Collana diretta da Orazio Cancila
Collana diretta da Rossella Cancila
1.
Antonino Marrone, Repertorio della feudalità siciliana (1282-1390), 2006,
pp. 560
21. Orazio Cancila, Nascita di una città. Castelbuono nel secolo XVI, 2013,
pp. 902
2.
Antonino Giuffrida, La Sicilia e l’Ordine di Malta (1529-1550). La centralità
della periferia mediterranea, 2006, pp. 244
22. Claudio Maddalena, I bastoni del re. I marescialli di Francia tra corte
diplomazia e guerra durante la successione spagnola, 2013, pp. 323
3.
Domenico Ligresti, Sicilia aperta. Mobilità di uomini e idee nella Sicilia
spagnola (secoli XV-XV1I), 2006, pp. 409
23. Storia e attualità della Corte dei conti. Atti del convegno di studi, Palermo 29
novembre 2012, 2013, pp. 200
4.
Rossella Cancila (a cura di), Mediterraneo in armi (secc. XV-XV1I1), 2007,
pp. 714
24. Rossella Cancila, Autorità sovrana e potere feudale nella Sicilia moderna,
2013, pp. 306
5.
Matteo Di Figlia, Alfredo Cucco. Storia di un federale, 2007, pp. 261
6.
Geltrude Macrì, I conti della città. Le carte dei razionali dell’università di
Palermo (secoli XVI-XIX), 2007, pp. 242
25. Fabio D'Angelo, La capitale di uno stato feudale. Caltanissetta nei secoli XVI
e XVII, 2013, pp. 318
7.
Salvatore Fodale, I Quaterni del Sigillo della Cancelleria del Regno di Sicilia
(1394-1396), 2008, pp. 163
8.
Fabrizio D’Avenia, Nobiltà allo specchio. Ordine di Malta e mobilità sociale
nella Sicilia moderna, 2009, pp. 406
9.
Daniele Palermo, Sicilia. 1647. Voci, esempi, modelli di rivolta, 2009, pp. 360
28. Alessandra Mastrodonato, La norma inefficace. Le corporazioni napoletane
tra teoria e prassi nei secoli dell’età moderna, 2016, pp. VII, 337
10. Valentina Favarò, La modernizzazione militare nella Sicilia di Filippo II,
2009, pp. 288
29. Patrizia Sardina, Il monastero di Santa Caterina e la città di Palermo (secoli
XIV e XV), 2016, pp. XIV, 270
11. Henri Bresc, Una stagione in Sicilia, a cura di M. Pacifico, 2010, pp. 792
30. Orazio Cancila, I Ventimiglia di Geraci (1258-1619), 2016, Tomo I-II, pp. 496
26. Jean-André Cancellieri, Vannina Marchi van Cauwelaert (éds), Villes portuaires
de Méditerranée occidentale au Moyen Âge Îles et continents, XIIe-XVe
siècles, 2015, pp. 306
27. Rossella Cancila, Aurelio Musi (a cura di), Feudalesimi nel Mediterraneo
moderno, 2015, pp. VIII, 608
12. Orazio Cancila, Castelbuono medievale e i Ventimiglia, 2010, pp. 280
13. Vita Russo, Il fenomeno confraternale a Palermo (secc. XIV-XV), 2010,
pp. 338
14. Amelia Crisantino, Introduzione agli “Studii su la storia di Sicilia dalla metà
del XVIII secolo al 1820” di Michele Amari, 2010, pp. 360
15. Michele Amari, Studii su la storia di Sicilia dalla metà del XVIII secolo al
1820, 2010, pp. 800
16. Studi storici dedicati a Orazio Cancila, a cura di A. Giuffrida, F. D’Avenia,
D. Palermo, 2011, pp. XVIII, 1620
17. Scritti per Laura Sciascia, a cura di M. Pacifico, M.A. Russo, D. Santoro,
P. Sardina, 2011, pp. 912
18. Antonino Giuffrida, Le reti del credito nella Sicilia moderna, 2011, pp. 288
19. Aurelio Musi, Maria Anna Noto (a cura di), Feudalità laica e feudalità
ecclesiastica nell’Italia meridionale, 2011, pp. 448
20. Mario Monaldi, Il tempo avaro ogni cosa fracassa, a cura di R. Staccini,
2012, pp. 209
In formato digitale i Quaderni sono reperibili sul sito
www.mediterranearicerchestoriche.it. A stampa sono disponibili
presso la NDF (www.newdigitalfrontiers.com), che ne cura la
distribuzione: selezionare la voce "Mediterranea" nella sezione
"Collaborazioni Editoriali"
n° 36
Aprile 2016
Anno XIII
Direttore: Orazio Cancila
Responsabile: Antonino Giuffrida
Comitato scientifico:
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Antonino De Francesco, Gérard Delille, Salvatore Fodale, Enrico Iachello, Olga Katsiardi-Hering,
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Garcia, Mustafa Soykut, Marcello Verga, Bartolomé Yun Casalilla
Segreteria di Redazione:
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Il presente numero è a cura di Nicola Cusumano
Mediterranea - ricerche storiche
ISSN: 1824-3010 (stampa) ISSN: 1828-230X (online)
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Nel 2015 hanno fatto da referee per "Mediterranea - ricerche storiche" Marcella Aglietti (Pisa),
Joaquim Albareda Salvado (Barcelona), Stefano Andretta (Roma), Giovanni Assereto (Genova),
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1. SAGGI E RICERCHE
Christopher Wright
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans
and the Knights of St John in the fifteenth century
9
Laure-Hélène Gouffran
Les acteurs de l’assistance: hôpitaux et élites urbaines à Marseille
à la fin du Moyen Âge (fin XIVe-déb. XVe siècle)
45
Giuseppe Mrozek Eliszezynski
From the Bible to Álvaro de Luna. Historical antecedents and
political models in the debate on the valimiento in Spain (1539-1625)
63
Francisco Precioso Izquierdo
¿La edad de la política? Balance historiográfico de los estudios sobre
comunicación e información política en la sociedad ibérica moderna
79
Paolo Militello
The historiography on early modern age Sicily
between the 20th and 21st centuries
101
2. APPUNTI E NOTE
Salvatore Bono
Mediterraneo, storie di una idea liquida
119
Giulia Delogu
Virtù, commercio e politica: circolazione delle idee nell’area adriatica
tra Settecento e primo Ottocento
133
3. TRA STORIA E MEMORIA
Francesco Benigno
Giuseppe Giarrizzo: un ricordo
153
Salvatore Fodale
Ricordo di Salvatore Tramontana
159
Paola Bianchi
Per Enrico Stumpo
n. 36
163
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Aprile 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
5
Indice
4. RECENSIONI E SCHEDE
Alessandro Tuccillo
Il commercio infame. Antischiavismo e diritti dell’uomo
nel Settecento italiano (Antonio Trampus)
173
Salvatore Bono, Schiavi
Una storia mediterranea (XVI-XIX secolo) (Fabrizio Filioli Uranio)
174
Luigi Robuschi
La croce e il leone. Le relazioni tra Venezia e Ordine di Malta
(secoli XIV-XVIII) (Francesco Mascellino)
182
Antonino Giuffrida
Stessa misura, stesso peso, stesso nome. La Sicilia e il modello metrico
decimale (secoli XIV-XIX) (Michela D’Angelo)
184
Paolo Frescura
Altri tempi: attività e mestieri svaniti (O.C.)
186
5. LIBRI RICEVUTI
189
6. GLI AUTORI
191
6
7
Christopher Wright
NON EX UNICA NATIONE SED EX PLURIMIS:
GENOA, THE CATALANS AND THE KNIGHTS OF ST JOHN
IN THE FIFTEENTH CENTURY
DOI: 10.7431/RIV12012015
ABSTRACT: In the fifteenth century, the hitherto usually close relations between the Genoese
community and the Order of the Knights of St John were threatened by an increase in tension and
incidents of violence. The difficulties between them in this period were due less to their contrasting
approaches to relations with Muslim powers than to the Order’s increasingly strong ties to Genoa’s
traditional enemies, the Catalan subjects of the Crown of Aragon. These arose from the growing
importance of Catalan and Aragonese knights in the Order, of Catalan merchants and financiers in
the Knights’ base at Rhodes, and of the Aragonese Crown to the interests of the Order. Combined
with the intensification of hostilities between Genoese and Catalans in the same period, this
development produced recurrent antagonism between Genoa and the Hospitallers, manifested
primarily in acts of piracy and the resulting reprisals. Such difficulties reflected the nature of the
Order as a political power which was also a multinational association, and the tendency for violence
between communities to impinge on other groups with whom their membership overlapped or was
closely associated. This article examines this process of contagious recrimination, but also the ways
in which it was contained by the enduring mutual connections, internal subdivisions and policies
of the Order and the Genoese community.
KEYWORDS: Genoa, Hospitallers, Catalans, Aragon, Rhodes, Chios, piracy, reprisals, mastic.
NON EX UNICA NATIONE SED EX PLURIMIS: GENOVA, I CATALANI E I CAVALIERI DI SAN
GIOVANNI NEL XV SECOLO
SOMMARIO: Nel Quattrocento, le relazioni tra il Comune di Genova e l’Ordine dei Cavalieri di San
Giovanni, finora cordiali, peggiorarono in un crescendo di tensioni che sfociarono in scontri violenti. I
contrasti tra queste due realtà ebbero origine non certo dal diverso modo di relazionarsi con le potenze
islamiche bensì, dal fatto che l’Ordine rafforzò i legami con i Catalani, nemici tradizionali di Genova e
sudditi della Corona d’Aragona. I genovesi si preoccuparono della presenza sempre maggiore dei
cavalieri catalani e aragonesi nell’Ordine e dei mercanti e banchieri catalani a Rodi, nonché delle
interferenza della Corona d’Aragona negli interessi dell’Ordine. L’intensificazione delle ostilità tra i
Genovesi e i Catalani si manifestarono in atti di pirateria e nelle conseguenti rappresaglie. Tale difficoltà
erano lo specchio della natura stessa dell’Ordine nel quale il potere politico era collegato ad una
struttura gestionale multinazionale e alla tendenza di risolvere con la violenza i conflitti tra le comunità.
Questo saggio esamina questa realtà, ma anche il modo come era gestito il conflitto per il tramite di
consolidati rapporti relazionali, delle divisioni interne e delle scelte politiche dell’Ordine e di Genova.
PAROLE CHIAVE: Genova, Ospedalieri, Gerosolimitani, Catalani, Aragona, Rodi, Chio, pirateria,
rappresaglie, mastice di Chio.
In August 1435 the government of Genoa wrote to Antoni Fluvià,
Master of the Knights of St John, lamenting that in sad contrast to the
past, Genoese citizens were now being treated with great disfavour in
Rhodes, particularly in any dispute between them and Fluvià’s Catalan
compatriots. They wished to remind him of his Order’s multinational
character, observing that «Religionem illam nobilissimam non ex unica
natione sed ex plurimis constare», and that it was not proper that the
n. 36
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Aprile 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
9
Christopher Wright
Knights should be so compliant to any one nation as to offend against
others. Where strife arose between peoples, Fluvià’s duty was to pacify,
not to inflame it1. This complaint reflects the enduring ambiguities of the
Order’s distinctive character as a territorial state which was also a
polyglot membership association and a multinational landholding
corporation. The ties and loyalties its members retained to their
communities of origin interacted in complex and varied ways with their
commitment to the brotherhood they had entered and with the policies
and interests of the polity the Order had become. More specifically, this
complaint encapsulated the particular manifestation of such
entanglements which disturbed the Hospitallers’ relations with the
Genoese in the fifteenth century. Despite occasional ructions, primarily
over their contrasting priorities in dealings with Muslim powers, they had
hitherto been habitual allies. Now, however, their relationship was
increasingly fraught by the growing influence wielded over the Order from
both within and without by Catalans and Aragonese, just as hostility
between the Genoese and these traditional rivals reached its peak.
The Hospitaller regime was distinctive among the polities of the Latin
East in that its supreme authority was based in the eastern
Mediterranean, overseeing extensive dependencies in western Europe,
rather than being either confined to the East or part of a political structure
centred in the West. It was distinctive also in the varied origins of its
members and the wide distribution of its landholdings across western
Europe, which ensured that no major society of the Latin world was
wholly foreign to the Order. These qualities promoted a high level of
interpenetration between the Knights’ own network of interests and
connections and those of other Latin powers and communities with which
they had dealings, without the Order being overwhelmingly identified with
any one of them. Its polyglot composition endowed the Order with valuable
connections in many places, but also laid it open to entanglement with
other groups and authorities in ways that could generate suspicion and
conflict. This interplay was especially conspicuous in the sphere of
maritime violence and reprisal, where across the medieval world the
difficulty of catching and punishing particular transgressors ensured that
individual actions frequently led to collective reprisals against a
community, through embargos on trade, arrests, and seizures of goods.
The interconnection of different groups could lead to a chain reaction of
conflict, as actions against one group spilled over into provocation of
another that was associated with it, leading them to retaliate in turn.
The diversity of connections implicit in the Order’s own membership
and property network was heightened by the particularly varied array of
1
Archivio di Stato di Genova (hereafter Asg), Archivio Segreto 1783 (Litterarum 7,
1434-7), ff. 177v-8 (no. 365).
10
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
outsiders who were drawn to its territories by commercial opportunities.
Rhodes enjoyed a pivotal location at the junction point of sea routes
connecting the West with the eastern Aegean and the Black Sea on one
hand, and with the south-eastern Mediterranean on the other. Its
attractiveness to foreign merchants was enhanced by the extent of the
political independence enjoyed by the state established there by the
Knights. This set it apart from most of its Latin contemporaries in the
late medieval East, which tended to be subject to the formal authority or
practical hegemony of some larger polity, typically either the communes
of Venice and Genoa or the Angevin Kingdom of Naples. As a result,
Hospitaller territory acted as a kind of neutral space, widening its
international connections by making it particularly attractive to western
merchants from outside the two leading maritime communities. Rhodes
became the principal base for the eastern activities of the Florentines,
Provençals and Catalans, Latin mercantile communities which did not
possess the chains of territorial footholds in the region enjoyed by the
Venetians and Genoese2.
Rhodes would never have the special importance for the Genoese that
it had for these other groups, but a substantial Genoese mercantile
presence had developed there, magnifying the importance of relations
with the island’s rulers to Genoese economic interests, and forging local
bonds between the community and the Order which tempered those
relations. In the fifteenth century Genoese merchants residing on Rhodes
became major financiers of the Hospitaller regime, and some leading
lenders became intimately involved in the Order’s affairs. Resident
financiers served as bridges between their community of origin and the
local regime, a counterpart to the role of individual knights as
connections to their native societies3. Certain members of the community
2
C. Carrère, Barcelona 1380-1462: un centre econòmic en epoca de crisi, 2 vols.,
Curial, Barcelona, 1978, vol. 2, pp. 125-8; M. del Treppo, I mercanti catalani e l’espansione della Corona d’Aragona nel secolo XV, L’Arte tipografica Napoli, Napoli, 1972, pp.
34-5, 59-61, 71-2; A. Luttrell, Interessi fiorentini nell’economica e nella politica dei Cavalieri Ospedalieri di Rodi nel Trecento, «Annali della Scuola Superiore di Pisa: lettere, storia
e filosofia», 2nd series, 28, 1959, pp. 317-26, reprinted in Id., The Hospitallers in Cyprus,
Rhodes, Greece and the West 1291-1440, Ashgate, London, 1970, VIII; Id., Actividades
economicas de los Hospitalarios de Rodas en el Mediterraneo occidental durante el siglo
XIV, in VI Congreso de Historia de la Corona de Aragón, Artes Gráficas Arges, Madrid,
1959, pp. 175-83, reprinted in Id., The Hospitallers in Cyprus, Rhodes, Greece and the
West 1291-1440, Ashgate, London, 1970, VII at pp. 177-80; Id. Aragoneses y Catalanes
en Rodas: 1350-1430, in VII Congreso de Historia de la Corona de Aragón, Barcelona,
1962, pp. 383-90, reprinted in Id., The Hospitallers in Cyprus, Rhodes, Greece and the
West 1291-1440, Ashgate, London, 1970, XIII; Id., The Town of Rhodes 1306-1356, City
of Rhodes Office for the Medieval Town, Rhodes, 2003, pp. 136-40.
3
The Genoese community of Rhodes and its relations with the Knights are to be the
subject of a forthcoming article by the present author.
11
Christopher Wright
also gained the distinction of being granted fiefs on Rhodes, an
exceptional phenomenon in the Order’s territories, where feudal grants
were highly unusual4. Conversely, besides its western estates in Genoa’s
Ligurian hinterland, the Hospital possessed properties on the
neighbouring island of Chios, in Genoese hands since 1346 and leased
from the commune by the corporate Mahona of Chios. The substantial
interpenetration of Genoese and Hospitaller networks of interests,
whether in the form of Genoese commercial operations in Rhodes or
Hospitaller estates in Genoese territories, gave them an incentive to avoid
conflict with one another, as this could readily lead to the obstruction of
trade and revenue collection and the temporary sequestration or
permanent seizure of assets belonging to one group in areas under the
other’s control. Individuals who straddled the divide between the two
groups, combining Genoese origins with membership of the Order,
residence in Rhodes or strong business links with its rulers, were in a
position to promote understanding and offer a mediating influence. Such
considerations would work both to prevent or shorten conflict, and to
nuance the manner in which it was conducted when it did occur.
These restraints on conflict between the Knights and the Genoese
community can be contrasted with the Order’s traditionally more
tenuous bonds with the Venetians, a community whose relations with
the Hospital had tended to be uneasy5. The Venetians had more limited
business interests in Hospitaller territory, while Venice generally barred
its citizens from joining the Order, until its fifteenth-century conquests
on the Italian mainland led to compromise on this point, so that
Venetians could be put in charge of the extensive Hospitaller properties
in the region6. This restriction was an expression of the Venetian
Republic’s exceptionally stringent efforts to control its people’s activities
and monopolise their loyalty, contrasting with the looseness of Genoese
communal authority, the corresponding importance of the initiatives of
individuals or small groups in shaping Genoese affairs, and the
promiscuity of the Genoese in attaching themselves to other authorities
4
A. Luttrell, Feudal tenure and Latin colonization at Rhodes: 1306-1415, «English Historical Review» 85, 1970, pp. 755-75, reprinted in Id., The Hospitallers in Cyprus, Rhodes,
Greece and the West 1291-1440, Ashgate, London, 1970, III, at pp. 756-7, 763-6.
5
A. Luttrell, Venice and the Knights Hospitallers of Rhodes in the fourteenth century,
«Papers of the British School at Rome», 26, 1958, pp. 195-212, reprinted in Id., The Hospitallers in Cyprus, Rhodes, Greece and the West 1291-1440, Ashgate, London, 1978, V.
6
A. Luttrell, Templari e Ospitalieri in Italia, in M. Roncetti, P. Scarpellini and F. Tommasi (eds.), Templari e Ospitalieri in Italia: la chiesa di San Bevignate Perugia, Electa,
Milano, 1987, pp. 1-11, reprinted in A. Luttrell, The Hospitallers of Rhodes and their
Mediterranean World, Ashgate, Aldershot, 1992, I, at p. 6; Id., The Hospitallers of Rhodes
at Treviso, in Mediterraneo medievale: scritti in onore di Francesco Giunta, 3 vols., Soveria
Manelli (Cz), Rubbettino, 1989, vol. 2, pp. 755-75, reprinted in A. Luttrell, The Hospitallers of Rhodes and their Mediterranean World, Ashgate, Aldershot, 1992, XIV at p. 768.
12
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
in order to advance their own interests. However, while these Genoese
qualities had their advantages in building bridges with other groups such
as the Hospitallers, and thus retarding conflict, these had to be set
against corresponding disadvantages. The same weakness of communal
power and scope for local initiative made it more difficult for Genoa to
restrain the piratical violence of its citizens, and thus to avoid retaliation7.
Before the fifteenth century, alignments in the politics of the Christian
world had generally been conducive to good relations between the
Genoese and the Hospitallers. In the thirteenth century they had been
allies in the internal conflicts of the Crusader States in the Holy Land,
counterpoising the alliance between their respective rivals the Venetians
and the Templars8. The Hospitaller conquest of Rhodes from the
Byzantine Empire in 1306-9 had been undertaken in conjunction with
the Genoese adventurer Vignolo de Vignoli, who had apparently been
granted estates there and control of the lesser islands of Kos and Leros
by imperial authority, but later turned against Byzantium. The attendant
effort to take control of the rest of the Dodecanese brought the Order into
conflict with the Venetians, who had been gaining ground there against
Byzantium and its Genoese clients9. While this contest was soon resolved
in the Knights’ favour, their relations with Venice remained prickly, and
such friction naturally encouraged sympathy between the Hospital and
Genoa. In western affairs, Genoa’s alliance with France in the Hundred
Years War chimed with the Order’s prevailing French affinities. The one
serious bone of contention between them arising from European politics
had been the Great Schism of the papacy. Genoa sided with the popes in
Rome, as did the majority of Italian Hospitallers, whereas the Order’s
leadership and the bulk of its members supported Avignon. This
divergence even encouraged an abortive scheme hatched in 1384 by
Ricardo Caracciolo, appointed Master of the Hospital by the Roman Pope
7
A. Borlandi, Potere economico e vicenda politica nella Genova del Quattrocento, in
Aspetti della vita economica medievale: Atti del Convegno di Studi nel X Anniversario della
morte di Federigo Melis Firenze-Pisa-Prato, 10-14 marzo 1984, Università degli studi di
Firenze, Firenze, 1985, pp. 602-5; R.S. Lopez, Venise et Gênes: deux styles, une réussite,
«Diogène», 71, 1970, pp. 43-51, reprinted in Id., Su e giù per la storia di Genova, Università di Genova, Genova, 1975, pp. 35-42; G. Ortalli, Venezia-Genova percorsi, paralleli,
conflitti, incontri, in G. Ortalli and D. Puncuh (eds.), Genova, Venezia, il Levante nei secoli
XII-XIV: Atti del Convegno Internazionale di Studi Genova-Venezia 10-14 marzo 2000,
Società ligure di storia patria, Genova, 2001, pp. 9-27 at pp. 21-7; G. Pistarino, Comune,
“Compagna” e “Communitas” nel medioevo genovese, «La Storia dei Genovesi» 3, 1983,
pp. 9-28, reprinted in Id., La capitale del Mediterraneo: Genova nel Medioevo, Istituto
internazionale di studi liguri, Bordighera 1993, pp. 105-26 at pp. 107-11, 124-5; Id.,
Riflessi d’oltremare nelle istituzioni medievali genovesi, in Id., I signori del mare, Civico
istituto colombiano, Genova, 1992, pp. 9-40 at pp. 22-4, 30-3.
8
S. Runciman, The Crusader States, 1243-1291, in K.M. Setton (ed.), A History of
the Crusades, 6 vols. University of Wisconsin Press, Madison, Wisconsin, 1969-90, vol.
2, pp. 556-98 at pp. 560, 568-9.
13
Christopher Wright
Urban VI, to seize control of Rhodes with Genoese help, although it is
doubtful whether such assistance would actually have been
forthcoming10.
The most enduring source of potential trouble lay in the two groups’
respective relations with Muslim societies, given the natural contrast
between the priorities of a commercial community whose fundamental
interests relied on peaceful traffic with Muslim territories, and those of
an organisation whose prime function was war against the infidel. This
had been aggravated during the half-century after 1291 by the papal
embargo on trade with the Mamluks, which the Knights sought to
enforce11. Only a short time after their collaboration in the conquest of
Rhodes the Genoese had come to blows with the Hospital over the seizure
of Genoese vessels on this account, a rupture which led them to ally with
the Turks of Menteshe against the Knights12. While this difficulty was
lessened by the relaxation of the embargo from the 1340s, the Genoese
commune was notable by its absence from most of the cooperative
Christian military efforts taken against the Anatolian Turkish emirates
and later the Ottomans, in which the Order consistently played a leading
role, as did Venice13. The comparatively good relations the Genoese
enjoyed with the Ottomans heightened the potential for tension between
them and the champions of collective Christian defence. By the midfifteenth century the community had gained a reputation for collusion
9
A. Luttrell, The Genoese at Rhodes: 1306-1312, in L. Balletto (ed.) Oriente e Occidente tra Medioevo ed Età Moderna: studi in onore di Geo Pistarino, G. Brigati, Genova,
1997, pp. 737-61, reprinted in A. Luttrell, The Hospitaller State on Rhodes and its Western Provinces, Ashgate, Aldershot, 1999, I.
10
A. Luttrell, Intrigue, schism and violence among the Hospitallers of Rhodes: 13771384, «Speculum» 41, 1966, pp. 30-48, reprinted in Id., The Hospitallers in Cyprus,
Rhodes, Greece and the West 1291-1440, Ashgate, London, 1978, XXIII.
11
E. Ashtor, Levant Trade in the Later Middle Ages, Princeton University Press,
Princeton, 1983, pp. 17-63; N. Housley, The Avignon Papacy and the Crusades, 13051378, Oxford University Press, Oxford, 1986, pp. 200-9; A. Luttrell, Genoese at Rhodes
cit., pp. 756-60.
12
A. Luttrell, Genoese at Rhodes cit., pp. 759-60; E.A. Zachariadou, Trade and Crusade: Venetian Crete and the Emirates of Menteshe and Aydin (1300-1415), Istituto
ellenico di studi bizantini e postbizantini di Venezia, Venezia, 1983, pp. 11-2.
13
N. Housley, Avignon Papacy cit., pp. 25-49; K.M. Setton, The Papacy and the Levant
(1204-1571), 4 vols., American Philosophical Society, Philadelphia, 1976-84, vol. 1, pp.
188-207, 229-31, 234-7, 291-301. Genoese territorial regimes and local administrations
in the East, whose geographical exposure to Muslim threats mirrored that of the Hospitaller territories, do however seem to have been rather more inclined to take part in such
efforts than the metropolis. This is suggested by the Christian defensive league formed
in 1388, which included the Mahona of Chios, the Genoese Gattilusio lords of Mytilene,
and the Genoese colonial administration of Pera as well as the Hospitallers and the Kingdom of Cyprus, and by later efforts to revive such an arrangement. C. Wright, The Gattilusio Lordships and the Aegean World 1355-1462, Brill, Leiden, 2014, pp. 48-51,
329-34, with source references.
14
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
with the Turks against Christian interests, although the relative cordiality
between them and the Ottomans was effectively terminated after 145314.
However, such contrasts and their propensity to estrange the
Hospitallers from the Genoese should not be overstated. If the Genoese
tended to be on unusually good terms with the Turks, in their relations
with the Mamluks of Egypt they were much more inclined to pursue a
violently assertive policy than their Venetian rivals, reflecting the relative
importance in the two communities’ commercial networks of the regions
dominated by these different Islamic powers15. On their side, the Knights’
own antagonism to Muslim regimes was also by no means unstinting. In
particular, their reliance on the Anatolian mainland for much of their
provisioning obliged them to maintain peace with at least some of their
Muslim neighbours to keep commercial channels open. Such nuances
are highlighted by events such as the Knights’ diplomatic efforts to
restrain the depredations of the fleets sent by King Alfonso V of Aragon
under the command of Bernat de Vilamarí to wage war against the
Muslims in the East in 1449-5316.
The fifteenth century did see attacks by the Order’s corsairs against
Genoese shipping which may have been related to trade with the Turks,
but they are not very frequently attested, and there is a lack of clear
evidence that the Genoese were actually being targeted on the grounds
of their dealings with the Turks, rather than simply falling victim to
indiscriminate opportunist violence. The reaction to these incidents is
also suggestive of the Hospitaller leadership’s concern to restrain such
predatory activity. In 1413 attacks on Genoese vessels and those of their
Turkish trading partners drew protests from the Genoese regimes of the
Aegean and led to the capture at Mytilene of a Hospitaller galliot operating
from the Order’s mainland castle at Bodrum, which was probably
responsible for these attacks. The authorities on Rhodes, while protesting
14
E. Basso, Genova e gli Ottomani nel XV secolo: gli “itali Teucri” e il Gran Sultano, in
L’Europa dopo la Caduta di Costantinopoli: 29 maggio 1453, Atti del Convegno Storico
Internazionale, Todi, 7-9 ottobre 2007, Fondazione centro italiano di studi sull’alto
Medioevo, Spoleto 2008, pp. 375-409; C. Caselli, Genoa, Genoese merchants and the
Ottoman Empire in the first half of the fifteenth century: rumour and reality, «Al-Masaq:
Islam and the Medieval Mediterranean» 25 (2013), pp. 252-63; J. Paviot, Gênes et les
Turcs (1444, 1453): sa défense contre les accusations d’une entente, «La Storia dei Genovesi» 9, 1989, pp. 129-37; S.F. Ratteri, Alfonso d’Aragona e Pietro Campofregoso: il confronto dialettico del 1456, in G. Petti Balbi and G. Vitolo (eds.), Linguaggi e pratiche del
potere: Genova e il regno di Napoli tra Medioevo ed Età moderna, Laveglia, Salerno, 2007,
pp. 71-90.
15
E. Ashtor, Levant Trade cit., pp. 114-26, 216-22, 227-30, 245-69, 283-93, 297301, 303-8, 311-36, 450-86.
16
P. Bonneaud, Els Hospitalers Catalans a la fi de l’Edat Mitjana: l’Orde de l’Hospital
a Catalunya i a la Mediterrània, 1396-1472, Pagès, Lleida, 2008, pp. 274-5; C. Marinescu, La Politique Orientale d’Alfonse V d’Aragon, Roi de Naples (1416-1458), Institut
d’Estudis Catalans, Barcelona, 1994, pp. 191-234.
15
Christopher Wright
to Jacopo Gattilusio, the Genoese lord of Mytilene, also sent orders to
Bodrum to desist from such attacks and make restitution for them,
instructions which notably pertained not only to Christian shipping but
to those Turkish groups with which the Order was at peace17. In April
1460 a Hospitaller embassy was sent to Chios in response to complaints
about attacks on Genoese merchants and Turks plying the channel
between Chios and the mainland, with orders to discuss restitution and
the penalties to be imposed against the commanders and crew of the
vessels from Kos or Bodrum that were held to be to blame18. This
conciliatory action is notable for being undertaken at a time when there
was, as will be seen, active strife between Chios and Rhodes for other
reasons. In September 1466 the Order’s Chapter-General debated the
problem of illicit attacks by vessels armed in Rhodes on ships sailing
between Chios and Anatolia, and approved the imposition of a secret ban
on Hospitaller craft entering this channel, or at least on attacking ships
there19. Such a sweeping prohibition is indicative of the Hospitaller
leadership’s determination to prevent the violence of their mission against
the infidel from spilling over into actions that antagonised their Genoese
neighbours, though also of the apparent difficulty of ensuring by less
drastic means that their subordinates discriminated sufficiently between
permitted and prohibited targets.
Overall, in the available evidence from this period, instances of
violence between the Hospitallers and the Genoese arising from the
Order’s vocation to wage war against the enemies of the faith are less
commonly encountered, and their repercussions less conspicuous, than
the ructions provoked by the Order’s tightening association with Genoa’s
political and commercial rivals within the Catholic world, the Crown of
Aragon and its Catalan subjects. This in many ways implicated the Order
more inextricably than their dealings with the Turks did the Genoese. If
there were difficulties in preventing maritime violence against one group
impinging on another in cases where the groups involved were as
distinguishable as the Genoese and their Muslim trading partners, such
problems were likely to be far worse with regard to groups whose
members were more similar, more closely associated, and indeed often
the same people.
The tendency for such cross-contamination to poison relations
between the Hospitallers and the Genoese grew markedly in the fifteenth
17
A. Luttrell and E. Zachariadou, Sources for Turkish History from the Hospitallers’
Rhodian Archive/Πηγές για την Τουρκική Ιστορία στα Αρχεία των Ιπποτών της Ρόδου, National
Hellenic Research Foundation, Athens, 2008, pp. 140-5 (nos. 10-1, 13-4); C. Wright,
Gattilusio cit., pp. 350-1.
18
Archivium Ordinis Maltae (hereafter Aom) 370 (Libri Bullarum 1460), ff. 232-3.
19
Aom 282 (Capitulum Generalis 1454, 1459, 1462), f. 160.
16
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
century. In this period the Catalans, already habitual foes of the Genoese
throughout the fourteenth century, replaced the Venetians as Genoa’s
most important and persistent enemies. The expanding power of the
Crown of Aragon propelled an escalating conflict over control of the
islands of the western Mediterranean and the fate of the Kingdom of
Naples, where Genoa allied with successive Angevin rulers and
claimants in opposition to the ambitions of their mutual enemy. During
the reign of Alfonso V of Aragon (1416-58) three bouts of full-scale war
(1420-6, 1435-44, 1454-8) were interspersed with persistent lowintensity conflict, as Alfonso ousted Genoa’s allies from Sardinia and
Naples, contested Genoese control of Corsica, intruded into Liguria and
menaced Genoa itself20.
During the same period, Catalan-Aragonese influence on the Hospital
was growing on multiple fronts. Catalan eastern trade had always been
overwhelmingly focused on the south-eastern Mediterranean,
connecting with Mamluk territory either directly or through Cyprus, with
Rhodes serving as the principal station along the way to these
destinations. The decline of Cypriot trade and its domination by the
Genoese after their acquisition of Famagusta in 1373-4 helped make
Rhodes the preeminent centre of Catalan commercial activity in the
East, though the Catalans did continue to do business in Cyprus. The
importance of Rhodes was further enhanced by recurrent bouts of
conflict with the Mamluks, arising from Catalan piracy and the
aggressive policies of Alfonso V, which at times prevented the community
from trading in Egypt and Syria, obliging Catalan traders to exchange
20
L. Balletto, Fra Genovesi e Catalani nel Vicino Oriente nel secolo XV, in M.T. Ferrer i
Mallol (ed.), Els Catalans a la Mediterrània Oriental a l’Edat Mitjana, Institut d’Estudis Catalans, Barcelona, 2003, pp. 167-90 at pp. 167-81, 187-9; E. Basso, Il confronto con Alfonso
d’Aragona, in Id., Genova: un impero sul mare, Consiglio Nazionale dei Ricerche, Cagliari
1994, pp. 243-61; M.T. Ferrer i Mallol, Incidència del cors en les relacions catalanes amb
l’Orient (segles XIII-XV), in Id., Els Catalans a la Mediterrània Oriental a l’Edat Mitjana, Institut d’Estudis Catalans, Barcelona, 2003, pp. 259-307; G. Pistarino, Genova e Barcellona:
incontro e scontro di due civiltà, in Atti del I Congresso Storico Liguria-Catalogna, Istituto
internazionale di studi liguri, Bordighera, 1974, pp. 81-122; A. Ryder, Alfonso the Magnanimous: King of Aragon, Naples and Sicily, 1396-1458, Clarendon, Oxford, 1990, pp. 4952, 73-120, 131-4, 175-6, 188-92, 197-251, 261-6, 400-5. The continuation of conflict
outside the periods of formal war can be seen not only in sporadic maritime violence but
also in territorial conflicts, often involving proxies, notably in Corsica (M.G. Meloni, Ufficiali
della Corona d’Aragona in Corsica (secoli XIV-XV), in M.T. Ferrer i Mallol, J. Mutgé i Vives
and M. Sánchez Martínez (eds.), La Corona catalanoaragonesa i el seu entorn mediterrani a
la Baixa Edat Mitjana, Consell Superior d’Investigacions Científiques, Barcelona, 2005, pp.
