Academia.eduAcademia.edu

23-Ghisalberti.pdf

CAPITOLO 129 Alessandro Ghisalberti Fisica aristotelica o onnipotenza divina nella filosofia del sec. XIV Intendendo delineare alcune prospettive relative alle novità nel campo del confronto operato da Ockham e Buridano relativamente a delle criticità affioranti dalla fisica aristotelica, va richiamato l’antecedente ben noto del Sillabo parigino del 1277, ossia i 219 articoli censurati da Etienne Tempier, con cui il vescovo di Parigi sottopose al vaglio dell’ortodossia cristiana molte proposizioni ricavate dai testi di metafisica e di fisica di Aristotele o dei suoi interpreti arabi e latini. Esse dovevano essere riformulate, quando l’incompatibilità col dogma fosse solo di carattere formale, o respinte, quando veicolavano una dottrina intrinsecamente confliggente con la verità rivelata o con i suoi corollari diretti1 Nelle opere dei due maestri l’elemento che può essere preso come un minimo comun denominatore (uno fra i tanti) è quello dell’accoglimento intratestuale delle istanze di fondo espresse dagli articoli di Tempier, là dove essi manifestano la consapevolezza critica dei limiti della speculazione aristotelica su due punti fondamentali: a) l’universo di Aristotele, metafisicamente pieno e fisicamente chiuso, non lascia spazio alla contingenza; la potenza - sia quella divina, sia quella umana - è fortemente compromessa, perché c’è equivalenza stretta tra ciò che è realmente possibile e ciò che accade nel tempo; ciò che non accade mai nell’ordine temporale, non è nemmeno possibile, è irrealtà, è pura finzione. Occorre rivedere criticamente le nozioni aristoteliche di causa (prima e seconda), di contingente, di possibile, e soprattutto la nozione di infinito come l’indeterminato o l’imperfetto: b) E’ consentito il riconoscimento, anche presso i maestri qualificabili contemporaneamente come filosofi e teologi, di un ambito di ricerca svolta secondando istanze puramente razionali, senza dover rinnegare la valenza delle conclusioni filosofiche allorquando queste risultano non immediatamente convergenti con le conclusioni teologiche (ma non contrarie al dogma simpliciter). Ciò derivava dal decreto del 1272, che vietava ai maestri delle arti di sconfinare in ambiti di competenza esclusiva dei teologi, ma che in qualche modo finiva con il garantire loro uno spazio autonomo. 1. Guglielmo di Ockham e il rinnovamento della filosofia della natura La genesi della revisione tardomedievale delle dottrine fisiche e cosmologiche ereditate dalla classicità è stata ricondotta dagli studiosi degli ultimi decenni a due fattori che sono diventati operativi a partire dai primi decenni del sec. XIV: il primo di carattere logico-linguistico, il secondo legato alla metodologia teologica. Ne furono coinvolti tutti i pensatori del tempo: la vivace, numerosa schiera degli scotisti del sec. XIV nelle diverse università europee; Guglielmo di 130 PIERO BOITANI Ockham, cui la tradizione successiva accorderà la primogenitura nella scuola dei nominalistae; Gregorio da Rimini; Tommaso Bradwardine e i calculatores del Merton College; Giovanni Buridano, Nicola Oresme e Marsilio di Inghen, che applicarono la loro raffinata logica nella rilettura della fisica e della cosmologia. Circa il fattore logico-linguistico è oggi acquisita l’importanza dell’influenza sullo sviluppo della filosofia della natura tardo-medievale esercitata dai nuovi linguaggi dell’astrologia, dell’alchimia, dei calcoli e delle misure nell’indagine dei fenomeni fisici: si pensi al linguaggio sull’intensione e la remissione delle forme, che coinvolse molte problematiche teologiche, al linguaggio sul primo e sull’ultimo istante dell’essere (o del non-essere) dell’ente, al linguaggio sull’infinitamente divisibile o sulle proporzioni. Il linguaggio dei nominalisti riflette il rigore derivante dall’analisi logica molto serrata sullo status delle proposizioni universali e necessarie della scienza, come dalle questioni sulle caratteristiche dell’evidenza e della certezza. Se nel sec. XIII il dibattito sull’ente e sui principi che costituiscono gli oggetti che popolano l’universo, a partire dal principio creatore di tale universo, aveva avuto un carattere fondamentalmente