, le date incise sulle rocce venivano trascurate nei rilievi, ogni coppella era una vulva, una croce a bracci uguali era sempre
un simbolo solare, una croce con nimbo e basamento triangolare esprimeva uno sciamano ipersessuato, le capre erano alci, i solchi glaciali seguivano uno schema antropomorfo e una lettera P poteva raffigurare un fallo in una cerimonia della fertilità...
Non mancavano neanche allora le voci discordanti e il fascicolo del 1981 tributava loro il giusto riconoscimento bibliografico. Nel mare della letteratura «ortodos(1)
Collaboratore della Cattedra di Archeologia Cristiana e Medievale, Dipartimento
di Studi Storici, Università degli Studi di Torino, Via Sant’Ottavio 20, I-10124 Torino
(studio@antropologiaalpina.it).
(2)
ROSSI 1980: 80-95.
(3)
ROSSI 1981.
(4)
Un sentito ringraziamento al prof. Francesco Pace per avere avuto l’idea di ristamparne il
capitolo 4.
17
sa» esse erano tuttavia troppo isolate per farsi sentire: utile fu perciò riunire la documentazione esistente sotto un’unica copertina, ampliandola dove possibile, organizzandola e imponendo la buona norma della verifica testuale autoptica, in contrasto
con l’abitudine di citare testi non visti personalmente, diluiti, fraintesi, banalizzati
o strumentalizzati nel passaggio da un autore all’altro.
Ciò nonostante, come giustamente notato dalla critica storica (5), quella silloge
non era che un primo acerbo tentativo di fare partecipare l’archeologia rupestre alla
ricostruzione del processo di cristianizzazione delle valli alpine occidentali. Benché
passati inosservati, studi successivi rispecchiano meglio il fatto che tale cristianizzazione fu un fenomeno di lunga durata, non concluso nel tardoantico o nell’alto medioevo, ma protratto sino all’età moderna (6), e che, soprattutto, essa seguì un percorso
tortuoso e discontinuo, con ondate, arresti, regressi, riprese e ricadute, in relazione
con processi storici e storico-religiosi di dimensioni continentali: invasioni, pellegrinaggi, creazione di diocesi e pievi, fondazioni monastiche e signorili, epidemie,
riforma protestante, controriforma, diffusione della carta stampata...: complessità
che configura una molteplicità di situazioni locali o subregionali, con esiti molto variegati, quando non contrastanti, pur su di un sfondo genericamente comune.
Un aspetto cruciale, che occorrerebbe ridiscutere, è l’applicabilità alla regione alpina delle fonti tardoantiche e altomedioevali sulla saxorum veneratio, che sono in
buona parte di ambiente transalpino. Il problema era già sentito nel 1981 e le risposte allora trovate (7) si possono ancora ritenere, almeno in parte, soddisfacenti. Non sono peraltro trascurabili le riserve espresse contro l’assimilazione, nella cristianizzazione delle campagne, del mondo italico-goto-longobardo a quello gallico-franco (8).
Un altro aspetto si è gradatamente precisato: nel 1980 era già notevole scoprire
che molti petroglifi, in precedenza datati a età preistorica, risalivano in realtà a età
storica, ma oggi si sa che sovente tali testimonianze non sono nemmeno tutte medioevali e che più congrue e consistenti risultano le fasi rupestri postmedioevali. Se
fosse riscritto oggi, il testo dovrebbe tenere conto, fra l’altro:
– dei graffiti parietali cruciformi della Grotta del Mian (Hautes-Alpes, secoli
XVIII-XX) (9);
– delle croci catastali della val Risagliardo (Torino), strappate alla fanta-preistoria,
in cui erano relegate, grazie a documenti d’archivio che permettono di datarle in
vari giorni del triennio 1761-1763 con l’approssimazione di due ore (10);
(5)
MERLO 1984.
ROSSI - GATTIGLIA 1998: 109.
(7)
Cf. infra, § Piemonte e Oltralpe mondi commensurabili.
(8)
CRACCO 1980: 361-363, 368-372, 377.
(9)
ROSSI 1997: 63-73.
(10)
ROSSI - GATTIGLIA 2001.
(6)
18
– delle croci a tettuccio (ex «balestriformi») che nelle sequenze stratigrafiche rupestri
del Queyras (Hautes-Alpes) sono associate con date e iscrizioni onomastiche riferibili a eventi e personaggi dei secoli XVI-XVIII (11);
– delle riproduzioni rupestri di oggetti cultuali e liturgici che pastori e agricoltori di
Usseglio (Torino), a partire dal XIV/XV secolo, hanno inciso tanto sulle rocce
delle montagne, quanto sui muri delle case e su oggetti personali in legno (12).
Se le età tardomedioevale e postmedioevale sono oggi più ricche di siti rupestri
che nel 1981, lo stesso non si può dire per i secoli immediatamente precedenti.
La tecnica del rilievo stratigrafico (13), rivelatasi efficace nella datazione dei petroglifi degli ultimi 500 anni, non lo è altrettanto quando ci si allontana ulteriormente nel tempo. Alla base delle sequenze rupestri alpino-occidentali si raggiunge un
limite inferiore, coincidente con gli ultimi secoli del medioevo, al di là del quale è
possibile assegnare i segni a età premoderna, senza però avere i mezzi per decidere su
basi oggettive se premoderno significhi medioevale, tardoantico, romano o preistorico. L’incertezza dipende dall’assenza di iscrizioni (fra cui, ovviamente, di date),
dalla consunzione dei petroglifi, che nelle Alpi Occidentali sono quasi sempre realizzati su litotipi alterabili (e alterati) alla scala cronologica umana, e dalla schematicità del repertorio. Il rischio, in questi casi, è di affidare la datazione alla morfologia
dei segni, incappando in una forma meccanica di comparativismo che qualcuno definisce «raccolta delle figurine».