167-84). Catalan encroachment in the fifteenth century was also manifested in commercial
dealings with other societies, as seen for instance in the rise of their fortunes and the decline
of those of the hitherto preeminent Genoese in the trade of Granada (R. Salicrú i Lluch, La
Corona de Aragón y Génova en el Reino de Granada del siglo XV, in M.T. Ferrer i Mallol and
D. Coulon (eds.), L’expansió catalana a la Mediterrània a la Baixa Edat Mitjana, Consell
Superior d’Investigacions Científiques,Barcelona, 1999, pp. 121-45).
17
Christopher Wright
goods moving to or from those regions in other ports, chiefly Rhodes21.
During the fifteenth century the island’s Catalan merchants became the
principal financiers of the Hospitaller administration, a status likely to
bring with it considerable influence, the more so given that the Order
was in serious financial difficulties in this period. The Genoese were
themselves the second most important group of lenders, but some way
behind the Catalans22.
Within the Order, the number of Catalan and Aragonese knights in
the Convent of Rhodes had begun to grow in the late fourteenth
century, and increased dramatically after 1420, when many arrived for
the meeting of the Order’s Chapter-General and afterwards remained23.
This expanded contingent reinforced wider shifts underway in the
Hospital’s power-structure, beginning in the late fourteenth century
and intensifying in the mid-fifteenth. The dominant position enjoyed
since its foundation by the numerically preponderant French knights
was challenged, as the non-French langues of the Convent cooperated
to secure a greater share of perquisites and high office24. The greatest
beneficiaries of this transition were the Spanish knights, aiding the
election to the office of Master of the Hospital of the Catalans Antoni
Fluvià (1421-37) and Pere Ramon Zacosta (1461-7)25. Ironically, it was
in large part a strengthening of the Order’s multinational qualities that
21
E. Ashtor, Levant Trade cit., pp. 147-51, 222-7, 230-6, 286-9, 294-7, 301-3, 30811, 336-43, 364-5, 486-91; M. Del Treppo, Mercanti catalani cit., pp. 34-8, 59-61, 8591; D. Coulon, Un tournant dans les relations catalano-aragonaises avec la Méditerranée
orientale: la nouvel politique d’Alphonse le Magnanime (1416-1442 environ), in G. D’Agostino and G. Buffardi (eds.), La Corona d’Aragona ai tempi di Alfonso il Magnanimo: I
modelli politico-istituzionali, la circolazione degli uomini, delle idee, delle merci, gli influssi
sulla società e sul costume: XVI Congresso Internazionale di Storia della Corona d’Aragona, 2 vols., Paparo Edizioni, Napoli, 2000, vol. 2, pp. 1055-79 at pp. 1056-9, 106471; Id., El comercio de Barcelona con Oriente en la Baja Edad Media (siglos XIV y XV), in
M.T. Ferrer i Mallol (ed.), Els Catalans a la Mediterrània Oriental a l’Edat Mitjana, Institut
d’Estudis Catalans, Barcelona, 2003, pp. 243-55; C. Otten-Froux, Chypre, un des centres
du commerce catalan en Orient, in ibid, pp. 129-53 at pp. 145-53; M. Viladrich, Els catalans a la Mediterrània oriental a l’edat mitjana. Les relacions polítiques i diplomàtiques
amb el sultanat de Babilònia, in ibid, pp. 223-41 at pp. 232-7.
22
P. Bonneaud, La crise financière des Hospitaliers de Rhodes au quinzième siècle
(1426-1480), «Anuario de Estudios Medievales», 42, 2012, pp. 501-34 at pp. 515-6, 518.
23
P. Bonneaud, Le prieuré de Catalogne, le couvent de Rhodes et la couronne d’Aragon,
1415-1447, Conservatoire Larzac templier et hospitalier, Millau, 2004, pp. 122-34; Id.,
Hospitalers cit., pp. 141-8, 165-85; A. Luttrell, The island of Rhodes and the Hospitallers
of Catalunya in the fourteenth century, in M.T. Ferrer i Mallol (ed.), Els Catalans a la
Mediterrània Oriental a l’Edat Mitjana, Institut d’Estudis Catalans, Barcelona, 2003, pp.
155-65, reprinted in A. Luttrell, Studies on the Hospitallers after 1306, Ashgate, Aldershot, 2007, XVIII, at pp. 161-2.
24
A. Luttrell, Intrigue cit., pp. 34-5, 47-8; Id., The Italian Hospitallers at Rhodes, «Revue
Mabillon» 68, 1996, pp. 209-31, reprinted in Id., The Hospitaller State on Rhodes and its
Western Provinces, 1306-1462, Ashgate, Aldershot, 1999, XIX, at pp. 214, 218-9.
25
P. Bonneaud, Prieuré cit., pp. 134-8; Id., Hospitalers cit., pp. 148-53, 309-29.
18
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
led to the Genoese lament in 1435 that its impartiality was being
overwhelmed by the predominance of one nation.
In the fourteenth century the Kings of Aragon had striven to assert
control of the Order’s estates in their territories, and of the services of
knights residing there26. Alfonso V extended this effort, coupling it with
more ambitious aspirations to assume the role of the Order’s protector,
part of a wider bid to establish his credentials as a champion of
Christendom against the infidel and to promote Catalan commercial
interests in the eastern Mediterranean27. The growing power of his
subjects in Rhodes did not immediately benefit the king’s agenda much,
since the Knights resented and resisted his impositions in the West,
opposition in which the Catalan Master Fluvià played an important
part28. Alfonso was also impeded by the hostility of the papacy, matched
with papal support for his Angevin rivals. However, this obstacle was
cleared away by his conquest of Naples in 1442 and the papal
acknowledgement of his rule there the following year, a triumph which
also extended his sovereignty over the Neapolitan knights who were a
significant presence in the langue of Italy29. At the same time, the growing
Ottoman and Mamluk threat to Rhodes and the Order’s straitened
resources increased its need to cultivate the goodwill of western powers
able and willing to offer military assistance. Among the traditional Latin
sea powers of the Mediterranean, Genoa no longer had the ability, while
Venice’s willingness was doubtful, especially where the Mamluks were
concerned, given the Venetians’ determination to avoid any provocation
that might damage their vital interests in Egypt and Syria. This magnified
the importance of Alfonso’s support, though in fact little would ultimately
come of his offers to help defend Rhodes against the Mamluks30. His help
was also significant in restraining widespread Catalan piracy, a
26
M. Bonet Donato, La Orden del Hospital en la Corona de Aragón, Consejo Superior
de Investigaciones Científicas, Madrid, 1994, pp. 59-80; A. Luttrell, The Aragonese Crown
and the Knights Hospitallers of Rhodes: 1291-1350, «English Historical Review» 76, 1961,
pp. 1-19, reprinted in Id., The Hospitallers in Cyprus, Rhodes, Greece and the West 12911440, Ashgate, London, 1970, XI; Id., La corona de Aragon y las Ordenes Militares
durante el siglo XIV, in VIII Congreso de Historia de la Corona de Aragón, 3 vols., Caja de
Ahorros y Monte de Piedad de Valencia, Valencia, 1970, vol. 2/2, pp. 67-77, reprinted in
Id., The Hospitallers in Cyprus, Rhodes, Greece and the West 1291-1440, Ashgate, London, 1970, XII; Id., Island of Rhodes cit., pp. 155-65.
27
D. Abulafia, El Mediterráni en temps del Magnànim: Il Mediterraneo a l’epoca di
Alfonso il Magnanimo, in R. Bellveser (ed.), Alfons el Magnànim de València a Nàpols,
Institució Alfons il Magnànim, Valencia, 2009, pp. 97-111 at pp. 104-7; Coulon, Un tournant cit, pp. 1061-3; A. Ryder, Alfonso cit., pp. 290-305.
28
P. Bonneaud, Prieuré cit., pp. 251-95; Id., Hospitalers cit., pp. 191-213. In this
regard, Bonneaud disputes the view of Marinescu, who argued that Alfonso already exercised a strong hold on the Order even before his conquest of Naples in 1442. C. Marinescu, Politique cit., pp. 45-70.
29
P. Bonneaud, Prieuré cit., pp. 312-3.
30
Id., Hospitalers cit., pp. 241-80; C. Marinescu, Politique cit., pp. 91-5, 115-32.
19
Christopher Wright
particularly important concern in the light of its provocative effect on the
Mamluks, whose pursuit of reprisals was likely to impinge on Rhodes,
as the centre of Catalan activity in the East31. After 1443 Alfonso’s
influence increased, helped by his good relationship with the French
Master Jean de Lastic (1437-54) and the development of a clientele of
Hospitallers in the king’s service32.
These developments had baleful implications for the Order’s relations
with the Genoese. Positive evidence that the growth of Catalan influence
actually promoted policies harmful to the Genoese is hard to find. It was
Fluvià who in 1427 reportedly cancelled an agreement, made without his
knowledge, for Alfonso and the Hospital to assemble a joint fleet to defend
Rhodes against the Mamluks. He did this in response to complaints from
the Genoese, who had got wind of the scheme and feared that the fleet
would be used against them. This led Fluvià into further dispute with the
king33. However, even if it is unclear how far the power wielded by
Catalans in Rhodes actually had a detrimental effect on the Genoese, the
plausible expectation that it might do so would inevitably generate
suspicion at times of violence between the two communities, encouraging
hostile behaviour which could feed into a cycle of estrangement and
recrimination.
Given the perennial piratical violence between the two communities,
the status of Rhodes as a port much used by the Genoese, lying astride
their main trade routes, and as the Catalans’ chief base in the East,
ensured that there would be incidents in the vicinity even at times of
nominal peace. For instance, in 1432 the Genoese ship of Bartolomeo de
Marini was robbed by three Catalan ships in the harbour of Rhodes34. In
the same year, the ship of Pietro Grimaldi was captured by the Catalan
ship of Antoni ‘Rubei’, again in the harbour of Rhodes. Genoa’s
complaints to Alfonso about this incident stressed that this was a place
where the ship should have been safe, and the ability of the Catalans to
carry out such attacks under the noses of the Knights must have
deepened Genoese suspicions of Fluvià35. The outbreak of war with
Aragon in 1435 naturally brought an escalation of tensions, forming the
context for the letter to Fluvià complaining of partiality shown to Catalans
and against Genoese in Rhodes. In August 1436 a Hospitaller embassy
31
P. Bonneaud, Hospitalers cit., pp. 161-3.
Id., Prieuré cit., pp. 295-312, 318-23; Id., Hospitalers cit., pp. 213-9, 270-88.
33
G. Bosio, Dell’Istoria della sacra Religione et illustrissima Militia di San Giovanni
Gierosolimitano, 3 vols., Stamperia Apostolica Vaticana, Roma, 1594-1602, pp. 142-6;
Id., Prieuré cit., pp. 281-4; P. Bonneaud, Hospitalers cit., pp. 205-10.
34
C. Jona, Genova e Rodi agli albori de Rinascimento, «Atti della Società Ligure di
Storia Patria» 64, 1935, pp. 67-154 at pp. 95-7 (no. 6).
35
Asg, Archivio Segreto 1781 (Litterarum 5, 1431-4), ff. 228r-v, 283r-v, 322v (nos. 64950, 808-9, 912).
32
20
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
was sent to Genoa to defend the Order against complaints of collusion in
Catalan actions against the Genoese36. However, around the same time
Genoa formally declared war on the Order, accusing the Knights of
conniving at the use of Rhodes as a base for Catalan corsairs37. While
this produced a rupture in normal relations, evidence for serious clashes
between the two parties is lacking. Genoese citizens were banned by their
government from going to Rhodes to trade38. Nonetheless, it was evidently
possible for Genoese resident in Rhodes to remain there and continue to
conduct their business normally39. On occasion it seems they could also
come and go, as indicated by safe-conducts granted by the Order40. The
Knights also granted a general exemption from reprisals to the subjects
of the Mahona of Chios41.
There were persistent efforts to end the conflict through negotiation.
An order in February 1437 to give the Hospitaller Treasurer Pierre
Lamand, two other knights and their retinue safe passage through
Genoese territory may relate to such efforts42. Certainly in July that year
an embassy was sent to Genoa to pursue a settlement43. However, it was
only a fresh approach to Genoa initiated after the death of Antoni Fluvià
and the election of Jean de Lastic as his successor that achieved a
breakthrough. The reaction to this event suggests that Fluvià’s origins
had been of key importance in stoking Genoese suspicion and hostility
against the Order. In May 1438 the Doge of Genoa Tommaso
Campofregoso replied to a letter from De Lastic with congratulations to
the new Master on his election, rejoicing both in his goodwill towards
Genoa and the fact that he came from a traditionally friendly nation, an
observation obviously implying a contrast with his predecessor’s
background. The Doge announced the immediate suspension of reprisals
against the Hospital for a year, pending negotiations over damages44. A
Hospitaller representative was appointed in August, but negotiations took
some time, and in February 1439 Genoa took the precaution of extending
the suspension for a further six months45. In the event an agreement was
reached at the beginning of April. The Genoese agreed to release whatever
36
Aom 352 (Libri Bullarum 1436-7), f. 148v; G. Bosio, Dell’Istoria cit., pp. 151-2.
Aom 352 (Libri Bullarum 1436-7), f. 184v.
38
Asg, Archivio Segreto 1783 (Litterarum 7, 1434-7), f. 453 (no. 1027).
39
Aom 352 (Libri Bullarum 1436-7), f. 164; Aom 353 (Libri Bullarum 1437-8), ff. 159v,
175, 194r-v.
40
Aom 353 (Libri Bullarum 1437-8), f. 150v/151v; Aom 354 (Libri Bullarum 1439-40),
f. 255/254.
41
Aom 352 (Libri Bullarum 1436-7), f. 184v.
42
Asg, Archivio Segreto 1783 (Litterarum 7, 1434-7), f. 415v (no. 919).
43
Aom 352 (Libri Bullarum 1436-7), ff. 152v-3v; G. Bosio, Dell’Istoria cit., p. 156.
44
Asg, Archivio Segreto 1784 (Litterarum 8, 1437-9), f. 219r-v (no. 660); C. Jona,
Genova e Rodi cit., pp. 98-9, 102-3 (nos. 7-9, 15).
45
Asg, Archivio Segreto 1784 (Litterarum 8, 1437-9), f. 388 (no. 1124).
37
21
Christopher Wright
ships or goods they had seized during the hostilities or pay compensation
for them, but the main focus was on the settlement of Genoese
grievances. This included the payment of compensation for damages,
suggesting that some of the Genoese complaints were acknowledged to
be well-founded. However, this was limited to a lump sum of 2,500
Venetian ducats, which was to be considered a full and final settlement
of all claims, with the exception of any hitherto unreported complaints
presented in the next four months. This sum was divided up between the
injured parties by the Genoese authorities46. The Knights also pledged to
deal justly with the outstanding law-suits in Rhodes of a number of
Genoese, including the claim by the prominent merchant of Pera
Francesco Draperio and his associates that Fluvià or his officers had
unjustly awarded a consignment of olive oil belonging to them to a
Catalan, Esteve Torres47.
Given the friction between Fluvià and his king over the Order’s
branches in the Crown of Aragon, and the goodwill that developed
between Alfonso and De Lastic, it may well be that Genoese suspicion of
the Catalan Master and hopes in his successor were both excessive,
although poor relations with Alfonso need not have undermined Catalan
Hospitallers’ sympathies with their compatriots in conflict with their
traditional enemies. Some Catalan businessmen were themselves clearly
not satisfied with the extent of the alleged Hospitaller partiality towards
them, in 1436 registering complaints in Barcelona of unfavourable
treatment in Rhodes48. There is, however, some indication that De Lastic’s
appointment did indeed lead to a shift of policy in Genoa’s favour. Not
long after his election he introduced a decree banning the unloading and
sale in Rhodes of plunder taken from Christians, a measure which under
current circumstances was surely directed primarily against Catalans
preying on the Genoese49.
The essential source of the conflict of the 1430s seems to have been
the violent actions of Catalans outside the Order. The size and
importance of the non-Hospitaller Catalan maritime community in
46
Asg, Archivio Segreto 1784 (Litterarum 8, 1437-9), ff. 438v, 453r-v (nos. 1258, 12978); Archivio Segreto 2731 (Materie Politiche 1420-56), no. 24; Archivio Segreto 3031 (Diversorum Comunis Ianue 11, 1439), nos. 80, 113. Unsurprisingly, a number of these
individuals were evidently active in the East at the time, and arranged that the Genoese
representatives sent to receive the money from the Hospitaller authorities on Rhodes
should pay them or their agents their share there, rather than send it on to Genoa. These
sums amounted in total to about two-thirds of the total amount due. Asg, Archivio
Segreto 1784 (Litterarum 8, 1437-9), ff. 466, 472v-3, 485r-v, 490v (nos. 1329, 1342, 1360,
1379).
47
Asg, Archivio Segreto 2731 (Materie Politiche 1420-56), no. 24.
48
P. Bonneaud, Prieuré cit., p. 154.
49
Id., Hospitalers cit., p. 162.
22
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
Rhodes inevitably made it a focal point for operations against the
Genoese. Given the power the Catalans had gained within the Order, this
naturally led to perceptions of collusion, which, whether or not they were
justified, gave rise to retaliatory action. Conversely, later episodes of strife
seem to have arisen primarily from violent actions by the Genoese, whose
repercussions were transmitted through other manifestations of the
same entanglements and overlaps between communities and polities.
Ships were targeted by the Genoese because they were controlled by
Catalans, provoking the Order because the individuals in question were
also Hospitallers, or because members of the Order were travelling or
transporting cargo on these vessels; other cases ostensibly involved
mistaken identity50. The outbreak of formal war seen in the 1430s did
not recur; these incidents led to technically less extreme, but more
prolonged, processes of litigation and reprisal.
In September 1441, with Genoa’s war with Alfonso still underway, a
Genoese squadron of five ships, commanded by Simone Massa, captured
two Hospitaller warships and a smaller vessel, a balinger, which they
found unattended in the harbour of Rhodes, looting them and burning
the balinger. Informed that these craft belonged to the Order, the Genoese
returned the other two ships and their loot and withdrew. Complaining
of this attack and of the theft of some livestock from their coast, the
Knights took reprisals against Genoese property in Rhodes, including
sequestering the goods of two of the captains responsible for the attack.
These were Stefano Doria, whose possessions on the island were in the
keeping of Gerardo Lomellini, and Angelo Giovanni Lomellini, whose
goods were in the hands of the leading Genoese merchant of Rhodes
Bartolomeo Doria. In the face of demands for full compensation and
threats of reprisal from the Order, the Genoese government claimed in
mitigation that the ships targeted had displayed no insignia, and that
they were originally Genoese vessels which had previously been captured
by Catalans and were thought to be still in their possession51. Responding
to the Hospital’s complaints, the Genoese government insisted on their
dismay and determination to see justice done, while offering a defence of
their citizens’ conduct52. A less diplomatically guarded reflection of their
views on the controversy is revealed by a letter sent to the pope at the
50
The risks of such incidents led on occasion to pre-emptive provision for individuals,
such as when in 1435 the Treasurer Pierre Lamand was granted safe-conduct by the
Genoese government for his journey from Venice to Rhodes, with the explicit specification
that this should apply no matter what the nationality of the ship on which he was travelling, presumably with Catalan shipping in mind. Asg, Archivio Segreto 1783 (Litterarum
7, 1434-7), f. 202 (no. 422).
51
C. Jona, Genova e Rodi cit., pp. 105-10 (no. 18).
52
Asg, Archivio Segreto 1788 (Litterarum 12, 1441-4), ff. 31v-2 (no. 74); C. Jona,
Genova e Rodi cit., pp. 104 (no. 17).
23
Christopher Wright
same time. This sought to exculpate the Genoese captains, stressing the
misunderstanding leading to their action and the prompt restitution they
had made. However, it also protested in tones of bitter sarcasm at the
furore generated by such a trivial incident, remarking that the level of
protest was as great as if they had burned all of Rhodes rather than one
small craft, and complained that Genoese ships had been barred from
visiting the island53. This incident, apparently arising from the Knights’
purchase for their own use of prizes of war taken from the Genoese by
Catalan corsairs operating from Rhodes, is suggestive of the varied
channels by which involvement in conflict could be transmitted from one
group to another, particularly in the context of connections as close as
those between the Catalans and the Hospital. It may also be imagined
that the reputation of Rhodes as a Catalan base made the Genoese the
more ready to expect to find enemy vessels there and to attack
precipitately.
In July 1442 a Hospitaller embassy came to Genoa to seek full
compensation for this and other claims which the Order had against the
Genoese. After an initial hearing of their grievances, a commission of four
was appointed to calculate the level of damages owed. One of the two
members of this board nominated by the Knights was Battista Fieschi, a
Genoese Hospitaller and Preceptor of San Giovanni di Prè, the Order’s
establishment in Genoa54. Two months later he requested and received
permission to resign from the commission. It seems that he had found
himself in an embarrassing position, caught between his loyalties to the
Order and his compatriots55. Two days before, the ambassadors had
protested that rather than simply proceed with their task of calculating
damages, the board had continued to deliberate the question of the
Genoese captains’ culpability and to hear their arguments in their own
defence. They called for the matter to be resolved by arbitration, a
demand rejected by Genoa56. The nomination of Fieschi to represent the
Order’s interests on the Genoese commission reflects the potential
usefulness of those who were both Genoese and Hospitallers as
mediating figures between the two groups, though, as the outcome of the
process shows, such influence could not guarantee a meeting of minds.
The matter remained unresolved, and in 1447 the dispute was taken up
again by the Genoese government, complaining that the goods of Stefano
Doria and Angelo Giovanni Lomellini remained under sequestration57.
53
Asg, Archivio Segreto 1788 (Litterarum 12, 1441-4), ff. 33-4 (no. 78).
Asg, Archivio Segreto 527 (Diversorum Registri 32, 1442), ff. 44v, 49v. Fieschi had
also been a witness to the peace treaty of 1439. Asg, Archivio Segreto 2731 (Materie Politiche 1420-56), no. 24.
55
Asg, Archivio Segreto 527 (Diversorum Registri 32, 1442), ff. 72v-3.
56
C. Jona, Genova e Rodi cit., pp. 105-10 (no. 18).
57
C. Jona, Genova e Rodi cit., p. 111 (no. 19).
54
24
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
Receiving no satisfaction, in 1449 Genoa threatened to take its own
reprisals against the possessions of the Hospital and its Rhodian subjects
if restitution was not made58.
The Hospitaller embassy of 1442 also sought arbitration of other
claims of illegal seizures by the masters of Genoese ships. The ship of
Geronimo Doria was said to have seized some slaves and merchandise
belonging to the Order from a ship of the lieutenant of the Treasurer of
the Hospital at Sapienza in the Peloponnese, though he had returned
some of them. Marco de Negro had seized a griparia of Rhodes in the
channel between Chios and the mainland, along with its cargo, belonging
to the Order’s emissary to Venetian Candia. Two burghers of Rhodes,
Antonios Kalothetos and Palamede Minerbetti, had suffered the seizure
of their merchandise by the Genoese Battista ‘de Ginibertis’. When
challenged, he claimed that he had believed the goods to be Catalan
property. Although the Rhodians had secured a favourable court
judgement from the Genoese authorities in Chios, Battista had appealed
the case to Genoa, invoking the alleged failure of the Order to do justice
to another Genoese in a dispute over a debt with a Jew of Rhodes, and
calling for equivalent treatment of Rhodian litigants in Genoa59.
The lack of detail given about these seizures, and the absence of the
Genoese side of the story, leave the character of these events unclear.
Certainly the readiness of the Chian court to rule in favour of the
Rhodian litigants does not suggest entrenched antagonism to the
Hospital at this time, while Geronimo Doria’s return of some of the slaves
he had seized suggests that he may have been pursuing a debt by
muscular means, retaining only what he believed he was owed. As with
the willingness of the Genoese captains to return the ships captured in
the harbour of Rhodes and the ostensibly sympathetic attitude of the
Genoese authorities to the Order’s claims, the impression given by these
events is of the kind of private disputes and minor episodes of piratical
violence that were a normal part of Mediterranean life, even if the tension
in the atmosphere was heightened by the shadow of the GenoeseAragonese war. On this occasion the peace that had been concluded
between Genoa and the Hospital in 1439, repeatedly invoked in the
documentation, continued to hold. The Order’s interests in Chios did
come under attack in 1442, but the Genoese authorities do not appear
to have been responsible. In November of that year a mission was
dispatched from Rhodes to restore order to Hospitaller estates on Chios
whose inhabitants had rebelled. Its orders included an instruction to
seek help if necessary from the secular arm, that is, from the Genoese
58
59
C. Jona, Genova e Rodi cit., p. 112 (no. 21).
C. Jona, Genova e Rodi cit., pp. 106-9 (no. 18).
25
Christopher Wright
government of the island, implying that they were not seen as being
implicated in these events60.
The conclusion of peace between Genoa and Alfonso V in 1444 seems
to have checked the incidence of fresh clashes provoking dissension
between the Genoese and the Knights. Conversely, the resumption of
general hostilities between the two western Mediterranean powers in
1454 stoked a more serious outburst of violence and reprisal between
Genoese and Hospitallers, arising again from the blurring of lines
between the Catalan community and the Knights. In February 1455 the
Order complained to the government of Chios about their response to
previous complaints regarding harm done to the Hospitallers in Cyprus
by a Genoese ship, and the capture of a galliot belonging to a brother of
the Order, Andrea della Croce. Apparently the Chian authorities had
replied sympathetically to an initial letter of complaint and a Hospitaller
embassy had been sent to Chios to plead the Order’s case. Losing their
suit and protesting to the Chian government, they had reportedly drawn
a shockingly hostile response, leading their superiors in Rhodes to write
this letter appealing to their traditional friendship with Chios and again
requesting restitution61.
Whatever the source of the friction underlying these events, the
trouble became more serious in 1457. In February that year the Order
wrote to the authorities in Chios complaining about the seizure of goods
belonging to the Hospitaller Admiral Sergio de Seripando or his nephew
by the Genoese captain Giuliano Gattilusio, who operated from Chios62.
Giuliano was a habitual pirate who was to become notorious, and his
actions cannot with certainty be linked to wider Genoese attitudes or
policies, but in the course of his career he often showed a willingness to
tailor his behaviour to the interests of the Genoese community at large,
and he was on occasion engaged by the commune as a naval contractor63.
60
Aom 355 (Libri Bullarum 1441-2), f. 264/265.
Aom 365 (Libri Bullarum 1454-5), f. 266.
62
Aom 366 (Libri Bullarum 1456), f. 163/170; Aom 367 (Libri Bullarum 1457-8), ff.
190v-1.
63
E. Basso, Pirati e pirateria nel Mediterraneo medievale: Il caso di Giuliano Gattilusio,
in A. Mazarakis, Πρακτικά Συνεδρίου, Οι Γατελούζοι της Λέσβου 9 Σεπτεμβρίου 1994 Μυτιλήνη,
Phoinike, Athens, 1996, pp. 342-72; Id., La presenza Genovese in Inghilterra e le relazioni
commerciali anglo-genovesi nella seconda metà del XV secolo, in M. Arca Petrucci and S.
Conti (eds.), Giovanni Caboto e le vie dell’Atlantico Settentrionale: Atti del Convegno Internazionale di Studi, Roma, 29 settembre-1 ottobre 1997, Brigati, Genova, 1999, pp. 17-37
at pp. 22-34; G. Pistarino, Giuliano Gattilusio corsaro e pirata greco-genovese del secolo
XV, in M. de Bernardis (ed.), Miscellanea Storica, Biblioteca dell’Accademia Olubrense 12,
Pietrabissara, 1992, pp. 63-77; Id., I signori del potere: mercanti e diplomatici, uomini di
guerra e di ventura nel medioevo genovese, in Id., I signori del mare, Civico istituto colombiano, Genova, 1992, pp. 301-76 at pp. 333-47; S. Jenks, Robert Sturmy’s commercial
expedition to the Mediterranean (1457/8) with editions of the trial of the Genoese before
king and council, and of other sources, Bristol Record Society, Bristol 2006.
61
26
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
For him to attack such a target is suggestive of fractious relations
between Chios and Rhodes, an impression reinforced by the sequel.
Reprisals were initially taken against the property in Rhodes of Niccolò
Doria, who is known from other sources as a close associate of Giuliano’s
immediate family, and who may have been directly implicated in this
affair64. However, in May 1457 this measure was cancelled and fresh
reprisals were initiated against the possessions of the Mahona of Chios,
including their warehouses in Rhodes housing mastic, the chief export
of Chios and a monopoly of the Mahona65. Such an expedient was clearly
an escalation of hostilities, and one which suggests that the Knights held
the authorities in Chios themselves at least partly responsible for
Giuliano’s activities.
Given the apparent ascription of blame to the neighbouring Genoese
authorities for Giuliano’s attack, and the state of war existing between
Genoa and Aragon, it may well be significant that Sergio de Seripando
was a native of the Kingdom of Naples, a possession of the Crown of
Aragon since 1442. The context of other Genoese attacks harming the
Hospitallers and attracting reprisals at this time clearly reflects the
impact of hostilities against the Catalans. In 1458 a Hospitaller emissary
to Egypt, John Wikes, was robbed when the Catalan caravel on which
he was travelling was captured by the Genoese at Alexandria66. A balinger
belonging to a Catalan member of the Order, Bartomeu Rodriguez, was
seized by the Genoese Lancelotto Grillo, Lodisio ‘de Ginibertis’ and
Pelegrino Giustiniani, inflicting capture and financial loss on other
Catalan Hospitallers. These included the Prior of Catalonia, Jaume ‘de
Laialteni’, and the Preceptor of Majorca, Johan de Cardonia67. Another
balinger belonging to an Aragonese brother, Galvano Tolza, Preceptor of
‘Dananacorbe’, was also seized by Genoese vessels68. The latter attacks
led to further seizures from the mastic stores belonging to the Mahona.
The campaign of reprisals continued until May 1462, when the
government of Chios agreed to provide compensation for the losses
incurred and normal relations were restored69. Even then, the Order’s
64
Aom 367 (Libri Bullarum 1457-8), ff. 190v-1. In 1456 Niccolò had been chosen as an
arbitrator in a dispute involving Giuliano’s father Battista Gattilusio. A document of May
1457 indicates that Niccolò, then in Rhodes, had previously undertaken to make a payment in Genoa on Battista’s behalf. In the same month, Battista’s will nominated Niccolò
as one of his executors and a guardian of his children. Most significantly, around this time
Niccolò had a financial interest in the cruise of a ship outfitted by Battista, whose activities
included capturing Catalan ships, an enterprise in which Giuliano had also been involved.
Asg, Notai Antichi 848 (Tommaso de Recco 2), nos. XCVIII-XCIX, CXCV, CCV.
65
Aom 368 (Libri Bullarum 1457-8), ff. 190v-1.
66
Aom 367 (Libri Bullarum 1457-8), f. 215v.
67
Aom 372 (Libri Bullarum 1462), ff. 210v-2.
68
Aom 371 (Libri Bullarum 1461), f. 231r-v/233r-v.
69
Aom 372 (Libri Bullarum 1462), ff. 210v-2, 226v-7v, 232r-v/233r-v.
27
Christopher Wright
claims against Giuliano Gattilusio remained unsettled, and seem still to
have been outstanding as late as 146970.
The actions taken seem to have extended only to limited, targeted
reprisal procedures, not an outbreak of general hostility against the
Genoese. In the midst of the controversy the government in Genoa, under
French sovereignty from 1458 to 1461, continued routine diplomatic
communications of a sort indicating that they hoped for a sympathetic
hearing for their intercessions. In April 1459 they wrote a letter of
recommendation to the authorities on Rhodes for Tobia Lomellini, a
Genoese merchant wishing to settle on Rhodes71. Another letter in July
appealed on behalf of the Genoese Hospitaller Battista Grimaldi that he
should be excused travelling to Rhodes to attend the Order’s ChapterGeneral, and that he should be appointed to the vacant Preceptory of
Marseilles72. In April 1460 the support of the leadership on Rhodes was
sought for the Genoese government’s preferred candidate in a dispute
over possession of the Preceptory of Prè which was then underway at the
papal Curia73. For their part, in August 1460 the Order’s leaders, in
response to complaints from the captain of Famagusta and other
Genoese of acts of piracy by the Hospitaller galley of Giovanni de Buffoli,
ordered the galley’s crew to bring a halt to actions against the Genoese
and other Christians74. Nevertheless, the extent and persistence of the
violence and reprisals between the two groups in these years was
unparalleled for the period, with the possible exception of the 1430s. The
continuing delicacy of the situation, and the scope for violence involving
the Catalans to cause trouble even when they were formally at peace with
Genoa, is indicated by Genoese orders to the authorities on Chios in
November 1462. They were instructed to make restitution for cloth which
the leading English Hospitaller John Langstrother had sent to the Master,
but which been seized as part of the cargo of a Catalan ship captured by
the Genoese while on its way from England to Rhodes. The letter stressed
that they should take care to ensure that the Knights should have no
grounds for complaint, presumably anxious to avert any return to the
protracted recriminations which had recently been terminated75.