metafisico, proiettato sullo statuto ontologico della realtà, nel sec. XIV il dibattito maturò una consapevolezza nuova: in prima istanza si trattava di “oggetti logici”, di elementi che riguardavano primariamente la conoscenza, e perciò occorreva innanzitutto dirigere l’attenzione su di essi come su proposizioni, o come su termini che formano proposizioni, e sulle relazioni che si possono stabilire tra proposizioni. In questa direzione va ricordato il dibattito sviluppatosi nell’ockhamismo (soprattutto con Ockham e Gregorio da Rimini) sullo statuto della scienza dimostrativa, che implicava il dibattito sul requisito dell’universalità e della necessità delle proposizioni in rapporto alla radicale contingenza del mondo naturale, oltre al dibattito su ciò che propriamente forma l’oggetto di una proposizione scientifica. Dall’analisi logica del linguaggio si arrivò così al metalinguaggio: se le proposizioni sono le uniche entità che possono essere dette universali, necessarie, sempre vere, allora parlare di scienza, ossia interrogarsi sull’epistemologia scientifica, significa parlare delle proposizioni e dei loro costitutivi, significa usare il metalinguaggio, termine questo che, in senso largo, indica ogni discorso intorno a proposizioni e a termini e ad altre entità logiche, a differenza del linguaggio che parla invece delle cose, della realtà. Per esempio, la proposizione: “Questo è il primo istante dell’esistenza di Socrate”, può avere un’analisi linguistica che bada alla realtà, all’oggettività dell’asserto, che può esprimersi nel fissare cronologicamente nella realtà il primo istante di Socrate. Può avere altresì un’analisi metalinguistica, che potrebbe tradursi in questi asserti: «Le seguenti proposizioni sono vere: “Socrate esiste nell’istante presente” e “Socrate non esisteva prima dell’istante presente”». Il metalinguaggio è riconoscibile dall’enfasi che l’analisi pone sul fatto che si sta parlando di proposizioni o di termini, e non c’è un nudo enunciato de re; ciò risultava di estrema utilità nella spiegazione della scienza aristotelica segnata dal carattere dell’universalità e della necessità, da DALL’URNA GRECA A BISANZIO 131 parte di autori che sostenevano il primato del singolare, con il connesso carattere particolarista dell’ontologia. Per rendere compatibile la filosofia aristotelica della natura con l’affermazione propria di Ockham, secondo cui esistono solo res individuae2, solo sostanze individuali e qualità individuali, lo strumento metalinguistico era idoneo a spiegare come i termini concreti non aventi una corrispondenza con un preciso individuo nella realtà siano trattabili attraverso più proposizioni. Per esempio, il termine concreto ‘bianco’, nella proposizione “Socrate è bianco”: per verificare tale proposizione, dobbiamo risolverla in queste due altre proposizioni, ciascuna delle quali può essere vera: “Socrate esiste” e “la bianchezza inerisce a Socrate”. La stessa procedura, ossia il ricorso a più proposizioni per spiegare una proposizione, si applica ai termini relativi, a quelli collettivi e ai nomi connotativi astratti come lunghezza, figura, tempo, moto: questi termini si possono ridurre a proposizioni esplicative, che mettano in risalto come la predicazione non concerne direttamente degli enti reali, ma delle intenzioni, dei termini, per cui nella proposizione: “il moto è nel mobile”, l’è (est) non va inteso come se significasse: esiste realmente, bensì come equivalente di essere predicato (“il moto è predicato nel mobile”). È merito soprattutto degli studi di J. Murdoch e della sua scuola3, negli ultimi decenni del secolo scorso, l’aver documentato la specializzazione del discorso, evidenziando l’uso del metalinguaggio nella logica proposizionale (soprattutto nelle proposizioni della possibilità), nella definizione dei termini negativi come la privazione, la tenebra, il nulla, nell’analisi delle nozioni fisiche di indivisibile, di continuo, di infinito, di punto, di linea, di istante, di vuoto. Di tutte queste cose, osservava Ockham, è possibile parlare solo «mediantibus vocibus, vel conceptibus, vel aliis signis». Come secondo fattore di rinnovamento della scienza nel sec. XIV gli studiosi hanno concordemente insistito