Penalizzati da queste obiettive carenze tecniche dell’archeologia rupestre risultano così essere proprio quel tardoantico e quell’alto medioevo che hanno prodotto la
maggior parte dei testi sul perdurare dei culti delle pietre e dei provvedimenti volti a
estirparli, diluirli o convertirli: documenti su cui si basa l’ipotesi che la venerazione
si esprimesse anche mediante l’incisione di segni e figure.
A tale proposito, una strada non è ancora abbastanza battuta: verificare se, come e in quale misura i petroglifi schematici, geometrici o astrattisti di epoca genericamente premoderna siano in relazione con lo schematismo, la geometricità e l’astrattismo della cultura grafica altomedioevale, oltre che con la rarefazione dei documenti figurativi e scrittorii esposti al pubblico che si verifica in quei secoli(14). Coppelle, vaschette, orme, reticoli, spirali, meandri altomedioevali? Perché no, quando,
paradossalmente, non si esita ad attribuirli alla preistoria anche se una data moderna, incisa a pochi metri di distanza e quasi consunta dall’alterazione naturale, dovrebbe fare dubitare della possibilità che su quella roccia si possano conservare segni
plurimillenari?
(11)
ROSSI - GATTIGLIA et al. 1999: passim; ROSSI - GATTIGLIA 2007: 28-31.
ROSSI 2008: passim; http://www.antropologiaalpina.it/mca/archeologia%20rupestre/avvio.htm.
(13)
LESCA - ROSSI 1999.
(14)
CAVALLO 1994.
(12)
19
Il problema si potrebbe affrontare e, forse, risolvere su basi archeologiche: stabilendo la regola che i programmi di rilevamento dei petroglifi attuati da soprintendenze, università e altri istituti qualificati prevedano non solo la «raccolta delle figurine», da inserire nel proprio album e confrontare con l’album degli altri, ma anche lo scavo volto a riportare in luce gli oggetti perduti o abbandonati dagli incisori
rupestri ai piedi delle loro composizioni e a ricostruire la sequenza delle frequentazioni umane e degli abbandoni del sito. Dove lo si è fatto, lo scavo ha indicato, se
non la data dei petroglifi, almeno un ventaglio di date possibili e una serie di date
improbabili. Sino a quando siffatti interventi rimarranno casi isolati, non sarà possibile progredire.
Indipendentemente dalla data di confezione dei petroglifi, lo scavo serve
comunque a circostanziare modalità e durata di funzionamento del sito rupestre. Le
modalità sono quasi sempre sconosciute: l’interrogativo «Quid faciunt super petras?»
resta, a distanza di 35 anni, del tutto aperto. Non sarebbe utile tentare di definire,
con una tecnica oggettiva quale lo scavo archeologico, che cosa facessero coloro che
frequentavano le rocce incise nei secoli successivi all’atto creativo? Le date
radiocarboniche fornite da due siti con monoliti incisi, Anvoia in Valcamonica
(Brescia) e Costa dei Ghiffi nell’Appennino Ligure (Genova) (15) suggeriscono che,
dopo per ora imprecisate vicissitudini di età romana e tardoantica, il definitivo
abbattimento dei monoliti sia avvenuto nell’alto medioevo (forse nei suoi primi secoli),
a conferma delle fonti storiche e, nel caso della Liguria, epigrafiche (16) sul perdurare
del culto delle pietre e sulla virulenza degli interventi di sconsacrazione/riconsacrazione
cristiana.
Nonostante i limiti sopra evidenziati, il testo del 1981 viene ristampato senza
modifiche rispetto all’originale che non siano di natura meramente tipografica.
(15)
(16)
FEDELE et al. 2012: 24-30; STAGNO et al. 2014: 423, 425, 429-430.
MAZZINI 1919; CONTI 1980: 238-241.
20
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21
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risorse nella montagna mediterranea. Atti del convegno, Borzonasca 2011, (a cura)
A.M. STAGNO: 417-432. Firenze.
22
La lezione delle fonti scritte (1981)(*)
L’analisi di qualificate fonti letterarie tardo-antiche e medioevali contribuisce a confermare la possibilità che gli antichi Cristiani si dedicassero con
notevole assiduità all’istoriazione rupestre, suggerendo anche in quali processi
storici affondino le radici di tale fenomeno.
L’idolatria nelle campagne
Fra le svariate e peculiari attività esercitate in Europa dalla Chiesa a partire dal momento in cui, con Costantino, cessa di essere perseguitata metodicamente(17), si annovera la lotta (in realtà non sempre così vittoriosa come pretendono le fonti ufficiali(18)) combattuta assai decisamente contro quella grande varietà di «superstizioni» e di culti «idolatrici», tra cui compare con una
certa frequenza la ‘saxorum veneratio’(19). Molte costumanze «pagane» permangono infatti a lungo (talora sino al XVII, XVIII o anche XIX secolo(20)) ‘in agris’, vale a dire dappertutto al di fuori delle città e lontano dagli itinerari più
battuti dai missionari (dove ‘vix aliqua possessio a daemoniorum cultu habetur
immunis’(21)), presso i ceti più umili ma al tempo stesso numericamente più
consistenti della popolazione(22).