70
This is indicated by safe-conducts granted to Genoese merchants in 1466 and
1469, explicitly guaranteeing them against reprisals taken on account of Giuliano’s
actions. Aom 375 (Libri Bullarum 1465-6), ff. 147/146, 189v/188v; Aom 378 (Libri Bullarum 1469), f. 232r-v.
71
Asg, Archivio Segreto 1797 (Litterarum 21, 1455-64), f. 200 (no. 748).
72
Asg, Archivio Segreto 1797 (Litterarum 21, 1455-64), f. 215 (no. 812).
73
Unusually, however, letters were sent not only to the Master but also to the langue
of Italy, perhaps in the hope that the Italian brothers would respond more sympathetically than others at such an acrimonious time. Asg, Archivio Segreto 1797 (Litterarum
21, 1455-64), f. 254r-v (nos. 960-1).
74
Aom 370, (Libri Bullarum 1460), f. 237.
75
Asg, Archivio Segreto 1778 (Litterarum 2, 1426-1503), f. 421v (no. 1579).
28
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
These cases display in its most intractable form the Hospital’s
exposure to entanglement in conflict through its polyglot character and
connections. The same individuals could be, without contradiction, at
once members of a community at war, exposing them to attack by its
enemies, and members of an association like the Hospital, making any
such attack an act of aggression against it which demanded a response.
The scope for such contamination was heightened here not only by the
prominence of the Catalans and Aragonese in the Order and in the wider
society of Rhodes, but also by Alfonso V’s efforts to secure the services of
Hospitallers who were also his subjects for his own purposes, and to
enlist the Order as a whole as an adjunct to his policies. Such a blurring
of the lines between the kind of pan-Catholic cooperation represented by
the Hospital and the particular agenda of the Crown of Aragon in
Christendom’s internal conflicts can also be seen in the events
surrounding Pope Calixtus III’s crusade against the Ottomans, which
formed the backdrop for these clashes. The pope himself, the erstwhile
Bishop of Valencia Alfonso de Borja, was not only a subject of Alfonso V
by birth but a former servitor of the king, who also relied heavily on him
to provide ships and men for the naval effort against the Turks in the
Aegean, although the two men fell out over the deficiencies of Alfonso’s
contribution. The original commander of the papal fleet, the Archbishop
of Tarragona Pedro de Urrea, was dismissed following attacks on Genoese
and Venetian shipping, while Calixtus complained of Alfonso’s slowness
to provide the forces he had promised, due to his continuing employment
of them for his own purposes. Urrea’s replacement was the Venetian
Cardinal Lodovico Trevisan, but the papal fleet which operated in the
Aegean from summer 1456 until late 1457 was composed very
substantially of Catalans and Aragonese76. Trevisan used Rhodes as his
base of operations and cooperated closely with the Hospitallers. Their
Admiral Sergio de Seripando, whose family was around this time the
target of attack by Giuliano Gattilusio, may have acted as a senior
commander in the cardinal’s fleet77. Under the circumstances it would
have been hard to avoid conflation of Alfonso’s forces with those of the
76
M. Navarro Sorní, Alfonso de Borja, Papa Calixto III: en la perspectiva de sus relaciones con Alfonso el Magnánimo, Institució Alfons il Magnànim, Valencia, 2005, pp. 377570; K.M. Setton, Papacy cit., vol. 2, pp. 166-71, 184-9. Navarro Sorní rejects the
supposition in most earlier literature on the subject that Urrea used the papal forces to
wage war on his sovereign’s behalf against the Genoese, attributing his dismissal to attacks
on Genoese and Venetian vessels near Sicily, undertaken on his own initiative rather than
as part of the Aragonese war effort. M. Navarro Sorní, Alfonso cit., pp. 458-67.
77
Given the nature of his position, it seems reasonable to conjecture that he was the
‘Sergios’ whom Trevisan reportedly put in command of a squadron stationed at Lesbos
in summer 1457. Michael Kritovoulos, Critobuli Imbriotae Historiae, ed. D.R. Reinsch,
De Gruyter, Berlin and New York, 1983, Corpus Fontium Historiae Byzantinae 22, p. 130.
29
Christopher Wright
crusade, with which there was such an extensive overlap in personnel,
and conflation of both groups with the Hospital, with its own very
substantial Catalan and Aragonese component. There was some modest
collaboration between the crusading fleet and the Genoese regimes in
Chios and Lesbos, but in the context of the ongoing war between Alfonso
and Genoa the potential for friction arising out of this association is
evident78.
It has been suggested that Trevisan’s campaign marked a major shift
towards better relations between Genoese and Hospitallers, born of an
increased sense of shared vulnerability to the Ottomans in the wake of
the fall of Constantinople79. However, the level of strife now shown to have
erupted between them during that expedition and in the years that
followed indicates quite the opposite. This seems understandable, on the
basis of the view advanced here that relations with the Crown of Aragon
were a more serious source of estrangement between the Order and the
Genoese than relations with Muslim powers. If there was a clear shift to
more persistently amicable relations, it must be placed after the
settlement of 1462, and attributed in large part to the gradual cooling of
hostilities between Genoese and Catalans. This was initiated by the death
of the aggressive Alfonso in 1458 and the termination in 1461 of the
traditional Genoese-Angevin alliance against Aragonese power in
southern Italy, though it was a slow process marked by continuing
violence and ructions80.
This calming of Genoese-Catalan relations is perhaps reflected in the
fact that the tenure of the Order’s second Catalan Master, Pere Ramon
Zacosta (1461-7) seems to have been a period of quiet in relations
between Genoa and the Hospitallers. There was, however, a fresh cluster
of controversies in the mid-1470s. The most prominent incident, which
had unusually wide diplomatic repercussions, occurred when a ship
belonging to Raymond Ricard, the Hospitaller Prior of Saint-Gilles
(Provence), carrying cargo belonging to the Order and to some merchants
of Marseilles, was wrecked at Modon and cargo taken from it by three
Genoese ships in June 1473. According to the Genoese, they were
78
C. Wright, Gattilusio cit., pp. 336-9, 352-5.
E. Basso and P.F. Simbula, La nave di Rodi: una “cause célébre” nel Mediterraneo
del Quattrocento, in J. Costa Restagno (ed.), Cavalieri di San Giovanni in Liguria e nell’Italia
Settentrionale: Quadri regionali, uomini e documenti, Istituto internazionale di studi liguri,
Genova, 2009, pp. 541-67 at pp. 546-7. The authors of this article do not appear to have
been familiar with the Hospitaller documentation regarding the conflict of 1457-62.
80
The turmoil that followed Alfonso’s death had prompted a last bid by the Angevins
to drive their rivals from Naples, an expedition launched from Genoa in 1459 by King
René’s son Jean d’Anjou, then governor of the city for the King of France, but the French
were ousted from Genoa in 1461 and Jean d’Anjou was defeated in 1464. G. Galasso,
Storia del Regno di Napoli, 5 vols., Utet, Torino, 2006-7, vol. 1, pp. 643-63.
79
30
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
salvaging cargo that would otherwise have been lost, but the Hospitallers
accused them of piracy, saying that they had attacked the ship when it
was in difficulties and caused the shipwreck, while trying to pass
themselves off as Venetians. The Hospitallers complained to Genoa and
its overlord the Duke of Milan, and the controversy became
internationalised. The Count of Provence and erstwhile King of Naples
René of Anjou intervened on behalf of his Provençal subjects, whose
cause was then taken up by King Louis XI of France, while the Papacy,
Naples and Milan sought to contain the diplomatic repercussions. In
April 1474 a Genoese court ruled in favour of the defendants, while
arranging for the return of the goods retrieved from the ship. The Genoese
faced Provençal reprisals and threats of them from France, but for a time
the controversy died down81.
However, the claims arising from the incident were revived a few years
later. In 1476 the Order assigned the case to its Treasurer and receivergeneral in Avignon and Treasurer of Auvergne. They seem not to have
actively pursued it, but when in December 1477 they delegated their
mandate to five Hospitaller preceptors, including Raymond Ricard and
two of his relatives, the controversy reignited. Their fresh demand for
compensation was backed by a letter from Louis XI, issued in January
1478, which threatened reprisals if satisfaction was not given, and also
raised a more recent incident in which grain had apparently been seized
from a ship belonging to the Master of the Hospital by the Genoese of
Chios. Louis’s intervention displays another manifestation of the Order’s
multinational affinities and their capacity to spread disputes, as he
claimed to be motivated in part by the fact that the current Master, Pierre
d’Aubusson, was French by birth and the king’s vassal, and that his
family were important servitors of the French Crown. Genoa retorted that
the Ricard case had already been settled, while the other incident
involved a much smaller quantity of grain than claimed, belonging not to
the Master but to some of his Rhodian subjects, and had been seized in
pursuance of a private dispute; even so, if any wrong had been done it
would swiftly be corrected. The accompanying Genoese protestations
stressed the importance of solidarity between Genoa and the Knights for
the preservation of Rhodes and Chios, now the last remnant of the
Genoese empire in the East82. Louis appears not to have taken any real
action, but around the same time René of Anjou reasserted claims on
behalf of his subjects and instituted reprisals, which led Genoa to warn
81
Asg, Archivio Segreto 1665A (Maritimarum 1472-1540), nos. 1, 6, 100-2, 109, 127,
144, 151-2, 163, 169, 181, unnumbered documents dated 23 Aug, 21, 23 Oct 1473; C.
Jona, Genova e Rodi cit., pp. 127-38 (nos. 34-44); E. Basso and P.F. Simbula, Nave di
Rodi cit., pp. 553-67.
82
Asg, Archivio Segreto 2737B (Materie Politiche 1408-1577), nos. 106, 108-9.
31
Christopher Wright
of possible retaliatory action against the Provençal grain trade, but again
it seems René was ultimately willing to relent and let the affair drop83. It
has plausibly been argued that the heat of the first phase of the
controversy was stoked less by the Order itself than by other powers’
exploitation of the situation, and the same is probably true of the
second84. It certainly seems significant that during both bouts of the
dispute the attested reprisals or threats of them came from France and
Provence, not from Rhodes.
While this episode and its unusual diplomatic ramifications seem to
have arisen through opportunism, another occurring shortly afterwards
indicates that the lingering antipathy between Genoese and Catalans
retained at least some of its potential to generate trouble between
Genoese and Hospitallers. In early 1475 a balinger owned by two citizens
of Rhodes, ‘Busach Bel Fara’ and Manuele Ferandi, the latter of Rhodian
birth but claiming Genoese ancestry through his father, and commanded
by another citizen of Rhodes, Gabriel Blanco, was seized near Elba by
the Genoese ship of Aleramo Salvago. The balinger was carrying a cargo
of grain from Cotrone in Calabria to Pisa for Blanco and for some Sienese
merchants based in Naples, who had chartered the ship. Its capture
prompted protests from the injured parties and from the Hospital85.
Salvago justified his action on the grounds that the ship was enemy
property, identifying Blanco as a Catalan and denying his claim to
Rhodian nationality86. Committing the matter to trial, the authorities in
Genoa wrote to the pope to explain their position, protesting their
favourable disposition towards Rhodians and their wish to treat them as
justly as they would their own people. However, the letter observed that
the complainants had it against them that they were Catalans and that
the cargo had been loaded not in Rhodes but in Catalan territory, and
expostulated on the notorious violence and cruelty habitually shown
towards the Genoese by members of that community, before somewhat
unconvincingly insisting that such considerations would not prejudice
the case87. The Hospital remained liable to becoming implicated in
83
Asg, Archivio Segreto 1800 (Litterarum 28, 1478-9), ff. 11-2, 18-20, 27, 33r-v, 40-1,
85-6v (nos. 24-5, 41-6, 57, 69, 83, 173).
84
E. Basso and P.F. Simbula, Nave di Rodi cit., pp. 557-8.
85
C. Jona, Genova e Rodi cit., pp. 138-43 (nos. 45-8).
86
C. Jona, Genova e Rodi cit., pp. 142-3 (no. 48a).
87
Asg, Archivio Segreto 1799 (Litterarum 25, 1461-84), f. 266 (no. 759). Those referred
to as Catalans here evidently include Blanco, possibly the Rhodian owners of the
balinger, and probably some of the merchants of Naples, since one of those owning a
portion of the cargo had been ‘Franciscus Scales’, a secretary of King Ferrante I. When
the ship stopped at Elba, before the encounter with Salvago, cargo including that belonging to ‘Scales’ had been seized by the lord of Piombino. C. Jona, Genova e Rodi cit., pp.
141-2 (no. 48).
32
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
controversy with the Genoese through those who combined Catalan or
Aragonese ancestry with an association with the Order.
However, throughout this period the process by which the
repercussions of violence and reprisal reverberated from individual to
collective and back, and were transmitted from one collective to another
through linking individuals and perceived associations, was by no means
blind or automatic. Grievances could be settled by agreement, and where
this was not initially possible, formal reprisals against property offered a
legal form for financial retribution which could contain conflict, hopefully
avoiding open war or the uncontrolled escalation of unofficial retaliation.
Reprisals enabled a governing authority to target as wide or narrow a
group as it pleased, subject to specific limitations and exemptions. In
contrast to the often sweeping and indiscriminate reactions of a power
like the Mamluks, disputes between Genoese and Hospitallers were
moderated by long-standing and complex relationships and by sensitivity
to the internal variations within a community, especially one as
decentralised and diffuse as that of the Genoese.
Most of the available evidence regarding formal reprisals relates to
those taken by the Knights against the Genoese, although the Genoese
certainly did officially initiate them against the Order and its subjects on
occasion, as during the war of the 1430s. The modest volume of trade
conducted by the island’s native inhabitants diminished the potential for
securing compensation and imposing pressure by acting against those
present in Genoese territories. It may be partly for this reason that the
Order’s complaints about Genoese actions at times of strife relate largely
to attacks on Hospitaller or Rhodian ships at sea, perhaps the most
practical means of retaliation available.
The Hospital’s estates in Liguria were not directly targeted on such
occasions. Besides the delicacy of interfering with ecclesiastical property,
they were shielded by the Order’s multinational character and local roots
in each of the various Western territories where it operated. Given the
availability of native knights who were intimately tied into the local social
and political structures, and were often important figures in government
service, efforts by local rulers to take advantage of or interfere with
Hospitaller assets commonly took place through the Order’s own
members rather than by overt coercion, often leading to interference in
appointments to high office. The Crown of Aragon’s contests with the
authorities on Rhodes over the proceeds of Hospitaller estates in its
territories and the services of its subjects who were also Hospitallers
exemplifies this sort of tension, which is also widely attested elsewhere88.
88
E.g. K. Borchardt, A. Luttrell and E. Schöffler, Documents Concerning Cyprus from
the Hospital’s Rhodian Archives: 1409-1459, Cyprus Research Centre, Nicosia, 2011, pp.
xlvi-xlix; A. Luttrell, The Hospitallers in Hungary before 1418, in Z. Hunyadi and J. Las-
33
Christopher Wright
Even on this level, there is little evidence for conflicts between Genoa
and Rhodes seriously impinging on Hospitaller estates in Liguria. A
struggle over possession of the Preceptory of Prè did roughly coincide with
the strife of the late 1430s, the Genoese government of Doge Tommaso
Campofregoso backing the claims of Battista Fieschi, who spent much of
his time in the service of the Genoese commune as a military commander
and naval contractor89. However, this dispute seems to have been
essentially a product of the changing political order in Genoa itself and of
papal efforts to appropriate the right to appoint to such posts. Battista’s
rival, the Bolognese Racello de Oro, probably owed his appointment in
1425 to the influence of Filippo Maria Visconti of Milan, then ruler of
Genoa, and of the Archbishop of Genoa Pileo de Marini, whereas the
overthrow of Milanese rule in 1435 and the accession of Tommaso
Campofregoso the next year brought on the insertion of Fieschi in his
place. Both appointments were made by the pope in defiance of the
Order’s rights, an encroachment aided by the fact that the men chosen
were congenial to the preferences of successive regimes in Genoa90.
Naturally, the commune’s conflict with Rhodes was liable to impinge
on the career of a figure as closely associated with the Genoese
government as Battista Fieschi. Besides the direct benefits to the
commune of promoting an ally like Fieschi with papal help, backing such
a move perhaps offered a means of putting additional pressure on the
Hospitaller leadership in the current troubles, encouraging them to mend
relations with Genoa in the hope of depriving the pope of the commune’s
support for such aggrandisement. In 1437 Genoa successfully lobbied the
pope to appoint Fieschi to the vacant Preceptory of Albenga. This action
faced resistance from the Prior of Lombardy, whose jurisdiction included
Liguria, presumably with the backing of the authorities on Rhodes91.
zlovszky (eds.), The Crusades and the Military Orders: Expanding the frontiers of Medieval
Latin Christianity, Central European University, Budapest, 2001, pp. 269-81, reprinted
in A. Luttrell, Studies on the Hospitallers after 1306: Rhodes and the West, Ashgate,
Aldershot, 2007, XX at pp. 273-7; H. Nicholson, The Knights Hospitaller, Boydell, Woodbridge, 2001, pp. 107-15.
89
E.g. Asg, Archivio Segreto 526 (Diversorum Registri 31, 1441-2), ff. 51-2; Archivio
Segreto 1784 (Litterarum 8, 1437-9), ff. 111v, 187v (nos. 342, 567).
90
G. Petti Balbi, I Gerosolimitani in Liguria in età medievale tra tensione politiche e
compiti istituzionali, in J. Costa Restagno (ed.), Cavalieri di San Giovanni in Liguria e nell’Italia Settentrionale: Quadri regionali, uomini e documenti,, Istituto internazionale di
studi liguri, Genova, 2009, pp. 165-90 at pp. 177-82; D. Puncuh, Carteggio di Pileo de
Marini arcivescovo di Genova (1400-1423), «Atti della Società Ligure di Storia Patria» n.s.
11 (85), 1971, pp. 1-308 at pp. 190-4, 201-3, 221, 237-8, 241, 244-8 (nos. 132, 135,
145, 155-6, 158-9).
91
Asg, Archivio Segreto 1784 (Litterarum 8, 1437-9), ff. 43v, 105v, 196v (nos. 124, 319,
590). The letter congratulating Jean de Lastic on his appointment and announcing the
suspension of hostilities in April 1438 also asked him to confirm Battista Fieschi as Preceptor of Albenga. Ibid, f. 219r-v (no. 660).
34
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
Nonetheless, any connection between this dispute and the wider conflict
seems tangential, and it would continue long after that strife had been
resolved92. Another prolonged dispute over the Preceptory of Prè erupted
in 1458 and continued until the eventual triumph of the Genoese
Hospitaller Brasca Salvago in 1467. This again coincided with a major
bout of strife between Hospitallers and Genoese, but again it is not clear
that that conflict made a major contribution to the various papal,
Hospitaller and Genoese machinations regarding the appointment93.
Formal steps taken by the Hospitallers against the Genoese are better
documented than the reverse. These measures were nuanced in various
ways to reflect the differing relations that the Knights had with different
individuals and groups, and to exploit the potential of such coercion as
a means of muscular negotiation. The considerable Genoese commercial
presence in Rhodes offered a convenient target for reprisals; it also at
times helped contain their inflammatory impact, by enabling them to be
targeted specifically against perpetrators or their associates rather than
collectively against their community. This can be seen in the steps taken
against Stefano Doria and Angelo Giovanni Lomellini over the 1441
attack, or the initial moves against Giuliano Gattilusio’s associate Niccolò
Doria in 1457.
More sweeping reprisals and general hostilities could be differentiated
by the practice of granting safe-conduct to individuals, guaranteeing that
they could travel to and from Hospitaller territory to do business, exempt
from violence and seizures. Sometimes these clearly served the Order’s
own purposes: on various occasions when reprisals were in operation
against the Genoese, safe-conducts were granted to the masters of Genoese
ships to bring grain to Rhodes. In moments of scarcity, which is sometimes
explicitly cited as the reason for this, the requirements of provisioning the
island were naturally an overriding concern. Such exemptions, explicitly
92
The dispute with Racello de Oro continued long into the 1440s, by which time Battista Fieschi had other problems. Though he sent all the revenues for 1443-4 from the
estates he controlled to Rhodes to help pay for its defence against the Mamluks, his failure to obey an order for all preceptors to join the defence in person supplied grounds for
his dismissal in 1445 by Michele Ferrandi, the Prior of Lombardy who had opposed his
appointment to Albenga. He was replaced by Giovanni Scoto, Preceptor of Savona and
Gavi. In practice, however, continuing papal and communal support enabled Battista to
maintain his position, and in 1448 the Genoese government wrote to Jean de Lastic,
rejoicing that he had taken up Fieschi’s cause. Asg, Archivio Segreto 1784 (Litterarum 8,
1437-9), ff. 647v-9, 663r-v (nos. 1772-3, 1814-5); Archivio Segreto 1785 (Litterarum 9,
1438-69), f. 11v (no. 40); Archivio Segreto 1788 (Litterarum 12, 1441-2), f. 47v (no. 119);
Archivio Segreto 1789 (Litterarum 13, 1446-50), f. 307v (no. 1037); G. Petti Balbi, Gerosolimitani cit., pp. 182-6.
93
Asg, Archivio Segreto 1797 (Litterarum 21, 1455-64), f. 254r-v (nos. 960-1); Archivio
Segreto 1800 (Litterarum 26, 1467-74), f. 4 (no. 9); G. Petti Balbi, Gerosolimitani cit., pp.
186-8.
35
Christopher Wright
against reprisals targeting the Genoese, were made for Genoese merchants
including Luchino Leardo and Ambrogio de Castilliono, a resident of
Rhodes, in 1462, and for Domenico Pulcifera of Chios in 147794. Most safeconducts against reprisals did not have such particular motives stated.
Only a few granted to Genoese during the ructions of the 1430s and 1440s
appear in the record, the recipients being residents of Rhodes95. Safeconducts granted to Genoese appear much more prolifically during the
troubles of the 1450s-1460s and 1470s, applying both to residents and
others, commonly the masters of ships, some of them given explicitly with
regard to reprisals in force against Genoa or Chios96. There were also safeconducts issued at such times to guarantee the letters of exchange
purchased by Genoese in Rhodes to move money through the Order’s
financial apparatus, either for the ostensible purpose of transferring money
elsewhere or as a form of disguised loan97.
The most extensively documented nuancing of the Order’s use of
reprisals against the Genoese relates to the rulers of Chios themselves.
In part this was again a matter of personal favours for individuals. For
decades the Knights maintained a special relationship with members of
the Paterio family, one of the lineages that held shares in the Mahona of
Chios. In the early fifteenth century there is evidence of ties with
Bernardo Paterio, son of Raffaele, who had leased from the Mahona the
appalto of the mainland settlement of New Phokaia and its alum mines,
jointly with his brother Niccolò, who also served as podestà there in the
late fourteenth century98. In 1413 Bernardo provided the Order with
intelligence about Ottoman naval activity99. Both he and his other brother
Tommaso, another major alum trader, were involved in business with
the leading Hospitaller financial officer Domenico d’Alemania, while
Tommaso had a financial interest in the soap monopoly of Rhodes100. As
94
Aom 371 (Libri Bullarum 1461), ff. 233v-4; Aom 385 (Libri Bullarum 1477), ff. 225v-6.
Aom 353 (Libri Bullarum 1437-8), f. 150v/151v; Aom 354 (Libri Bullarum 1439-40),
f. 255/254.
96
E.g. Aom 367, (Libri Bullarum 1457-8), ff. 197, 201v; Aom 369, (Libri Bullarum 1459),
f. 235; Aom 371, (Libri Bullarum 1461), f. 226/228; Aom 372 (Libri Bullarum 1462), f. 231;
Aom 375, (Libri Bullarum 1465-6), ff. 177v-8, 188v; Aom 377 (Libri Bullarum 1467-8), ff.
228v/230v, 232r-v/234r-v; Aom 382 (Libri Bullarum 1467-8), ff. 223, 224r-v, 227r-v, 228v-9,
231r-v; Aom 384 (Libri Bullarum 1468-76), ff. 22, 24, 26v-7, 30r-v, 88v, 98r-v, 108; Aom 386
(Libri Bullarum 1478), ff. 220v-1v/221v-2v, 225v-6/226v-7, 228v-9/229v-30; Aom 387 (Libri
Bullarum 1480), ff. 198r-v, 200v-1, 202-3v, 206r-v, 207v-8, 210r-v, 214, 216r-v.
97
Aom 371 (Libri Bullarum 1461), ff. 190/191, 191/192, 193/194v.
98
Asg, Archivio Segreto 499 (Diversorum Registri 1399), ff. 6v-7 (no. 19); M. Balard,
Notai genovesi in Oltremare: atti rogati a Chio da Donato di Chiavari (17 febbraio-12 novembre 1394), Università di Genova, Genova, 1988, pp. 26-31 (no. 2).
99
Aom 339 (Libri Bullarum 1409-16), f. 283v.
100
Aom 339 (Libri Bullarum 1409-16), f. 288; P. Piana Toniolo, Notai genovesi in Oltremare: atti rogati a Chio da Gregorio Panissaro (1403-1405), Accademia Ligure di Scienze
e Lettere, Genova, 1995, pp. 165-6 (no. 116).
95
36
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
late as 1473, a safe-conduct granted by the Order to Bernardo’s sons
Lanfranco, Guirardo and Bernardo was explained in terms of his services
to the Hospital as well as their own101. Towards the end of the century
another member of the Paterio family of Chios, Italiano Paterio, would
himself be admitted to the Order and become Preceptor of Lodi and
Savona102.
The most prominent figure in this connection was Giovanni Paterio,
who seems to have succeeded to Bernardo’s role, and to have become
the usual representative for the Order’s affairs in Chios. It appears that
he owned houses and warehouses in Rhodes, indicating substantial
business interests there103. His son Bartolomeo was also involved in
business with the Knights, acting as procurator for John
Langstrother104. In April 1444, as the Mamluks prepared to attack
Rhodes, Giovanni Paterio was appointed, along with Giovanni Bocherio,
a Genoese citizen of Rhodes and associate of the Hospital, to procure
military aid from Chios. The Knights undertook to pay their costs, and
entrusted them with 5,000 ducats for initial expenses105. The following
year, with the Knights in acute financial difficulties, Paterio was
commissioned to raise a loan of 10,000 ducats106. In 1451 he was made
the linchpin in the organisation of the Jubilee Indulgence in territories
ruled by Genoese regimes in the region107. His close cooperation with the
Order naturally brought him influence which he could use to intercede
for others; hence, in September 1459 a Hospitaller safe-conduct for a
Genoese ship going to trade with the Mamluks was declared to have
been granted at his request108. It may be significant that Giovanni Paterio
also had notable business connections with Catalan merchants, and on
101
Aom 384 (Libri Bullarum 1468-76), f. 87.
A. Lercari, Ceto dirigente e Ordine di San Giovanni a Genova. Ruolo generale dei
Cavalieri di Malta liguri, in J. Costa Restagno (ed.), Cavalieri di San Giovanni in Liguria e
nell’Italia Settentrionale: Quadri regionali, uomini e documenti, Istituto internazionale di
studi liguri, Genova, 2009, pp. 115-273 at p. 159.
103
Aom 371 (Libri Bullarum 1461), f. 223v/222v.
104
Asg, Archivio Segreto 1778 (Litterarum 2, 1426-1503), f. 421v (no. 1579).
105
Aom 356 (Libri Bullarum 1444), f. 154r-v/153r-v. At this time Bocherio was on
Rhodes, his normal place of residence, while Paterio was elsewhere, presumably on
Chios. Bocherio was promised that if he or his companions were captured by Catalans
on their journey, the Order would pay the ransom. Aom 356 (Libri Bullarum 1444), f.
168v/167v.
106
Aom 357 (Libri Bullarum 1445), f. 161/164.
107
Paterio was to take personal charge of collection in Chios, to nominate those who
should be entrusted with the task in the Mahona’s New Phokaia and in the Gattilusio
lordships of Lesbos, Ainos and Old Phokaia, to write to the rulers of those places on the
Order’s behalf, and to hold one of the keys for the collection chests in each place. The
knights sent on to make arrangements in Constantinople, Pera and Caffa were to send
their reports through him. Aom 363 (Libri Bullarum 1451-2), ff. 273-4v.
108
Aom 369 (Libri Bullarum 1459), f. 238.
102
37
Christopher Wright
at least one occasion represented the Mahona in negotiations with
Vilamarí109.
In the light of his position it is no surprise that Giovanni Paterio was
to be accorded special treatment during the disputes of the late 1450s
and early 1460s. In February 1459 a decree was entered into the Order’s
Libri Bullarum guaranteeing him and his children the exemption of their
property from any future reprisals arising from disputes between the
Hospital and Chios, Genoa or members of the Genoese community110.
On the same day a more limited guarantee was issued regarding the
mastic stores belonging to the Mahona, but both documents were later
struck through111. The reason for this cancellation is not stated, but it
seems that they formed part of a wider process of reconciliation that
proved abortive. Presumably Giovanni Paterio, with his particularly close
relationship with the Knights, had been chosen by his partners in the
Mahona to negotiate a settlement with the Hospital, and had taken the
opportunity to secure special protection for himself as well as acting on
behalf of the corporation. In August that year, with the conflict evidently
still unresolved, the Mahona sent Giovanni, along with Bernardo
Giustiniani, to protest to the Hospital about the seizure of mastic from
the stores in Rhodes and seek redress112. In December 1459 Giovanni’s
son Bartolomeo Paterio was in Rhodes, perhaps for related reasons,
though his purposes may equally have been purely commercial113. In
April 1461, a year before the dispute was finally settled, an exemption in
favour of Giovanni Paterio and his children similar to that of 1459 was
issued, this time without cancellation, which also conferred on him a
total exemption from commercial taxation114. It may be supposed that at
this point Giovanni was once again present in Rhodes to negotiate on the
Mahona’s behalf. An individual in a powerful position in Chios who also
had close ties with the Order and commercial interests in Rhodes had
obvious value to both sides as a mediator, and favourable treatment in
times of conflict must have been calculated to preserve his goodwill and
readiness to use his influence on behalf of the Hospital.
More complex than such favours for individual Genoese friends was
the treatment of the collective interests of the Mahona of Chios. As the
closest representative of Genoese communal authority to Rhodes, the
regime in Chios was the most convenient conduit for the conduct of
109
L. Balletto, Fra Genovesi e Catalani cit., pp. 182-5, 189.
Aom 368 (Libri Bullarum 1457-8), f. 232r-v.
111
Aom 368 (Libri Bullarum 1457-8), ff. 231v-2.
112
Asg, Notai Antichi 848 (Tommaso de Recco 2), no. 131.
113
This is known through Bartolomeo Paterio’s purchase, together with Lodisio
Grimaldi, of a letter of exchange to Avignon from the Order. Asg, Notai Antichi 848 (Tommaso de Recco 2), no. 376.
114
Aom 371 (Libri Bullarum 1461), f. 223v/222v.
110
38
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
relations between the Order and the Genoese community, whether
friendly or acrimonious. However, relations with Chios were also subject
to their own dynamics, distinct from those applying to dealings with
Genoa itself. The Mahona were likely to be more directly aggravated by
attacks emanating from Rhodes, and their fortunes were more closely
implicated than those of the metropolitan authorities in the state of
affairs in the Aegean, and in the state of relations with the Turks in
particular. In so far as the limited documentation permits judgement,
when trouble arose between Genoese and Hospitallers in the context of
dealings with the Turks, the process of complaints, reprisals and
negotiations that resulted tended to take place between the Knights and
the authorities on Chios alone. Genoa itself was more inclined to become
involved in the repercussions of clashes involving the Catalans, part of a
conflict centred on the western Mediterranean that impinged on the
metropolis more directly, as seen in the disputes of the 1430s, 1440s and
1470s.
However, the greater closeness of Chios to the Muslim world could
distinguish the attitudes and interests of its rulers from those of the
commune in ways that had positive as well as negative implications for
their relations with Rhodes. Their shared exposure to Muslim attack
encouraged solidarity between the island regimes, both practically and
sentimentally, as expressed in collective defensive precautions in the late
fourteenth and early fifteenth centuries115. Such considerations
reinforced the effects of personal ties between communities entwined by
close proximity and constant traffic, exemplified by the Order’s friends
in the Paterio family. The Genoese of the Aegean were also more likely
than their compatriots in Liguria to have a direct interest in ensuring the
untroubled continuation of trade with Rhodes itself. Furthermore, Chios,
with its proximity to Rhodes and the route to the south-eastern
Mediterranean, seems to have been more involved than other Genoese
territories in the East in commerce with the Catalans116. Such
distinctions were widened further by the fact that Genoa spent much of
the fifteenth century under the rule of foreign overlords, whose priorities
differed from those of the metropolitan Genoese, let alone the community
overseas117. For the Genoese at least as much as for any community of
115
See above, n. 13.
M. Balard, Les Catalans dans l’Outre-Mer génois aux XIIIe-XIVe siècles, in M.T. Ferrer i Mallol (ed.), Els Catalans a la Mediterrània Oriental a l’Edat Mitjana, Institut d’Estudis Catalans, Barcelona, 2003, pp. 103-111 at pp. 106-11; L. Balletto, Fra Genovesi e
Catalani cit., pp. 181-90.
117
E. Basso, De Boucicault à Francesco Sforza: persistence et changements dans la
politique orientale des seigneurs étrangers de Gênes au XVe siècle, in M. Balard and A.
Ducellier (eds.), Le Partage du Monde: échanges et colonisation dans la Méditerranée
médiévale, Publications de la Sorbonne, Paris, 1998, pp. 63-77.
116
39
Christopher Wright
the time, the repercussions of conflict up the scale from individual to
collective and down again were complicated by different tiers of political
authority and group interest.
Despite their particular ties to their Chian neighbours, when the
efforts of Genoa’s French governor Marshal Boucicault to rein in the
prerogatives of the Mahona led Chios to revolt in 1408, the Hospitallers
sided with the Genoese metropolis, sequestering the Mahona’s property
on Rhodes118. Support for legitimate authority, affinity with the French
Crown, and personal ties between the Master Philibert de Naillac and
Boucicault, his old crusading comrade-in-arms, may all have played a
part in this choice119. However, in explaining their actions the Order’s
leaders asserted that they had acted at the urging of the Genoese
community of Rhodes, indicating that the island’s resident merchants
backed the commune against the Mahona. If true, in this affair the policy
of the Knights was swayed by a Genoese interest-group with whom their
relationships and shared interests were even closer than with their
neighbours in Chios. The episode thus reflects a further permutation of
the ways in which relations between the Genoese and the Hospital could
be modulated by the influence of individuals whose affiliations spanned
the divide between different communities and polities, and by the internal
distinctions within a diffuse and far-flung network such as that of the
Genoese.