sull’importanza della metodologia teologica, che coinvolse l’epistemologia scientifica in generale, e che ebbe forte impulso dalle già menzionate condanne dell’aristotelismo contenute nel Sillabo di Tempier del 1277. Cito solo la proposizione 147: «Che l’impossibile come tale (simpliciter) non può essere prodotto da Dio o da un altro agente». Questo enunciato riassume la motivazione che sta alla radice della critica espressa anche da tutti gli altri: esso faceva riferimento a una distinzione decisiva in teologia, quello tra l’impossibile come tale o in assoluto, e l’impossibile in natura. Mentre l’impossibile in sé non può essere prodotto né da Dio, né dalle potenze naturali, ciò che è impossibile in natura, perché contrasta con qualche legge fisica, può invece essere prodotto da Dio, in virtù della sua sovrana potenza creatrice. Su queste direttrici si sviluppò una dottrina teologica già in uso precedentemente, ma non esplorata in tutte le sue implicazioni, relativa alla distinzione in Dio tra la potenza assoluta e la potenza ordinata. Nel lucido vocabolario di Ockham la potentia Dei absoluta riguarda tutto ciò che Dio può compiere in base alla sua sovrana libertà, che non conosce limiti 132 PIERO BOITANI all’infuori di ciò che è intrinsecamente contraddittorio; la potentia Dei ordinata si estende agli interventi che Dio può compiere, all’interno dell’ordine da lui stesso posto in atto al momento della creazione del cosmo. In un puntuale passo del VI Quodlibet (q. 1), Ockham precisa che la distinzione non va intesa come se si ponessero realmente due potenze in Dio, in cui tutto è semplice; né intende asserire che Dio può fare alcune cose ordinatamente, mentre ne può fare altre in modo assoluto e non ordinato: infatti Dio non può fare nulla in modo non ordinato. Vuole sostenere solamente che la volontà divina, presa in sé o assolutamente, non sottostà a nessun vincolo, perché le leggi dell’universo sono state da lui poste, e perciò possono essere anche da lui deposte; inoltre il volere di Dio si pone senza alcun vincolo di fronte a ciò che, pur non esistendo realmente, è positivamente (ossia in modo non contraddittorio) possibile ad essere realizzato. L’incidenza della dottrina della potenza assoluta di Dio si fece sentire nell’impatto con la concezione necessitaristica del mondo che originava dalla fisica aristotelica: era metodologicamente avviata l’istanza contro le tesi aristoteliche ed arabe, che portava a rivendicare la possibilità dell’esistenza di altri mondi, diversi da quello attuale, dell’esistenza dello spazio tridimensionale infinito, la possibilità di muovere il mondo di moto rettilineo, con la conseguente possibilità del vuoto (che si verificherebbe nel luogo che il mondo prima occupava). Questa istanza metodologica, che vedeva nell’ordinamento attuale del mondo solo una possibilità e non una necessità metafisica, si presentava perciò come uno sviluppo coerente con la dottrina della possibilità, evidenziata da Duns Scoto circa la infinità del volere di Dio e circa la natura della contingenza. Con ciò Ockham non ha inteso togliere valore allo studio delle leggi naturali, né insinuare dubbi circa la capacità conoscitiva dell’uomo nei confronti del mondo oggettivo. Da tempo gli studiosi hanno mostrato l’infondatezza della qualifica dell’ockhamismo come scetticismo (categorie a lungo applicata all’intera filosofia del sec. XIV); né la dottrina della potentia Dei absoluta può essere presentata come una forma raffinata di volontarismo, che di nuovo getterebbe una lunga ombra di dubbio sulla lettura razionale dell’universo metafisico e fisico. Ockham ha esibito lungo tutta la sua opera, una totale fiducia nella capacità della ragione, elaborando una logica ed un’epistemologia rigorosamente strutturate, applicando un altrettanto rigoroso metodo esegetico ai testi dei filosofi e a quelli della teologia 4. La nuova prospettiva del sec. XIV va ad assestarsi proprio qui, nell’intersezione tra le diverse metodologie che provengono dall’analisi logico-linguistica, da quella gnoseologico-scientifica e da quella teologico-pratica. Eliminando ogni tratto ipostatizzante, ogni carattere metafisico dal concetto di natura, definita come il principio attivo o