La versione definitiva ed editata del presente capitolo è stata pubblicata nel testo
Tra migrazione ed ecologia delle culture. Un'esperienza in provincia di Bergamo.
Citazione:
Fornasa W., Soli F., Vadalà G. (2010) Risorse umane?, in Finco R. (a cura di) Tra
migrazione ed ecologia delle culture. Un'esperienza in provincia di Bergamo, Milano:
Franco Angeli.
RISORSE UMANE?
Fornasa W. – Soli F. – Vadalà G.
Laboratorio di Ecologia Evolutiva
labecoevolutiva@unibg.it
Facoltà di Scienze della Formazione
Università degli Studi di Bergamo
“Anche il padrone deve osservare come viene
osservato dal servo”
(N. Luhman, 2005, p. 267)
“La povertà è ereditaria, passa da una
generazione all’altra”
(J. E. Stiglitz, 2002, p. 82)
Un inizio
Cosa si intende quando si parla di “Risorse umane”? Questa è, a nostro parere, una concezione ben
lontana dall’essere autoevidente. O tale è stata resa al punto da essere incomprensibile,
incollocabile: di fatto un’etichetta vuota e buona per tutto. Per contribuire – e non certo per
rispondere – a tale questione faremo, di seguito, ricorso alla metafora ecologica il cui principio
relazionale sistemico può, forse, aiutare a riconnettere le tante e disperse “forme” umane che
marcano, rinnovando il mito dell’ “homo faber”, le mappe cognitive della modernità (l’homo
economicus, sociologicus, senza dimenticare quello psicologicus). Proveremo a prospettare nell’
“homo ecologicus” – si passi il latinismo improprio – una visione globale, ma non globalizzatrice,
delle relazioni umane che proviamo a definire “ecologia sociale”, intrecciando principalmente tre
fonti: N. Luhman (2005), E. Morin (2000) e G. Bateson (1976).
Tracce da percorrere
In senso generale, la definizione di “risorse umane” emerge nell’attuale visione manageriale delle
organizzazioni lavorative e produttive e, differentemente dalla tradizionale definizione di “forza
lavoro” o semplicemente di “lavoratore”, essa puntualizza lo scarto, in senso maggiorativo, delle
competenze e delle abilità oggi richieste e necessarie ad ogni figura professionale per collocarsi nel
mondo del lavoro e nella sua crescente “complessità”, in modo competitivo e tecnologicamente
adeguato (cfr. Tosi, H. L., Pilati, M., Mero, N. P., Rizzo, J. R., 2002).
Tuttavia, per quanto i meccanismi economici, gestionali e sociali sottostanti, di fatto, siano poco o
nulla cambiati rispetto alla concezione taylorista, nell’attuale fase di trasformazione, rapidissima,
che porta da una produzione di beni materiali verso una produzione di beni immateriali, tende ad
emergere, pur se in una ambigua lettura relazionale, sistemica, comunicativa e partecipativa, una
certa qual maggior attenzione alla “persona1 lavoratrice e non solo alla prestazione” (Luhman N.,
2005, p. 230 e seg.). Attenzione che giunge fino a forme che V. Codeluppi (Codeluppi V., 2008), –
ma anche lo stesso Luhman pur con altre considerazioni (idem) – definisce di “biocapitalismo” in
cui la “persona” è “presa in carico” dalla struttura aziendale fin nei suoi più privati aspetti corporei,
cognitivi ed emotivi.
Ora, il mercato consuma e fa consumare anche culture, saperi, tradizioni, storie, idee, tempo,
relazioni, sogni, simboli, riducendoli a pacchetti standard di desideri-bisogni.
Ciò nonostante gli “individui” sono sempre e comunque chiamati a eseguire “ripetitività” (le
“buone” pratiche?) con responsabilità e progettualità eterodiretta, orientata alla performance che, di
fatto, rimane a controllo gerarchico (Luhman N., 2005).