Just as the operation of Rhodes on the diplomatic stage was shaped
by the Hospital’s character as an international membership association
and corporate landowner as well as a territorial state, so that of Chios
was influenced by the Mahona’s character as a commercial company as
well as a governing authority. The commercial interests of the Mahona
had an especially significant impact on relations with the Hospitallers
through the role of Rhodes as a depot for the storage and marketing of
118
Aom 339 (Libri Bullarum 1409-16), ff. 226-27/192-93; P. Argenti, The Occupation
of Chios by the Genoese and their Administration of the Island 1346-1566: described in
contemporary documents and official dispatches, 3 vols., Cambridge University Press,
Cambridge, 1958, vol. 1, pp. 155-65.
119
Both Boucicault and Naillac had participated in the Crusade of Nikopolis in 1396,
and the Hospitallers had made a major contribution to ransoming Boucicault and other
crusade leaders captured by the Ottomans. The Knights had contributed galleys to expeditions in the eastern Mediterranean led by Boucicault in 1399 and 1403. On the latter
occasion, when Boucicault’s aims had combined the defence of the Genoese position in
Cyprus with his own preoccupation of war against the Muslims, Naillac had been instrumental in securing a favourable settlement with Cyprus. J. Delaville le Roulx, Les Hospitaliers à Rhodes (1310-1421), E. Leroux, Paris, 1913, reprinted Ashgate, London, 1974,
pp. 235-7, 275-6, 293-9; J.-C. Poutiers, Les Chevaliers de Rhodes à la croisade de Nikopol
(1396), «Etudes Balkaniques» 17/1, 1981, pp. 89-123; K.M. Setton, Papacy cit., vol. 2,
pp. 370-1, 382-8; C. Wright, An investment in goodwill: financing the ransom of the leaders
of the Crusade of Nikopolis, «Viator» 45/3, 2014, pp. 261-97 at pp. 263, 265-6, 272-3.
40
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
mastic. Rhodes formed the dividing line between the eastern and western
sectors into which the export trade was organised, and served as the
distribution centre for mastic bound for all ports to its east120. This offered
the Knights a particularly easy and potent mechanism for applying
pressure directly to the neighbouring Genoese regime, but it was one
which they seem to have been inclined to use sparingly and with care.
When in 1436 the authorities on Chios sent word to Rhodes of Genoa’s
intent to wage war on the Order, they insisted that they themselves
disagreed with this action and had argued against it, and asked for the
protection of Genoese goods on Rhodes from the impact of hostilities.
Evidently the behaviour complained of by the metropolitan government
had not been so harmful as to convince the Hospitallers’ Genoese
neighbours that the costs and dangers of open conflict were justified. The
Knights, expressing their own desire for peace, agreed to guarantee the
safety of the Mahona’s mastic warehouses and of Chian subjects and
their goods in general, espousing the long-standing friendship between
Rhodes and Chios, while affirming their right to take action against other
Genoese property, and their intention of doing so121. By contrast, when
in 1457 the Order instigated reprisals for the piracy of Giuliano
Gattilusio, after the cancellation of the initial seizure from Niccolò Doria
it was the Mahona’s mastic stores which were specifically targeted,
although the safe-conducts granted to Genoese individuals in the
following years suggest that steps were also instituted against the
community more widely122.
The differentiated approach to different elements of the Genoese
network revealed in these episodes was facilitated by that network’s
loose-knit character, which enabled an autonomous colonial
administration to pursue its own external policy, at odds with that of the
metropolitan government. In a case where repercussions rippled up the
chain of authority from the actions of an individual acting locally, such
as Giuliano Gattilusio, retaliation could be targeted locally so as to put
direct pressure on the group best placed to restrain the perpetrator in
future. On the other hand, where they rippled downwards from the
policies of a higher and more distant authority, the same group could be
120
A. Rovere, Documenti della Maona di Chio (secc. XIV-XVI), Società ligure di storia
patria, Genova, 1979 («Atti della Società Ligure di Storia Patria» 93 (n.s. 19/2)), pp. 1026, 111-8, 129-33, 146, 175-6, 187-99, 255-62, 275-83, 301-12 (nos. 4, 8, 14, 18, 27,
36, 68, 81, 94); L. Balletto, Notai Genovesi in Oltremare: atti rogati a Chio nel XIV secolo
dal notaio Raffaele de Casanova, Istituto internazionale di studi liguri, Bordighera, 2015,
pp. 183-9 (no. 46); G. Pistarino, Chio dei genovesi nel tempo di Cristoforo Colombo, Istituto
poligrafico e Zecca de Stato, Roma, 1995, pp. 479-81; P. Argenti, Occupation of Chios
cit., vol. 1, pp. 124-5.
121
Aom 352 (Libri Bullarum 1436-7), f. 184v.
122
Aom 368 (Libri Bullarum 1457-8), ff. 190v-1.
41
Christopher Wright
shielded from the conflict, helping to retain the goodwill of sympathetic
neighbours, who could act as advocates for the Order within the Genoese
community in the same way as those individual associates whom the
Knights likewise exempted. In the case of the Mahona, the fact that they
were the main Genoese governmental authority in the Aegean made their
goodwill and readiness to disclaim the policy of the commune a potent
force for dampening the intensity and disruptiveness of the conflict. The
lack of evidence for violence arising from the formal state of war existing
between Genoa and the Hospital for over two and a half years in 1436-9
presumably owes much to the state of truce between the Knights and
the regime that dominated the Genoese presence in their own Aegean
neighbourhood. The ructions of later decades were driven by the actions
of Genoese who were in at least some cases based in Chios, for which
that island’s authorities were held accountable and, far from being
exempted from reprisal, were directly targeted. The troubles of the 1450s1460s in particular seem to have been regarded as a conflict between the
Order and Chios specifically, and were resolved by a diplomatic
settlement between them, rather than an agreement with the
metropolitan commune as in other disputes. Consequently, the
comparative practical impact of these different conflicts may not be quite
what one might expect from the greater formal severity of that of the
1430s. Rather than a greater readiness to make exemptions, it may be
that the much greater number of safe-conducts issued to individuals in
later episodes of strife reflects the absence of any blanket exemption such
as that given to Chians in 1436. In a locally-generated conflict,
accommodations between authorities on the spot could not give shelter
to those actually most active in the Aegean, as they could in the case of
a war dictated by policies directed from far-away Liguria.
The delicacy with which the Knights employed the mastic warehouses
to influence the Mahona is indicated by the steps taken as the
controversy of the 1450s-1460s drew towards its end. In December 1461,
with the conflict still unresolved but negotiations to end it continuing,
special provisions were made at the Mahona’s request for a quantity of
mastic which had been seized from its warehouses and auctioned off.
The Order placed an embargo on the export of this mastic from Rhodes,
effectively obliging those who had bought it to sell it back to the Mahona
once it was in a position to make such a purchase123. When the dispute
was finally settled in May 1462 the Mahona made arrangements to
recover the embargoed mastic124. Their goal in this was presumably to
prevent any infringement of their monopoly and protect prices. By
123
124
42
Aom 371 (Libri Bullarum 1461), f. 231r-v/233r-v.
Aom 372 (Libri Bullarum 1462), ff. 210v-2.
Non ex unica natione sed ex plurimis: Genoa, the Catalans and the Knights of St John
blocking export pending a settlement the Hospitallers could both win
goodwill and maintain their leverage over the Mahona. In the final
agreement the Order explicitly retained the right to make seizures from
the warehouses in the event of future conflict125.
The carefully calibrated treatment of the mastic question may reflect
an awareness both of the depot’s value as a mechanism of pressure and
of the potential for this tool to break if it was overused, a not uncommon
feature of such economic sanctions. If the possibility of seizure came to
seem too much of a liability, the Mahona might simply cease to use
Rhodes as a depot, despite the convenience of its location for shipments
to the south-eastern Mediterranean. This would deprive the Order both
of the opportunity to extract compensation and apply pressure by this
means in future, and of the fiscal and economic benefits of having this
trade pass through their port. The same applied to the maintenance of
the Genoese mercantile community and commercial activity in Rhodes
more generally, with its economic and fiscal benefits for both sides, and
its capacity to discourage damaging conflict and keep open conduits for
reconciliation and future cooperation.
This reflects wider considerations affecting the handling of mercantile
communities by a regime like that of the Order. Governments which
controlled seafarers’ access to important zones of production or
consumption, or to major land trade routes, could afford to be relatively
brusque and high-handed in disputes with commercial groups, confident
that the limitations or absence of alternative ports would ultimately force
the merchants to come to terms. In the fifteenth century the Mamluks
exemplified such a case. A port like Rhodes, whose small island
hinterland was itself of little consequence, could gain great commercial
importance because its location at a junction of sea lanes made it an
ideal point for redistribution and regional exchange, but the flexibility of
sea travel meant that such centres were always susceptible to
replacement by alternative ports if the disadvantages of using them
outweighed the benefits. In the case of Rhodes and the Genoese, the fact
that that community possessed a great commercial centre of its own as
close by as Chios made the margin of advantage offered by using Rhodes
especially narrow. The continued importance of the island in the Genoese
commercial network in spite of the frequent ructions and shifts in
political alignments of the fifteenth century must in part reflect the skill
with which the Order managed its relations with the Genoese community
and calibrated its response to outbreaks of violence.
The Hospital’s profusion of ties to other political communities, arising
from the multinational character of its own membership and estates, and
125
Aom 372 (Libri Bullarum 1462), ff. 226v, 232r-v/233r-v.
43
Christopher Wright
further ramified by the diversity of the commercial population attracted
by its territorial base at Rhodes, made it the focus of an extraordinary
confluence of the different ways in which one political community could
be involved and entwined with the affairs of another. The diversity of its
ties created wide-ranging potential for its members’ and associates’ other
identities to implicate it in conflict. However, this was moderated by that
same diversity of connections, and by the Order’s role as a representative
of a shared cause uniting the Catholic world, softening any impressions
of partiality between different Christian groups. The strengthened
association with the Catalan-Aragonese monarchy and community which
developed during the fifteenth century disrupted this balance, embroiling
the Order in recurrent strife with the Genoese in spite of their traditional
affinity with one another and enduring ties. The fact that the conflicts
that arose remained limited reflects some of the more advantageous
aspects both of the internal subdivisions of the Hospitaller and Genoese
networks and of their enduring interpenetration with one another.
Against a backdrop of traditional amity and common interests in regional
security and the continuation of commerce, the mediating influence of
those who belonged to or had strong ties with both parties offered
conduits for resolving differences. The intimacy between the two groups,
manifested in both the Aegean and western European environments,
made it easier to contain conflict and encourage compromise through the
differentiated treatment of different individuals and groups. Such
approaches were facilitated by, on the one hand, the distinction between
the Order’s central institutions and its western branches, often controlled
by local knights, and on the other, the decentralised nature of authority
within the Genoese community. The limitations of central control made
it harder to regulate the provocative actions of those within such a
network, but when the consequences of such violence were approached
flexibly by authorities wishing to contain the problem, the internal
distinctions of the networks involved and their familiarity and
entanglement with one another enabled responses to be targeted or
moderated flexibly, according to the circumstances of a particular case.
Even if exaggerated at the time, the fears expressed in the complaint of
1435 reflected a real trend with harmful consequences for the Order’s
relations with the Genoese, as indicated by the degree to which the
chronology of the ructions between the two groups echoed the rhythm of
escalation and abatement in Genoa’s conflict with the Crown of Aragon.
However, the enduring depth and variety of the multinational affiliations
of the Knights and the society of Rhodes, and the degree to which they
remained entwined with the Genoese in particular, helped enable the two
sides to avoid any more general and lasting breakdown of relations,
which would have been harmful to them both.
44
Laure-Hélène Gouffran
LES ACTEURS DE L’ASSISTANCE: HÔPITAUX ET ÉLITES
URBAINES À MARSEILLE À LA FIN DU MOYEN ÂGE
(FIN XIVE-DÉBUT XVE SIÈCLE)*
RÉSUMÉ: Cette contribution s’intéresse au rôle des hôpitaux de Marseille entre 1380 et 1430, dans
le cadre des stratégies sociales et politiques des élites de la ville. La charité, première des qualités
de la perfection évangélique à laquelle exhortent les frères mendiants, dépasse ainsi le simple
plan de l’assistance et constitue, pour les élites urbaines, une affirmation de leur identité
individuelle et collective. Dans la Marseille du début du XVe siècle, l’assistance hospitalière,
notamment au travers des hôpitaux municipaux du Saint-Esprit et de Saint-Jacques-de-Galice,
joue en effet un rôle fondamental pour des élites toujours en recherche d’une implication plus
importante au sein de la vie publique de leur ville. Car, il est clair que les institutions charitables
des villes médiévales sont totalement imbriquées dans des réseaux de voisinage, de parenté et
de métier et participent, non seulement à la poursuite du bien commun, mais aussi à
l’accomplissement des carrières individuelles.
MOTS-CLEFS: Marseille, XVe siècle, hôpitaux, élites urbaines, strategies sociales.
THE ACTORS OF ASSISTANCE: HOSPITALS AND URBAN ELITES IN MARSEILLES
AT THE END OF THE MIDDLE AGES (END OF 14th CENTURY-EARLY 15th CENTURY)
ABSTRACT: This paper focuses on the hospitals of Marseilles between 1380 and 1430 as a space
of representation for the urban elites, which allowed them to piously exercise their charitable
responsability and fufill their social and political ambitions. In this context, charity was very
important for the urban elites because it clearly showed them caring for the public good. The
religious brothers’ (particularly the Franciscans) encouragement towards charitable giving is
evident through the wills of the Marseilles population at this time. Thanks to serial studies led on
testaments from Marseilles (1350-1430), we can assert that the population was commited to
helping fund the hospitals until the 15th century, in particular to the Saint-Esprit and the SaintJacques-de-Galice. Focusing on private foundations, hospitals concrete actions and political role,
I would like to demonstrate that merchants identities were forged through their commercial
activities and their actions in public affairs, in order to clarify the role of the hospitals, which were
closely interlinked by relationships, business, politics and neighbourhood networks, in the social
strategies of urban elites of Marseilles.
KEYWORDS: Marseilles, 15 th century, hospitals, urban elites, social strategies.
À partir du XIIIe siècle en Europe occidentale, l’émergence de
nouvelles formes de piété et la mise en exergue de la charité permettent
aux laïcs de s’investir aux côtés de l’Église dans la prise en charge des
plus pauvres, selon des pratiques variées qui se distinguent de
*Abbréviations: Amm = Archives municipales de Marseille; Ad BdR = Archives
départementales des Bouches-du-Rhône; BnF = Bibliothèque nationale de France.
n. 36
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Aprile 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
45
Laure-Hélène Gouffran
l’aumône traditionnelle1. Comme dans la péninsule italienne, au sein
de la Provence angevine cette implication se manifeste dans le cadre
de programmes d’action initiés principalement par les confréries, mais
aussi par les hôpitaux. Ces derniers incarnent en effet la manifestation
la plus significative de la prise en charge de la charité par les
gouvernements urbains et constituent parallèlement un instrument
fondamental dans les stratégies d’ascension sociale des élites
urbaines2.
Au cours des derniers siècles du Moyen Âge, l’aide aux nécessiteux
devient davantage qu’un devoir chrétien, elle devient un devoir pour
les institutions qui tentent de rationaliser l’utilisation des aumônes.
Espaces de sociabilité au confluent des activités politiques et d’un
environnement mental marqué par les prédications des ordres
mendiants, les institutions charitables des villes médiévales sont
totalement imbriquées dans des réseaux de voisinage, de parenté et de
métier. De fait, les fondations hospitalières jouent un rôle fondamental
pour des élites toujours en recherche d’une implication plus
importante au sein de la vie publique de leur ville. Ainsi, les différents
niveaux de questionnement de cette thématique relèvent tout à la fois
du religieux, du politique, de l’économique et du social. En effet de la
fondation – pour les plus aisés – à l’aumône rituelle, les testateurs font
vivre ces hôpitaux, dont le fonctionnement se révèle à la frontière entre
institutions d’assistance et organes politiques.
1
La question des œuvres d’assistance et de charité a suscité de nombreuses
monographies portant notamment sur les pays du nord de la Méditerranée occidentale
depuis les années 1960. Les différentes perspectives et pistes de recherche ont été
évoquées dans: J. Dufour, H. Platelle, Fondations et œuvres charitables au Moyen Âge
Actes du 121e congrès national des sociétés historiques et scientifiques, histoire médiévale
et philologie, Nice 26-31 octobre 1996, Comité des travaux historiques et scientifiques,
Paris, 1999. Pour une perspective comparative, on pourra se référer par exemple à: M.
Riu (dir.), La pobreza y la asistencia a los pobres en la Cataluña medieval, Consejo
Superior de Investigaciones Cientificas, Barcelone, 1982 et A. J. Grieco, L. Sandri,
Ospedali e citta: l’Italia del Centro-Nord, XIII-XVI secolo, Atti del Convegno internazionale
di studio tenuto dall’Istituto degli innocenti e Villa I Tatti: the Harvard University Center
for Italian Renaissance Studies, Firenze 27-28 aprile 1995, Casa editrice le lettere,
Firenze, 1997; F. Ammannati (dir.),Assistenza e solidarietà in Europa. Secc. XIII-XVIII –
Social assistance and solidarity in Europe from the 13th to the 18th centuries, XLIV
settimana di studi, Istituto internazionale di storia economica Francesco Datini, Prato, 2326 aprile 2012, Firenze 2013. On pourra également se référer aux nombreuses études
monographiques réalisées sur les villes et régions de la péninsule italienne. Par exemple:
G. Piccinni, Documenti per la storia dell’ospedale di Santa Maria della Scala di Siena,
«Summa. Revista di cultura medievals», I, n° 2, 2013, pp. 1-29; M. Gazzini, Memoria
«religiosa» e memoria «laica»: sulle origini di ospedali di area padana (secoli XII-XIV),
«Melanges de l’École Francaise de Rome. Moyen Âge», E.F.R., Rome, 2003, pp. 361-384.
2
Sur les modalités de prise en charge par les laïcs, voir par exemple: L’uso del denaro.
Patrimoni e amministrazione nei luoghi pii e negli enti ecclesiastici in Italia (secoli XV-XVIII),
a cura di A. Pastore, M. Garbellotti, Bologna, 2001.
46
Les acteurs de l’assistance: hôpitaux et élites urbaines à Marseille à la fin du Moyen Âge
À travers l’exemple de la cité de Marseille sous la seconde maison
d’Anjou, nous tâcherons d’aborder ici le rôle de ces fondations
hospitalières dans les stratégies du patriciat urbain3. Contrairement à
l’espace italien, cette thématique n’a jamais été étudiée pour la cité
phocéenne malgré l’existence de sources abondantes. Nous pouvons ainsi
nous appuyer sur un large corpus, constitué à la fois d’actes notariés4,
de documents issus des fonds des hôpitaux de Marseille5 et des
délibérations municipales6. Ces documents permettent d’appréhender le
fonctionnement de certains de ces hôpitaux et de mieux comprendre
le pivot fondamental qu’ils constituent dans cette ville, au début du
XVe siècle, pour un patriciat urbain toujours à la recherche d’outils afin
de consolider sa domination sur la communauté.
3
Le dossier documentaire traité ici a été réuni dans le cadre d’un travail doctoral
intitulé: «La figure de Bertrand Rocaforti. Expériences, identités et stratégies d’ascension
sociale en Provence au début du XVe siècle». Il a été mené sous la direction de Mme Laure
Verdon, professeur d’Histoire médiévale à Aix-Marseille Université, au sein du laboratoire
Telemme UMR 7303 et a été soutenu le 5 décembre 2015.
4
Nous avons pu réunir une vingtaine de testaments se rapportant à des membres
de l’élite urbaine marseillaise. Ce micro corpus peut être confronté aux études sérielles
menées dans les années 1980 par Isabelle Débilly et Évelyne Destefanis : I. Débilly,
Testateurs et piété funéraire à Marseille (1352-1376), Mémoire de maîtrise, Aix-Marseille
Université, 1980; É. Destefanis, Testaments et piété funéraire à Marseille 1400-1430,
Mémoire de maîtrise, Aix-Marseille Université, 1982. L’étude menée par Isabelle Débilly
prend en compte l’ensemble des testaments marseillais, codicilles et donations pour
cause de mort entre 1352 et 1376, soit trois cent quatre-vingt-deux actes; tandis que le
travail d’Évelyne Destefanis poursuit le précédent des années 1400 à 1430, soit sur un
total de quatre cent trente-trois documents.
5
Dans l’inventaire des archives municipales de 1913, soixante-huit cartons
concernent les hôpitaux du Saint-Esprit (XIIIe-XVIIe siècles, trois cartons, quatre-vingtneuf registres), de Saint-Jacques-de-Galice (XIIIe-XVIe siècles, neuf cartons et deux
registres de reconnaissances de cens), de Saint-Lazare (XIIIe-XVe siècles trois cartons),
de Notre-Dame-de-l’Annonciade (XIVe-XVIe siècles, trois cartons) et de l’Hôtel-Dieu (XIIIe1790, cinquante cartons et cent vingt-trois registres). Cette sous-série des hôpitaux porte
la mention: « démembrement des fonds hospitaliers (5 000 art.)». R. Busquet et E. Castre,
Répertoire sommaire des documents antérieurs à 1800 conservés dans les archives
communales du département de Bouches-du-Rhône, Impr. Jean Aschero-Vial,
Marseille,1913, pp. 12-13.
6
Les registres de délibérations pour lesquels nous avons pu bénéficier de l’apport de
la récente thèse de F. Otchakovsky-Laurens afin d’éclairer l’institution à l’origine de cette
production importante. F. Otchakovsky-Laurens, S’assembler, tenir conseil, enregistrer:
la construction de l’autorité municipale à Marseille à la faveur des crises du XIV e siècle
(1348-1385), Thèse de doctorat, Aix-Marseille Université, novembre 2014. Le fonds
contient vingt-trois registres rédigés entre 1318 et 1485. On peut y ajouter dix liasses,
dont la plus ancienne date de 1255. Le registre Amm BB 32 conserve les délibérations
des années 1390, 1391, 1401, 1404, 1480, 1481.
47
Laure-Hélène Gouffran
1. Fondations privées et œuvres collectives
Entre 1380 et 1420 le nombre des hôpitaux marseillais s’élève à
sept7, soit beaucoup moins qu’à Avignon où le XIVe siècle voit jusqu’à
vingt-cinq hôpitaux fonctionner en même temps, suite à la vague de
créations remontant aux années 13408. La première institution à être
fondée à Marseille est l’hôpital du Saint-Esprit, crée par la confrérie du
même nom vers 1188, sur laquelle nous reviendrons plus loin. Parmi
les premiers hôpitaux à être aussi attestés de façon assurée: ceux de
Saint-Jacques-des-Épées9 et de Saint-Lazare accueillent respectivement
depuis le début du XIIIe siècle les pèlerins et les lépreux (Fig. 1).
À partir du milieu du XIVe siècle, les testaments marseillais font état
de plusieurs créations d’hôpitaux par des laïcs appartenant au groupe
de l’oligarchie urbaine, dont l’autorité se consolide sous le règne de la
reine Jeanne. Ces fondations charitables peuvent être comprises
comme les manifestations d’une dévotion sincère, mais aussi comme
la volonté de consacrer un statut social, à travers la création d’une
institution vers laquelle se tournent de manière privilégiée les
intentions charitables de l’ensemble des élites urbaines10.
Le 30 mars 1344, le marchand Bernard Garnier fonde l’hôpital
Saint-Jacques-de-Galice, destiné aux femmes malades et aux enfants
trouvés, auquel il accorde une rente perpétuelle de cinquante livres
par année. Cette somme s’avère généreuse si on la compare à celle
attribuée à l’hôpital le mieux doté d’Avignon qui reçoit pour sa part à
la même époque soixante et un florins de revenus annuels11. Du
fondateur, les archives de l’hôpital ne disent rien, excepté qu’il a exercé
comme épicier et qu’il a joué un rôle éminent au sein de l’autorité
municipale dans la première moitié du XIVe siècle, exerçant à plusieurs
7
Ce chiffre doit peut-être être revu à la hausse si l’on en croit le témoignage de Ruffi,
qui signale pour sa part quinze institutions marseillaises dont les plus anciennes
remonteraient au début du XIIIe siècle. A. de Ruffi, Histoire de la ville de Marseille, 2e
édition, XXe siècle, Marseille, 1642, p. 112.
8
J. Chiffoleau, La comptabilité de l’Au-delà : les hommes, la mort et la religion dans
la région d’Avignon à la fin du Moyen Âge, vers 1320-vers 1480, École Française de Rome,
Rome, 1980.
9
La constitution d’une confrérie de Saint-Jacques-des-Épées est attestée dès le XIIIe
siècle. Le recrutement de ses membres concerne davantage les milieux artisanaux que
ceux du commerce et des élites urbaines. Ainsi l’examen des listes des membres pour
les années 1349-1353 révèle une forte proportion de cordonniers, de bouchers et de
boulangers. Ad Bdr, 2 HD E 7.
10
Voir par exemple la fondation de la Scuola della Divinità par Donato Ferrario à
Milan en 1429: M. Gazzini, Dare et habere, Il mondo di un mercante milanese del
Quattrocento, Firenze, Reti Medievali, Firenze University Press, 2002, p. 109 et al.
11
Il s’agit de l’hôpital fondé par le chevalier Bernard Rascas en 1354. J. Chiffoleau,
La comptabilité de l’Au-delà cit., p. 330.
48
Les acteurs de l’assistance: hôpitaux et élites urbaines à Marseille à la fin du Moyen Âge
Fig. 1 - Situation des principaux lieux de culte marseillais (rive nord)
et des hôpitaux (déb. XVe siècle)
reprises des fonctions politiques12. Il est assez significatif que la
fondation de Bernard Garnier ne tienne pas compte des conditions du
marché immobilier marseillais ni des modalités pratiques de
construction. En effet, malgré la générosité du testateur, les débuts de
l’hôpital sont difficiles et, en 1348, les recteurs sont encore à la
recherche d’un emplacement favorable pour y édifier l’établissement13.
Celui-ci sera finalement opérationnel vers 1370, soit plus de vingt ans
après la dotation de Bernard Garnier. La lenteur de cette construction
s’explique vraisemblablement par la difficulté d’acquérir des parcelles,
dans une ville qui manque de plus en plus d’espaces constructibles et
qui accuse un parcellaire toujours plus resserré14.
12
Félix Reynaud a brossé un petit portrait de ce marchand dans: É. Baratier et F.
Reynaud, Histoire du commerce de Marseille T. 2, De 1291 à 1423, Plon, Paris, 1951, p. 64.
13
Amm, BB 20, f 60.
14
P. Bernardi, L’implantation en ville: une question de moyens ? «Mélanges de l’École
française de Rome - Moyen Âge», septembre 2012.
49
Laure-Hélène Gouffran
Toutefois les difficultés du marché immobilier ne font pas diminuer
l’enthousiasme des testateurs en matière de fondations hospitalières.
En 1372, le juriste Giraud Emeric fonde à son tour un hôpital placé
sous le vocable de Notre-Dame-de-l’Annonciade15. Cette entreprise fait
des émules parmi les milieux juridiques puisqu’une dizaine d’années
plus tard, en 1385, un autre patricien, Guillaume Lhautandi,
ordonnera la construction d’un nouvel établissement nommé NotreDame-de-l’Espérance, dans la rue de l’Annonerie Vieille16.
Au-delà de ces créations, de nombreux bienfaiteurs s’associent au
geste pieux initial et démultiplient la fondation de l’hôpital, en le
rendant viable selon un «développement gradué»17. Si les testateurs de
la fin du Moyen Âge préfèrent généralement effectuer un don direct aux
pauvres18, certains choisissent la relation longue de l’aide
institutionnalisée, encouragés en cela par les autorités ecclésiastiques.
Dans les testaments les hôpitaux obtiennent ainsi généralement la
faveur des Marseillais sans enfants. C’est le cas par exemple des riches
marchands Jacques Stornel, Jean Casse et Julien de Casaulx qui
instituent, respectivement, en 1395 et 1398, les hôpitaux Saint-Esprit
et Saint-Jacques comme héritiers universels de leurs importantes
fortunes19. D’autres testateurs décident parfois d’une division de leur
héritage entre un hôpital et des membres plus lointains de leur famille;
la catastrophe sanitaire de 1348 ayant sans doute largement contribué
à leur faire comprendre qu’il valait mieux attacher son patrimoine et
son souvenir à une institution stable plutôt qu’à une trop fragile
humanité20.
15
Le vocable de cet hôpital est peut-être inspiré de la diffusion des hôpitaux de
l’Annonciation dans le royaume de Naples. Voir sur ce point: S. Marino, Ospedali e città
nel Regno di Napoli: le Annunziate. Istituzioni, archivi e fonti (sec. XIV-XIX), Leo S. Olschki,
Florence, 2014.
16
Les hôpitaux Notre-Dame-de-l’Annonciade et Notre-Dame-de-l’Espérance eurent
une vie brève. Ils furent tous les deux ruinés par le pillage catalan de 1423 et leurs biens
furent divisés entre l’hôpital du Saint-Esprit et celui de Saint-Jacques-de-Galice, Ad Bdr,
1 HD B 14.
17
Nous reprenons ici l’expression de Michael Connally qui a étudié ce phénomène à
l’hôpital des Haudry de Paris: M. Connally, Les «bonnes femmes» de Paris: des
communautés religieuses dans une société urbaine du bas Moyen Âge, Thèse de doctorat,
Université Lyon Lumière, 2003, p. 187. Parallèlement aux fondations privées à
proprement parler, à Venise, certaines familles prennent la tutelle des institutions
charitables par exemple les Badoer sur l’hôpital San Giovanni ou les Querini sur San
Bartolomeo di Castello. E. Crouzet-Pavan, «Sopra le acque salse»: espaces, pouvoirs et
société à Venise à la fin du Moyen Âge, E.F.R, Rome, 1992, p. 399.
18
É. Destefanis, Testaments et piété funéraire à Marseille 1400-1430 cit.
19
Ad Bdr, 4 HD B 80; 351 E 67, f 120.
20
C’est le cas par exemple de Jacques Francie qui, en 1398, teste en nommant
comme héritiers universels ses trois fils, mais substitue comme héritiers, si ces derniers
50
Les acteurs de l’assistance: hôpitaux et élites urbaines à Marseille à la fin du Moyen Âge
Pour le reste, dans la première moitié du XIVe siècle, la majorité
des legs est effectuée sous forme de rentes censuelles, portant la
plupart sur des biens ruraux – en particulier sur des vignes –, ce qui
constitue la majeure part du patrimoine de ces institutions. Les legs
en biens mobiliers, ou sous la forme de distributions, augmentent,
quant à eux, au début du XVe siècle. Entre 1400 et 1430 la moitié des
dons relevés chez les Marseillais est ainsi constituée d’un lit ou d’une
literie21. Lorsque c’est possible, on remarque que les testateurs
préfèrent donner en main propre aux pauvres – chacun d’entre eux
étant considéré comme un intercesseur symbolique privilégié et
unique – plutôt qu’au travers de l’institution. C’est ainsi qu’en 1398,
Julien de Casaulx lègue à Saint-Lazare un don ponctuel constitué
d’un quarteron de viande, de vin et de pain à remettre à chaque
malade de l’institution22. Quelques testateurs indiquent en outre la
destination de leurs dons et l’on croit quelquefois percevoir une
certaine méfiance sur l’usage que l’on pourrait faire de leurs legs. En
1407 par exemple, une certaine Jeannette Aymara insiste dans son
testament pour que le lit par elle légué soit exclusivement réservé aux
pauvres de l’hôpital23.
Par ailleurs, la répartition des legs entre les hôpitaux ne s’avère pas
homogène. Les Marseillais font preuve d’une faveur grandissante
envers l’hôpital Saint-Jacques-de-Galice à partir d’avril 1371, date à
laquelle l’institution est enfin fonctionnelle24. À la fin du XIVe siècle, cet
établissement l’emporte donc dans les suffrages, suivi de près par le
Saint-Esprit qui reçoit pour sa part une forte proportion de legs en
argent25. La préférence est clairement accordée aux hôpitaux placés
directement sous le contrôle de l’autorité municipale et administrés
par les membres de l’élite urbaine. Le peu d’intérêt suscité par exemple
par Saint-Jacques-des-Épées auprès des membres de ce groupe
patricien s’explique sans doute par la moins forte emprise du Conseil
de Ville sur l’établissement. En effet, les ressources de Saint-Jacquesdes-Épées étaient principalement constituées par les cotisations des
membres de la confrérie du même nom, laquelle recrutait
venaient à mourir sans enfant, l’hôpital du Saint-Esprit ainsi que trois membres plus
éloignés de sa famille. Ad Bdr, 1 HD B 63. La pratique de la substitution à la mort de
l’héritier est aussi largement attestée dans Lo Libre del Tresaur (Ad Bdr,1 HD D1)
qui constitue un inventaire de tous les biens et droits de l’hôpital du Saint-Esprit
de Marseille.
21
Évelyne Destefanis, Testaments et piété funéraire à Marseille 1400-1430 cit., p.
127.
22
Ad Bdr, 351 E 67; f 120.
23
Ad Bdr, 351 E 208 [non folioté].
24
Isabelle Débilly a relevé seulement quatre legs avant cette date et vingt autres après
1371. I. Débilly, Testateurs et piété funéraire à Marseille (1352-1376) cit., p. 141.
25
Tableau n. 32, Ibidem, p. 140.
51
Laure-Hélène Gouffran
principalement dans les milieux artisanaux et était gérée par quatre
prieurs.