passivo del movimento, Ockham può compiere un sostanziale progresso rispetto ad Aristotele ed agli aristotelici medievali, affermando che la natura dei corpi celesti non differisce necessariamente da quella dei corpi sublunari: non ci sono argomenti tanto rigorosi da costringere ad affermare che la natura del cielo è più nobile di quella dei corpi terrestri, DALL’URNA GRECA A BISANZIO 133 oppure che la sua materia deve essere incorruttibile. Non ci sono argomenti d’autorità che vadano in questa direzione: la Bibbia pone gli astri creati da Dio, come tutti gli altri elementi, e non parla di materia diversa per i corpi celesti rispetto agli altri corpi. Non ci sono argomenti di ragione: gli stessi avversari della tesi di Ockham ammettono che la forma del cielo è meno perfetta dell’anima intellettiva; eppure l’anima intellettiva informa la stessa materia che viene informata dalle altre forme sostanziali, per cui il maestro inglese conclude che dalla maggiore o minore nobiltà della forma non si può dedurre una differenza nella natura della materia informata. Omogeneità di natura e omogeneità di materia: i cieli non hanno una natura incorruttibile e la loro materia non è necessariamente diversa da quella di cui sono fatti i corpi terrestri capaci di recepire e trasmettere il movimento5. La linea di non ipostatizzazione di entità astratte nel campo naturale prosegue con la trattazione dei vari tipi di movimento, che non postulano altra realtà che quella del corpo che si muove, e con la trattazione del tempo. Partendo dalla definizione aristotelica del tempo come “misura del moto secondo il prima e il poi”, Ockham afferma che il tempo è il moto nel senso che tempo e moto riconducono alla stessa realtà extramentale. Si tratta di due nozioni cui corrispondono due diverse definizioni nominali, perché il tempo, oltre al riferimento al moto del mobile, implica il riferimento all’anima che misura, si rinvia quindi a qualcosa che non è incluso nella definizione del termine moto. Ma nella realtà extramentale, alla parola tempo non corrisponde nulla di più di quanto corrisponde alla parola moto. Nel linguaggio ockhamistico, tempo è un termine connotativo, ossia designa primariamente una cosa (il mobile in movimento), e secondariamente connota l’atto della mente che enumera la successione importata dal movimento, con l’avvertenza che “il prima e il poi nel moto non importano altre realtà oltre a quelle importate del nome moto, anche se tempo e moto hanno diverse definizioni nominali”6. 3. Le novità di Buridano nel campo della fisica Abbiamo visto che, dopo le condanne di Tempier, i pensatori cristiani sentirono l’esigenza di distinguere tra la natura intrinsecamente contingente del cosmo, i cui limiti sono stabiliti dall’onnipotenza divina, e la portata delle leggi naturali del cosmo, così come oggi è strutturato. Giovanni Buridano recepisce questa urgenza, distinguendo l’impossibile secundum naturam dall’impossibile simpliciter: ciò che appare impossibile secondo le leggi naturali non è tale in assoluto, in rapporto cioè alla sovrana potenza di Dio creatore. Questa distinzione diventa lo strumento privilegiato per introdurre ipotesi nuove, fuori dal vincolo della fisica aristotelica, quali la possibilità dello spazio tridimensionale vuoto, la possibile esistenza di altri mondi, l’eliminazione delle sostanze separate come motori delle sfere celesti. Essendo primariamente contrassegnata dalla categoria della quantità, la sostanza corporea risulta estesa nello spazio secondo le tre dimensioni: lun- 134 PIERO BOITANI ghezza, larghezza, profondità; ogni sostanza materiale è perciò estesa, ossia le sue parti sono situate spazialmente in modo continuo l’una dopo l’altra. Inoltre il moto naturale degli elementi verso i loro luoghi naturali mostra la capacità dello spazio di esercitare una certa potenza: gli elementi pesanti infatti (terra e acqua) tendono verso il basso, e quivi si trovano in quiete. L’idea di luogo è quella di «limite del corpo che contiene», ossia quando un corpo è in un luogo, significa che è contenuto in un altro corpo, col quale è in contatto immediato: la sua superficie esterna combacia in tutti i suoi punti con la superficie interna del corpo che lo contiene