Essi non sono certo chiamati ad attuare una co-costruzione “eterarchica” in cui è sempre l’ “altro”,
il diverso, lo specifico, a prendere decisioni in una struttura circolare fra differenze creative, come
ci si potrebbe aspettare da una effettiva comprensione del paradigma sistemico a proposito di risorse
(von Foerster H., 2001).
La globalizzazione riassume tutto ciò in un cortocircuito fra educazione alla produzione, produzione
mercantile di educazione, educazione al consumo e all’illusione di poter consumare sempre,
produzione, consumo del prodotto, in cui ogni (plus)valore viene virtualizzato e ogni umanità
mantenuta sulla soglia del desiderio.
Da dove nasce allora questa specie di imbroglio comunicativo, concettuale e di rappresentazione
sociale a proposito di “risorse umane” e quali le sue ricadute?
Nella prospettiva che qui ci interessa sviluppare, l’imbroglio emerge dalla non elaborazione di una
pur evidente “doppia differenza”. Questa non elaborazione deriva dal concepire le risorse umane
come tali solo in virtù di quanto esse producono sotto il vincolo della coerenza con quanto da loro
atteso: esse rimangono risorse produttive finalizzate. In ciò nessun problema, data una visione
lineare, ma l’approccio sistemico pone e richiede un’altra visione antropologica.
Ovvero, collocare le risorse umane sempre nell’ottica della differenza di prodotto (la produttività), e
non in quella della costruzione differente di ciascuno (le culture e le pratiche) situa il prodotto come
esterno e indipendente dal processo storico ed evolutivo costruito da ogni risorsa umana attraverso
la sua “esperienza-in-un-contesto-di-relazioni”.
Ciò nega proprio quel processo (prima differenza) che ha permesso alla risorsa umana di
“costruire” quel prodotto (seconda differenza).
Sistemicamente, al contrario, il prodotto è interno al processo, ne fa parte, le risorse si
caratterizzano, allora, per la processualità, e questa, a sua volta si intreccia alla progettualità di ogni
sistema vivente, nodi che si rendono disponibili in un feed-back coevolutivo con e nelle
organizzazioni sociali e i vissuti culturali che ne derivano (cfr. Weik K.E., 1997).
Non viene, cioè, intuito il principio batesoniano per cui ogni differenza, ogni specificità, è una
differenza che genera differenze e, per questo, anche ridondanze, eccedenze e mappe (di mappe).
In questo senso, ogni risorsa umana non è più tale nel momento in cui non “co-costruisce”
differenze (principio di in-coerenza, se si vuole: innovazione), ma “produce” solo partecipazione
globalizzata (principio di affidabilità, se si vuole: consumo di ciò che essa stessa produce).
1
Per “persona” N. Luhman (e noi) intende, in senso totalmente laico, un sistema vivente
caratterizzato da auto-organizzazione e fini propri, e per “individui” sistemi viventi identificati per un
compito in una qualsiasi organizzazione che li comprende.
2
In questa visione l’ “umano” è risorsa solo se misurato come affidabile, prevedibile, e
competitivamente capace di “tenere” la collocazione assegnatagli producendo utile, altrimenti
diventa svantaggio e di conseguenza viene escluso, e parcheggiato a tempo in un “terzo mondo”
trasversale non solo alle geopolitiche, ma anche alle biopolitiche come si evidenzia nei tanti
sottosviluppi oggi attivi (e attivati).
L’aggettivazione di “umana” diventa, così, del tutto incidentale e legata ad una qualche
riconoscibilità socio-biologica (razziale e intellettiva, ad esempio).
In questa condizione non è possibile nessuna ecologia, ne individuale, ne sociale, ne tantomeno,
come direbbe Bateson, è possibile alcuna ecologia della mente e delle relazioni( cfr Bateson G.,
1977).
E’ possibile, invece, immaginare una ecologia non tanto e solo delle risorse umane come etichetta
comunicativa, quanto intese come “potenzialità umane con-viventi”?
La metafora ecologica
L’uso di metafore richiede, come sempre, consapevolezza e cautela, tanto più quando trattano della
fitta rete di interrelazioni e interdipendenze che caratterizzano i legami tra sistemi viventi e mondo.