L’idée que les Marseillais font montre d’un attachement plus fort au
Saint-Esprit et à Saint-Jacques-de-Galice, en raison de l’appartenance
de ces hôpitaux aux réseaux de solidarités consulaires, trouve des
échos dans l’implication politique de ces établissements, sur laquelle
nous allons revenir26. En effet, même si les établissements se
revendiquent d’un fondateur particulier, dont on rappelle l’action
comme une parole rituelle, à chaque mention de l’hôpital, ces
institutions sont l’œuvre de l’ensemble d’un groupe dont chaque
membre pose sa pierre à l’édifice. Ainsi, comme dans les structures
corporatives ou confraternelles, cet « esprit de groupe » est également
perceptible dans les fondations hospitalières.
2. Fonctionnement et actions des hôpitaux en matière d’assistance
En ce qui concerne l’aspect et le fonctionnement de ces hôpitaux,
la situation marseillaise semble faire écho à celle du reste de la
Provence et du Comtat Venaissin. Le statut d’établissement conséquent
doit être attribué à un hôpital possédant environ une douzaine de lits27.
C’est donc ainsi qu’il faut considérer l’hôpital de Notre-Dame-del’Annonciade qui en 1375, trois ans seulement après sa création,
dispose déjà de douze lits pour les hommes et de onze pour les
femmes28. En 1384, les habitations des hommes et des femmes
contiennent au total vingt-six lits garnis de matelas, de draps, de
couvertures, d’oreillers et de linges29. Pour sa part, Saint-Jacques-deGalice possède, en 1372, quarante-trois lits30. Encore plus significatif:
en 1363, on compte au Saint-Esprit soixante et un lits dans
l’habitation des hommes et dix-huit dans celle des femmes31. Cette
On peut également souligner la relation forte entre ce type d’institution et
l’espace urbain. En effet c’est dans la zone orientale de la ville, où sont concentrés
les hôpitaux marseillais, que nous avons localisé la majorité des possessions
immobilières des élites urbaines du début du XVe siècle.
27
D. Le Blévec, La part du pauvre : l’assistance dans les pays du Bas-Rhône du XIIe
siècle au milieu du XVe siècle, École française de Rome, Rome, 2000, p. 618. Les hôpitaux
étudiés par Marie-Claude Marandet dans la région toulousaine possèdent en moyenne
six à sept lits et jusqu’à cinquante-six lits pour l’hôpital Saint-Raymond de Toulouse au
milieu du XIIIe siècle. M.-C. Marandet, Le souci de l’Au-delà : la pratique testamentaire
dans la région toulousaine (1300-1450), Presses universitaires de Perpignan, Perpignan,
1998, p. 484.
28
Ad Bdr, 5 HD E 4.
29
Ad Bdr, 5 HD E 5.
30
Ad Bdr, 4 HD B 2.
31
Ad Bdr, 1 HD E 13.
26
52
Les acteurs de l’assistance: hôpitaux et élites urbaines à Marseille à la fin du Moyen Âge
dernière institution possède alors une chambre de la trésorerie – sans
doute la salle des comptes mentionnée en 1349, où se trouvent une
table, des couvertures et des oreillers de soie, ainsi qu’un oratoire à
Notre-Dame32 –, une salle à manger, une salle où peuvent jouer les
enfants et un porche sous lequel le nouveau viguier Astorge de Peyre
s’installe en 1424 pour tenir ses audiences33.
Si l’on ne connait que très peu de choses sur la disposition et sur
l’organisation de l’espace de ces hôpitaux urbains, le nombre de lits
présents dans les inventaires suggère l’importance de ces
établissements à l’échelle du Midi de la France.
Quant au fonctionnement de ces hôpitaux marseillais, il varie d’un
établissement à un autre, en fonction de l’importance de son temporel
mesurable en général à l’aune de ses comptabilités34. Si le SaintEsprit paraît avoir bénéficié de ressources importantes, quoique
difficilement exploitables35, la situation économique de tous les
hôpitaux marseillais reste assez fragile et accuse une précarisation
des établissements entre la fin du XIVe et le début du XVe siècle.
L’exemple de Notre-Dame-de-l’Annonciade est significatif de ce
phénomène. Un document rassemblant les cens et directes servis à
l’hôpital en 1378, montre une somme totale d’un peu plus de deux
cent quatre-vingt-une livres provenant en grande partie de biens
ruraux36. En 1384, les recteurs Hugues de Rocaforti et Charles de
Montolieu ne reçoivent pour toute l’année qu’un peu plus de deux
cent quatre-vingt-dix livres37. En 1409 enfin, les sommes récoltées
auprès des censitaires par le procureur de l’hôpital n’atteignent que
difficilement cent quatre-vingt-dix livres38. Les difficultés
économiques de la ville, alors fragilisée par les guerres de reconquête
Ad Bdr, 1 HD E 15.
C. Maurel, Fractures et renouveau d’un organisme urbain médiéval : la société
marseillaise à l’épreuve du sac des Aragonais (1423), in C. Dolan, Événement, identité et
histoire, Septentrion, Québec,1991, pp. 39-63, p. 44.
34
Pour une comparaison, voir par exemple: C. Jéhanno, La série des comptes de
l’Hôtel-Dieu de Paris à la fin du Moyen Âge: aspects codicologiques, «Comptabilité(s),
Revue d’histoire des comptabilités», n. 2, Approche codicologique des documents
comptables du Moyen Âge, 2011; ou pour l’époque moderne:R. Rossi, Organizzazione,
amministrazione e gestione delle strutture sanitarie nella Sicilia di età moderna:
L’Ospedale di Santa Caterina pro infirmis di Monreale tra XVI e XVII secolo, «Mediterranearicerche storiche», Anno XI, agosto 2014.
35
Voir à ce sujet l’analyse proposée, à partir des comptabilités du Saint-Esprit, par
A. Fabre, Histoire des hôpitaux et des institutions de bienfaisance de Marseille, imprimerie
Jules Barile, Marseille, 1854.
36
Ad Bdr, 5 HD B 4.
37
Amm, BB 30, f 44.
38
Il faut généralement attendre le début de l’époque moderne pour voir la mise en
place de transformations concernant l’organisation et l’administration des hôpitaux
32
33
53
Laure-Hélène Gouffran
du royaume de Naples menées par les souverains angevins,
expliquent sans doute en partie cette situation.
Toutefois, les hôpitaux plus importants bénéficient toujours d’une
plus grande aisance financière, en raison d’un patrimoine acquis en
grande partie au cours du siècle précédent. Au début du XVe siècle
les recettes de l’hôpital Saint-Jacques-de-Galice font ainsi état de
sommes provenant à la fois d’arrérages de cens, du produit des vignes
et de la rente d’un moulin, mais également de l’argent trouvé sur les
malades morts à l’hôpital et de celui procuré par la vente des vieux
vêtements39. Les cens pouvaient être issus de legs, mais peuvent
également avoir été acquis directement par l’établissement avec
l’argent des testateurs. Les biens ruraux constituent ainsi sans doute
une grande part du temporel de ces hôpitaux qui n’hésitent pas à
réaliser des achats afin d’agrandir leurs domaines40. Entre 1377 et
1411 une forte concurrence est d’ailleurs perceptible entre les
hôpitaux Saint-Esprit et Saint-Jacques-de-Galice, en matière de
domination immobilière dans le quartier situé entre le marché des
Accoules et le Palais Communal41. L’importance des biens alors
détenus par ces établissements dans cette zone de la ville basse
suggère l’existence d’une politique initiée par ces derniers afin de
contrôler certains quartiers et pose ainsi la question de l’action
économique, immobilière et parfois financière des hôpitaux urbains
qui a pu être mis en lumière dans d’autres villes42.
Afin de préciser ce point, il serait intéressant de pouvoir vérifier si
les biens tenus en propriété complète par ces hôpitaux étaient ensuite
loués ou cédés à des proches des établissements. C’est en tout cas ce
que suggère par exemple la vente en emphytéose à son beau-frère
Jacques Bayssani, le 10 août 1425, par Rabastens de Rocaforti alors
recteur de Saint-Jacques-de-Galice, d’une maison appartenant à cet
urbains en vue de préserver et d’augmenter leurs patrimoines. Voir par exemple: R.
Rossi, Organizzazione, amministrazione e gestione delle strutture sanitarie nella Sicilia di
età moderna: L’Ospedale di Santa Caterina pro infirmis di Monreale tra XVI e XVII secolo
cit., pp. 285-308.
39
Voir par exemple Ad Bdr, 4 HD E 1.
40
C’est le cas par exemple de Saint-Lazare qui acquiert des vignes dans la deuxième
partie du XVe siècle, afin de développer sa production de vin. H. Villard, La léproserie de
Marseille au XVe siècle et son règlement, B. Niel,Aix, 1905, p. 8.
41
M. Bouiron, F. Paone, B. Sillano [et al.], Fouilles à Marseille: approche de la ville
médiévale et moderne, Éditions Errance; Paris, Aix-en-Provence, 2011, p. 250.
42
Si l’économie de la charité reste peu étudiée dans le cadre des travaux sur
l’assistance, l’étude de Giovanna Petti Balbi sur l’Ufficio di Misericordia de Gênes par
exemple a souligné la prééminence de la dimension financière de l’institution entre le
XIVe et le XVIe siècle. G. Petti Balbi, Il sistema assistenziale genovese alle soglie dell’età
moderna. L’ufficio di Misericordia (secoli XIV-XVI), «Reti medievali», vol. 14, 2, 2013, pp.
111-150.
54
Les acteurs de l’assistance: hôpitaux et élites urbaines à Marseille à la fin du Moyen Âge
établissement. Cette maison, située dans la rue Caisserie, jouxtait d’un
côté un verger appartenant à Silone, sœur de Rabastens et épouse de
Bayssani43. On voit à travers cet exemple se dessiner les contours d’une
stratégie immobilière, dans laquelle les intérêts particuliers des familles
du patriciat marseillais rejoignent celles des établissements
hospitaliers.
Bien que certaines institutions soient clairement destinées à une
catégorie spécifique de nécessiteux – c’est le cas de Saint-Antoine, de
Saint-Lazare ou de Notre-Dame-de-l’Annonciade, celle-ci réservée aux
mendiants et aux pèlerins –, la plupart de ces hôpitaux ne sont pas
véritablement spécialisés. Si différentes catégories d’indigents sont
identifiées par les contemporains, la grande majorité d’entre eux
demeure une large nébuleuse que l’on évoque de manière laconique
dans les testaments. C’est ainsi que dans le premier tiers du XVe siècle
une Marseillaise souhaite offrir des pains, chaque année durant six
ans, à cinquante pauvres dont les vingt-cinq premiers seront des
lépreux, les vingt-cinq autres seront «ceux qui seront là»44. Dans le cas
du Saint-Esprit la spécialisation n’est à l’origine pas claire, mais il
semblerait qu’à partir de la création, en 1344, du nouvel hôpital SaintJacques-de-Galice destiné à recevoir des femmes malades, le
Saint-Esprit n’ait plus reçu que des hommes. Il est donc tentant de
voir dans la spécialisation à postériori du Saint-Esprit une volonté de
la part du gouvernement en charge de ces institutions de rationaliser
l’accueil des pauvres.
Quant à l’action réelle de ces hôpitaux en matière d’assistance, les
documents restent singulièrement peu généreux en informations. On
sait que Saint-Jacques-de-Galice s’occupait à la fin du XVe siècle de
distribuer chaque vendredi du pain pour les pauvres de Saint-Lazare,
mais les activités exactes de l’établissement restent obscures. Les
délibérations du Conseil de Ville rappellent que l’hôpital du SaintEsprit devait être, comme l’indique son nom, l’hôpital des pauvres du
Christ: «l’enfant qu’on y conduisait et dont le père ne possédait aucun
bien recevrait la subsistance de l’aumônerie dudit hôpital»45.
Parallèlement à la prise en charge des jeunes enfants qu’il confiait à
des nourrices – dont on connaît par ailleurs l’existence par le
versement de salaires mensuels –, l’hôpital recevait également des
malades. Contrairement à d’autres établissements, dont l’action
s’articulait essentiellement sur l’accueil et l’aumône aux indigents, le
Ad Bdr, 351 E 176, f 95 v.
É. Destefanis, Testaments et piété funéraire à Marseille 1400-1430 cit., p. 135.
45
P. Mabilly, Inventaire sommaire des archives communales antérieures à 1790, série
BB, imp. Moullot Fils Aîné, Marseille, 1909, p. 87.
43
44
55
Laure-Hélène Gouffran
Saint-Esprit prenait en effet en charge une aide médicale46. Pourtant,
malgré sa grande capacité d’accueil et son personnel, seulement trois
hommes et deux femmes malades sont présents dans les locaux du
Saint-Esprit en 140847.
De fait, malgré des revenus réguliers et des dimensions importantes,
les hôpitaux de Marseille ne sont pas capables, sauf exception, de recevoir
plus d’une dizaine de malades et les comptabilités laissent supposer qu’ils
n’accueillirent pas beaucoup d’indigents. L’année 1410 montre par
exemple une régulière, mais faible activité de l’hôpital Notre-Dame-del’Annonciade qui nourrit en moyenne cinq personnes, dont le personnel.
Les pauvres qui viennent s’y réfugier y demeurent généralement un jour
ou deux pendant lesquels ils sont nourris de poisson, de viande de
mouton, de potage et de légumes. L’état de santé des indigents n’est pas
indiqué dans les registres comptables: l’aide apportée reste donc
ponctuelle et pare surtout aux premiers soins, à savoir l’apport d’un repas
réconfortant et d’un lit dans lequel passer la nuit48.
3. Un espace de sociabilités politiques
En définitive, les sources écrites que nous avons pu consulter
témoignent davantage du rapport entretenu par les membres de l’élite
urbaine avec les hôpitaux de la ville que des modalités de l’assistance
réellement portée aux plus démunis. Contrairement à d’autres villes
du Midi où les institutions charitables témoignent plutôt d’un lent
processus de laïcisation des structures d’accueil au cours du XIVe
siècle49, le gouvernement urbain de Marseille semble avoir très
rapidement pris le contrôle total de l’assistance, sans doute même
46
Les ordres de rémunération du maître juif Salomon Mossé apparaissent pour la
période qui s’étend du 9 novembre 1369 au 9 mars 1370. Pour sa part, maître Ferrier
Marvan exerce au service des malades de l’hôpital de l’Annonciade en 1389 et auprès de
ceux de l’hôpital du Saint-Esprit en 1397. Maître Mosson Marvan sert quant à lui
l’hôpital du Saint-Esprit en 1408-1409 et en 1417-1418, aux côtés de maître Ruben
Mossé Gérondin, lequel recevait, en plus de sa pension, une livre et douze sous par
trimestre. J. Sibon, L’implication politique des juifs dans la cité de Marseille au XIVe siècle,
entre normes et pratiques, «Cahiers de recherches médiévales et humanistes», 2015, pp.
213-226, p. 220.
47
Ad Bdr, 1 HD E 27.
48
À titre de comparaison, on pourra se référer au cas de l’hôpital parisien de l’HôtelDieu dont les séries de comptes ont été étudiées et permettent de préciser les modalités
d’approvisionnement et de distribution de l’établissement. C. Jéhanno, Sustenter les
povres malades». Alimentation et approvisionnement à la fin du Moyen Âge: l’exemple de
l’Hôtel-Dieu de Paris, Thèse de doctorat, Université Paris-1, 2000.
49
D. Le Blévec, La part du pauvre : l’assistance dans les pays du Bas-Rhône du XIIe
siècle au milieu du XVe siècle cit., pp. 646–652.
56
Les acteurs de l’assistance: hôpitaux et élites urbaines à Marseille à la fin du Moyen Âge
avant l’évolution d’une gouvernance intrusive observée par exemple en
Angleterre après la Peste Noire50.
À ce sujet le cas du Saint-Esprit est particulièrement représentatif.
La confrérie du Saint-Esprit, créée en 1188 à l’initiative de l’Église, est
à l’origine de la construction de l’hôpital, à partir d’un local acheté à
l’abbesse de Saint-Sauveur. En 1212, une nouvelle confrérie portant
le même nom se superpose à la première et devient le moteur des
revendications communales des Marseillais, jusqu’à sa dissolution en
1218 par le légat du pape51. La Commune perdure toutefois jusqu’en
1257, date à laquelle la ville reconnaît le pouvoir du nouveau comte de
Provence Charles d’Anjou. L’hôpital du Saint-Esprit, dont on ne
connait rien du fonctionnement durant le XIIIe siècle, survit à la
dissolution de la confrérie et à la prise de la ville par le souverain
angevin.
Il est tentant de penser que «l’esprit communal» se poursuit au sein
de cette institution charitable, qui perpétue l’idée d’un groupe de pairs
liés par des intérêts communs au sein d’un espace particulier au cœur
de la ville basse. En effet durant les XIVe et XVe siècles, le Conseil de
Ville veille à défendre l’hôpital du Saint-Esprit contre toute forme
d’appropriation. Ainsi par exemple, le 7 mai 1403, l’hôpital est autorisé
par le Conseil à se défendre contre des ordonnances de l’évêque
relatives aux testaments des marchands Julien de Casaulx et Jacques
Stornel52. Et, lorsqu’en 1475 l’autonomie de l’hôpital fut menacée par
les tentatives de l’ordre du Saint-Esprit de Montpellier, lequel
prétendait que «certaines maisons relevaient de sa juridiction comme
50
Cette théorie, développée par R. C. Palmer (English Law in the Age of the Black
Death, 1348-1381. A transformation of Governance and Law, Chapel Hill, 1993) a été
questionnée dans le cas de Marseille par R. Braid, Épidémies et gouvernance: Les
politiques du travail à Marseille au XIVe siècle, in Le epidemie nei secoli XIV-XVII, Atti delle
giornate di studio (Fisciano/Univ. degli Studi – Salerno, 13-14 maggio 2005), Laveglia
Editore, Salerno, 2006, pp. 67-83.
51
Victor-Louis Bourrilly est revenu sur les objectifs de la confrérie de 1212 – bien
différente de celle de 1188 – dont la vocation était exclusivement charitable et
hospitalière. Constituée par les habitants «possédant un métier », la confrérie de 1212
cherche rapidement à acquérir des biens immobiliers, des cens et même la part des
vicomtes, alors en difficulté financière. Devenue coseigneur de la ville basse, elle s’érige
contre l’évêque avant d’être excommuniée et dissoute. Sur le modèle des cités italiennes,
un podestat est alors installé comme interlocuteur des autres pouvoirs. L’arrivée en
Provence, en octobre 1250, du nouveau comte Charles d’Anjou met un terme aux
prétentions marseillaises et le traité de 1257 fixe l’organisation de la cité, ses droits, son
statut politique et juridique et accorde des privilèges que les Marseillais conserveront
jusqu’à la Révolution. V.-L. Bourrilly, Essai sur l’histoire politique de la commune de
Marseille: des origines à la victoire de Charles d’Anjou (1264), A. Dragon, Aix-en-Provence,
1925. Voir également : M. Zarb, Histoire d’une autonomie communale: les privilèges de la
ville de Marseille, du Xe siècle à la Révolution., A. et J. Picard, Paris, 1961.
52
Amm BB 32, f° 119.
57
Laure-Hélène Gouffran
étant des succursales anciennement fondées par lui»53, le Conseil
délibéra que jamais cela n’avait été le cas54.
Il existait par ailleurs, dès l’origine, des interactions financières
fortes entre l’hôpital du Saint-Esprit et le Conseil de Ville et, de manière
plus générale, avec les affaires de la municipalité. Le 26 juillet 1397
par exemple, le Conseil décide qu’il sera prélevé, sur les revenus de la
rève du blé, 1000 florins d’or, pour rembourser les recteurs des
hôpitaux du Saint-Esprit et de Saint-Jacques-de-Galice qui avaient
prêté pareille somme à la communauté55. Ce lien entre le Saint-Esprit
et l’autorité municipale se manifeste encore plus ostensiblement
lorsque, à partir du XIVe siècle, une salle de l’hôpital sert de lieu de
réunion pour les délibérations municipales56. Et en 1424 aussi, alors
que le Palais Communal est définitivement détruit par les troupes
catalanes, l’autorité municipale et l’autorité comtale – en la personne
du nouveau viguier – se retrouvent à partager l’établissement pour
réorganiser la ville57.
Au Saint-Esprit, comme à Saint-Jacques de Galice, à Saint-Lazare,
à Notre-Dame-de-l’Annonciade et à Notre-Dame-de-l’Espérance,
l’administration est assurée dès l’origine par deux recteurs, élus en
séance du Conseil de Ville. Ces recteurs, choisis parmi les élites
urbaines, étaient chargés de l’administration de l’établissement et de
la tenue des comptes. Ceux de Saint-Lazare juraient entre les mains
du viguier et des consuls «de gouverner convenablement ledit hôpital
et de veiller au profit de celui-ci de tout leur pouvoir et de faire observer
lesdits chapitres [il s’agit du règlement de l’hôpital]»58.
Comme dans le cas de certains couvents, comme Santa-Croce de
Florence59, le profil des recteurs des plus importants hôpitaux urbains
– le Saint-Esprit et Saint-Jacques-de-Galice – témoigne de la volonté
de certaines familles de conserver leur domination sur la société
urbaine (Fig. 2)60. On retrouve au poste de recteur les membres des
F. Mireur, Les hôpitaux du Saint-Esprit, Draguignan, 1895, p. 4.
Amm BB 33, 29 février 1475, f 87v.
55
Amm BB 6, 26 juillet 1397.
56
Amm BB 20, 6 mai 1349, ff. 132-133; Amm BB 22, 31 janvier 1357, ff. 114-116.
57
C. Maurel, Fractures et renouveau d’un organisme urbain médiéval : la société
marseillaise à l’épreuve du sac des Aragonais (1423) cit, p. 44.
58
«[…] degudament governar lo dich hospital et de procurar la utilitat d’a quella de
tot lor poder et de far observar los ditz capitols». H. Villard, La léproserie de Marseille au
XVe siècle et son règlement cit., p. 15. Règlement présenté en séance de conseil municipal
le 10 août 1485.
59
S. Piron, Un couvent sous influence. Santa Croce autour de 1300, in J. Chiffoleau,
N. Bériou, Économie et religion. L’expérience des ordres mendiants (XIIIe-XVe siècle),
Presses universitaires de Lyon, Lyon, 2009, pp. 331-355.
60
Ce tableau présente l’état d’un travail en cours. Il réunit les données issues de nos
recherches dans les actes notariés des registres conservés dans les Bouches-du-Rhône
53
54
58
Les acteurs de l’assistance: hôpitaux et élites urbaines à Marseille à la fin du Moyen Âge
grandes lignées marseillaises qui dominent économiquement et
socialement la cité entre la fin du XIV e siècle et le début du XVe
siècle. Les Jérusalem et les Monteolivo sont ainsi particulièrement
bien représentés, tout comme certains individus qui – comme
Guillaume de Cavaillone ou Bertrand de Rocaforti – apparaissent au
moins deux fois dans cette fonction de recteur entre 1394 et 1430.
La carrière de ce dernier témoigne en particulier de la savante
alternance entre les différentes fonctions de l’autorité municipale
qui lui permirent de ne jamais s’éloigner réellement du
gouvernement urbain, depuis son entrée en politique en 1382
jusqu’à son décès en 1428. Si ce phénomène est désormais bien
connu – on connaît par exemple le même type d’appropriation et de
rétention du pouvoir à Gênes, où les membres des alberghi les plus
importants se succèdent aux postes d’officiers de l’Ufficio de la
Misericordia comme aux autres de la fonction publique61 –, il faut
insister sur la distinction sociale suscitée par l’occupation de telles
charges.
Car, comme le rôle de syndic ou d’auditeur des comptes, le poste
de recteur participe aux stratégies d’ascension sociale et à la
recherche de distinction des élites urbaines. En 1376, lorsque les
nouveaux recteurs de l’hôpital Notre-Dame-de-l’Annonciade,
Guillaume Lhautandi et Martin Elie entrent en fonction, ils prennent
ainsi possession des objets précieux laissés par les précédents et
qui sont les signes ostentatoires de leur nouvelle charge: un
chapeau d’argent et de perles, une bourse de velours bleu pâle, une
écuelle de porcelaine, des agrafes d’argent, un fourneau à poignées
de corail, un sceau en corail, un anneau appelé tarquesiam, deux
cuillères de cristal, une empreinte de corail en argent et une poignée
de corail62. C’est également dans un coffre, peut-être conservé dans
la salle des archives, qu’étaient gardées une escarcelle de saint Jean
contenant le sceau de corail et la clef de l’hôpital63. L’inventaire des
insignes de l’établissement ne manque pas de rappeler ceux gardés
par les syndics au sein de l’hôtel de ville; et ces objets précieux
illustrent l’importance de la fonction représentative du travail du
recteur.
et à la Bibliothèque nationale de France (BnF). Les années pour lesquelles nous n’avons
pas de données n’ont pas été intégrées au tableau.
61
G. Petti Balbi, Il sistema assistenziale genovese alle soglie dell’età moderna. L’ufficio
di Misericordia (secoli XIV-XVI) cit, p. 135.
62
Ad Bdr, 5 HD E 4.
63
Ad Bdr, 5 HD E 3.
59
Laure-Hélène Gouffran
Fig. 2 - Noms des recteurs de l’hôpital du Saint-Esprit
et de celui de Saint-Jacques-de-Galice de Marseille 1394-1430
64
La chronologie des recteurs de 1400 à 1403 est difficile à établir, en raison du
décalage existant entre l’élection des recteurs en novembre et les registres comptables
de l’hôpital qui vont de février à février.
65
Jacques Bamli remplace Jeannet de Montolivo après le sac de la ville par les
troupes catalanes en novembre 1423.
60
Les acteurs de l’assistance: hôpitaux et élites urbaines à Marseille à la fin du Moyen Âge
De plus l’ensemble des solidarités qui lient ces hommes entre eux,
par le truchement des alliances et des associations commerciales,
participe à la cohérence d’une oligarchie politique qui cherche à
affirmer son pouvoir au cours du XVe siècle. Les recteurs des hôpitaux
marseillais obtiennent ainsi le 17 septembre 1422, en délibération
municipale, l’extension de leurs pouvoirs66. Ils acquièrent ce jour-là,
étant donné «la droiture, capacité, prudence et loyauté de tous les
recteurs», le pouvoir de vendre et d’aliéner certains biens des hôpitaux
qui seraient à la charge de ces derniers ou inutiles, ainsi que la
capacité «de compromettre, transiger, convenir et de traiter sur tous
les procès et différends desdits hôpitaux de la manière qu’ils trouveront
la plus convenable». Malgré une prise en charge précoce, il faut donc
attendre le XVe siècle pour voir le Conseil reconnaître publiquement la
compétence des recteurs qui obtiennent davantage de pouvoirs et
l’autorisation d’agir selon leur bon vouloir, dans l’intérêt des hôpitaux
qu’ils gèrent comme s’il s’agissait de leurs propres entreprises.
Conclusions
La question de l’assistance hospitalière a été rouverte ces dernières
années dans le cadre d’études plus générales portant sur l’assistance
urbaine. Mais, si la mise en place des structures et le fonctionnement
des institutions ont été bien développés, la question des hommes
responsables de ces institutions a, quant à elle, fait l’objet d’un
moindre intérêt, généralement en raison des lacunes documentaires.
L’exemple marseillais permet de revenir sur l’importance des hôpitaux,
d’une part en tant qu’organes de pouvoir des gouvernements
municipaux, d’autre part en tant qu’espaces où peuvent se concrétiser
les ambitions personnelles des élites urbaines. Cette dernière
perspective permet de mieux comprendre le rôle fondamental joué par
les institutions d’assistance et par l’utilisation de la notion religieuse
et éthique de la caritas dans la légimation du pouvoir.
Les modalités effectives de l’assistance aux pauvres demeurent
quant à elles difficiles à saisir. Le peu de malades présents entre les
murs de ces hôpitaux laisse supposer que cette aide procédait surtout
d’une assistance ponctuelle qui ne semble pas avoir fait l’objet de
tentatives de rationalisation de grande envergure durant la période
médiévale. Enrichis par les legs des membres de l’oligarchie, les plus
grands de ces établissements sont en revanche capables de prêter à la
66
L’acte, issu des registres de délibérations municipales, a été traduit et est conservé
aux Ad Bdr sous la côte 1 HD E 63.
61
Laure-Hélène Gouffran
communauté les sommes qui sont nécessaires aux affaires
municipales et illustrent ostensiblement le souci du gouvernement
urbain pour l’assistance aux plus démunis. De la fondation – pour les
plus aisés – à l’aumône rituelle, l’exhortation des Ordres mendiants à
pratiquer la charité se manifeste aussi de façon individuelle à travers
les testaments des marchands qui partagent leurs biens entre les
pauvres de la cité. Frères mineurs et hôpitaux sont les principaux
bénéficiaires de ces donations, qui permettent tout à la fois aux élites
urbaines d’exercer pieusement leur devoir charitable et aussi de
contenter leurs ambitions sociales et politiques. Ces élites peuvent
ainsi incarner pleinement l’image d’un «bon marchand», redistribuant
ses gains à la communauté, suscitée par certains écrits franciscains,
notamment ceux de Pierre Jean d’Olivi dont l’oeuvre est actuellement
en pleine redécouverte67.
67
Voir les travaux de S. Piron: «Marchands et confesseurs. Le Traité des contrats
d’Olivi dans son contexte (Narbonne, fin XIIIe-début XIVe siècle)», Actes des congrès de
la S.H.M.E.S.P., vol. 28/1, 1997, pp. 289-308; Parcours d’un intellectuel franciscain d’une
théologie vers une pensée sociale: l’oeuvre de Pierre de Jean Olivi (ca. 1248-1298) et son
traité «De contractibus», Atelier National de Reproduction des Thèses, 2001.
62
Giuseppe Mrozek Eliszezynski
FROM THE BIBLE TO ÁLVARO DE LUNA. HISTORICAL
ANTECEDENTS AND POLITICAL MODELS IN THE DEBATE
ON THE VALIMIENTO IN SPAIN (1539-1625)*
ABSTRACT: The presence of a powerful favourite alongside the legitimate ruler has been a fundamental point in the history of the main European monarchies of the seventeenth century. In
addition to the concrete political struggle at court, the conflict between opponents and defenders
of the phenomenon of favouritism was fought even on a theoretical level, in the vast political literature focused on this issue from the sixteenth century and then, with increasing intensity, in the
following century. This article aims to examine, through the analysis of political works centered
on the figure of the favourite during the valimiento of the Duke of Lerma, in which way various
characters and ages of the past were used and re-read for political purposes inside of this
debate. The political use of history emerges as a central element to understand the characters
who more than any other influenced an entire era of European history.
KEYWORDS: Minister-Favourite, Past, History, Duke of Lerma, Álvaro de Luna.
DALLA BIBBIA AD ÁLVARO DE LUNA. ANTECENTI STORICI E MODELLI POLITICI
NEL DIBATTITO SUL VALIMIENTO IN SPAGNA (1539-1625)
SOMMARIO: La presenza di un potente favorito al fianco del legittimo sovrano ha costituito un fondamentale punto in comune nella storia delle principali monarchie europee del XVII secolo. Oltre
alla concreta lotta politica che si svolgeva a corte, la contrapposizione tra oppositori e difensori
del fenomeno del favoritismo si giocò anche su un piano di riflessione teorica, nella vasta
letteratura politica centrata sul tema nel XVI secolo e dopo, con crescente intensità, nel secolo
successivo. L’articolo si propone di esaminare, attraverso l’analisi di opere centrate sulla figura
del favorito durante il valimiento del duca di Lerma, in che modo diversi personaggi ed epoche
del passato furono usati e riletti a fini politici all’interno di tale dibattito. L’uso politico della storia
emerge come un elemento centrale per comprendere le figure che più di qualsiasi altre influenzarono
un’intera epoca della storia europea.
PAROLE
CHIAVE:
Ministro-Favorito, Passato, Storia, Duca di Lerma, Álvaro de Luna.
The concept of history as magistra vitae, a repertoire from which it
is possible to draw examples and identify patterns of behaviour and
political conduct, was dominant throughout the entire Early Modern
Age1. Interpreting the past in search of anticipations, signals,
* Abreviations: Ahn (Archivo Histórico Nacional); Asv (Archivio Segreto Vaticano); Bav
(Biblioteca Apostolica Vaticana); Bne (Biblioteca Nacional de España); Rah (Real
Academia de la Historia). I would like to thank Alistair Malcolm, Gonzalo Velasco
Belenguer and James Novoa for their help and suggestions.
1
According to some scholars, the second half of the eighteenth century, and in
particular the French Revolution, constituted a turning point in this vision of the past,
from which the ability of history to be a guide and an inspiration to the men’s actions
was questioned. On these positions, for example, R. Koselleck, Vergangene Zukunft. Zur
Semantik geschichtlicher Zeiten, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1979; or F. Hartog,
Régimes d’historicité: présentisme et expériences du temps, Seuil, Paris, 2003. The
n. 36
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Aprile 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
63
Giuseppe Mrozek Eliszezynski
justifications or condemnations of what was happening in the present
is a characteristic feature of the political reflection of the time, based
mainly on the sacred texts and the Greek-Roman history, but that
often invested more recent characters and historical periods. Through
a process of comparison between past and present, looking for
similarities or contrasts in human actions, in political and social
institutions, in ideas and values, or in military and revolutionary
events, history was thus constantly used to describe, explain, but also
to justify or condemn, facts and protagonists of the present. In the
Spanish Monarchy of the opening decades of the seventeenth century,
the dominant theme in the rich political literature focused on the court
drew inspiration from the actual situation of that time, in which a
powerful favourite exercised the power that in theory had been granted
only to the sovereign.