e lo limita, e questo corpo è il luogo proprio del corpo contenuto. Nella concezione aristotelica perciò lo spazio risulta essere l’insieme dei luoghi propri dei corpi; esso non può essere infinito, perché il cielo rappresenta il luogo contenente tutti i corpi sublunari. Viene inoltre esclusa l’esistenza del vuoto, perché la superficie interna del corpo che contiene e la superficie esterna del corpo contenuto devono combaciare. Nelle Quaestiones de caelo Buridano distingue l’ordine naturale dall’ordine della pura possibilità, e giunge ad eliminare, sia pure a livello di ipotesi, uno dei principali ostacoli che Aristotele aveva addotto contro l’esistenza di uno spazio tridimensionale vuoto, ossia l’impossibilità per le dimensioni dei corpi di compenetrarsi o di coesistere in un medesimo spazio: «Anzitutto affermo che non si deve porre per via naturale uno spazio fuori del cielo; infatti esso sarebbe una dimensione avente lunghezza, larghezza e profondità, e tale dimensione sarebbe o sostanza o accidente. Naturalmente parlando non può dirsi sostanza, perché il filosofo naturale deve ammettere solo una sostanza corporea che si muove di moto circolare, e questa appartiene alla natura celeste, perciò non è fuori dal cielo, oppure una sostanza che si muove naturalmente verso l’alto o verso il basso, e i filosofi naturali la collocherebbero sotto il cielo; dunque il filosofo naturale non deve ammettere, in base alla scienza naturale, una sostanza corporea al di là del cielo»7. Diversa è la risposta se ci si colloca a livello della pura possibilità, stabilita in rapporto all’onnipotenza di Dio: «Per la potenza divina infatti non è assurda la penetrazione di un corpo, perciò Dio con ogni corpo mobile potrebbe nello stesso luogo formare un’altra dimensione uguale secondo la penetrazione delle dimensioni»8. Analogamente si avanza l’ipotesi della possibilità del vuoto, sempre sulla base dell’onnipotenza divina: Aristotele escludeva che Dio possa muovere il mondo di moto rettilineo, perché fuori del luogo che contiene il mondo non vi è alcun altro corpo capace di contenerlo. Questo vincolo, osserva Buridano, non può valere nell’ipotesi di un intervento divino: «Non si richiede un luogo perché qualcosa sia mosso di moto rettilineo dalla potenza divina… Anzi, Dio potrebbe anche liberare questa pietra dal luogo: se annullasse tutti gli altri corpi, lasciando questa pietra, questa pietra sarebbe in un luogo, anzi non ci sarebbe luogo alcuno. Eppure Dio potrebbe muovere questa pietra di moto rettilineo, esattamente come può muovere il mondo intero»9. DALL’URNA GRECA A BISANZIO 135 Ultima conseguenza di rilievo è l’ammissione della possibile esistenza di più mondi: ogni vincolo fisico, connesso con la concezione aristotelica dell’universo perfetto nelle sue parti e chiuso nella sua struttura, cade di fronte all’ipotesi dell’intervento soprannaturale di Dio. Cade in particolare la preclusione aristotelica circa la necessità che la terra attuale debba essere il centro di un altro ipotetico universo: non è vero, osserva Buridano, che la terra attuale possieda in sé la ratio di centro, per cui tutti i centri debbano convenire omogeneamente con essa. Ogni mondo ha un suo centro naturale e perciò la terra di un ipotetico altro mondo starebbe naturalmente in quel centro, e non occuperebbe il centro del mondo attuale. Per Aristotele ogni movimento deve avere una causa che coesista con il corpo mosso e renda in tal modo ragione del passaggio dalla potenza all’atto che il movimento comporta. La causa del movimento può essere intrinseca e ‘naturale’, ossia il moto dipende dalla natura o forma del corpo, come nel caso del moto naturale degli elementi, dove la pesantezza e la leggerezza sono cause naturali rispettivamente del moto del pesante verso il basso e del leggero verso l’alto. La causa può anche essere estrinseca, rappresentata da un elemento che muove il corpo, accompagnandosi con questo per tutta la durata del movimento. Nel caso del moto violento di un proiettile, di un corpo pesante che percorre un tragitto dal basso in alto oppure attraverso l’aria, ci si chiede quale sia la causa di tale moto, dopo che il proiciente ha lasciato il proiettile (la freccia lanciata