(*)
Estratto dalle pp. 6-14 di «Religiosità popolare e incisioni rupestri in età storica», Orco
Anthropologica 1, Edizioni CORSAC, Cuorgné, 1981, 51 pp.
(17)
ANDREOTTI 1959: 196-215; MAIER 1970: 43-49.
(18)
Cfr. ad esempio VON SCHUBERT 1921: 265; CINOTTI s.d.: 28-29 (in particolare la nota
19); con MIGNE 1845: coll. 549-558; MIGNE et al. 1845: col. 551; DAREMBERG et al. 1904: 947.
(19)
DU FRESNE DU CANGE et al. 1886/b: 320.
(20)
BURKE 1979: 549-551.
(21)
MUTZENBECKER 1962: 369.
(22)
HARDUINUS 1714: coll. 1922-23; Anonimo 1862: 46-50; HALM 1866: 121-125;
FERGUSSON 1872: 23-26, 388; SAROGLIA 1881: 12, 15; 1887: 145-146; BORETIUS 1883: 2;
REINACH 1893; MAGNI 1901: 72; ALESSIO 1908: 42, 85-86, 194-195; HEFELE et al. 1908: 472
nota 1, 906, 997, 1014, 1164; 1909: 191, 215, 298, 546, 583; BASERGA 1927: 63-64; COCCHIARA
1928; PIDOU DE LA MADUÈRE 1931; MÂLE 1950: 33, 46, 48, 53-58; RÉAU 1955: 50; BENOIT
1957; LE BRAS 1958: 186-190; MUTZENBECKER 1962: 134, 169, 257, 266, 369, 420, 423; DE
CLERCQ 1963: 12, 136, 182, 265; MUNIER 1963: 156, 210-211, 228; ASTINI 1970: 304-305;
DANIÉLOU et al. 1970: 346-348, 513; GORDINI 1970: 536-538; MAIER 1970: 47-48, 61-62, 239,
347; KNOWLES et al. 1971: 19, 65-66, 252; FULCANELLI 1972: 41-43; GINZBURG 1972; PERRET
s.d.: 183-184; CIRESE s.d.: 11-12; RICHÉ 1973: 215-240; 1976; SCARZELLA et al. 1974: 155-156,
158-159; BARB 1975; BERNARDINI 1975: 102, 242; JONES 1975: 23-25, 28-30; BOGNETTI 1976:
111; LE GOFF 1976; CINOTTI s.d.: 28-29; DUBY 1978: 68; SAITTA 1978: 445-446; BERTOTTI
1979; BOLGIANI et al. 1979-80; DINI 1980; HILLGARTH 1980: 7, 11-18, 26-27, 47-55.
23
Il culto delle pietre
La condanna da parte delle autorità cristiane dei culti di cui sono fatte
oggetto le pietre (in genere congiuntamente a fonti e alberi(23)) risulta ampiamente diffusa tanto nel tempo quanto nello spazio: limitandosi all’Occidente,
si passa dai ‘Concilia’ (nazionali, provinciali, misti(24)) della Gallia tardo-romana (V secolo)(25), del Regno Merovingio (VI÷VIII secolo)(26) e della Spagna visigotica (VII secolo)(27) ai ‘capitularia’ di Carlomagno(28), dai ’praecepta’ di
Childeberto I re dei Franchi (511-558)(29) alla ‘Vita’ di s. Eligio di Noyon
scritta da s. Audoenus (VII secolo)(30), dagli statuti di Edgar «the Peaceful» (re
d’Inghilterra dal 959 al 975) e di Knud II «il Grande» (re d’Inghilterra, Danimarca e Norvegia negli anni 1016÷1035)(31) al ‘Decretum Collectarium’ di
Burchard vescovo di Worms (1000÷1025)(32); a tali testimonianze si può accostare la condanna dei ‘simulacra lapidea’ pronunciata nei suoi ‘Sermones’ da
s. Maximus vescovo di Torino (fine IV - inizio V secolo)(33).
Piemonte e Oltralpe mondi commensurabili
Il fatto che la maggioranza dei testi in questione non si riferisca specificamente al Piemonte o all’Italia, bensì piuttosto all’Europa centro-settentrionale, con particolare riguardo alle regioni occupate dai Franchi, non deve ritenersi fuori luogo.
(23)
V. in particolare MÂLE 1950: 53-56; THÉVENOT 1959: 89-92, 94-97; LECIEJEWICZ et al.
1970: 80-81; DRAPPERO 1973: 69-70; RICHÉ 1973: 215; 1976: 81; BERNARDINI 1975: 242.
(24)
HEFELE et al. 1907: 5-9.
(25)
FERGUSSON 1872: 24; REINACH 1893:333; HEFELE et al. 1908: 462; BASERGA 1927: 63;
NIEL 1961: 18; MUNIER 1963: 119; ASTINI 1970: 304; BERNARDINI 1975: 157-158.
(26)
Autori Diversi 1644/a: 437; 1644/b: 676-677, 686-687; HARDUINUS 1714: col. 1923;
FERGUSSON 1872: 23-25; DU FRESNE DU CANGE et al. 1886/a: 297; REINACH 1893: 333; HEFELE
et al. 1909: 191, 298; 1910: 834-838, 844; BASERGA 1927: 63; NIEL 1961: 18-19; DE CLERCQ
1963: 191; ASTINI 1970: 304; BERNARDINI 1975: 157-158; JONES 1975: 24; DUBY 1978: 68.