Tuttavia l’ecologia sociale2 è già una sorta di metafora: nessuna ecologia può prescindere dai
sistemi viventi umani, ne può essere pensata contro di essi, ovviamente questo in linea di principio.
Nell’esperienza di tutti ciò fatica molto ad esprimersi ed affermarsi.
A volte, poi, le metafore si spingono fino al paradosso e ne usano le implicazioni per portare “oltre”
la riflessione e l’azione: è qui il caso delle risorse umane viste come parte dell’intero problema
dell’uso delle risorse (non solo bio-naturali) disponibili e dei diversi futuri possibili che ci
attendono a seconda delle scelte attuate.
E’ una questione di consumi, di rifiuti, di stili di vita, di bisogni indotti o meno, di mercati, di
informazione, ecc., ma è anche una questione di dignità umana, di relazioni di con-vivenza tra vite e
culture, di capacità co-evolutiva.
Il problema ci riguarda tutti, essendo noi stessi, ciascuno per sé – e per/con/tra gli altri –, parte
attiva tra le risorse umane: siamo parte della trama delle vite e delle strutture che “ci” connettono
l’un l’altro e con il pianeta, siamo tutti risorse umane sia naturali, che materiali, che immateriali,
che potenziali.
Siamo nell’ “oikos” come osservatori attivi e com-partecipativi e ne abbiamo responsabilità
evolutiva.
Il sospetto, l’ipotesi se si vuole, è che ciò riguardi e abbia radice innanzitutto nei modi di pensare e
nella loro trasmissione: occorre andare, innanzitutto, verso un’ecologia della mente e, quindi, della
formazione. Occorre uscire dalle patologie dell’epistemologia (Bateson G., 1984), passando da un
pensiero ecologico a modi di pensare e agire ecologizzati (Morin E., 2000, 2007), per entrare in una
seconda ecologia ormai matura e indilazionabile.
Come è ben noto il nodo ecologico attuale è la salvaguardia delle risorse della Terra e il loro uso
sostenibile. Allora qualche domanda: le “risorse umane” sono considerate tra le risorse della Terra?
Abbiamo un progetto per il loro “uso” sostenibile? Ma è sostenibile l’idea stessa di uso di risorse
“umane”? Dunque: chi usa chi? E sulla base di quale gerarchia o diritto o mandato? E, soprattutto,
le risorse umane sono “rinnovabili” all’infinito per sostenere questo modello di sviluppo “umano”?
Possiamo educare a modi di pensare che accettino l’idea di tollerabili quantità di “rifiuti umani”?
2
L. Gallino ritiene l’aggettivo sociale pleonastico se posto di seguito al prefisso “eco”, poiché questo
comprende già l’idea di “sociale” (Gallino L.,1993). Nel nostro contesto “sociale” è un semplice
rafforzativo.
3
Possiamo ripensare l’evolutività umana, fatta anche di migliori condizioni per “sfuggire a quella
condizione priva di dignità chiamata sottosviluppo” (Esteva G., 1998) e non accettare il
sottosviluppo come sottoprodotto inevitabile, se non necessario, di questo sviluppo? (ad es.
Latouche S., 2002; Sen A., 2000).
All’interno della metafora ecologica come si può assumere dunque la questione delle risorse
umane?
Forse conviene partire accennando ad un’altra ambiguità sottostante: il concetto di sviluppo
“sostenibile”. Secondo Esteva (idem) ”L’idea di sviluppo occupa il centro di una costellazione
semantica incredibilmente potente. Non c’è nulla nella mentalità moderna comparabile ad essa che
guidi il pensiero ed il comportamento”. Correntemente tale idea “descrive un processo attraverso il
quale vengono liberate le potenzialità di un oggetto o di un organismo” (Esteva G., 1998).
Considerazioni queste che sono approfondite ed estese da E. Morin fin dal 1965 (Morin E., 2000;
2007), come pure da altri (ad es. Sachs W., 1998), ma nelle quali la “questione” dell’umanità come
risorsa di sé stessa viene data sempre come sfondo o come obiettivo ovvio.