The favourite of the king, the character who, thanks to the trust and
affection of his sovereign, decides the fate of an entire kingdom and
enriches himself and his family and allies with titles, honours and
money, is traditionally a subject of debate in European history. Both
on a theoretical level - in the political treatises - and on a more
practical level - in the struggles at court - the nature of the power of
the favourite, its limitations and the very need or opportunity for the
existence of a privileged adviser alongside the legitimate king, have
been for a long time topics of discussion and political confrontation in
the main monarchies of the Old Continent2. Within this debate, the
references to the past, the instrumental use of history and its
reinterpretation based on personal interests and their own reference
group objectives, are very important elements in the understanding of
opposite view of other scholars has pointed out that the references to the past and a
often instrumental use of history have continued to be present also in the political and
intellectual reflections subsequent to 1789: see for example L. Canfora, Analogia e
storia, Il Saggiatore, Milano, 1982; P. Fritzsche, Stranded in the Present. Modern Time
and the Melancholy of History, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London,
2004; G. Cubitt, The Political Uses of Seventeenth-century English history in Bourbon
Restoration, «The Historical Journal», 50 (2007/1), pp. 73-95; G. Cubitt, Revolution,
Reaction, Restoration: The Meanings and Uses of Seventeenth-century English History in
the Political Thinking of Benjamin Constant (1797-1830), «European Review of History»,
14, 1 (march 2007), pp. 21-47. For more details on this debate, D. Di Bartolomeo, Lo
specchio infranto. “Regimi di storicità” e uso della storia secondo François Hartog,
«Storica», 49 (2011), pp. 63-94.
2
The European historiography has produced countless studies on the favourites of
the seventeenth century, especially from the 1970s. Leaving aside the texts that will be
mentioned below, we can not overlook at least the model represented, for the Spanish
case, by the studies of Francisco Tomás y Valiente (Los validos en la monarquía española
del siglo XVII, Instituto de Estudios Políticos, Madrid, 1963) and John H. Elliott (see in
particular Richelieu and Olivares, Cambridge University Press, Cambridge, 1984; The
Count-Duke of Olivares. The statesman in an age of decline, Yale University Press, New
Haven-London, 1986).
64
From the Bible to Álvaro de Luna. Historical antecedents and political models in the debate...
the issues and the main arguments developed by both detractors and
defenders of the phenomenon of favouritism3. This article aims, in
particular, to analyze which figures and political models of the past
were used in the long debate on the valimiento in the Spanish
monarchy in the sixteenth century, from the first thoughts on the
subject during the reign of Charles V, until 1625, the year in which the
Cardinal Duke of Lerma died, signalling the end of the political and
judicial aftermath generated by his government4.
In 1539, the publication at Valladolid of the Aviso de privados o
despertador de cortesanos by Antonio de Guevara marked in some
way the beginning of the discussion on the topic of the favourites in
the Spanish political literature of the sixteenth century. Sometimes
contained in works destined for the king’s counsellors, as in the case
of Fadrique Furió Ceriol5, or for the educators of the prince, as in
the case of Pedro de Ribadeneyra and Juan de Mariana6, the
reflections on the role and power of the privados grew during the
reign of Philip II and especially in the last 15 years of the Rey
Prudente, when old age and ailments of the sovereign allowed the
rise of a small number of advisers by his side and, at the same time,
of the future Duke of Lerma alongside Prince Philip7. The political
literature on the topic was enriched as a result, dealing with an
issue that had become very popular at the time. After Antonio Pérez8
and Baltasar Álamos de Barrientos (a member of Pérez’s circle) 9,
3
The theme of the political use of history, that is the use of characters and events of
the past in the political and ideological struggle of today is very timely and is the basis
of much recent research applied to different problems and historical periods. Some
examples: E. Rawson, The Spartan Tradition in European Political Thought, Clarendon
Press, Oxfrod, 1991; E. Shalev, Rome Reborn on Western Shores. Historical Imagination
and the Creation of the American Republic, University of Virginia Press, CharlottevilleLondon, 2009; R. Hammersley, The English republican tradition and eighteenth-century
France. Between the ancients and the moderns, Manchester University Press,
Manchester-New York, 2010; D. Di Bartolomeo, Nelle vesti di Clio. L’uso politico della
storia nella Rivoluzione francese (1787-1799), Viella, Roma, 2014.
4
G. Mrozek Eliszezynski, Bajo acusación: el valimiento en el reinado de Felipe III.
Procesos y discursos, Editorial Polifemo, Madrid, 2015.
5
F. Furió Ceriol, El Consejo y Consejeros del Príncipe, Antwerp 1559.
6
P. de Ribadeneyra, Tratado de la religión y virtudes que debe tener el Príncipe
cristiano para governar y conservar sus estados, contra lo que Nicolás Maquiavelo y los
políticos deste tiempo enseñan, in Obras escogidas, Madrid 1952, Biblioteca de Autores
Españoles, LX, pp. 449-587; J. de Mariana, De rege et regis institutione (la dignidad real
y la educación del príncipe), Toledo 1599.
7
On the rise of Lerma in the last years of Philip II’s court, see G. Mrozek Eliszezynski,
«La hora de la mudanza». L’ascesa del marchese di Denia e il dibattito culturale sul favorito
nella corte di Filippo II, «Società e Storia», 144 (II, 2014), pp. 219-247.
8
A. Pérez, A un gran Privado, 1594.
9
B. Álamos de Barrientos, Discurso político al rey Felipe III al comienzo de su reinado,
Madrid 1598; Id., Suma de preceptos justos, necesarios y provechosos en Consejo de
Estado al Rey Felipe III siendo Príncipe, Madrid 1599; Id., Norte de príncipes, Madrid
65
Giuseppe Mrozek Eliszezynski
many other authors followed their example during the reign of Philip
III, when the twenty-year government of the Duke of Lerma imposed
itself as a kind of model of valimiento for his successors both in
Spain and in other European monarchies. The total confidence of
the king and the subsequent delegation of power to his favourite
enabled Lerma to exercise a total control over the court, over the
political, economic and military choices of the monarchy and over
the system of patronage, monopolized in favour of his family and the
members of his faction10.
Faced with such power, never seen before in European history,
political literature was even more clearly divided into two opposing
ideal fronts, who sought to discredit or to justify the power of the
Duke. In this way, one can recall the reflections by many protagonists
of the political fight at court, as in the case of Francisco de Quevedo,
a key figure both in the court of Philip III, as an agent of the third
Duke of Osuna11, and in the court of Philip IV12. Or also the
contributions by some intellectuals linked in various ways to the
competition for power, such as Pedro Maldonado, personal confessor
of the Duke of Lerma and the author of the main text written in
defence of the valimiento and the government of his patron13. On the
other side, the Franciscan preacher Juan de Santa María, a relentless
opponent of the Sandovals and their power, summarized the main
arguments against the government of the favourites in his Tratado
de república y policía christiana14.
1600; Id., Tácito español ilustrado con aforismos, Madrid 1614. The link between Pérez
and Álamos de Barrientos is confirmed by the fact that the works written by the second
one have been attributed, for centuries, to the first.
10
About Lerma and his government, see F. Benigno, L’ombra del re. Ministri e lotta
politica nella Spagna del Seicento, Marsilio, Venice, 1992; B. J. García García, La Pax
Hispanica. Política exterior del duque de Lerma, Leuven University Press, Leuven,
1996; A. Feros, Kingship and Favoritism in the Spain of Philip III, 1598-1621,
Cambridge University Press, Cambridge, 2000; P. Williams, The great favourite. The
Duke of Lerma and the court and government of Philip III of Spain, 1598-1621,
Manchester University Press, Manchester – New York, 2006; A. Alvar Ezquerra, El
Duque de Lerma. Corrupción y desmoralización en la España del siglo XVII, Esfera de
los Libros, Madrid, 2010.
11
On Pedro Téllez Girón, third Duke of Osuna, and his relationship with Quevedo,
see L. Linde, Don Pedro Girón, duque de Osuna: la hegemonía española en Europa a
comienzos del siglo XVII, Ediciones Encuentro, Madrid, 2005.
12
F. de Quevedo Discurso de las privanzas, edited by Eva María Díaz Martínez,
EUNSA, Pamplona 2000; id., Política de Dios, gobierno de Cristo, tiranía de Satanás,
Zaragoza 1626; Como ha de ser el privado, edited by L. Gentilli, M. Baroni editore,
Viareggio-Lucca, 2004.
13
Discurso del perfecto privado, in Bne, ms. 6778.
14
J. de Santa María, Tratado de república y policía christiana. Para reyes y príncipes
y para los que en el gobierno tienen sus veces, Madrid 1615. By the same author, see
also a short text written immediately after the death of Philip III, Lo que su Maj.d debe
66
From the Bible to Álvaro de Luna. Historical antecedents and political models in the debate...
Many other authors, such as Pedro Fernández Navarrete15, Giulio
Antonio Brancalasso16, Lorenzo Ramírez de Prado17 and Francisco
Bermúdez de Pedraza18, devoted part of their reflections on the theme
of the favourite, also becoming, in some cases, points of reference for
the subsequent political literature on the topic. As it is well known, the
death of Philip III and the beginning of the reign of his successor did
not mark the end of the phenomenon of valimiento, and the trials
against the Duke of Lerma and some of the key members of his
government were based on many of the themes and arguments that
the previous authors had exhibited and continued to exhibit in their
works19.
Within this vast production of texts of political and theoretical
reflection, the references to people, governments and ages of a more or
less remote past were numerous and never casual, always functional
to the development of a more general and complex discourse. Dividing
into three groups the most common characters in these texts, the first
and largest is the one that draws on the extraordinary heritage of the
Bible, in which history and religious myth steadily intertwine. In the
Book of Esther, in particular, the court of King Ahasuerus - usually
identified with the Persian king Xerxes I - is the scene dominated by
the two characters who were constantly indicated, in the early modern
age, as the example par excellence of the bad and good favourite:
Haman and Mordecai20. If the figure of Mordecai is, overall, little
described in biblical writings, more central is the role of Haman, “the
second after the king”, as he is repeatedly mentioned in the Book of
Esther. Haman presents many characteristics of the favourites of the
executar con toda brevedad, y las causas principales de la destrucción de la Monarchía,
in Ahn, Estado, lib. 832, ff. 323-338.
15
P. Fernández Navarrete, Conservación de monarquías y discursos políticos, Madrid
1626; Id., Carta de Lelio Peregrino a Estanislao Borbio, privado del Rey de Polonia, in id.,
Conservación de monarquías cit., edited by M.D. Gordon, Instituto de Estudios Fiscales,
Madrid, 1982, pp. 381-419.
16
G. A. Brancalasso, El Laberinto de Corte, Naples 1609; Id., Los diez predicamentos
de la Corte, Naples 1609.
17
L. Ramírez de Prado, Consejo y consejeros de príncipes, Madrid 1617. Lorenzo
Ramírez de Prado was also the defense lawyer of his father Alonso, a prominent member
of the Duke of Lerma’s faction arrested in 1606, who died in prison and was condemned
in 1608. During that trial, many arguments and themes that had emerged in the
theoretical debate on the favourite were used by both the public acusation and the
defense lawyer: G. Mrozek Eliszezynski, Las culpas del Rey y de su Favorito. El proceso
a Alonso Ramírez de Prado (1607-1608), «Librosdelacorte.es», 6 (2013), pp. 27-49.
18
F. Bermúdez de Pedraza, El secretario del Rey, Madrid 1620.
19
M. Renzi, El Privado perfecto, in Bne, Mss. 5873, ff. 136r-192r; J. de Zevallos, Arte
real para el buen govierno de los Reyes, y Príncipes, y de sus vassallos, Madrid 1623; F.
Lanario, Discurso de que los Reyes han de tener privado, Palermo 1624; Id., I trattati del
principe e della guerra, Naples 1626; J.P. Mártir Rizo, Historia de la vida de Lucio Anneo
Séneca español, Madrid 1625; Id., Norte de Príncipes y Vida de Rómulo, Madrid 1626.
20
Book of Esther, 8, 12
67
Giuseppe Mrozek Eliszezynski
following centuries and he is the subject of criticism very similar to
those that were assigned to them. In fact, he enjoys the trust of the
king, who has put him above all the ministers and princes of his vast
kingdom21; and thanks to this trust he has accumulated wealth and
power, for himself and his family. However, his insatiable greed and his
anger at seeing a Jew, Mordecai, who refuses to bow down to him when
passing by, push Haman to advise the king the extermination of the
people of Israel, an act finally foiled by the intervention of Queen Esther
and from the rise of Mordecai, who has become the new “second after
the king”. The fight between courtiers for the favour of the sovereign
and the resolute intervention of the queen, which marks the end of an
era and the beginning of another, are also elements destined to repeat
themselves, as well as the criticism of the ambition and arrogance of
the man who, with incorrect advice, threatens to drag his king and the
entire monarchy to ruin. The tragic end of Haman, executed on the
gallows that he had set up for Mordecai, is a further source of
fascination in the parallels with the favourites of later periods.
Joseph, the second to last but also the preferred among the sons of
Jacob, who was sold by his brothers because of envy and later became
the favourite of the Pharaoh in Egypt, is another excellent example
taken from the biblical accounts22. The same can be said of John the
Evangelist, listed as the favourite among the disciples of Jesus23.
The second group of characters from which political authors of the
sixteenth and seventeenth centuries took inspiration to illustrate
strengths and weaknesses of the privados of their kings, refers instead
to the classical Greek-Roman history. Hephaestion, a childhood friend,
an army general and confidant of Alexander the Great was often cited
as an example of unparalleled devotion and loyalty, a favourite who was
also a friend of his sovereign, and was victim of one of the greatest
dangers for any privanza: the envy of those who were excluded from the
grace of the prince, or, in this case, the other generals of the
Macedonian army24. However, the praetorian prefect Lucius Aelius
Sejanus was the most effective personification of the figure of the
favourite in Antiquity. Thanks to the special relationship that he created
Ivi, 3, 1-2
The figure of Joseph is used as an example of good favourite in J. de Torres,
Philosophia moral de Príncipes, para su buena crianza y govierno: y para personas de
todos estados, Burgos 1602 (original edition 1596), pp. 277-283; or also in J. de Santa
María, Tratado de república y policía christiana cit., pp. 477-478.
23
See for example E. de Narbona, Doctrina política civil escrita en aphorismos, Madrid
1779 (original edition 1621), pp. 129-130: «y el mismo Christo Nuestro Señor, Rey de
reyes, tuvo a S. Juan Evangelista, a quien amaba con particular demonstración».
24
Although it refers to a following period and the English context, see H. Smith, S.
Taylor, Hephaestion and Alexander: Lord Hervey, Frederick, Prince of Wales, and the Royal
Favourite in England in the 1730s, «English Historical Review», 124/507 (April 2009), pp.
283–312.
21
22
68
From the Bible to Álvaro de Luna. Historical antecedents and political models in the debate...
with the emperor Tiberius, he exercised an extended and well-rooted
power. The reflections on him received a vigorous impulse during the
sixteenth century, with the discovery and exploitation of the work of
Tacitus, the Roman historian who best described his personality and
power25. In the Sejanus described by Tacitus, the elements already
highlighted in relation to the biblical figure of Haman return: the power
obtained thanks to the trust of the emperor, his pride, his greed, his
capacity to make his master share the responsibility for his faults, his
fall from grace and his tragic end. Beyond that, two of the main
characteristics that were attributed to the favourite in the early modern
age stand out. One is the use of flattery, as an ideal tool for capturing
the trust and favour of the sovereign: the figure of the flatterer was in
fact one of those universally condemned by the authors of the sixteenth
and seventeenth centuries who spoke about the life at court. The other
is the use, by Sejanus, of his privileged role to ensure “honours and
provinces” to his clientes: the favourite emerges then as the head of a
group that benefits from his power and that, in exchange, works for
him in order to maintain his position26.
From medieval history, until the years immediately prior to those
of the ascent of the Duke of Lerma and his power group, numerous
other examples of historical figures were used, re-reading their lives
and careers as an anticipation of the rise and fall of the sixteenth- and
seventeenth-century favourites. Pier delle Vigne, trusted advisor of
Frederick II but eventually arrested and cruelly tortured by order of
the same emperor, was used as a symbol of how precarious and
unsteady the career of a favourite was, totally dependent on the
favour, by nature fickle and subject to sudden changes, of his
sovereign27. The parable of a courtier who, in just a very short time,
reaches the maximum of power and, often suddenly, rushes into
Publius Cornelius Tacitus, Annales, IV, 1-2.
Among the texts which cite Sejanus as a perfect example of bad favourite, see P.
Fernández Navarrete, Conservación de monarquías y discursos políticos cit., Madrid 1982,
p. 38. Many other characters from Greek and Roman history have been used in the vast
political literature about this topic, as in the cases of the historian Callisthenes (adviser
of Alexander the Great) and the philosopher Panaetius of Rhodes (who had a close
relationship with Scipio Aemilianus), mentioned by J. Fernández de Medrano in his
Republica Mixta, Madrid 1602, p. 83. As for Roman history, one can recall frequent
references to the “favourites” (in large part generals) of emperors like Vitellius (see for
example in B. Álamos de Barrientos, Norte de Príncipes, edited by M. De Riquer, Espasa
Calpe, Madrid, 1969, pp. 53-54), but also the good example represented by characters
who refused to occupy an illegitimate power or to accumulate excessive goods and
money, such as Scipio Africanus and Cato Uticensis (J. Horozco y Covarrubias,
Emblemas morales, Segovia 1591, ff. 302r-303v).
27
«No quiero hablar de Pedro de la Viñas, secretario y gran privado del emperador
Federico el segundo, a quien su amo mandó sacar los ojos y entregar a sus enemigos»:
P. de Ribadeneyra, Tratado de la religión y virtudes que debe tener el Príncipe cristiano
cit., pp. 558-559. See also G.A. Brancalasso, El Laberinto de Corte cit., p. 8.
25
26
69
Giuseppe Mrozek Eliszezynski
oblivion and a subsequent tragic end, is also at the center of the
biography of the character who appears in almost all the works that
explore the theme of favouritism in the Spanish political literature of
the sixteenth and seventeenth centuries: Álvaro de Luna. Arriving at
court in 1408, Luna had learned in a short time to win the trust and
affection of John II since he was a child, remaining at his side through
various events for over three decades. Nominated Condestable de
Castilla and Master of the Order of Santiago, he was able to enter and
remain in the Spanish collective memory as an unprecedented
example of privado. His power was so great that he run up against the
accusation of having usurped the authority of the rightful ruler and
subjected the public interest to his own personal ends. His death
sentence, executed in the Plaza Mayor of Valladolid on 2 June 1453,
was transformed immediately into a never forgotten event, compared
to which the destinies and especially the falls of many subsequent
privados were read28. Disliked, like Haman and many others after him,
by his queen, Álvaro de Luna had also had a stormy relationship with
the nobility of the kingdom, or at least with a large part of it. It was a
characteristic in common with other European antecedents, as Piers
Gavestone in the England of Edward II, or contemporary figures, such
as Olivier Le Daim in the France of Louis XI29.
But above all, Álvaro de Luna marked the beginning of the debate
on the figure of the privado in Spain. Initially a discussion of literary
nature, it later evolved also into a reflection of theoretical and political
nature. Becoming a symbol of a theme that was typical of Baroque
Europe, the mutability of Fortune, the fate experienced by the favourite
of John II amply represented the thunderous fall that all the great
favourites, sooner or later, had to face30, and fully highlighted how the
court of the kings was insecure and unstable, even for those who had
dominated it for over thirty years31. When Luna was still alive, the poet
28
For more details on Álvaro de Luna, see N. Round, The Greatest Man Uncrowned:
a Study of the Fall of Don Alvaro de Luna, Tamesis Books, London, 1986; J.M. Calderón
Ortega, Álvaro de Luna: riqueza y poder en la Castilla del siglo XV, Dykinson, Centro
Universitario Ramón Carande, Madrid, 1998.
29
The fight between Luna and a large parte of the high aristocracy is widely described
by J.M. Calderón Ortega, not only in the already cited biography, but also, more briefly,
in Los privados castellanos del siglo XV: reflexiones en torno a Álvaro de Luna y Juan
Pacheco, in J.A. Escudero (ed.), Los Validos, Dykinson, Madrid, 2004, pp. 41-62. In this
contribution, Calderón Ortega explicitly compares Luna and his “disciple” Juan Pacheco
to the seventeenth-century validos, in particular the Count-Duke of Olivares, underlining
all the common elements.
30
I. Pastor Bodmer, Grandeza y tragedia de un valido: la muerte de don Álvaro de
Luna, 2 voll., Caja de Madrid, Madrid, 1992.
31
On these reflections, see J.M. Boyden, “Fortune Has Stripped You of Your Splendor”:
Favourites and their Fates in Fifteenth- and Sixteenth-Century Spain, in J.H. Elliott, L.W.B.
Brockliss (eds.), The World of the Favourite, Yale University Press, New Haven-London,
1999, pp. 26-37, in particular pp. 26-31.
70
From the Bible to Álvaro de Luna. Historical antecedents and political models in the debate...
Juan de Mena had already portrayed him at the zenith of his power in
El laberinto de Fortuna (1444), predicting at the same time his future
fall. After the death of Don Álvaro, also Íñigo López de Mendoza,
Marquis of Santillana, wrote verses on him and on his end. Even
though he had been a bitter enemy of Luna, Santillana used his story
to compose a work with didactic and moral purposes, launching a
general warning to all the favourites. In Doctrinal de privados, fecho a
la muerte del Maestre de Santiago don Álvaro de Luna he indicated, in
fact, a series of mistakes made by Luna and that his successors would
not have to repeat in the future, trying instead to follow a line of
straight morality. The more general issue was that of the mutability of
Fortune, together with the consequent criticism of human vanity. It
was a theme present also in Coplas por la muerte de su padre by Jorge
Manrique, a poet who had not had the opportunity to personally meet
Luna, but used his story to attack the excessive attachment of men to
the goods of material life32.
So, using and re-reading the biographical paths of various biblical
and historical figures, the favourite had already assumed, at the
beginning of the sixteenth century, some specific characteristics.
Thanks to the trust of the king, who put him above all the ministers
and counsellors of the kingdom, he accumulated wealth and power, for
himself and his family and allies. The insatiable greed, the inordinate
ambition, the arrogance and the use of flattery were faults frequently
charged to the favourites, though they were destined to struggle with
other courtiers for the king’s favour, with members of the royal family –
in particular with queens –, with a large part of the great nobility and
in general with the envy of those who were excluded from power. The
tragic end, which brought together both the biblical story of Haman in
the Book of Esther as well as the story of Álvaro de Luna, was a warning
and, at the same time, a fate considered inescapable for all the
favourites.
Countless works and authors cited these characters to rebuke the
sins and vices of the favourites, to describe their power within the court
and their influence on the king, but also to point out, at times, the
32
On fifteenth-century poetry centered on the figure of Álvaro de Luna, and more
generally on the privado, see the observations of R.MacCurdy, The Tragic Fall: Don Álvaro
de Luna and other Favourites in Spanish Golden Age Drama, University of North Carolina,
Chapel Hill, 1978, pp. 38-53. MacCurdy also emphasizes that, not coincidentally, on the
occasion of Luna’s death and in the years immediately before and after it, the works on
the theme of Fortune and its mutability multiplied. Among them: fray Lope Barrientos,
Tratado de caso y fortuna; fray Martín de Córdoba, Compendio de la fortuna and Mosén
Diego de Valera, Tratado de Providencia contra Fortuna, in addition to the already cited
El laberinto de Fortuna by Juan de Mena. Besides the analysis of MacCurdy, see also the
interesting study of D. Havener, Some Literary Treatments of Don Álvaro de Luna,
Louisiana State University 1942.
71
Giuseppe Mrozek Eliszezynski
importance of a trusted advisor and a sincere friend to the side of the
sovereign. We may recall, among many other examples, the
aforementioned Juan de Mariana and Pedro de Ribadeneyra, who in
the delicate moment of transition between the reign of Philip II and that
of Philip III, wrote works for the education of the heir to the throne
which also contain interesting references to the debate about the power
of the favourites. In De rege et regis institutione, published for the first
time in 1599, Mariana33 refers to Álvaro de Luna for the great power he
was able to reach: a power for which, however, he “paid with his head”.
For his part Ribadeneyra34, in his Tratado de la religion y virtudes que
debe tener el Principe cristiano para gobernar y conservar sus estados
(1595), presents a real list of biblical and historical examples; he points
out, in addition to the usual Haman, Mordecai, Sejanus, Pier delle Vigne
and Luna, even lesser-known characters, like Parmenion, the loyal
general of Philip II of Macedon and his son Alexander eventually killed
by order of the latter35, or the praetorian prefects Tigidius Perennis and
Marcus Aurelius Cleander, both favourites of the emperor Commodus
and then put to death by their lord. Both for Mariana and Ribadeneyra,
the intent was to warn the protagonists of the political fight at court
about the inevitability of their fall and the temporary nature of their
power, especially in the context of a monarchy, as the one ruled by the
Habsburg kings, where the favourites were, for both authors,
unnecessary and potentially dangerous.
In that same period, in 1594, Antonio Pérez, one of the characters
that were more successful in gaining the trust and esteem of Philip II36,
wrote a letter to a gran privado (great favourite), addressed to the
Marquis of Denia - the future Duke of Lerma - and traditionally
reported as an introduction to the Norte de Príncipes of Álamos de
Barrientos. The brief text is significant, in our discourse, for the
historical reference to a figure who had passed away a few years earlier:
Ruy Gómez de Silva, Prince of Éboli, one of the main characters in the
political struggle at the court of the Rey Prudente. Éboli, who died in
1573, is defined by Pérez as «el mayor maestro de esta ciencia que ha
habido en estos siglos», the word «ciencia» meaning the ability of a
33
On Mariana and his political thought, see H.E. Braun, Juan de Mariana and early
modern Spanish political thought, Ashgate, Aldershot, 2007; J. Mejías López, Juan de
Mariana (1535-1624): un pensador contra su tiempo, ALMUD, Ciudad Real, 2007.
34
J.M. Iñurritegui Rodríguez, La gracia y la república. El lenguaje político de la teología
católica y el «Príncipe cristiano» de Pedro de Ribadeneyra, Universidad Nacional de
Educación a Distancia, Madrid, 1998.
35
References to Parmenion and other generals and “favourites” of Alexander the
Great who were finally killed by the same Macedonian king, such as Clitus and Philotas,
are also present in other authors, for example in G.A. Brancalasso, El Laberinto de Corte
cit., p. 5.
36
G. Marañon, Antonio Pérez. El hombre, el drama, la época, Espasa-Calpe, Madrid,
1947.
72
From the Bible to Álvaro de Luna. Historical antecedents and political models in the debate...
courtier to win and, especially, to retain the favour of his king, thus
giving continuity to his privanza37.
Two works written in the second half of the reign of Philip III were,
instead, absolutely opposed to Lerma and his power. In his Tratado de
república y policia christiana (1615), Juan de Santa María, a tough and
strict opponent of the Sandovals and their government, left open the
possibility that there were favourites useful and valuable for their
sovereign, as was Joseph for the Pharaoh. In historical reality, however,
favourites more often followed the example of Haman, putting his own
interests before the public ones and forgetting how inevitable, sooner
or later, their disastrous fall would be. The judgment of Francisco de
Quevedo on Lerma and in general on the figure of the valido was
instead more changeable and fluctuating over the years38, but in the
first part of his Política de Dios (written in 1617), he certainly took sides
in favour of an ideal form of monarchy in which the king had to make
use of more advisors, always leaving the final decision to himself.
Drawing inspiration from many passages in the Bible, Quevedo
identified in the envy of the excluded people the main danger to the
favourites: the same envy that motivated the murder of Abel by Cain39.
If Jesus had disciples, but not favourites, the rulers had to follow the
same example, also remembering how many Roman emperors were
damaged more by the greed and lust for power of their favourites, than
by the force of their enemies. The relationship between Tiberius and
Sejanus was again taken as a paradigmatic case40.
In addition to these and many other possible examples from works
of political reflection, the references to characters and events of past
ages were numerous in other contexts. A major theme of theatre
literature of the Spanish Siglo de Oro revolved around the Próspera or
Adversa fortuna (prosperous or adverse fortune) of various privados of
the Iberian medieval history, such as Ruy López de Ávalos, Bernardo
de Cabrera, and, as usual, Álvaro de Luna. Damián Salucio del Poyo
and Antonio Mira de Amescua were the principal authors of this
genre41, in the same period in which, in England, Christopher Marlowe
37
On Ruy Gómez de Silva, prince of Éboli, see J.M. Boyden, The Courtier and the
King: Ruy Gomez de Silva, Philip II and the Court of Spain, University of California Press,
Berkeley-Los Angeles-Oxford, 1995.
38
For more details on Quevedo’s swaying judgment on the figure of the favourite,
which was changeable depending on the personal relationship that linked him to the
valido of the moment (Lerma or, later, Olivares), see P. Jauralde Pou, Francisco de
Quevedo (1580-1645), Castalia, Madrid, 1998.
39
F. de Quevedo, Política de Dios cit., edited by J.O. Crosby, Castalia, Madrid, 1966,
pp. 44-45.
40
Ivi, p. 246.
41
Salucio del Poyo wrote two works centered on the figure of Ruy López de Ávalos,
favourite of Henry III of Castile and then his successor John II: La próspera fortuna del
73
Giuseppe Mrozek Eliszezynski
wrote Edward II (1592), Ben Johnson Sejanus His Fall (1605) and
William Shakespeare Henry VIII (1612-1613)42.
Rodrigo Calderón, in some ways the human symbol of the
government of the Duke of Lerma, the valido of the valido, was the only
member of the Sandoval faction who paid for his unbelievable social
and political rise with a public execution, on 21 October 1621, in the
Plaza Mayor of Madrid43. The death, which took place at the hands of
the executioner in a Plaza Mayor, was not, however, the only point in
common with the life of the most famous privado in Castilian history.
In February 1619, shortly after his arrest in Valladolid, Don Rodrigo
had been locked up in the same house that had belonged to Álvaro de
Luna, maybe wanting to establish a historical parallel that his accusers
would certainly have enjoyed.
The figure of Luna returned also at the end of the historical period
dominated by the Sandovals. After the death of Philip III, being a cardinal
protected Lerma from a criminal trial, as happened for his relatives and
criados44. The old valido ended up being involved in just a civil trial,
which dealt with the many mercedes (noble titles, land holdings,
pensions) received by him during the reign of Philip III, in particular the
privilege, granted to him in 1601, for the annual export of 15,000 salmas
of wheat from Sicily, later replaced with an annual income of 72,000
ducats. The order of the new king to cancel with immediate effect this
annuity and confiscate any donations received by Lerma started a trial
that the Cardinal Duke, in truth, initially tried to avoid in every way45.
An important part of this trial dealt with the past of the Sandoval family
and the interpretation of a delicate phase of Castilian history.
After the decision of Philip IV to promote a judicial inquiry in charge
of Lerma and his family, the old favourite inaugurated his defensive
famoso Ruy López de Ávalos and La adversa fortuna del muy noble Caballero Ruy López
de Ávalos. The protagonist of the third work of Salucio del Poyo is instead Álvaro de
Luna: Privanza y caída de Don Álvaro de Luna. On this author, see L. Caparrós
Esperante, Entre validos y letrados. La obra dramática de Damián Salucio del Poyo,
Universidad de Valladolid, Valladolid, 1987. Mira de Amescua used the same structure
introduced by Salucio del Poyo in La próspera fortuna de Don Álvaro de Luna y adversa
de Ruy López Dávalos, dated around 1624 and followed by La adversa fortuna de don
Álvaro de Luna.
42
L. Bradner, The Theme of Privanza in Spanish and English Drama, 1590-1625, in
D. Kossoff, J. Amor y Vázquez (eds.), Homenaje a William L. Fichter. Estudios sobre el
teatro antiguo hispánico y otros ensayos, Castalia, Madrid, 1971, pp. 97-106; B. Worden,
Favourites on the English Stage, in J.H. Elliott, L.W.B. Brockliss (eds.), The World of the
Favourite cit., pp. 159-183.
43
S. Martínez Hernández, Rodrigo Calderón, la sombra del valido. Privanza, favor y
corrupción en la corte de Felipe III, Marcial Pons Historia, Madrid, 2009.
44
For more details about the trials against Alonso Ramírez de Prado, Pedro
Franqueza, Rodrigo Calderón and the Dukes of Uceda and Osuna, see G. Mrozek
Eliszezynski, Bajo acusación cit.
45
Lerma sent various letters to the king in order to avoid the trial: see for example
Bne, Mss. 7377, ff. 321r, 324r. The last one is also in Bne, Mss. 8252, ff. 22v-23r.
74
From the Bible to Álvaro de Luna. Historical antecedents and political models in the debate...
strategy46. With specific reference to the merced of 15,000 salmas of
wheat, he reminded that it had been granted, in 1601, as a reward for
the many services provided by the Duke to the Crown, and further
justified by all the merits, the works and the huge costs incurred by
Lerma in the following years passed alongside Philip III. In addition to
these motivations, one could consider the will of the king of celebrating
the deeds and the blood spilled by the Sandovals in the history of
Castile. 15,000 salmas of wheat, a prize inevitably insufficient to
compensate so many services given to the kings of Castile, were later
converted to an annuity of 72,000 ducats, and Lerma had not gained
anything from that switch. The Cardinal Duke also asked why he was
the only one who had to justify the mercedes received, while so many
aristocratic families, which in the past had been benefited in the same
way, continued to enjoy the just rewards bestowed on their ancestors.
Investigations continued slowly in the months and years that
followed47. In 1623 the public prosecutor presented his indictment
against Lerma48. In the petición of 19 December, Juan Chumacero49
specified as the laws prescribed that the assets and incomes of the
Crown could be alienated only when there was an urgent need to award
great and loyal services, and always following the approval of the
competent council and six procuradores of the cortes50. This process
had not been respected, especially because the Sandovals, unlike all
the other aristocratic families who had shed their blood in defense of
the Crown of Castile, continued to claim honours and riches by virtue
of deeds for which they had already been amply rewarded in the past
and did not require additional awards. Then the Duke of Lerma, with
all the posts and honours he had received, “tubo maior gratificacion que
hasta oy se ha dado a vassallo”51.
Bne, Mss. 8512, ff. 2v-4r.
In 1622, both the prosecution and the defense presented the inventory of the assets
and incomes of Lerma: Bne, Mss. 13239, Relación de las mercedes hechas al Duque de
Lerma, de Domingo de la Torre y Ureca. Madrid, 8 de marzo 1622, ff. 418-421v; Relación
de las rentas del Duque de Lerma, embargadas por Domingo de la Torre, ff. 429r-433r;
Descripción e inventario de las rentas, bienes y hacienda del cardenal duque de Lerma,
Valladolid 1622. See P. Williams, The great favourite cit., pp. 253-255; A. Alvar Ezquerra,
El Duque de Lerma cit., pp. 465-473.