(27)
HARDUINUS 1714: coll. 1724, 1794; FERGUSSON 1872: 24-25, 388; REINACH 1893:
333; HEFELE et al. 1909: 542, 546, 582-583; BASERGA 1927: 63; Niel 1961: 19; ASTINI 1970:
304; BERNARDINI 1975: 157-158; JONES 1975: 24; HILLGARTH 1980: 4-5, 15-16.
(28)
BORETIUS 1883: 59, 402; REINACH 1893: 333; BASERGA 1927: 63; NIEL 1961: 19; ASTINI
1970: 304.
(29)
BASERGA 1927: 63; ASTINI 1970: 304; BERNARDINI 1975: 158.
(30)
MIGNE 1851: col. 528; DU FRESNE DU CANGE et al. 1886/a: 297; NIEL 1961: 19; ASTINI
1970: 304.
(31)
FERGUSSON 1872: 25.
(32)
WEINZIERL 1958; DUBY 1978: 68.
(33)
ALESSIO 1908: 156, 185, 190-191; MUTZENBECKER 1962: 420; BERTOTTI 1979:
502-503.
24
Adottando le espressioni ‘Gallia Cisalpina’ per designare la pianura del Po
e ‘Gallia Transalpina’ per indicare i territori oggi corrispondenti a Francia,
Belgio, Brabante, Renania occidentale e Svizzera centro-occidentale, Roma
repubblicana riconosceva apertamente l’esistenza di maggiori affinità bioculturali fra l’Oltralpe celtico e la pianura Padana che non fra quest’ultima e l’‘Italia’ propriamente detta (cioè la penisola fino al Magra e al Rubicone)(34). Favorendo la costituzione di ‘provinciae’ procuratorie propriamente alpine estese
su entrambi i versanti delle Alpi Occidentali (‘Alpes Maritimae’, ‘Alpes Cottiae’)(35), l’Impero Romano dei primi secoli d.C. ne individuava la sostanziale
unità etnica e culturale, esattamente nei termini in cui questa si era andata
definendo nel corso dell’Età del Ferro(36). La riorganizzazione politica, amministrativa e territoriale dell’Impero promossa da Diocleziano (293-305), pur
prevedendo la ripartizione delle Alpi Occidentali in tre ‘diocesi’ differenti (le
‘Alpes Maritimae’ nella ‘Viennensis’, le ‘Alpes Cottiae’ nella ‘Italiciana’, le ‘Alpes
Graiae et Poeninae’ nella ‘Galliarum’), non modificava sostanzialmente la situazione(37).
Dal canto suo, la primitiva organizzazione ecclesiastica delle Alpi Occidentali rispecchia abbastanza fedelmente le sistemazioni precedenti: comprendendo, oltre a vaste porzioni dell’attuale Piemonte, anche la Maurienne (Savoie) e l’alta e media valle dell’Ubaye (Basses-Alpes), all’atto della sua costituzione (avvenuta verosimilmente nel corso dell’ultimo trentennio del IV secolo) la diocesi di Torino(38) ripete infatti parzialmente le caratteristiche geografiche che erano state proprie delle due ‘provinciae’ delle ‘Alpes Maritimae’ e
delle ‘Alpes Cottiae’; lo stesso ‘Concilium Taurinense’ (Torino, 398), significativamente annoverato tra i ‘Concilia Galliae’ in quanto ad esso intervengono
numerosi vescovi d’Oltralpe(39), ha fra i suoi scopi la definizione di ‘questioni
giurisdizionali relative ai vescovi della Gallia’(40); la diocesi Mauriana (SaintJean-de-Maurienne), istituita nel 579 per distacco da quella di Torino, fino al
IX secolo comprende a sua volta, oltre naturalmente alla valle dell’Arc, anche
(34)
NIESE 1912: col. 610; WEISS 1912: col. 639; TOUTAIN 1922: 376; CARDINALI 1946:
101-102; GIANNELLI 1959: 408, 423 carta, 450, 464-467; MANSUELLI 1962.
(35)
COOK et al. 1934: 215, 350, 681-682, 713 nota 2; ANDREOTTI 1959: 48/49 carta;
THÉVENOT 1959: 16-18; VAN DER HEYDEN et al. 1959: 113-114 carte 37-39; BARATTA et al.
1966: 16, 23; PRIEUR 1968: 70-85, 116-131.
(36)
FEDELE 1976: 254-256.
(37)
Cfr. ANDREOTTI 1959: 172-194; BARATTA et al. 1966: 24; con PRIEUR 1968: 85-87.
(38)
CASIRAGHI 1977: 405-406, 421-427.
(39)
ALESSIO 1908: 92-95, 156; VAN DER MEER et al. 1959: 15 carta 11; MUNIER 1963: 52-60;
JEDIN et al. 1970: 13.
(40)
CASIRAGHI 1977: 405.
25
l’alta valle della Durance (Hautes-Alpes) e la Valsusa fino ad Avigliana(41); infine, ancòra alla metà del XIII secolo il metropolita di Tarantasia (Moûtiers,
Savoie) avrà come suffraganee le diocesi di Aosta e di Sion (Valais)(42).