Eppure, a nostro avviso, solo in rare occasioni essa è resa nodo di osservazione e descrizione nei
termini di una connessione critica tra l’uso delle risorse della terra, verso le quali l’uomo si da
diritto, e la collocazione di uomini tra le risorse usate da altri uomini in un progetto di ecologia
evolutiva: essa rimane, di fatto, sottesa ad una visione antropocentrica.
In questa visione la “Madre Terra” genera figli di ranghi e qualità (oltre che di diritti) differenti: la
terra viene quindi progressivamente “desacralizzata”3 attraverso le lotte per il possesso, per il
controllo, per lo sfruttamento e per l’affermazione del “miglior” modello ecologico.
L’uomo, che ne fa parte, si autodesacralizza di conseguenza, interpretando il principio della tutela e
della cautela nel senso della proprietà, proprietà non solo del suolo e dei suoi prodotti – anche
culturali – ma, pure, di chi, vivente umano “altro da sè”, vi era compreso.
La gerarchia e la gestione del potere si fondano così non più nella gestione simbolica e rituale delle
relazioni generazionali e sulla comparazione culturale nel sapiente gioco conservazioneinnovazione-co/adattamento.
Ora il potere si fonda e si mantiene sullo scarto tecnico e tecnologico che addomestica le mani alla
produzione per sussistenza, le menti in apparati educabili, le culture in epifenomeni locali e distinti,
generando controllo per mezzo di bisogni sempre più irraggiungibili.
Dal teocentrismo pur regolatore che struttura l’ordine delle cose e vincola i rapporti, si passa
all’antropocentrismo che celebra il dominio dell’homo sapiens sul mondo e sulle sue risorse,
sistema in cui alcuni “antropos” sono più centrali di altri per razza, tecnocrazia, tecniche
comunicative e capacità colonizzatrice (soprattutto educativa).
Paradossalmente, tuttavia, la sfida ecologica non giunge alla Terra se prima non passa per
un’ecologia sociale della relazioni tra viventi umani, e tra loro e i viventi in genere.
L’umanità non è una risorsa infinita ed è l’unica che può autoconsumarsi da sé, pur praticando stili
di vita e di relazione, paradossalmente, sempre più efficaci, efficienti, ottimizzati, in una parola
globalizzati.
In questa spirale gli “scarti” crescono, il controllo dei tanti sottosviluppi localizzati sta assumendo
la forma di un circuito in cui è sempre più difficile coordinare le valvole di sfogo (crisi economiche,
guerre, colonizzazioni, malattie pandemiche, carestie, ecc.), e ove gli stessi “scarti”, gli esclusi,
pretendono inclusione. La manovra sta retroagendo sul manovratore, l’oscillazione entropianeghentropia ha raggiunto quella soglia complessa e fragile, inspiegabile e inavvertibile dal
pensiero a corto raggio della verità misurata.
3
Il concetto di “sacro” viene qui inteso nel senso batesoniano di “ciò che non so di un processo”. Ne
emerge una visione laica seppur attenta al “mistero” del co-gnoscere (Bateson G., 1989)
4
Gli scarti, le differenze del mondo, stanno chiedendo di essere inclusi come potenzialità
dell’umanità e non solo come risorse umane finalizzate.
Due riflessioni di caso: la scuola e le migrazioni
Possiamo contestualizzare ora la metafora ecologica in due, per cosi dire, riflessioni di caso i cui
“milieux” sono stati esplorati con estrema cautela e umiltà (cfr. Thelen E., 1994).
La prima riflessione riguarda la scuola, in particolare quella occidentale, e muove da una domanda:
l’attuale sistema formativo, per esempio italiano, considera gli allievi (e in fondo anche gli
insegnanti) “risorse umane”? La domanda non sembri troppo radicale o, peggio, ideologica.