dall’arco, la pietra scagliata). La risposta di Aristotele ricollegava il moto violento del proiettile all’aria, la quale può muovere in due modi: o esercitando una spinta, quando essa sopraggiunge per colmare il vuoto che il proiettile ha lasciato con il suo spostamento (teoria dell’antiperistasi); oppure trascinando con sé il proiettile, in forza della spinta che l’aria circostante il proiettile ha ricevuto dal lanciatore al momento del lancio. La teoria dell’antiperistasi, già criticata da Aristotele, viene respinta da Buridano per le difficoltà sollevate dall’esperienza: i corpi che si muovono circolarmente, e perciò non lasciano alcun vuoto dietro di sé, come nel caso di una mola o di una ruota, continuano nel loro movimento anche dopo che la spinta è cessata. L’altra spiegazione, che attribuisce la trasmissione di una spinta all’aria circostante il proiettile per opera del lanciatore, urta parimenti contro dei dati di esperienza: se si isola, mediante un panno, l’aria contigua di una ruota, dopo che colui che muoveva ha cessato l’azione, non per questo la ruota si fermerà. Analogamente, se una nave venisse avvolta da teli e spinta velocemente in un corso d’acqua, qualora si ritirassero i teli e si arrestasse l’aria vicina, non per questo la nave si fermerà. D’altronde tutti possono constatare che se si spinge contro una persona l’aria, senza la pietra, con tutta la velocità possibile ad una mano, non succede che quella spinta dell’aria venga avvertita; «E ancora: perché non puoi lanciare una piuma per uno spazio di cinque piedi? Se fosse l’aria spinta a muovere il proiettile, quell’aria dovrebbe muovere di più la piuma, e 136 PIERO BOITANI con più facilità rispetto a una pietra pesante»10. Queste ‘apparenze’ non vengono spiegate dalle teorie tradizionali; il fatto stesso che Buridano le abbia descritte analiticamente testimonia la rilevanza che esse hanno avuto nell’indirizzarlo alla ricerca di soluzioni nuove e insieme il peso che l’esperienza ha avuto nelle sue analisi fisiche, per arrivare a proporre una nuova soluzione. Buridano prospetta la possibilità che il proiettile, dopo che ha lasciato il lanciatore, sia mosso da uno slancio o impetus, direttamente proporzionale alla forza motrice iniziale e alla quantità di materia del proiettile. Tale impetus aumenta con la velocità del moto e diminuisce per opera della resistenza sviluppata dagli elementi (dall’aria). Già intravista da Francesco della Marca (intorno al 1326), la dottrina dell’impetus riceve da Buridano una nuova ed organica sistemazione: oltre che nella spiegazione del moto violento il maestro parigino ricorre all’impetus anche per spiegare l’accelerazione dei gravi in caduta libera. Buridano infatti ritiene smentita dall’esperienza la spiegazione data da Aristotele, secondo cui la maggiore velocità del moto del grave (qualsiasi corpo pesante) quando si avvicina alla fine della caduta è causata dalla maggiore vicinanza con il luogo naturale. «Occorre immaginarsi che il corpo pesante riceva dal suo motore principale, ossia dalla gravità, non solo il moto, ma insieme con questo anche un certo slancio (impetus) che ha la capacità di muovere lo stesso corpo pesante, permanendo la gravità naturale. Siccome quello slancio si acquisisce comunemente con il moto, perciò quanto più il moto è veloce, maggiore e più forte è quello slancio. Pertanto all’inizio il corpo pesante è mosso solamente dalla sua gravità naturale, perciò si muove lentamente; in seguito è mosso dalla stesa gravità e dallo slancio acquisito, contemporaneamente, perciò si muove più velocemente»11. Una terza, rilevante applicazione della teoria dell’impetus riguarda il moto delle sfere celesti. Come è noto, la tradizione aristotelico-tolemaica ricorreva a delle intelligenze motrici, sostanze spirituali aventi il compito di causare il movimento dei corpi celesti, il cui moto non tende a luogo alcuno e perciò non può essere naturale. Buridano, nelle questioni sulla Fisica12 e in quelle sulla Metafisica13, osserva come il ricorso alle intelligenze per spiegare il moto dei cieli non abbia un fondamento esplicito nel testo biblico; ritiene perciò possibile ‘immaginare’ (una imaginatio) che le sfere celesti siano mosse dall’impetus