Inoltre, già prima che Carlomagno abbatta il Regno dei Longobardi annettendosi l’Italia, i Burgundi prima e i Franchi poi detengono il controllo di
alcune zone del versante interno delle Alpi Occidentali(43).
Sulla base di quanto si è detto, si deve quindi pensare che per tutto il I
millennio d.C. l’Italia nord-occidentale intrattenga abbastanza spesso contatti
socio-culturali, politici e religiosi più stretti con l’ambiente transalpino che
non con la penisola italiana e si mantenga comunque sempre aperta agli
scambi con l’Oltralpe, favorita in ciò dal ruolo di versatile membrana osmotica costantemente svolto dalla catena alpina. Le fonti letterarie sopra indicate
devono perciò ritenersi pienamente pertinenti.
Validità del Paganesimo
La costanza con cui la proibizione di praticare culti «idolatrici» è periodicamente ribadita(44), ne testimonia la vitalità e le ampie potenzialità di suggestione nell’ambito di quella vasta sfera sociale alla quale non solo il Cristianesimo, ma anche le lingue «ufficiali» (Latino o Greco)(45), rimarranno sempre
largamente estranee e alla quale gli antichi dèi continueranno a parere tutt’altro che ‘insensibili’ e gli antichi altari tutt’altro che ‘putrescenti’(46).
Resistenza al Cristianesimo nelle Alpi
La tenace impermeabilità al Cristianesimo manifestata inizialmente dalle
popolazioni alpine(47) è testimoniata fra l’altro dalla poco invidiabile «avventura» occorsa nel 397 ai tre missionari (Sisinnius, Martyrius, Alexander) inviati
dal vescovo (poi santo) Vigilius di Trento ad evangelizzare la Val di Non (Süd-
(41)
PRIEUR 1968: 87; CASIRAGHI 1977: 422, 443.
TANNER et al. 1929: carta 57; v. anche BERTOTTI 1979: 136.
(43)
BARATTA et al. 1966: 26; CASARTELLI NOVELLI 1974: 17.
(44)
HARDUINUS 1714: coll. 482, 573, 1794-1795, 1921-1923, 1925; HOLDER 1882: 52;
BORETIUS 1883: 2-3, 58-59; HARTMANN 1957: 7, 330-331; DE CLERCQ 1963: 102, 191-192;
MAIER 1970: 123, 207; v. anche note 42, 45-48, 50.
(45)
HARDUINUS 1714: col. 1922; MANNUCCI 1907: 75; MORIN 1937: 18-19, 338; RICHÉ
1973: 239; 1976: 93; JONES 1975: 24; SAITTA 1978: 446, 504; HILLGARTH 1980: 6-7, 20-21; cfr.
però THÉVENOT 1959: 67-69.
(46)
MUTZENBECKER 1962: 420.
(47)
VAN DER MEER et al. 1959: carte 2-3, 5, 9-10; GORDINI 1970: 534; JEDIN et al. 1970:
22-23, 32; SCARZELLA et al. 1974: 158; cfr. però PERRET s.d.: 182.
(42)
26
tirol)(48), solo tre anni dopo la terribile sconfitta patita dai pagani Flavius Eugenius (imperatore d’Occidente), V. Nicomachus Flavianus (ex prefetto del
pretorio per l’Italia e ‘consul sine collega’ per il 394) e Arbogastes (generale
franco al servizio dell’Impero con il titolo di ‘magister militum’) dinanzi all’imperatore cristiano d’Oriente Theodosius (battaglia del fiume Frigidus, oggi Vipava, in Slovenia, tra Postumia e Gorizia)(49).
Per le zone alpine del Piemonte rivestono inoltre particolare significato i
già citati ‘sermones’ di Maximus, in quanto nel IV-V secolo la diocesi di Torino comprendeva ancòra estese aree montuose, cedute in séguito ad altre diocesi di più recente costituzione (Saint-Jean-de-Maurienne, Susa, Pinerolo, Saluzzo, Cuneo) o comunque in fase di espansione (Embrun)(50).
Superficialità delle fonti scritte
‘Illi diversis suadelis decepti, cultores idolorum efficiuntur, veneratores lapidum, accensores facularum, excolentes sacra fontium vel arborum, auguratores
quoque, seu praecantores, multaque alia, quae longum est narrare’(51): inclusa nel
secondo ‘capitulum’ del ‘Concilium Toletanum XVI.’ (Toledo, 693), questa
frase può essere ritenuta un «classico» della lotta all’idolatria: se nell’‘efficiuntur’ è infatti possibile cogliere un sentimento di accorata preoccupazione per
il proliferare dei culti di origine precristiana, le ultime parole rivelano altresì la
superficialità di chi è abituato a non compiere sforzi per comprendere il punto di vista degli altri. Quasi tutti i testi si limitano cioè a deprecare la «sopravvivenza» dell’‘idololatria’, a imporne l’abiura, a ordinare la distruzione degli ‘idola’ e stabilire le pene da comminare ai recidivi (naturalmente di intensità
inversamente proporzionale al censo dell’idolatra(52), mentre non si soffermano affatto a considerare nei dettagli quali aspetti il culto delle pietre venga effettivamente ad assumere al di là di un generico ‘ad petram votum reddere’(53).