È necessario, infatti, chiedersi quale spazio “generativo” possa e debba occupare la scuola nella
cornice sociale, politica, cognitiva ed emotiva appena delineata, come pure nella vita di ciascuno, e
quale potrebbe essere, invece, la sua potenzialità ecologica, da giocarsi nelle dinamiche relazionali
che la costruiscono.
La scuola, nel suo essere “istituzione” sembra caratterizzarsi in questo, allo stato attuale, più come
“dispositivo”4 ambiguo, come uno spazio di esclusività, di selezione, di “riproduzione”5,di
competizione in sè (interna ed esterna, orizzontale e verticale), di conflitto, in cui ciascun allievo è
identificato, pur con le migliori intenzioni, in termini di riuscita o fallimento, o, al massimo,
tollerato i termini di sopravvivenza minimale.
Nella stragrande maggioranza dei casi, e sempre più, la spinta sembra essere verso una
radicalizzazione di queste scelte “didattiche”, con l’obiettivo eterodiretto altrettanto ambiguo di
“innalzare” lo standard qualitativo di un sistema considerato deficitario, debole, economicamente e
produttivamente non competitivo.
Le risorse umane, le potenzialità con-viventi presenti nella formazione, in-da e, verrebbe da dire
attraverso essa, spesso vengono “depotenziate”, demotivate, disperse selettivamente (per usare un
vocabolo caro, appunto, al dispositivo “formazione”), escluse, attraverso una disposizione
“gerarchica” e “macchinista” di culture, relazioni e abilità che sancisce cesure dicotomiche (centromargini, abile-disabile, normale-patologico, nativo-immigrato, geneticamente dotato o no, …).
In tale dispositivo viene “messo al centro” non gli allievi, ma l’allievo medio, quello atteso,
“normale”, quasi sperato, immaginato dalle teorie psicologiche: l’imbuto di Norimberga è un
modello ancora attuale e attuato con scientificità nella pratica micro-didattica, che nella sua
frantumazione disciplinare disperde pure gli insegnanti-risorse.
La formazione “permanente”, l’apprendimento come prodotto atteso e unilaterale, è, in certo modo,
un dispositivo di selezione, controllo e assimilazione permanente e funzionale ad un’antropologia
dell’adatto (o del più adatto) e dell’adattabile o no in cui il comportamento, la condotta, controlla i
saperi.
I saperi e le discipline non sono codici interpretativi, ma informazioni di modelli del mondo e del
Sapere che lo spiega e attraverso questi modelli delle sue regole comportamentali accettate: le
differenze (i non-apprendimenti)6 equivalgono agli scarti (tossici) da smaltire o, meglio, disperdere
silenziosamente tra le tante statistiche ministeriali.
Nella formazione, pur così eternamente riformata, si consumano “sperperi”, “abusi” e “consumi”
soprattutto di potenziale vivente (studenti, insegnanti, genitori), rescindendo quei legami e reti
relazionali che risultino eccedenti al sistema di controllo e ai suoi indicatori valutativi, agli standard
di valutazione che il sistema scolastico (im)pone ai suoi studenti: “sorvegliare e punire attraverso
4
5
6
M. Foucault, 1975
P. Bourdieu, 1970.
K. Popper, 1970
5
l’apprendimento”, potremmo dire riprendendo Foucault.
La dispersione scolastica è un esempio significativo di queste dinamiche: essa presuppone
l’esistenza di un ipotetico tragitto equilibrato, uniformemente personalizzato per tutti gli studenti,
ma il tradimento di questa ipotesi coincide con una “perdita” di senso del sistema con-vivente
(quale la scuola).
L’energia così “dispersa” è considerata irrinnovabile quando invece, come gli studi di Prigogine
hanno messo in evidenza, la dissipazione è una caratteristica saliente nei sistemi che evolvono solo
se lontani dall’equilibrio (e come potrebbe non esserlo un sistema abitato da bambini, adolescenti e
insegnanti innovativi).
Facendo riferimento, per esempio, ai dati dei monitoraggi relativi alla dispersione scolastica lungo
tutto l’arco del percorso formativo, compresa l’università e considerando le varie forme possibili di
dispersione, essi rivelano un indice altissimo, vicino al 30%.