48
Bne, Mss. 2355, Chumacero (Don Juan) petición que dió contra el Duque Cardenal
de Lerma; sobre las exorvitantes mercedes que gozaba desde el tiempo que estubo en la
gracia de Phelipe 3°, ff. 466r-473v; Rah, 5-805, Por el real patrimonio de Su Magestad
con el señor Cardenal Duque de Lerma sobre la donación de las quinze mill tratas de la
medida mayor de saca perpetua del reyno de Sicilia, que se comutó en setenta y dos mill
ducados de renta, moneda de castilla, ff. 1-84r.
49
S. Granda Lorenzo, Chumacero, Juan, in Diccionario biográfico español, Real
Academia de la Historia, Madrid, 2009, vol. XIII, pp. 564-567.
50
Rah, 5-805, ff. 1r-2v, 23v-24r.
51
«He had more gratification that any other vassal until now»: Bne, Mss. 2355, f. 470r.
46
47
75
Giuseppe Mrozek Eliszezynski
The defense of the Duke of Lerma, led once again by the licenciado
Francisco de la Cueva y Silva52, specified that the mercedes had been
granted to the favourite as a result of a contrato remuneratorio, ie the
obligation, on the part of the sovereign, to reward adequately those who
had best served him53. It was therefore unthinkable and unproven,
according to the defense, that Lerma had obtained the merced of the
wheat bypassing the king or deceiving him about its real value. Indeed,
Philip III had given it voluntarily, even judging it insufficient for the
merits of the Duke and his ancestors, and there was no reason to
question, twenty years later, the evaluation of the king. Financial
issues did not release the sovereign from the obligation to reward his
subjects, because the observance of the agreements by the king and
the just reward for deserving vassals were more important than the
debt situation. Many historical examples of mercedes similar to those
attributed to Lerma could be recalled, but nobody was asked to return
rights and properties which had been enjoyed for so long.
Great emphasis was also placed by the defense on the historical
merits of the Sandoval clan, on the generations that had followed in
the service of the Crown and that fully justified the awards conferred
to the Cardinal Duke. In a memorial presented by the lawyers of
Lerma54, the whole family history was revisited starting from Diego
Gómez de Sandoval, Count of Castro, who in 1448 was stripped of all
his properties: unfairly according to the defense, which identified in
the sequestration the aversion of Álvaro de Luna to all the aristocrats
disinclined to accept his power; rightly according to the prosecution,
who reproached the ancestor of Lerma for an act of insubordination
against the king. From that date, the history of the Sandovals had
developed as an endless pursuit of the lands and properties lost, that
in the meantime had been assigned, in many cases, to members of
52
Francisco de la Cueva y Silva and his brother Antonio were the lawyers who
defended Calderón, Lerma, Osuna and Uceda in the trials that marked the beginning of
the reign of Philip IV. About them, E. Lucero Sánchez, De la Cueva y Silva, Francisco, en
Diccionario biográfico español, Real Academia de la Historia, Madrid, 2009, vol. XV, pp.
460-462.
53
Bne, Mss. 3999, Francisco de la Cueva y Silva: memorial a Su Majestad defendiendo
al Duque de Lerma de la acusación de haber hecho despachar en su favor la merced de
quince mil salmas de trigo al año sacado de Sicilia, ff. 51r-84v; Rah, 9-3646, Por el señor
Cardenal Duque de Lerma contra el señor fiscal sobre el amparo de possessión en la
merced de las 15.000 salmas y commutación dellas, ff. 1-19v; Rah, 5-805, Por el señor
Cardenal Duque de Lerma con el señor fiscal sobre el amparo de possessión, ff. 1-4v.
Furthermore, see the reflections on this theme of B.J. García García, “Fermosa gracia
es la quel rey faze por merecimiento de servicio”. Proceso y justificación de las mercedes
otorgadas al valido (1618-1624), in A. Esteban Estríngana (ed.), Servir al rey en la
Monarquía de los Austrias. Medios, fines y logros del servicio al soberano en los siglos XVI
y XVII, Sílex ediciones, Madrid, 2012, pp. 321-359, pp. 333-343.
54
Ahn, sección Nobleza Toledo, Osuna, c. 2455, d. 3, Por el señor Cardenal Duque de
Lerma con el señor fiscal, ff. 443r-459r.
76
From the Bible to Álvaro de Luna. Historical antecedents and political models in the debate...
other great and illustrious Castilian families. The promises of the
various rulers who followed one another on the throne had never been
fully kept, according to the reconstruction of the lawyers of Lerma,
until Philip III commissioned the best jurists of his kingdom to find the
most equitable solution to the centuries-old question. The properties
that were returned to the Sandovals were not therefore the result of a
king’s act of generosity, as alleged by the prosecution, but an act of
justice that the same Philip III, in 1607, had tried to make
unassailable55.
For the defense of the old valido also his heir, the son of Uceda and
second Duke of Lerma, intervened in 1624. He wanted to fight for the
recognition of the Sandovals’ merits, and in particular the Cardinal
Duke’s work at the service of the king of Spain. Through a dense
memorial56, the new head of the Sandoval clan was able to repeat the
main arguments introduced in previous years by his grandfather and
his lawyers. Faced with such a difficult economic situation, the
mercedes granted to a single subject had certainly not been the trigger
of the crisis, considering moreover the merits of the subject in question
and his ancestors.
Despite the attempts of the Cardinal Duke to delay the judgment as
much as possible57, the mercedes which had been awarded by Philip
III were officially revoked on 23 March 162558. In the weeks that
followed, the heirs of Lerma, represented by the second Duke of Uceda
and the new Count of Lemos59 and backed by the nuncio Sacchetti60,
Ivi, f. 456r.
Bne, VE/182/95, ff. 118r-148r.
57
Bne, Mss. 2355, Cédula real despachada por la junta particular sobre las mercedes
hechas al Cardenal Duque de Lerma, sus hijos y criados por el Rey Phelipe 3° para que se
le notificase al dicho Cardenal el estado que tenía este negocio en la dicha junta y le parase
perjuicio, ff. 463-465.
58
Ahn, sección Nobleza Toledo, Osuna, c. 2040, d. 1.
59
Francisco de Castro became the VIII Count of Lemos after the death of his elder
brother Pedro, who had been a loyal ally of his uncle Lerma in the court of Philip III. See
V. Favarò, Carriere in movimento. Francisco Ruiz de Castro e la monarchia di Filippo III,
Associazione Mediterranea, Palermo, 2013; G. Mrozek Eliszezynski, Service to the King
and Loyalty to the Duke. The Castro Family in the Faction of the Duke of Lerma, in R.
González Cuerva, V. Caldari (eds.), The Secret Mechanisms of Courts: Factions in Early
Modern Europe, «Librosdelacorte.es», Monográfico 2 (2015), pp. 68-79.
60
In addition to the arguments of prosecutors and defenders, a key role in the
resolution of the affair that dealt with Lerma and his mercedes was done by international
diplomacy, especially by nuncios Innocenzo de’ Massimi and Giulio Sacchetti. The work
of the two nuncios about this matter, with the repeated instructions they received from
Rome, can be reconstructed through their correspondence. For the years 1623-1625,
the original correspondence of Innocenzo de’ Massimi that contains references to the
trial on the mercedes of Lerma is in Asv, Segreteria di Stato, Spagna, 64, ff. 12r-189v;
the references to the same trial in the original correspondence of Giulio Sacchetti are
instead in Bav, Barb. lat., 8297, 8298, 8299 and in Asv, Segreteria di Stato, Spagna, 64,
ff. 11r-858v.
55
56
77
Giuseppe Mrozek Eliszezynski
continued to lobby until they obtained an annual annuity of 24,000
ducats for their relative, 16,000 of which would then be passed to the
same heirs after the death of the Cardinal Duke61. Lerma died just
three days after reaching this agreement, on 17 May, at his residence
in Valladolid62.
Beyond the final judgment, the trial against the old valido of Philip
III is a clear example of re-interpreting of the past in order to condemn
or justify facts and characters of the present. The political use of
history was therefore an instrument that was used not only in the rich
political literature on the favourite, but also in some concrete episodes
of political struggle. The entire career of the man who dominated the
court of Philip III was reinterpreted in the light of a series of events that
had involved his family in the previous centuries. The origin of the
misfortunes of the Sandovals was identified, both by the prosecution
and the defense, in an era dominated by the most famous historical
antecedent of the favourites of the seventeenth century. The lawyers
of Lerma chose different strategies to demonstrate how the donations
made by the sovereign to his chief adviser had been lawful and
legitimate63. One of these strategies drew inspiration from the story of
the Sandoval family, and presented all that Lerma had achieved during
the reign of Philip III as a just compensation for the titles, feuds and
honour that had been unjustly taken from the Sandovals during
dynastic struggles that had divided the Castile of the fifteenth century.
The responsibility for these events was attributed, in the reconstruction
of the lawyers, just to Álvaro de Luna, the favourite of John II who had
punished those who had rebelled against his sovereign, taking away
their lands and titles and condemning them to exile from Castile. Once
again, Luna was accused of having exercised an arbitrary and
illegitimate power, which answered only to his lust for power and
wealth. Once again, he was cited as an example par excellence of the
bad favourite. In this way, a thread ideally linked him, the most
powerful privado of fifteenth century Castile, to the gran valido of the
Spain of Philip III.
Bav, Barb. lat., 8298, ff. 112r-v; 8299, ff. 10r-v.
Cfr. P. Williams, The great favourite cit., pp. 259-260.
63
G. Mrozek Eliszezynski, Bajo acusación cit.; B.J. García García, “Fermosa gracia
es la quel rey faze por merecimiento de servicio” cit.
61
62
78
Francisco Precioso Izquierdo
¿LA EDAD DE LA POLÍTICA? BALANCE HISTORIOGRÁFICO DE
LOS ESTUDIOS SOBRE COMUNICACIÓN E INFORMACIÓN
POLÍTICA EN LA SOCIEDAD IBÉRICA MODERNA*
RESUMEN: Los estudios sobre política y su impacto y circulación entre la sociedad moderna, han
solido limitar su expansión a un número reducido de personas del entorno más próximo a los
grandes actores cortesanos frente a la tradicional “indiferencia” del común. Sin embargo, gracias
a la renovación de la historiografía de lo político y a su interés por áreas culturales y sociales ajenas a su tradicional consideración, en las últimas décadas se ha descubierto un interesante
terreno de experiencias políticas que nos puede servir como atalaya para conocer la difusión de
la información sobre los hechos políticos también entre “gente corriente”. A nuestro juicio, es un
momento adecuado para evaluar el desarrollo de un fenómeno historiográfico carente de cierta
sistematicidad, razón por la que planteamos este balance crítico y analítico sobre la sociedad
ibérica del Antiguo Régimen.
PALABRAS CLAVE: Historiografía; Información y comunicación política; Experiencia política común;
Politización, Sociedad ibérica.
AN AGE OF POLITICS? STATE OF THE MATTER OF COMMUNICATION STUDIES AND POLITICAL
INFORMATION IN MODERN IBERIAN SOCIETY
ABSTRACT: Studies on the impact and circulation of policy in the modern age society, have limited
their expansion to a small number of people nearest to the great courtiers versus traditional "indifference" of the ordinary people. However, thanks to the renewal of the political historiography,
it has found an interesting field of political experiences that reveals a perceptible expansion of
the political information also among "ordinary people". In our opinion, we believe it is appropriate
moment to evaluate the development of this historiographical phenomenon, why we propose
this critical and analytical assessment of the most relevant bibliographic production on the
Iberian society of Old Regime.
KEYWORDS: Historiography; Information and communication policy; Experience common political;
Politicization; Iberian society.
Razones de un balance historiográfico
Tradicionalmente, el estudio de la política1 solía priorizar el
protagonismo de las élites de gobierno –responsables últimas de las
decisiones que contribuían a fijar la acción de la monarquía– o como
* Este texto ha sido realizado en el marco del proyecto de investigación postdoctoral
(19816/PD/15), concedido por la Fundación Séneca (Agencia de Ciencia y Tecnología
de la Región de Murcia) y desarrollado en el Instituto de Ciências Sociais da Universidade
de Lisboa. Así mismo, forma parte de los proyectos de investigación: «Nobilitas IIEstudios y base documental de la nobleza del Reino de Murcia, siglos XV-XIX. Segunda
fase: análisis comparativos», financiado por la Fundación Séneca, Agencia de Ciencia y
Tecnología de la Región de Murcia (15300/PHC/10) y «Familias e individuos: Patrones
de modernidad y cambio social (siglos XVI-XXI)», financiado por el Ministerio de
Economía y Competitividad (HAR2013-48901-C6-1-R).
1
Empleamos el término con un significado similar al utilizado por Burke para definir
su política como: «asuntos de Estado, refiriéndome no a los acontecimientos locales, sino
n. 36
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Aprile 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
79
Francisco Precioso Izquierdo
mucho el de las élites intelectuales –cercanas normalmente al poder–
conformadoras de la cultura política del momento. Cifrada en términos
restringidos, limitada a espacios privilegiados como la corte, la
administración o las embajadas diplomáticas, sus protagonistas no
eran otros que los grandes estadistas y hombres de excepción, desde el
monarca a sus secretarios, ministros o consejeros hasta las
personalidades más sobresalientes del mundo de la Iglesia, la cultura
o el ejército, cuyos discursos o correspondencias se constituían en la
expresión única de las variables políticas de su tiempo.
Unos pocos ante la general pasividad o la indiferencia del resto de
la población, mayoría silenciosa que nada tenía que decir en un ámbito
ajeno por completo al interés del común o gente corriente, incapaces de
entender las disquisiciones de la gran política, al margen por completo
de un mundo que no era el suyo. Excepcionalmente, podrían verse
envueltos en tumultos o revueltas contra un gobernante injusto o
reclamando viejos privilegios comunitarios, pero siempre como meros
figurantes que participaban en procesos que les superaban. Reducidos
a un plano completamente marginal, los términos comenzarían a
equilibrarse a partir de la segunda mitad del siglo XVIII, más
concretamente en 1789, fecha que se tomaba como referencia para
datar la mayoría de edad política de la población común. De la noche
a la mañana, los ayer súbditos se convertían en activos ciudadanos
que comenzaban a deliberar y participar en elucubraciones ideológicas,
leían periódicos, intervenían en reuniones o formaban parte de los
clubes políticos de sus localidades, dando cuerpo ya a esa primera
forma de socialización o esfera política conocida como opinión pública2.
Esta lectura tradicional –trazada grosso modo– de la politización del
hombre común en la sociedad moderna, contribuía a explicar la
centralidad que ocupa la política en las sociedades contemporáneas
mediante una perspectiva lineal, sin muchas complicaciones y en
exceso finalista. Arrancando en un estadio pre político, el común iría
progresivamente concienciándose hasta que –llegado un momento
determinado– lograba adquirir un protagonismo sin igual a finales del
setecientos. Una interpretación apenas cuestionada durante décadas
que sólo en los últimos años ha comenzado a ser revisada y puestas en
tela de juicio algunas de sus conclusiones más significativas, lo que ha
dado lugar a un interesante giro historiográfico que obedece, entre
a aquellos que preocupaban a los gobernantes: la sucesión, la guerra, los impuestos y
los problemas económicos y religiosos que atraían la atención de los gobiernos», Peter
Burke, Cultura popular en la Europa Moderna, Madrid, 2014, p. 334.
2
J. Raymond, The invention of the Newspaper. English newsbooks (1641-1649),
Oxford University Press, New York, 1996.
80
¿La edad de la política? Balance historiográfico de los estudios sobre comunicación e...
otras razones, a la intensa renovación experimentada por la propia
historiografía política.
Contextualizado en un proceso paralelo de replanteamiento de los
viejos paradigmas estructuralistas, la reciente evolución de la historia
política ha traído consigo la expansión del fenómeno político a niveles
prácticamente desconocidos3. Influidos por las tempranas críticas
recibidas desde Annales y las corrientes más cercanas al materialismo
histórico, los historiadores actuales dedicados al estudio de la política
han logrado dejar atrás los excesos más superficiales y abrir la materia
a nuevas esferas de “gestión de lo real”, llegando a disputar con garantía
en sedes historiográficas extrañas a la consideración más clásica de la
materia (desde la familia, a las finanzas, pasando por lo militar o las
mentalidades4). En este proceso de expansión, lo político ha terminado
por recuperar un protagonismo destacado como objeto de estudio en sí
mismo, analizándose hoy múltiples y “desconocidas” dimensiones que
oscilan desde lo discursivo hasta lo práctico, cuestiones relacionadas
con el mundo de las representaciones, el imaginario colectivo,
memorias, biografías, etc5.
Esta renovación ha jugado a favor de un sugerente acercamiento a
otras disciplinas historiográficas, como la social y muy especialmente la
cultural6. De esta última relación, ha resultado un notable
enriquecimiento que ha permitido retomar cuestiones clásicas de debate
formuladas e interpretadas ahora a través de nuevas perspectivas, como
la secular polémica sobre la experiencia política de la gente corriente. No
es de extrañar que haya sido desde la historia cultural donde más
3
P. Balmand, La renovación de la Historia política, en G. Bourdé y H. Martin, Las
escuelas históricas, Akal, Madrid, 1992, pp. 252-254; S. Berstein, La Historia política en
Francia, en R. Remond (ed.), Hacer la Historia del siglo XX, Biblioteca Nueva-Casa de
Velázquez, Madrid, 2004, pp. 227-234; E. Hernández Sandoica, La nueva Historia
política, en E. Hernández Sandoica Tendencias historiográficas actuales. Escribir Historia
hoy, Akal, Madrid, 2004, pp. 422-435; F.-X. Guerra, El renacer de la Historia política:
razones y propuestas, en J. A. Gallego (ed.), New History, Nouvelle Histoire, Hacia una
nueva Historia, Actas, Madrid, 1993, pp. 221-245; una reciente reflexión sobre la política
en la Edad Moderna, véase: Saúl Martínez Bermejo, ¿Cómo pensamos la política de la
edad moderna? una reflexión historiográfica/personal, «L’Atelier du Centre de recherches
historiques, revista electrónica», n. 7 (2011) [En línea].
4
Una evolución de la que son testigos los trabajos publicados por Xavier Gil Pujol
recopilados en su obra Tiempo de política. Perspectivas historiográficas sobre la Europa
Moderna, Universidad de Barcelona, Barcelona, 2006.
5
Basta ojear el índice de una de las obras fundacionales de la nueva Historia Política
para percatarnos del cambio temático, de perspectivas y de preocupaciones de la materia,
véase: R. Remond (dir.), Pour une histoire politique, Editions du Seuil, París, 1988.
6
Una confluencia advertida desde ambas ramas historiográficas, véase: P. Burke,
¿Qué es la historia Cultural?, Paidós, 2006, pp. 128-131; X. Gil Pujol, Política como
cultura, en X. Gil Pujol, Tiempo de política. Perspectivas historiográficas sobre la Europa
Moderna cit., pp. 397-421.
81
Francisco Precioso Izquierdo
alternativas se hayan propuesto para superar los viejos lugares comunes
acerca de la propia conciencia política del común. De hecho, fue un
historiador de la cultura como Peter Burke quien –en su famosa Cultura
popular en la Europa Moderna– rebatía en términos actuales el plácido
consenso sobre el estadio pre político de los europeos previo a 1789,
impugnando el habermasiano “desinterés político” con el que
historiadores, politólogos y sociólogos solían juzgar a los hombres y
mujeres del Antiguo Régimen, afirmando como rasgo característico de
las actitudes de los europeos entre 1500 y 1800, la “politización de la
cultura popular7”. Un proceso que Burke conectaría directamente con
“la centralización de los Estados y el crecimiento de los ejércitos”,
tendencias que para el historiador británico provocaron una notoria
expansión de la política en la vida cotidiana: a medida que los
gobiernos europeos incrementaban las demandas sobre sus súbditos,
exigiéndoles más impuestos y logrando un mayor número de efectivos
en sus ejércitos, la política iría abriéndose paso entre el común8.
También Roger Chartier insistió poco después en la creciente
politización del mundo rural del Antiguo Régimen, advirtiendo en su
análisis sobre el campesinado francés anterior a la Revolución, el nuevo
sentido político con el que comenzaban a distinguirse viejos usos y
prácticas populares9.
Junto a los anteriores, otros muchos historiadores de la cultura se
han esforzado en apuntar nuevas claves que dibujan unas condiciones
socio-culturales propicias cuanto menos para la extensión y
popularización de la información política, señalándose entre otras
causas, el paulatino avance en las tasas de alfabetización, el impacto
del descubrimiento y generalización de la imprenta, el desarrollo de los
sistemas de comunicación a larga distancia, el perfeccionamiento de
las técnicas de propaganda o la persistencia de las formas orales y
visuales de la cultura comunicativa10.
Dotados de herramientas que facilitarían la percepción y difusión de
noticias e información del más variado contenido, hoy sabemos que la
P. Burke, Cultura popular en la Europa Moderna cit., pp. 333-347.
Ibidem, p. 346.
9
R. Chartier, Culture populaire et culture politique dans l’Ancien Régime: quelques
reflections, en K. M. Baker (ed.), The political culture of the Old Regime, vol. 1, Pergamon,
Oxford, 1987, pp. 243-258; sobre el trabajo anterior de Chartier, véase: X. Gil Pujol,
Culturas políticas y clases dirigentes regionales en la formación del estado moderno: un
punto de inflexión, en M. Lambert-Gorges, Les élites locales et l'etat dans l’Espagne
moderne, XVIe-XIXe siècle, CNRS, París, 1993, pp. 171-192.
10
La cita de la bibliografía disponible de cada uno de los elementos anteriores
rebasaría con creces los objetivos de este texto; para ampliar, remitimos a los aparatos
críticos de algunas de las obras más significativas al respecto: T. Egido López, Opinión
Pública y oposición al poder en la España del siglo XVIII, Valladolid, 1971; M. Fogel, Les
7
8
82
¿La edad de la política? Balance historiográfico de los estudios sobre comunicación e...
política no tenía –necesariamente– porqué estar excluida del panorama
habitual de las sociedades modernas, no siendo tan radicalmente ajena
a las preocupaciones, conversaciones, chismes o cotilleos de una parte
de la población11. Una amplia gama de medios, efímeros o duraderos,
bien escritos como orales o visuales, podían combinarse para mantener
al tanto de los principales acontecimiento políticos a una masa no tan
indiferente a ciertas decisiones adoptadas en la corte.
Obviamente el grado de politización no sería el mismo en todo el
continente ni en todas las épocas, como tampoco debemos caer en la
tentación de suponer entre las prioridades esenciales del común,
conocer las últimas novedades del Reino. No se trata de contemporizar
al hombre moderno dotándolo de una identidad parecida a la nuestra,
sino de reconocer su posible disposición por aquellas cuestiones que
antes o después podían incidir en su día a día o ser fruto –simplemente–
de un interés natural por una política y unos gobernantes que sabían
exhibirse, representarse y llegar a la comunidad12. De igual forma, no
hemos de menospreciar factores como el clientelismo o la dependencia,
móviles que solían esconderse normalmente tras una movilización, una
denuncia anónima o críticas públicas hacia tal o cual autoridad, lo que
nos ayuda a relativizar el grado de espontaneidad o sinceridad del
interés del común por este tipo de información13.
Cérémonies de l’information dans la France du XVIe au XVIIIe siècle, Fayard, 1989; J. Álvarez
Timoteo, Del viejo orden informativo: introducción a la historia de la comunicación, la
información y la propaganda en Occidente, desde sus orígenes hasta 1880, Actas, Madrid,
1991; D. Freedberg, El poder de las imágenes: estudios sobre la historia y la teoría de la
respuesta, Càtedra, Madrid,1992; R. Chartier, Espacio público, crítica y desacralización en
el siglo XVIII, Gedisa, Barcelona, 1995; P. Burke, Hablar y callar, Gedisa, Barcelona, 1996;
G. Cavallo y R. Chartier (dirs.), Historia de la lectura en el mundo occidental, Madrid. 1999;
P. Burke y A. Briggs, De Gutenmber a Internet. Una historia social de los medios de
comunicación, Madrid, Taurus, 2002, pp. 394-395; J. Amelang, Clases populares y
escritura en la Europa Moderna, en A. Castillo Gómez (coord.), La conquista del alfabeto:
escritura y clases populares, Gijón, Trea, 2002, pp. 53-70; F. Waquet, Parler comme un
livre. L’oralité et le savoir (XVIe - XXe siècle), Albin Michel, Paris, 2003; G. Ledda, La parola
e l immagine: strategie della persuasione religiosa nella Spagna seiscentesca, Pisa, 2005;
F. Bouza Álvarez, Corre manuscrito: una historia cultural del Siglo de Oro, Madrid, 2008;
R. Chartier y C. Espejo, La aparición del periodismo en Europa: comunicación y
propaganda en el Barroco, Marcial Pons, Madrid, 2012; A. Castillo Gómez y V. Sierra Blas
(coords.), Cinco siglos de cartas: historia y prácticas epistolares en las épocas moderna y
contemporánea, Universidad de Huelva, Huelva, 2014.
11
A. Bellany, The Politics of Court Scandal in Early Modern England. News Culture and
the Overbury Affair, 1603-1660, Cambridge University Press, Cambridge, 2002.
12
A. Castillo Gómez, Entre la pluma y la pared. Una historia social de la cultura en los
siglos de Oro, Akal, Madrid, 2006, pp. 7-8.
13
A. M. Hespanha, La gracia del derecho. Economía de la cultura en la Edad Moderna,
Centro de Estudios Constitucionales, Madrid, 1993, pp. 151-176; J.-F. Médard, Le
rapport de clientèle, «Reveu française de science politique», n. 26 (1976), pp.103-131; J.
Martinez Millán, Las investigaciones sobre patronazgo y clientelismo en la Administración
83
Francisco Precioso Izquierdo
Así mismo, no debemos concebir al público receptor o emisor de
información como un grupo homogéneo que recibe o emite por igual una
noticia, pero tampoco limitarnos a la clásica contraposición entre público
“elitista” y “popular”, por cuanto la comunicación a la que aludimos
conectaba directamente con una población genérica aunque cultural y
socialmente diferenciada. Nos referimos, pues, a procesos de “exposición”
y “transmisión” de información política entre aquellos que no
participaban directamente en la toma de decisión y que carecían de
recursos informativos propios y privilegiados para seguir su evolución
por otros medios. Semejante expansión impone, necesariamente,
reconocer ciertas precauciones relativas a la conveniente diferenciación
de grados de distancia cultural y clases de público, así como las
estrategias de difusión, los intereses pretendidos, hasta el efecto o las
consecuencias generadas por la comunicación. Sin embargo, tales
prevenciones no invalidan nuestra hipótesis inicial sobre el alcance cada
vez mayor de la información y el interés más temprano de la sociedad en
general por las cuestiones de la alta política. Una realidad que por encima
del aspecto zigzagueante y coyuntural que podría derivarse de esta forma
de politización, con picos y valles dependiendo de los acontecimientos,
deja entrever una sorprendente tendencia estructural de la experiencia
política del común14, lo que constituye uno de los avances más
significativos logrados por los estudiosos que se han ocupado de tales
posibilidades15.
Esta expansión del interés por la información política a lo largo
del periodo moderno, puede seguirse –a nuestro juicio– a través de
una doble vía. La primera, denominada “administrativa”, implicaría
la actividad de las autoridades involucradas en el propio sistema,
participando en la puesta en escena o trivialización de la información
entre una población que recibía una primera comunicación a través
de los filtros e intereses del establishment. En esta especie de
“autorretrato del poder” –en palabras de Guy Debord16–, la
de la Monarquía Hispana durante la Edad Moderna, «Studia Histórica. Historia Moderna»,
n. 15 (1996), pp. .83-106; J. Moreno Luzón, El clientelismo político: Historia de un
concepto multidisciplinar, «Revista de estudios políticos», n. 105 (1999), pp. 73-95.
14
A lo largo del artículo utilizaremos expresiones como “experiencia política”,
“politización del común”, “exposición política” o “popularización” para evitar
precisamente los riesgos de otras denominaciones que dejan entrever ciertas lecturas
apriorísticas incapaces de advertir suficientemente la complejidad y diversidad de
públicos y contextos; al respecto, véase la reflexión de Daniel Cefaï, Diez propuestas para
el estudio de las movilizaciones colectivas. De la experiencia al compromiso, «Revista de
Sociología», n. 26 (2011), pp. 137-166.
15
P. Burke, Cultura popular en la Europa Moderna cit., p. 345.
16
G. Debord, La sociedad del espectáculo, Ediciones Naufragio, Santiago de Chile,
1995, p. 24.
84
¿La edad de la política? Balance historiográfico de los estudios sobre comunicación e...
propaganda y los diversos medios de difusión empleados en la
popularización de lo que interesaba transmitir (desde pregones,
rituales festivos hasta liturgias religiosas o luminarias para la
ocasión), así como los especias puestos a disposición de dicha
teatralización (los propios concejos, salas capitulares de iglesias
y conventos, púlpitos y calles públicas, son completamente
determinantes.
Esta primera forma de exposición y comunicación política,
orientada ya a la formación controlada de una primigenia opinión, se
completaría con una segunda forma “no administrativa” que venía a
satisfacer el interés de parte del público receptor por valorar –de
alguna forma críticamente– lo comunicado desde filtros oficiales. Se
trataba de una comunicación más horizontal que vertical, trabada a
partir de todo un iter comunicativo que enlazaba el mensaje recibido
inicialmente con las sucesivas re-elaboraciones hasta sus
consecuencias finales. De ahí que sea preciso destacar los medios
(escritos, orales o visuales) puestos al servicio de esta nueva difusión
–más trivial que la anterior– de la información política, subrayando
ya una amplia gama de herramientas que van desde los libelos,
pasquines o sermones a las sátiras, relaciones de avisos o la
correspondencia privada, hasta los espacios empleados para la
emisión y recepción de la comunicación (domésticos, laborales, de
ocio o recreo) y la propia exposición diferenciada y niveles de interés
de los actores implicados.
Ambas categorías son empleadas con un claro matiz instrumental,
excluyendo cualquier otra consideración, ya que ni una ni otra forma
de politización tenía límites totalmente precisos; a veces una era
consecuencia de la otra y ninguna escapaba a los objetivos del poder
y los poderosos; en ocasiones, bastaba con la vía administrativa para
mantener mínimamente informada a la comunidad; en otras, solían
ser pequeños grupos de composición heterogénea –no ajenos a los
intereses en juego– los que buscaban información complementaría y
lograban transmitirla a su vez a otros círculos próximos. Esta segunda
forma es, sin duda, la más difícil de historiar. Si la documentación
suele ser fragmentaria y escasa, la labor de reconstruir la larga cadena
de intereses y filtros seguidos hasta la aparición de un pasquín o una
denuncia pública, se antoja una tarea ímproba. No obstante, tanto una
como otra han servido para mostrar multitud de ejemplos en los que
se puede advertir la intervención “consciente” del común en ciertos
acontecimientos políticos de notoria gravedad. La historiografía
anglosajona, especialmente, ha destacado la participación de “gente
corriente” en momentos tan significativos como la Reforma Protestante,
las Guerras de Religión o la Revolución inglesa, coyunturas en las que
85
Francisco Precioso Izquierdo
se demostraría la capacidad del común para “dar forma” a su propia
historia17.
En el caso de la historiografía española y portuguesa, los últimos
años han conocido un gran número de trabajos que han servido para
cuestionar –al menos– ese desarrollo unívoco del interés por la política
como movimiento lineal que vendría a desembocar en las décadas
finales del siglo XVIII. El propio Maravall, en sus estudios sobre la
cultura del Barroco, consideraba ya la sociedad del siglo XVII como una
organización participada por las primeras formas culturales de masas,
lo que a su juicio, derivó en una tímida pero perceptible extensión de la
política a otros espacios de discusión como la calle18. En este sentido,
Bouza Álvarez también parece retrotraer a fechas más remotas la
maduración del debate político y el interés de la monarquía por
controlar las opiniones del común19. Michele Olivari tampoco ha dudado
y se ha atrevido a situar en los comienzos del siglo XVII, la formación
de una genuina opinión pública en la España del momento20, al igual
que Alabrús Iglesias, quien ha localizado en el Siglo de Oro el núcleo
embrionario de una “opinión política” todavía “no pública”21.
También en la historiografía portuguesa encontramos preocupaciones similares. Aunque en menor número que la española, no faltan
historiadores para participar en el debate sobre el nacimiento de las
opiniones políticas en la sociedad moderna22. La investigación más
reciente adelanta este hecho a mediados del siglo XVII, una época en la
que se inicia cierta tendencia al alza de las opiniones políticas
17
W. Te Brake, Shaping History. Ordinary people in European Politics, 1500-1700,
University of California, Berkeley, 1998; D. Underdown, Revel, riot and rebellion. Popular
politics and culture in England, 1603-1660, Oxford University Press, Oxford, 1985; R.
Cust, News and politics in Early Seventeenth-Century England, «Past and Present», n.
112 (Agosto, 1986), pp. 60-90; S. Clark, Popular culture and politics in the English
Revolution, «Comparative Studies in Society and History», 30 (1988), pp. 164-179; D.
Rollison, A Commonwealth of the People: Popular Politics and England’s Long Social (16061649), Cambridge University Press, Cambridge, 2010.
18
J. A. Maravall, La cultura del Barroco. Análisis de una estructura histórica, Ariel
(primera edición 1975), Barcelona, 2008, pp. 176-225.
19
F. Bouza Álvarez, Papeles y opinión. Políticas de publicación en el Siglo de Oro, CSIC,
Madrid, 2008, p. 43.
20
M. Olivari, Entre el trono y la opinión, Junta de Castilla y León, Valladolid, 2002;
mismo autor, Avisos, pasquines y rumores. Los comienzos de la opinión pública en la
España del siglo XVII, Cátedra, Madrid, 2014.
21
R. Mª. Alabrús Iglesias, La trayectoria de la opinión política en la España Moderna,
«Obradoiro. Revista de Historia Moderna», nº 20 (2011), pp. 337-354.
22
J. Borges Macedo, História diplomática portuguesa. Constantes e linhas de força,
Lisboa, Instituto da Defesa Nacional, 1979; N. G. Monteiro, O “espaço público” e a opinião
política na monarquia portuguesa em finais do Antigo Regime: notas para uma revisão das
revisões historiográficas, en J. D. Rodrigues (coord.), O Atlântico revolucionário: circulação
de ideias e de elites no final do Antigo Regime, Ponta Delgada, CHAM, 2012, pp. 17-29.