Il ventitreesimo canone del ‘Concilium Turonense’ (Tours, Indre-et-Loire,
567) non ha in tal modo difficoltà ad affermare: ‘Contestamur illam sollicitudinem tam pastores quam presbiteros gerere, ut, quoscumque in hac fatuitate persistere viderint vel AD NESCIO QUAS PETRAS aut arbores aut ad fontes, desi(48)
MIGNE 1845: coll. 549-558; DANIÉLOU et al. 1970: 348; GORDINI 1970: 538; JONES
1975: 28; v. anche BOGNETTI 1976: 124.
(49)
BLOCH 1975: 209.
(50)
CASIRAGHI 1977: 421-430.
(51)
HARDUINUS 1714: col. 1794; HEFELE et al. 1909: 582-583; BASERGA 1927: 63; ASTINI
1970: 304.
(52)
HARDUINUS 1714: col. 1795.
(53)
DU FRESNE DU CANGE et al. 1886/a: 297; cfr. anche FERGUSSON 1872: 23, 25; GINZBURG
1972: 651; RICHÉ 1973: 217; 1976: 79-80; LE GOFF 1976: 220 nota 17.
27
gnata loca gentilium, perpetrare, quae ad ecclesiae rationem non pertinent, eos ab
ecclesia sancta auctoritate reppellant’(54).
Moventi economici e politici
Benché poi i vescovi riunitisi a Toledo nel 681 (Concilium Toletanum
XII., canone XI) proclamino: ‘Praecepta haec Domini non in ultione, sed in terrore delinquentium apponentes, non mortis per haec sententiam promulgamus;
sed cultores idolorum, veneratores lapidum, accensores facularum, & excolentes sacra fontium vel arborum; admonemus, ut agnoscant, quod ipsi se spontaneae
morti subjiciunt, qui diabolo sacrificare videntur’(55), non si può tuttavia fare a
meno di constatare come la lotta contro l’idolatria risponda spesso ad istanze
di ordine economico e politico più che non religioso e spirituale: basti ricordare a tale proposito la proibizione ‘ut nullus votum faciat, aut candelam, vel
ALIQUOD MUNUS pro salute sua rogaturus alibi deferat, NISI AD ECCLESIAM Domino Deo suo’ (‘Concilium Namnetense’, canone XX; Nantes, LoireAtlantique, ≈ 658)(56).
Quid faciunt [Pagani] super petras?
Data dunque la loro intonazione apodittica, che non lascia spazio alcuno
alla descrizione, questi testi non consentono di per sé di decidere se effettivamente la ‘saxorum veneratio’ si esprimesse o no anche mediante petroglifo.
Dell’unico testo che avrebbe probabilmente fornito dati esaurienti in tal senso, vale a dire del settimo articolo dell’‘indiculus superstitionum & paganiarum’ allegato ai ‘Canones’ del ‘Concilium Liptinense’ (Liptinae, presso Mons,
Hainaut, 743), si conserva solo il titolo, tanto promettente quanto beffardo
nella sua lapidaria concisione: ‘de his quae faciunt super petras’(57).
Secondo la testimonianza di Audoenus (vescovo di Rouen, Seine-Maritime, 641÷684), oggetto di culti e credenze sono sia i semplici massi, sia certe
pietre particolari, ritenute depositarie di speciali virtù(58), che vengono appese
(54)
FERGUSSON 1872: 24; REINACH 1893: 333; HEFELE et al. 1909: 185, 191; BASERGA
1927: 63; DE CLERCQ 1963: 191; ASTINI 1970: 304.
(55)
HARDUINUS 1714: coll. 1724-25; FERGUSSON 1872: 24, 388; REINACH 1893: 333;
HEFELE et al. 1909: 542, 546; ASTINI 1970: 304.
(56)
Autori Diversi 1644/b: 687; cfr. anche HARDUINUS 1714: col. 1725; FERGUSSON 1872:
24-25; BORETIUS 1883: 2-3; HARTMANN 1957: 7; MUTZENBECKER 1962: 418, 420, 423; GRAUS
1976: 146; RICHÉ 1976: 89; HILLGARTH 1980: 21, 45.
(57)
HARDUINUS 1714: coll. 1921-23; HEFELE et al. 1910: 826 nota 1, 834-838, 844; BASERGA
1927: 63; ASTINI 1970: 304; RICHÉ 1976: 80.
(58)
MAIER 1970: 239; BARB 1975: 119-120, 130-132; ELIADE 1980: 39; cfr. COCCHIARA
1928; BOCQUET 1969: 151.
28
al collo di uomini e animali: ‘Nullus Christianus ad fana, vel ad petras, vel ad
fontes, vel ad arbores, … vel per trivia luminaria faciat, aut vota reddere presumat: nullus ad colla vel hominis, vel cujuslibet animalis ligamina dependere presumat, etiamsi a clericis fiant, et si dicatur quod res sancta sit, et lectiones divinas
contineat, quia non est in eis remedium Christi, sed venenum diaboli’(59).