Ovviamente vi sono alcuni momenti del percorso cruciali più di altri, come pure alcuni percorsi
formativi sono più “selettivi” di altri, e non manca la tradizionale correlazione fra dispersione e
classe sociale, o tra scuole pubbliche e private.
Tuttavia il dato è altissimo di per sé e tocca maggiormente, ancora “ovviamente”, studenti
provenienti da altre culture, progressivamente “orientati” dall’insuccesso permanente verso scuole
professionali nelle cui classi la loro incidenza (o parcheggio) tocca punte del 30-40%. E’ noto come
le politiche del lavoro e del welfare indichino questi soggetti come “risorse” fondamentali per la
nostra economia: lo sono, a patto che accettino una posizione subordinata legata ad una
metacomunicazione formativa subordinante.
Si “consuma” così la possibilità di costruire spazi interattivi nuovi, paesaggi relazionali altri
(rispetto alla conservazione dello stato attuale) ovvero di vite e biografie, negando la piena e
possibile cittadinanza delle resilienze e della partecipazione delle traiettorie di ognuno al con-testo
del convivere.
In una scuola “vivente” la dissipazione (e non più la dispersione) assume un valore e un
significativo ruolo ri-equilibrante, ri-organizzativo, consapevole della potenziale partecipazione di
tutti i suoi attori in un’evoluzione rizomatica delle pratiche e dei saperi.
Ciò comporta di attuare quell’invito che H. von Foerster (2001) suggeriva nel sostenere la necessità
di agire sempre in modo da aumentare le scelte, e, quindi, permettere transizioni e movimenti negli
spazi relazionali e sociali e nei processi eco-evolutivi.
Ma tornando agli studenti autoctoni e fatte salve alcune evidenti eccezioni, dietro al dato
quantitativo emerge, soprattutto nelle scuole, un problema cruciale di perdita delle risorse umane
dipendente dalle conseguenze di un diffuso “clima relazionale insostenibile”. In altre parole, ciò
evidenzia una diffusa negazione di dignità e di potenzialità, largamente denunciata dai genitori e,
ove possibile, dagli stessi studenti come pure, dal loro punto di vista, da molti insegnanti stanchi di
connivenza e omertà pedagogica.
Abbiamo forse bisogno per tutti di una scuola “amabile”, così come definita e auspicata da L.
Malaguzzi, per il quale essa “… è in realtà un organismo vivente, un sistema … [il cui] … intreccio
di interconnessioni, quando tutto funziona, favorisce atmosfere ed eventi di enorme rilevanza
esistenziale e formativa sia per i bambini che per gli adulti”7.
La formazione così intesa appare capace di rilevare e tutelare quei “giacimenti” di differenze, di
innovazione necessariamente consapevole in cui, come canta De André, “coltivando tranquilla
l’orribile varietà delle proprie superbie, la maggioranza sta come una malattia, come una sfortuna,
come un’anestesia, come un’abitudine, per chi viaggia in direzione ostinata e contraria” e quindi,
in ottica inclusiva, i “non adatti”, “dopo tanto sbandare è appena giusto che la fortuna li aiuti come
7
in Edwards C., Grandini L., Forman G., a cura di, 1995, p.76.
6
una svista, come un’anomalia, come una distrazione, come un dovere”.8
Una seconda riflessione riguarda invece la storia delle migrazioni, e in particolare gli attuali flussi
migratori che si dipanano, dai “paesi poveri” a quelli “industrializzati” ovvero dai bisogni ai sogni.
Se, partendo da una visione antropocentrica del mondo, i figli e le figlie generati dalla “Madre
Terra” non hanno pari qualità e diritti, è possibile pensare che esistano risorse con differenti gradi e
riconoscimenti di umanità? Esistono, quindi, risorse “più umane” di altre?