impresso da Dio nel momento della creazione. Siccome il moto circolare non incontra resistenze, le sfere continuerebbero a muoversi in forza dell’impetus ricevuto inizialmente e secondo la velocità posseduta nel momento in cui Dio ha interrotto la spinta. In questo modo il maestro parigino ha compiuto il primo passo verso l’affermazione di un unico sistema di leggi che governano la meccanica dell’universo fisico, sia celeste sia sublunare, ipotizzando l’abbandono della credenza nella natura divina delle potenze motrici del cielo e muovendo la ricerca nella direzione di quello che più tardi sarà chiamato il principio d’inerzia. DALL’URNA GRECA A BISANZIO 137 Note 1 Gli articoli del Sillabo sono pubblicati da H. DENIFLE – A. CHATELAIN, Chartularium Universitatis Parisiensis, tomo I, Paris 1899, pp. 543-558. Fra gli studi che approfondiscono l’analisi del documento, cfr. R. HISSETTE, Enquete sur les 219 articles comdamnés à Paris le 7 mars 1277, Louvain-Paris 1977; L. BIANCHI, Il vescovo e i filosofi. La condanna parigina del 1277 e l’evoluzione dell’aristotelismo scolastico, Bergamo 1990. -– L’avvio della critica ad Aristotele da parte dei maestri del sec. XIII è stato provocato dalla tesi aristotelica dell’eternità de mondo, per molti non conciliabile con la dottrina biblica della creazione dal nulla. Numerosi studi hanno trattano l’argomento; segnalo l’ampia documentazione offerta di recente da P. BERNARDINI, Veritas, Error, Positio. Some aspects of the debate concerning the eternity of the world in the 13. th century, in M. Gadebusch Bondio – A. Paravicini Bagliani, Errors and Mistakes. A cultural history of fallibility, Edizioni del Galluzzo (Micrologus’Library, 49), Firenze 2012, pp. 17-80. 2 Le definizioni più chiare che Ockham dà di singolo o di individuo sono contenute nel Quodlibet V e nella Summa Logicae. Il Quodlibet V, alla q. 12, propone tre definizioni di singolare o individuo: «Nel primo modo è detto singolare ciò che è una cosa numericamente una e non è più cose; nel secondo modo è detta singolare una cosa extramentale, che è una sola e non è più cose, e non è segno di nulla; nel terzo modo è detto singolare il segno proprio di una cosa sola, che è detto termine discreto» (OCKHAM, Quodlibet V, q. 12; ed. Wey, St. Bonaventure, N. Y. 1980, p. 529). 3 Cfr.: J. MURDOCH, Scientia mediantibus vocibus: Metalinguistic Analysis in Later Medieval Natural Philosophy, in Sprache und Erkenntnis im Mittelalter (Miscellanea Mediaevalia 13/1), Berlin-New York 1981, pp. 73-106; ID., Analitic Character of Late Medieval Learning: Natural Philosophy Without Nature, in approaches to Nature in the Middle Ages, ed. L. D. Roberts, Binghamton, N. Y. 1982, pp. 171-213; AA.VV., Studies in Medieval Natural Philosophy, a cura di S. Caroti, Firenze 1989. 4 L’analisi della distinzione tra potenza assoluta e potenza ordinata in Ockham è molto presente nella recente letteratura; mi limito qui a rinviare ai seguenti saggi, e alle bibliografie in essi contenute: A. GHISALBERTI, Onnipotenza divina e contingenza del mondo in Guglielmo di Ockham, in Sopra la volta del mondo. Onnipotenza e potenza assoluta di Dio tra Medioevo e età moderna, a cura di A. Vettese, Bergamo 1986, pp. 34-55; W. J. COURTENAY, Capacity and volition. A history of the distinction of absolute and ordained power, Bergamo 1990; A. GHISALBERTI, Fisica aristotelica e onnipotenza di Dio in Guglielmo di Ockham, in “Veritas”, 41 (1996), pp. 483-492. 5 Cfr. OCKHAM, In II Sent., q. 18; ed. G. Gàl-R. Wood, St. Bonaventure, N. Y. 1981, pp. 399-405. 6 OCKHAM, Quaestiones in libros Physicorum Aristotelis, q. 47; ed. Brown, St. Bonaventure, N. Y. 1981, pp. 399-405. Cfr. A. GHISALBERTI, Ontologia e logica della temporalità da Tommaso d’Aquino a Guglielmo di Ockham, in AA.VV., Filosofia del tempo, a cura di L. Ruggiu, Milano 1998, pp. 72-85. 7 G. BURIDANO, Il cielo e il mondo. Commento al Trattato «Del cielo» di Aristotele, introd., trad. it. e note di A Ghisalberti, Milano 1983; I, XVII, pp. 181-182. 8 Ibid., I, XV, p. 171. 9 Ibid., I, XVI, p. 179. PIERO BOITANI 138 10 Ibid., III, II, pp. 419-420. Ibid., II, XII, p. 326. 12 Cfr. G. BURIDANO, In VIII Physicorum, q. 12. 13 Cfr. G. BURIDANO, In XII Metaphysicorum, q. 9. 11