Recupero delle espressioni religiose pagane
Un testo dal contenuto molto istruttivo è l’‘Epistola’ (XI, 56) inviata dal
papa s. Gregorius Magnus (590-604) all’abate franco Mellitus e ripresa da
Baeda nella sua ‘Historia ecclesiastica gentis Anglorum’ (compilata fino al 731),
nella quale, in riferimento all’Inghilterra, si precisa come ‘fana idolorum destrui… minime debeant, sed ipsa, quae in eis sunt, idola destruantur. Aqua benedicta fiat, in eisdem fanis aspergatur, altaria construantur, reliquiae ponantur,
quia, si fana eadem bene constructa sunt, necesse est, ut a cultu daemonum in obsequio veri Dei debeant commutari, ut, dum gens ipsa eadem fana sua non videt
destrui, de corde errorem deponat et Deum verum cognoscens ac adorans ad loca
quae consuevit familiarius concurrat’(60). Sulla base di tali precise direttive, si
può ammettere che a partire dallo scorcio del VI secolo (e fino a non molto
tempo fa)(61) una delle politiche più usuali ed efficaci adottate dalla Chiesa nei
confronti di credenze, cerimonie, divinità e luoghi di culto pagani o di reminiscenza pagana, prevedesse il tentativo di sovrapporre il Cristianesimo al Paganesimo, pur in un apparente rispetto di quest’ultimo(62). Proprio la consuetudine di «rispettare» in certa misura le manifestazioni religiose ancestrali e
tradizionali, ha consentito che tracce di Paganesimo perdurassero in forma
demopsicologica, talora anche sino ad oggi, sotto forma di fiere, artigianato,
feste patronali, danze, credenze, leggende e consuetudini cultuali(63).
Tale nuova strategia evangelizzatrice, già peraltro sperimentata in precedenza ed evidentemente improntata ad una più consumata «diplomazia», si
(59)
MIGNE 1851: col. 528; DU FRESNE DU CANGE et al. 1886/a: 297; ASTINI 1970: 304.
HARTMANN 1957: 330-331; BERTOTTI 1979: 522-23; v. anche HOLDER 1882: 52;
RÉAU 1955: 50.
(61)
V. ad esempio TOSCHI 1966: 7-9.
(62)
FERGUSSON 1872: 388; HEFELE et al. 1908: 472 nota 1; MÂLE 1950: 31-32, 36-41, 5458, 61-62; RÉAU 1955: 50-56, 310-311; 1957: 486-487; NIEL 1961: 18-20; HERTZ 1970: 149;
MAIER 1970: 347; GINZBURG 1972: 609; PIGGOTT 1973; RICHÉ 1973: 220-221, 272, 277, 285;
1976: 91-92; SCARZELLA et al. 1974: 158; BERNARDINI 1975: 212-213, 242; BOGNETTI 1976:
136; LE GOFF 1976: 221; HILLGARTH 1980: 14-15, 50-54.
(63)
REINACH 1893; MAGNI 1901: 98-114, 118-120; PAGLIOTTI 1906: 50; BASERGA 1927: 64;
COCCHIARA 1928; 1978: 50, 108; NIEL 1961: 18; DORO 1963; HERTZ 1970; AMBROSI 1972: 12,
19; DONNA D’OLDENICO 1972; PERRET s.d.; BERNARDINI 1975: 9-10, 98-102, 134-135, 152, 156157, 241; ACCONCI 1976: 94-106; GRAUS 1976: 146; CINOTTI s.d.: 27; MICHELETTA 1978: 81-82.
(60)
29
affianca (senza soppiantarlo) al primitivo slancio missionario, definitosi tra le
vicissitudini del IV secolo e avente una netta propensione agli attacchi radicali, al terrorismo verbale e al puro vandalismo deleterio(64).
Attacchi radicali
Questa prima fase è ben documentata, ad esempio, dal ventitreesimo canone approvato dal ‘Concilium Arelatense’ (Arles, Bouches-du-Rhône, 452):
esso prevede infatti che ‘si in alicuius episcopi territorio infideles aut faculas accendunt aut arbores, fontes vel saxa venerantur, si hoc eruere neglexerit, sacrilegii
reum se esse cognoscat’(65). D’altra parte gli attacchi radicali non cessano del
tutto nemmeno dopo l’‘Epistola’ di Gregorius Magnus, se ancòra intorno al
658 il già citato ventesimo canone decretato dal ‘Concilium Namnetense’ stabilisce che ‘Lapides…, quos in ruinosis locis & silvestribus daemonum ludificationibus decepti venerantur, ubi & vota vovent & deferunt, funditus effodiantur,
atque in tali loco proiiciantur, ubi numquam a cultoribus suis inveniri possint’(66), nel 681 il ‘Concilium Toletanum XII.’ (canone XI) dispone che ‘haec
sacrilegia eradiantur, & exterminata truncentur’(67), e finanche Carlomagno,
nella sua ‘Admonitio generalis’ promulgata ad Aachen (Nordrhein Westfalen)
nel 789, ‘de arboribus vel petris vel fontibus, ubi aliqui stulti luminaria vel alias
observationes faciunt’ ordina ‘ut iste pessimus usus et Deo execrabilis, ubicumque
inveniatur, tollatur et distruatur’(68). Del resto, anche in guerra, è solo combattendo contro popolazioni pagane (i Sassoni) che l’esercito di Carlomagno dispiega tutta la propria ferocia(69).
L’ultima condanna
Si annota infine brevemente che il testo più tardo in cui sia prevista la
condanna su scala nazionale dei culti «idolatrici» (tra cui quello delle pietre) è
probabilmente lo statuto di Knud II «il Grande» nel quale si legge: ‘Barbara
(64)
HARDUINUS 1714: col. 482; BORETIUS 1883: 2; REINACH 1893; MAGNI 1901: 72-73,
97-99; MÂLE 1950: 33-35, 38-39, 42-46; THÉVENOT 1959: 120-121; MUTZENBECKER 1962:
418; JOLY 1968: 376-377; DANIÉLOU et al. 1970: 346-348; MAIER 1970: 207; GINZBURG 1972:
604, 650-659; LE GOFF 1976: 222; RICHÉ 1976: 102-103; HILLGARTH 1980: 38-39; cfr. però
GIOT 1967: 334; AMBROSI 1972: 26.