Se consideriamo l’attuale sistema di mercato e le sue leggi potremmo pensare che sia così, ma è
necessario chiedersi quali siano le implicazioni e le conseguenze di un modello antropologico e
quindi etico di questo tipo, e le sue ripercussioni non solo sui singoli sistemi viventi, ma anche sul
sistema sociale e culturale globale, le potenzialità ecologiche e i processi co-evolutivi che questi
grandi spostamenti di uomini e donne comportano.
La nostra società (e i suoi consolidati stereotipi) considera l’immigrato una risorsa economica, una
scorta di forza lavoro a buon mercato e a basso “impatto” di diritti e dignità, ma raramente è in
grado di considerarlo come un essere umano portatore, oltre che di bisogni e difficoltà, anche di
ricchezze culturali e di potenzialità di sviluppo e da sviluppare.
La mondializzazione ha infatti permesso e promosso un ampliamento del mercato del lavoro,
sviluppando una richiesta di manodopera straniera, che, come sottolineano gli economisti, produce
numerosi effetti positivi, riducendo la crescita dei salari ed aumentando il reddito nazionale (cfr.
Palmeri P., 2005).
Contemporaneamente la globalizzazione dell’informazione ha indotto intere popolazioni ad
illudersi virtualmente su ciò che potrebbero ottenere se solo si conformassero in modelli simili a
quello del mondo occidentale, la cui manifestata opulenza sembra essere capace di soddisfare tutti i
bisogni (a loro volta indotti in occidente dai medesimi veicoli di informazione).
Ciò che viene proposto è quindi uno scambio: consumarsi e lasciarsi consumare in permuta della
possibilità di una qualche “redenzione”, ovvero la prospettiva di un futuro da consumatori grazie ad
un presente da consumati.
Un gioco, questo, con regole tutt’altro che semplici e ricche di impliciti, che impone, soprattutto a
chi ha deciso di spostarsi inseguendo la chimera di una vita migliore, una capacità di adattamento al
lavoro come “mercato di sé”.
Ciò offre spunto per un’ulteriore metafora: così come gli oggetti ormai ritenuti inutili possono
tornare ad essere utilizzati solo se ritrovano nuova forma, anche ai sistemi viventi si chiede, per
poter restare in gioco, di “riciclarsi” facendo affiorare nuove competenze.
Avremo quindi contabili che si trovano a fare i meccanici, insegnanti che fanno gli operai a ciclo
continuo, architetti che diventano badanti e così via.
Le risorse umane migranti (immigrate, ma prima ancora emigrate) subiscono quindi ancor più di
quelle autoctone i meccanismi di un sistema omologante che tende inoltre a “cronologizzare” le
esperienze per rileggere linearmente i percorsi lavorativi, e che in questo caso specifico, fa iniziare
la “vita lavorativa” della risorsa dall’arrivo nel nuovo Paese, cancellando tutte le storie, le biografie,
le esperienze, le pratiche, gli avvenimenti antecedenti quel momento.
Questa lettura semplificante delle traiettorie lavorative e personali, figlia, ancora una volta, di
logiche economiciste, rischia di non considerare due aspetti.
Innanzitutto quello connesso al cammino pur in atto anche nei paesi di partenza, per quanto esso
avvenga in adeguamento ai modelli pre-disposti dai paesi industrializzati (possiamo pensare di
illuderci di restare sempre ai vertici del panorama mondiale? Continua ad essere praticabile un
pensiero che ha radici nel colonialismo e pur teme di essere colonizzato?).
8
Smisurata preghiera, in Anime Salve (1996)
7
Ed in secondo luogo le aspettative di coloro che arrivano alla ricerca di una vita immaginata come
migliore e, invece, devono affrontare difficoltà inattese e indecifrabili in un mondo del lavoro e
della convivenza che svalorizza i percorsi fatti, incurante delle ripercussioni che ciò “produce” sul
piano sociale di tutti.
Infine…
Come ammonisce A. Stern9: “… Ci preoccupiamo della sparizione degli orsi bianchi, rondini e
farfalle, e non della sparizione dell’infanzia e delle sue risorse. E’ in causa il futuro dell’umanità
attraverso il ruolo dell’educazione”.
Ma naturalmente tutto ciò è una metafora…
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9