(65)
FERGUSSON 1872: 24; REINACH 1893: 333; HEFELE et al. 1908: 462, 472; BASERGA
1927: 63; MUNIER 1963: 119; ASTINI 1970: 304.
(66)
Autori Diversi 1644/b: 686-687; FERGUSSON 1872: 24; DU FRESNE DU CANGE et al.
1886/a: 297; REINACH 1893: 333; HEFELE et al. 1909: 296-298; ASTINI 1970: 304.
(67)
HARDUINUS 1714: col. 1725; REINACH 1893: 333.
(68)
FERGUSSON 1872: 25; BORETIUS 1883: 59, 402; REINACH 1893: 333; MÂLE 1950: 57;
ASTINI 1970: 304; cfr. RICHÉ 1976: 80-81, 89.
(69)
RICHÉ 1973: 298.
30
est autem adoratio, sive quas idola (puta gentium divos), Solem, Lunam, Ignem,
Profluentem, Fontes, Saxa, cujusque generis arbores lignam coluerunt’(70).
Ciò non significa che posteriormente all’XI secolo non sussistano in Europa devozioni estranee al Cristianesimo: semplicemente, le tracce della loro
esistenza vanno allora ricercate negli appositi settori dei questionari che i singoli vescovi usano sottoporre ai parroci nel corso delle visite pastorali(71).
Un parallelo etnografico
La testimonianza delle fonti scritte permette di rilevare nei ‘veneratores
lapidum’ e negli «idolatri» in genere determinate connotazioni sociali, culturali, etniche e religiose (inconsistenza politica, elementarità dei rapporti economici, sudditanza ecologica, analfabetismo, tradizionalismo, precarietà delle
condizioni generali di vita, autoctonia, doppia religione, sincretismo religioso,
ubiquità dell’esperienza religiosa) che li apparentano abbastanza strettamente
con le attuali popolazioni a tecnologia semplice, il cui stile di vita viene di
giorno in giorno sempre più sconvolto e prevaricato dalla studiata invadenza
delle culture egemoni, tecnocrati, consumistiche e confessionali(72).
Incisioni rupestri pagane e cristiane?
Le fonti letterarie testé analizzate non menzionano specificamente l’esistenza di incisioni rupestri pagane e/o cristiane per i secoli a cui si riferiscono,
né d’altronde consentono di escludere la possibilità che ne venissero realizzate: semplicemente, non si mostrano interessate ad un’analisi descrittiva dei
riti che disapprovano.
Ciò malgrado esse pongono in risalto la centralità del ruolo assolto dalla
pietra nel quadro della religiosità popolare alto-medioevale. D’altra parte
– come si è già accennato – le incisioni rupestri costituiscono uno dei principali strumenti espressivi mediante cui l’Uomo stabilisce un rapporto di natura
religiosa con la pietra stessa e più in generale con l’Ambiente. Tenendo presente che il Paganesimo che le autorità cristiane si trovano a dover combattere
nell’Europa del I millennio, sotto una leggera patina greco-romana e orientale, rivela le sue profonde radici protostoriche(73) e che le incisioni rupestri rappresentano uno degli elementi che più caratterizzano la cultura figurativa di
molte popolazioni preistoriche e protostoriche europee, non pare fuori luogo
(70)
FERGUSSON 1872: 25.
BURKE 1979; BOLGIANI et al. 1979-80.
(72)
Cfr. ad esempio LANTERNARI 1974; ACCONCI 1976.
(73)
LE GOFF 1976: 220 nota 17.
(71)
31
individuare nell’istoriazione rupestre una delle possibili espressioni di quella
‘saxorum veneratio’ di cui tanto sommariamente riferiscono le testimonianze
scritte tardo-antiche e medioevali. Ammettendo ciò, la prospettiva della politica di recupero dei luoghi di culto pagani svolta dalla Chiesa, alla quale si è
accennato commentando l’‘Epistola’ di Gregorius Magnus, permette allora di
suggerire un valido movente dell’istoriazione rupestre cristiana: in un primo
tempo, a partire probabilmente dal Tardo-antico, la diffusione del petroglifo
cristiano deve cioè avere tratto stimolo dalla presenza, su certe rocce, di figure
e simboli incisi, nei quali si ravvisavano degli «idoli» che occorreva neutralizzare con quel segno della croce che, pur avendo avuto in origine un significato liturgico prettamente sacramentale(74), era anche l’unico ‘incantesimo’ ammesso dal Cristianesimo per esorcizzare i demoni(75); in séguito e fino alle soglie del XX secolo, da marchio della riconquista di un luogo già consacrato a
forze «diaboliche»(76), il petroglifo ha potuto divenire un’espressione piuttosto
comune e spontanea del culto cristiano, soprattutto in ambiente rurale(77).
(74)
DANIÉLOU 1961: 143-144.
BARB 1975: 119; HILLGARTH 1980: 24.
(76)
Cfr. DANIÉLOU 1961: 144-145.
(77)
ASTINI 1970: 305; TURPIN 1971; SCARZELLA et al. 1974: 157; BERNARDINI 1975; ANATI
1978: 156-158; NISI et al. 1978; ROSSI et al. 1978; 1979; 1980; 1982; DINI 1980: 11-12.
(75)
32
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