86
¿La edad de la política? Balance historiográfico de los estudios sobre comunicación e...
favorecida además por la aparición de los primeros medios de
divulgación de noticias23.
Llegados a este punto, creemos necesario recapitular parte de la
producción historiográfica de ambos contextos para valorar el estado
actual de nuestra hipótesis de partida: la creciente politización del
común en las sociedades ibéricas del periodo moderno a través del
consumo de información. No pretendemos realizar un análisis
exhaustivo de la bibliografía disponible, por cuanto su número
rebasaría con creces los objetivos de nuestro estudio. Se trata de
analizar una serie de trabajos publicados en los últimos años –
planteados la mayoría desde fines que poco o nada coinciden con los
nuestros– e ir encajando dichas piezas a modo de puzle de tal manera
que sirvan a nuestro propósito y puedan ser leídas –también– como
experiencias reveladoras de la extensión de la información y
comunicación política en los Tiempos Modernos.
La política, elemento cotidiano en la sociedad ibérica
Merece la pena reiterar una de las notas ya advertidas entre las
razones que motivan este balance historiográfico. La mayoría de
trabajos que relacionaremos no se concibieron en su día para servir a
nuestras pretensiones analíticas concretas, esto es, la creciente
politización de la sociedad común en la Edad Moderna. Por eso, casi
todos los estudios parten de objetivos en principio ajenos a los nuestros,
localizados unas veces en la historia cultural, de las representaciones,
las prácticas, otras en la historia del arte, la sociedad, política, etc.
Esta amplitud lleva consigo una evidente atomización del estudio y
su dispersión en tantas partes como posibilidades puedan derivarse
de su lectura, por lo que –como ya se señaló– en este artículo
recogeremos “únicamente” aquellos documentos que puedan
ayudarnos a apuntar tendencia y valorar el estado actual de la
investigación en un determinado campo. Al mismo tiempo, dada la
extraordinaria variedad de materiales, hemos decidido agruparlos en
dos categorías básicas que tienen mucho de instrumental y muy poco
de definitivas; su reducción a esta doble forma de politización –
23
E. Gomes, Gazetas da Restauração: 1641- 1648. Uma revisão das estratégias
diplomático-portuguesas, Ministério dos Negócios Estrangeiros, Lisboa, 2006; aunque
escasamente preocupado por los rasgos de la opinión pública en periodos anteriores, es
de gran valor historiográfico la Tesis Doctoral de J. A. dos Santos Alves, A opinião pública
em Portugal (1780-1820), Dissertação de Doutoramento, Faculdade de Ciências Sociais
e Humanas da Universidade Nova de Lisboa, 1999.
87
Francisco Precioso Izquierdo
administrativa y no administrativa– persigue ganar en claridad
expositiva y analítica, debiendo ser consideradas meras abstracciones
parciales sin otra capacidad estructural.
La exposición “administrativa” de la política
Una de las preocupaciones comunes de los historiadores portugueses
y españoles dedicados al estudio de las élites, la opinión o la cultura, ha
sido la atención por los espacios y lugares donde se produce la
transmisión y exposición de imágenes, discursos o estatus de poder. Se
trata de lugares de diversa naturaleza en los que las autoridades
interesadas despliegan una actividad de exhibición fundamental para
que el resto de vecinos se informen sobre tal o cual hecho, generando
con ello un primer nivel de comunicación y difusión de información.
En la sociedad ibérica del Antiguo Régimen la vida política giraba en
torno a la corte, espacio privilegiado para la exposición política. Era allí
donde se generaban gran parte de las noticias que posteriormente
rebasaban sus propios límites hasta alcanzar las plazas públicas de las
villas, casas, conventos… En este sentido, se entiende el lógico interés
de la historiografía por el análisis de las ciudades cortesanas como
escenarios de representación y manifestación del poder24, así como
centros indiscutibles de opinión25.
24
F. Bouza Álvarez, Lisboa sozinha, Quase Viúva: a Cidade e a Mudança da Corte no
Portugal dos Filipes, «Penélope: revista de história e ciências sociais», n. 13 (1994), pp.
71-94; P. Williams, El duque de Lerma y el nacimiento de la corte barroca en España:
Valladolid, verano de 1605, «Studia Historica. Historia Moderna», n. 31 (2009), pp. 1951; A. C. Araújo, Ritualidade e poder na corte de D. João V. A génese simbólica do
regalismo político, «Revista de História das Ideias», n 22 (2001), pp.175 - 208.
25
F. Bouza Álvarez, Palabra e imagen en la corte. Cultura oral y visual de la nobleza
en el Siglo de Oro, Madrid, 1998; T. Egido López, Opinión y propaganda en la Corte de los
Austrias, en J. Alcalá-Zamora y E. Belenguer Cebríà (coords.), Calderón de la Barca y la
España del Barroco, vol. 1, 2003, pp. 567-590; M.P. Marçal Lourenço, Os séquitos das
rainhas de Portugal e a influência dos estrangeiros na construção da “sociedade de corte”
(1640-1754), «Penélope: revista de história e ciências sociais», n. 29 (2003), pp. 49-82;
M. Olivari, La Marquesa del Valle: un caso de protagonismo político femenino en la España
de Felipe III, «Historia Social», n. 57 (2007), pp. 99-126; J. Martínez Millán, Las facciones
cortesanas ante la expulsión de los moriscos, «Chronica Nova. Revista de Historia
Moderna», n. 36 (2010), pp. 143-196; M. Moya García, Mariana de Austria, un personaje
itinerante en el gran escenario de la corte, en J. María Díez Borque, A. Sirodey, A.
Martínez Pereira y G. Fernández San Emeterio (Coords.), Teatro español de los Siglos de
Oro: dramaturgos, textos, escenarios, fiestas, Madrid, 2013, pp. 225-242; A. Mariano
Rodríguez Martínez, Entre la conveniencia y la reputación: una aproximación a las
opiniones generadas por la firma de la Tregua de los Doce Años, «Chronica Nova. Revista
de Historia Moderna», n. 39 (2013), pp. 291-320.
88
¿La edad de la política? Balance historiográfico de los estudios sobre comunicación e...
Otro tanto ha ocurrido con el mundo urbano, centro político y
administrativo de primer orden para una parte relativa de la población.
En este caso, se ha estudiado el papel de las ciudades, sus concejos e
instituciones político-religiosas como conformadoras de identidades
políticas que servían para reforzar vínculos comunitarios a escala
monarquía26.
Pero si por algo destaca el interés en las ciudades ha sido por su
potencialidad escenográfica y la visibilidad de sus representaciones
públicas, auténticas formas de propaganda27 y legitimación28 a través
de los fastos y diversas celebraciones a causa de la coronación29,
nacimiento30, matrimonio31 o defunción de un rey32, una victoria
26
A. Cristina Araújo, Hagiografia política e ceremoniais de Estado no tempo D. Manuel
I, «Revista portuguesa de história», n. 36, 1 (2003-2004), pp. 319-345; L. Pelizaeus, La
influencia política de las ciudades en los territorios Hasburgo a comienzos del siglo XVII,
«Investigaciones Históricas. Época Moderna y Contemporánea», n. 24 (2004), pp. 31-52.
27
Seminal, en este sentido, es el trabajo colectivo de A. Castillo Gómez y J. Amelang,
(dirs.), Opinión pública y espacio urbano en la Edad Moderna, Gijón, Trea, 2010;
destacamos el trabajo de C. Bejarano Pellicer, Medios de comunicación en la ciudad
durante la Edad Moderna: la figura del pregonero, pp. 319-334.
28
J. M. Nieto Soria, Ceremonias de la realeza: propaganda y legitimación en la Castilla
Trastámara, Madrid, 1993.
29
R. Isusi Fagoaga, Fiestas regias y celebraciones musicales durante el
establecimiento de Felipe V en Sevilla (1729-1733), en E. Serrano Martín (coord.), Felipe
V y su tiempo: congreso internacional, vol. 2, 2004, pp. 867-882; A. Sommer-Mathis,
Admirables efectos de la Providencia: Fiesta y poder con motivo de coronaciones en el
Sacro Imperio Romano, «Studia Historica. Historia Moderna», n. 31 (2009), pp. 53-94.
30
D. González Cruz, Nacidos para reinar: el ceremonial de la procreación en España
y América durante en el siglo XVIII, en Actas del segundo Encuentro Iberoamericano de
Religiosidad y Costumbres populares celebrado en Almonte-El Rocío (España) del 23 al 25
de noviembre de 2001, pp. 91-119; G. Á. Franco Rubio, Rituales y ceremonial en torno a
la procreación real en un contexto de crisis: el primer embarazo de María Luisa de Saboya
(1707), en J. M. Nieto Soria, Mª V. López-Cordón Cortezo (coords.), Gobernar en tiempos
de crisis: las quiebras dinásticas en el ámbito hispánico: 1250-1808, Sílex, Madrid, 2008,
pp. 235-266.
31
Â. Barreto Xavier y P. Cardim (coords.), Festas que se fizeram pelo casamento do
Rei D. Alfonso VI, Lisboa, Quetzal, 1996; D. González Cruz, Las bodas de la realeza y
sus celebraciones festivas en España y América durante el siglo XVIII, «Espacio, tiempo y
forma. Serie IV», n. 10 (1997), pp. 227-262; Â. Barreto Xavier, Las fiestas del matrimonio
del Rey Alfonso VI de Braganza y María Francisca de Saboya (Lisboa, 1666), «Reales
Sitios: Revista del Patrimonio Nacional», n. 166 (2005), pp. 18-41.
32
Mª S. Gómez Navarro, D. González Cruz, M. J. de Lara Ródenas, Predicación
fúnebre y monarquía: materiales para el estudio de la muerte del Rey a través de los
sermones (selección de textos), en A. Mestre, P. Fernández Albaladejo y E. Giménez López
(coords.), Actas de la IV Reunión Científica de la Asociación Española de Historia Moderna
Alicante, 27-30 de mayo de 1996, vol. 1, 1997, pp. 771-780; A. I. Luescu, A morte do rei.
Tumulização e cerimónias de trasladação dos reais corpos (1499-1582), «Ler História», n.
60 (2011), pp. 9-33; J. J. García Bernal, De “Felipe el Grande” al “Rey Pacífico”. Discursos
festivos y funerales durante el reinado de Felipe IV, «Obradoiro. Revista de Historia
Moderna», n. 20 (2011), pp. 73-104.
89
Francisco Precioso Izquierdo
militar33, rituales de movilización y exhibición,34 actos de ajusticiamiento35 o fiestas locales36.
El espacio religioso, por el contrario, ha merecido una atención
menor, lo que no impide su valoración actual como otro poderoso centro
de discusión y generación de opinión en una sociedad fuertemente
sacralizada como la ibérica del periodo moderno. A través de los modos
de actuación empleados por la Iglesia y sus clérigos, se contribuía
igualmente a la comunicación de noticias que podían servir de
transmisores de la tensión política del momento, reforzando en todo
caso una identidad religiosa en íntima comunión con los intereses del
trono y la corona37.
33
J. Mª. Mulcahy, Celebrar o no celebrar: Felipe II y las representaciones de la batalla
de Lepanto, «Reales Sitios: revista del Patrimonio Nacional», n. 168, 2006, pp. 2-15; D.
González Cruz, Celebraciones de victorias militares de la monarquía hispánica en sus
dominios de Europa y América (siglos XVII y XVIII), en F. Núñez Roldán (coord.), Ocio y
vida cotidiana en el mundo hispánico, 2007, pp. 231-244; M. Olivari, Los discursos
festivos en Barcelona tras la batalla de Lepanto. Alcance e implicaciones de un gran
acontecimiento sentimental, «Historia Social», n. 74 (2012), pp. 145-166.
34
Mª J. del Río Barredo, Los rituales públicos en Madrid en el cambio de dinastía
(1700-1710), en E. Serrano Martín (coord.), Felipe V y su tiempo: congreso internacional,
vol. 2, 2004, pp. 733-752; José Javier Ruíz Ibáñez, Repúblicas en armas: huestes
urbanas y ritual político en los siglos XVI y XVII, «Studia Historica. Historia Moderna», n.
31 (2009), pp. 95-125.
35
A. C. Araújo, Cerimónias de execução pública no Antigo Regime: escatologia e justiça,
«Revista de História da Sociedade e da Cultura», n.1 (2001), pp. 169-211; D. Moreno
Martínez y M. Peña Díez, Cadalsos y pelícanos: el poder de la imagen inquisitorial,
«Historia Social», n. 74 (2012), pp. 107-124.
36
L. Amigo Vázquez, Fiestas de toros en el Valladolid del siglo XVII. Un teatro de honor
para las élites de poder urbanas, «Studia Historica. Historia Moderna», n. 26 (2004), pp.
283-319; E. Serrano Martín, Imágenes de poder en las ceremonias y fiestas públicas
zaragozanas del siglo XVI: la visita de Felipe II en 1563, en Actas del XV Congreso de
Historia de la Corona de Aragón, Zaragoza, 1996, tomo I, Vol. III, pp. 479-492; mismo
autor, Imágenes del rey e identidad del reino en los rituales y celebraciones públicas en
Aragón en el siglo XVI, «Obradoiro. Revista de Historia Moderna», n. 20 (2011), pp. 43-71.
37
A. Coello de la Rosa, Agencias políticas y políticas de santidad en la beatificación
del padre Juan de Alloz, sj (1597-1666), «Hispania Sacra», vol. 57, 116 (2005), pp. 627649; N. Rodríguez Suárez, La catedral de Salamanca y la publicidad. Algunos problemas,
«Hispania Sacra», vol. 57, 116 (2005) pp. 683-706; J. P. Paiva, Ceremonial eclesiástico
en el Portugal del siglo XVII, «Obradoiro de historia moderna», n. 20 (2011), pp. 175-196;
F. Suárez Golán, Todo es cuydar de las zeremonias. Imagen y representación del poder
en el episcopado gallego, «Obradoiro. Revista de Historia Moderna», n. 20 (2011), pp.
197-219; Mª L. Mazzoni, Religiosidad e identidades en construcción. La sacralización de
la política en el Obispado de Córdoba del Tucumán, «Tiempos Modernos. Revista
electrónica de Historia Moderna», vol. 7, 25 (2012), pp. 1-35; E. Borrego Gutiérrez,
Noticias del reinado de Carlos II a la luz de los textos de villancicos de Navidad y Reyes
en los Reales Monasterios de la Encarnación y las Descalzas (1671-1700), en J. Mª Díez
Borque, A. Sirodey, A. Martínez Pereira y G. Fernández San Emeterio (Coords.), Teatro
español de los Siglos de Oro: dramaturgos, textos, escenarios, fiestas, Madrid, 2013, pp.
90
¿La edad de la política? Balance historiográfico de los estudios sobre comunicación e...
También la actividad propagandística ha formado parte de la
mayoría de estudios sobre opinión y representación política en las
últimas décadas38. Como bien ha referido García Hernán: «Los cauces
de expresión de la propaganda política y militar que fueron auspiciados
y dirigidos, en una u otra medida, por las instancias del poder, fueron
muy intensos y variados. Estaba en juego, nada más y nada menos,
que la capacidad para convencer a la población de participar
activamente en ese proyecto común de la Monarquía39». En el ancho
campo de la propaganda, no sólo se incluye la surgida en tiempo de
guerra mediatizada por lecturas providencialistas o confesionales40; los
estados de ánimo y el interés manipulador de algunas autoridades, solía
reflejarse coyunturalmente en críticas explícitas sobre determinados
ámbitos como el fiscal41, hostilidad contra ciertas órdenes religiosas42 o
relacionados con otras potencias rivales extranjeras43; también se dio
171-198; P. Simón Plaza, La institucionalización de la ideología religiosa en la Edad
Moderna: un nuevo concepto para la Historia cultural, «Espacio, Tiempo y Forma. Historia
Moderna», n. 27 (2014), pp. 265-294.
38
L. M. Enciso Recio, Los mensajes de la opinión pública y la propaganda en la
España Moderna, en J. M. Nieto Soria (ed.), Propaganda y opinión pública en la Historia,
Universidad de Valladolid, 2007, pp. 49-90.
39
D. García Hernán, Guerra, propaganda y cultura en la Monarquía Hispánica: la
narrativa del Siglo de Oro, «Obradoiro. Revista de Historia Moderna», n. 20 (2011),
pp.281-302.
40
D. González Cruz, Los “Dioses” de la guerra: propaganda y religiosidad en España
y América durante el Antiguo Régimen. Religiosidad y costumbres populares en
Iberoamérica, en D. González Cruz (coord.), Actas del Primer Encuentro Internacional
celebrado en Almonte-El Rocío (España) del 19 al 21 de febrero de 1999, Huelva, 2000,
pp. 29-48; C. Borreguero Beltrán, Imagen y propaganda de guerra en el conflicto sucesorio
(1700-1713), «Manuscrits. Revista d història moderna», n. 21 (2003), pp. 95-132; Mª V.
López-Cordón Cortezo, Defender a un rey, convencer a Europa: razones e imágenes de la
propaganda castellana durante la contienda sucesoria, en F. García González (dir.), La
Guerra de Sucesión en España y la Batalla de Almansa. Europa en la encrucijada, Sílex,
Madrid, 2007, pp. 285-305; D. González Cruz, Propaganda e información en tiempos de
guerra. España y América (1700-1714), Sílex, Madrid, 2009; mismo autor, Los discursos
religiosos propagandísticos en la estrategia de la Guerra de Sucesión, «Libros de la
Corte.es», n. 7 (2013), pp. 156-158.
41
J. Astigarraga Goenaga, El descrédito político del crédito público. Hacienda pública
y propaganda anti-británica en España (1770-1805), «Estudis. Revista de Historia
Moderna», n. 37 (2011), pp. 29-42.
42
T. Egido López, Obispos, cartas pastorales y propaganda contra los jesuitas
expulsos, en R. Franch Benavent y R. Benítez Sánchez-Blanco (coords.), Estudios de
historia moderna: en homenaje a la profesora Emilia Salvador Esteban, vol. 1, 2008, pp.
151-170; J. E. Franco y C. Vogel, Um acontecimiento mediático na Europa de las luzes: a
propaganda antijesuítica pombalina em Portugal e na Europa, «Brotéria», vol. 169,
(agosto/septiembre 2009), pp. 349-505.
43
P. de Salvo, Propaganda, libertad de imprenta y circulación de ideas: la influencia
inglesa en el Mediterráneo (1794-1818), «Cuadernos de Historia Moderna», nº 38 (2013),
pp. 41-72.
91
Francisco Precioso Izquierdo
aquella otra variable de propaganda identitaria que tanto en España44
como en Portugal45 llevó a muchos a tomar la pluma y dejar por escrito
discursos y manifestaciones sobre el destino de la monarquía, una
literatura que evidenciaba el creciente grado de preocupación de un
número cada vez menos insignificante de la población por los asuntos
de naturaleza política46.
De igual modo, una parte de la historiografía cultural ha puesto de
relieve las enormes oportunidades de difusión derivadas de la
expansión de la cultura escrita. Así, a la estela de los sugestivos
trabajos de historiadores como Bouza Álvarez, Castillo Gómez, Amelang
o González Sánchez47, han seguido diversos planteamientos que han
hecho hincapié en diferentes problemas relacionados con el desarrollo
del libro impreso48, su convivencia con el manuscrito49, los perfiles e
intereses del primigenio mercado editorial50 hasta los sistemas de
censura y control de las publicaciones, territorio –como recientemente
44
D. González Cruz, Las dinastías extranjeras en el discurso propagandístico sobre
la desintegración territorial de la Monarquía Hispánica durante 1700-1714, en L. C.
Álvarez y Santaló (coord.), Estudios de historia moderna en homenaje al profesor Antonio
García-Baquero, 2009, pp. 397-409.
45
D. Martín Marcos, Visiones españolas de algunos anhelos prohibidos en el Portugal
de los Braganza (1668-1700): En torno a una nueva Unión Ibérica, «Ler História», n. 61
(2011), pp. 67-84; P. Cardim, Portugal unido y separado. Propaganda y discurso
identitario entre Austrias y Borbones, «Espacio, Tiempo y Forma. Serie IV», n. 25 (2012),
pp. 37-55.
46
F. Bouza Álvarez, La propaganda en la Edad Moderna Española: Medios, agentes
y consecuencias de la comunicación política, en Mª J. Pérez Álvarez, L. Rubio Pérez (eds.),
Campo y campesinos en la España Moderna. Culturas políticas en el mundo hispano, vol.
1, Fundación Española de Historia Moderna, 2012, pp. 281-300.
47
C. A. González Sánchez, Homo viator, homo scribens: cultura gráfica, información y
gobierno en la expansión atlántica (siglos XV-XVII), Marcial Pons, Madrid, 2007.
48
F. Guedes, O livro e a leitura em Portugal: subsidios para a sua história. Séculos
XVIII-XIX, Lisboa, 1987; mismo autor, Os livreiros em Portugal e as suas associações
desde o sèculo XV até aos nossos días, Lisboa, 1993; M. Peña Díaz, El entorno de la
lectura en Barcelona en el siglo XVI, «Historia social», n. 22, 1995, pp. 3-18; mismo autor,
La circulació del llibre a Barcelona en el segle XVI, «L’ Avenç: Revista de història i cultura»,
n. 199 (1996), pp. 28-31.
49
A. Isabel Buescu, “Sentimentos” e “Esperanças” de Portugal da Legitimidade de D.
João IV, «Penélope: revista de história e ciências sociais», n. 9-10 (1993), pp. 169-188;
misma autora, Cultura impressa e cultura manuscrita em Portugal na Época Moderna: uma
sondagem, «Penélope: revista de história e ciências sociais», n. 21 (1999), pp. 11-32.
50
A. Rojo, Manuscritos y problemas de edición en el siglo XVI, «Castilla. Estudios de
Literatura», n. 19 (1994), pp. 129-158; F. Bouza Álvarez, Para qué imprimir. De autores,
público, impresores y manuscritos en el Siglo de Oro, «Cuadernos de historia moderna»,
n. 18 (1997), pp. 31-50; V. Infantes de Miguel, F. López y J. F. Botrel (dirs.), N. Baranda
Leturio (coord.), Historia de la edición y de la lectura en España, 1472-1914, Fundación
Germán Sánchez Ruipérez, 2003; F. Bouza Álvarez, Costeadores de impresiones y
mercado de ediciones religiosas en la alta Edad Moderna ibérica, «Cuadernos de Historia
Moderna. Anejos», n. 13 (2014), pp. 29-48.
92
¿La edad de la política? Balance historiográfico de los estudios sobre comunicación e...
ha afirmado Peña Díaz– «donde lo herético y lo ortodoxo se tocaban,
donde lo público y lo privado se confundían51».
A pesar de la evidente expansión del escrito (impreso o manuscrito),
los historiadores han llamado también la atención acerca de la fuerte
pervivencia o el arraigo de las formas tradicionales de comunicación –
tanto oral52 como visual53– en la sociedad ibérica, manteniendo una
amplia gama de opciones a través de las cuales se lograba difundir
información entre los posibles públicos.
Todas estas vías “administrativas” de politización, implicaban un
buen número de recursos puestos a disposición de las autoridades en
liza para comunicar lo que se pretendía dar a conocer a la comunidad.
La historiografía ha subrayado así el uso de diferentes espacios, la
práctica de medios propagandísticos y la utilización de las diversas
dimensiones de la comunicación como elementos decisivos en la
formación de una primera opinión sobre todos aquellos hechos que
interesaba popularizar entre el común.
La transmisión “no administrativa” de información política
No obstante, esta primera opinión difundida a través de los filtros
oficiales del poder, podía complementarse mediante el recurso a otros
canales no institucionalizados donde contrastar y ampliar todo lo
51
M. Peña Díaz, Escribir y prohibir. Inquisición y censura en los Siglos de Oro, Cátedra,
2015, p. 17; L. Mª Bastos P. Neves, Censura, circulaçao de ideias e esfera pública de
poder no Brasil, 1808-1824, «Revista portuguesa de história», vol. 33, n. 2 (1999), pp.
665-697; C. Caro López y J. Bragado Lorenzo, Las censuras gubernativas en el siglo XVII,
«Hispania. Revista Española de Historia», vol. 64, n. 217 (2004), pp. 571-600; M. Lucena
Giraldo, Historiografía y censura en la España del siglo Ilustrada, «Hispania. Revista
Española de Historia», vol. 65, n. 221 (2005), pp. 973-990.
52
J.I. Pulido Serrano, Injurias a Cristo: religión, política y antijudaísmo en el siglo XVII,
Universidad de Alcalá, 2002; M. Santana Molina, El delito de blasfemia en el tribunal
inquisitorial de Cuenca, Alicante, 2004; I. Jurado Revaliente, Hablar por hablar. Blasfemos
en la Andalucía moderna, «Andalucía en la historia», n. 33 (2011), pp. 50-53; mismo
autor, Cultura oral en la Edad Moderna, en E. Serrano Martín (Coord.), De la tierra al
cielo. Líneas recientes de investigación en Historia Moderna, Institución Fernando El
Católico, Zaragoza, 2013, pp. 967-978.
53
F, Bouza Álvarez, Retórica da Imagem Real. Portugal e a memória figurada de Filipe
II, «Penélope: revista de história e ciências sociais», nº 4 (1990), pp. 19-58; F. Bouza
Álvarez, Palabra e imagen cit., A. Jordan Gschwend, Los retratos de Juana de Austria
posteriores a 1554: la imagen de una Princesa de Portugal, una Regente de España y una
jesuita, «Reales Sitios: Revista del Patrimonio Nacional», n. 151 (2002), pp. 42-65; F. R.
de la Flor, Imago. La cultura visual del barroco hispano, Madrid, Abada Editorial, 2009;
V. M. Mínguez Cornelles, Iconografía de Lepanto: arte, propaganda y representación
simbólica de una monarquía universal y católica, «Obradoiro de historia moderna», n. 20
(2011), pp. 251-280.
93
Francisco Precioso Izquierdo
transmitido. La historiografía española54 y portuguesa55 sobre revueltas,
motines o tumultos durante la época moderna, pone de manifiesto un
interés cada vez mayor en la valoración de las motivaciones políticas
que podían esconderse tras una movilización “popular” en defensa de
las costumbres o derechos de una determinada comunidad. En este
punto, los historiadores se han esforzado en las últimas décadas en
descubrir, principalmente, los medios a partir de los cuales el común o
la gente corriente participaban en la gestión de cierta opinión al margen
de la transmitida por las instituciones.
El estudio de lo que genéricamente denominamos medios incluye
una realidad muy heterogénea. Gracias al desarrollo de disciplinas
ligadas a la historia de la opinión pública, la propaganda y la
comunicación, conocemos bien muchos de los materiales y
herramientas utilizadas en la difusión de ideas, mensajes o simples
soflamas. Medios de diferente naturaleza (visuales, orales o escritos),
empleados en la comunicación y exposición de noticias entre un público
diverso que se servía de ellos para terminar de perfilar nuevos trazos
de una opinión, en buena medida, heterodoxa.
En este sentido, cabría destacar la importancia de las denuncias
públicas56 y la propia publicística de la época57, cuya circulación
sabemos que no fue menor entre una población a la que se intentaba
orientar en ciertas coyunturas mediante la persuasión de semejantes
54
J. A. Maravall, La oposición política bajo los Austrias, Barcelona, Ariel, 1972; A.
Domínguez Ortiz, Alteraciones andaluzas, Madrid, 1973; T. Egido López, El motín
madrileño de 1699, «Investigaciones históricas», n. 2 (1980), pp. 255-294; J. I. Gutiérrez
Nieto, Formas de oposición a Felipe II: crítica de un sistema político, «Torre de los Lujanes»,
nº 32 (1996), pp. 107-123; P. L. Lorenzo Cardoso, La protesta popular: oportunidades,
identidades colectivas, recursos para la movilización, en F. Martínez Gil (coord.), En torno
a las Comunidades de Castilla, Cuenca, 2002, pp. 481-516; D. Bernabé Gil, Antecedentes
del motín de 1766 en Almoradí, «Estudis. Revista de Historia Moderna», n. 37 (2011), pp.
199-215.
55
A. de Oliveira, Contestação fiscal em 1629; as reacçóes de Lamego e Porto, «Revista
de História das Ideias», n. 6 (1984), pp. 259-300; mismo autor, Levantamentos populares
no distrito de Portalegre em 1637-1638, «Revista Cultural de Portalegre», n. 3 (1989);
mismo autor, Oposição política em Portugal nas vésperas da Restauração, «Cuadernos
de Historia moderna», n. 11 (1991), pp. 77-98.
56
A. Castillo Gómez, Amanecieron en todas las partes públicas…un viaje al país de
las denuncias, en A. Castillo Gómez (coord.), Escribir y leer en el siglo de Cervantes,
Barcelona, Gedisa, 1999, pp. 143-192.
57
Desde el secular trabajo de Mª T. Pérez Picazo, La publicística española en la Guerra
de Sucesión (I-II vols.), Madrid, 1966; hasta los más recientes de R. Mª Alabrús Iglesias,
La publicística de la guerra, «L’ Avenç: Revista de història i cultura», n. 206 (1996), pp.
40-45, misma autora, Las crónicas desconocidas de la guerra de Sucesión, en E. Serrano
Martín (coord.), Felipe V y su tiempo: congreso internacional, vol. 2, 2004, pp. 793-814;
misma autora, El eco de la batalla de Almansa en la publicística, «Revista de Historia
Moderna: Anales de la Universidad de Alicante», n. 25 (2007), pp. 113-127.
94
¿La edad de la política? Balance historiográfico de los estudios sobre comunicación e...
discursos. Entre estos modos de “hacer campaña” hemos de subrayar
la trascendencia de la sátira política, género dirigido a la crítica
caricaturesca del gobierno y los gobernantes a los que se trataba de
ridiculizar para sonrojo y menosprecio del común58. Impulsada
normalmente por grupos o facciones rivales, la imagen proyectada se
garantizaba un fuerte impacto en amplias capas de la comunidad59.
Otros medios utilizados en la representación popular y crítica de los
acontecimientos fueron los líbelos y pasquines, expresiones bien
representativas de la literatura infamante puesta al servicio de la
comunicación y transmisión de noticias dirigidas a la creación de cierto
estado de opinión. Mediatizados, en la mayoría de ocasiones, por
pugnas políticas y rivalidades personales, tanto los libelos como los
pasquines se constituían en una fuente de extraordinario valor por su
capacidad de divulgación, acusación y ofensa. Su forma escrita,
generalmente breve y expuesta a la vista de muchos en lugares
públicos como calles y plazas, garantizaba una gran resonancia social
en amplios sectores60.
58
T. Egido López, Sátiras políticas de la España moderna, Madrid, Alianza, 1973;
C. Gómez-Centurión Jiménez, La sátira política durante el reinado de Carlos II,
«Cuadernos de Historia Moderna y Contemporánea», n. 4 (1980), pp. 11-33; T. Egido
López, La oposición y el poder: el desastre de Argel (1775) y la sátira política, en Actas
del congreso internacional sobre “Carlos III y la Ilustración, vol. 1, 1989, pp. 423-449;
mismo autor, La sátira política, arma de la oposición a Olivares, en Á. García Sanz y
J. Elliot, La España del Conde Duque de Olivares, Valladolid, 1990, pp. 339-372;
Joaquim José Carvalhâo Teixeira Santos, Literatura e Política. Pombalismo e Anti
pombalismo, Coimbra, 1991, pp. 53-113; B. J. García García, La sátira política a la
privanza del duque de Lerma, en F. Javier Guillamón Álvarez y J. J. Ruíz Ibáñez (eds.),
Lo conflictivo y lo consensual en Castilla: sociedad y poder político, 1521-1575.
Homenaje a Francisco Tomás y Valiente, Murcia, 2001; Mª L. González Mezquita, El
poder de las palabras. La “guerra de pluma” a comienzos del siglo XVIII, «Fundación»,
V (2002), pp. 289-317; J. Gascón Pérez, La rebelión de las palabras: sátiras y oposición
política en Aragón (1590-1626), Zaragoza, 2003; V. Infantes de Miguel, La sátira
antiespañola de los fanfarrones, fieros, bravucones y matasietes: las Rodomuntadas
españolas y los Emblemas del Señor Español (1601-1608). Apunte final (III), «Mélanges
de la Casa de Velázquez», n. 43-2 (2013), pp. 39-52.
59
El caso paradigmático de la caída del Conde Duque de Olivares y su repercusión
en la literatura satírica de la época, muestra la enorme trascendencia de este género
como parte integrante de la cultura política antiguo-regimental; en este sentido, véase
F. J. Castro Ibaseta, Monarquía satírica. Poética de la caída del Conde Duque de Olivares,
Tesis Doctoral, Universidad Autónoma de Madrid, Madrid, 2008.
60
J. Ruiz Astiz, Prácticas y mecanismos de exclusión social: Libelos y pasquines en la
vida comunitaria: conflictividad social en Navarra (1512-1808), en A. Castillo Gómez y J.
S. Amelang (coords.), Opinión pública y espacio urbano en la edad moderna cit., pp. 399422; F. Chavarría Múgica, Pasquines escandalosos, maledicencias banderizas y
desinformación irredentista: la distorsión de la comunicación política entre Corte y Reino
después de la anexión de Navarra a la Monarquía española, en A. Castillo Gómez y J. S.
Amelang (coords.), Opinión pública y espacio urbano en la edad moderna cit., pp. 423440; H. Hermant, La función de los libelos en la lucha política de los Grandes y de don
Juan frente a la Reina y su valido Valenzuela: publicidad, polémica y transacción (1676-
95
Francisco Precioso Izquierdo
Así mismo, hemos de hacer referencia al protagonismo que en los
últimos años ha despertado el estudio del género epistolar, una de las
ramas más exitosas de la historia social de la cultura escrita. Su
consolidación como práctica informativa a lo largo del periodo moderno,
hace de la correspondencia particular un medio contrastado para el
análisis del intercambio y circulación de noticias e información política
en la sociedad ibérica del Antiguo Régimen61. Una variante más
institucional de la correspondencia, ha sido destacada por una parte
de la historiografía portuguesa en relación al intercambio de
información periferia-centro-periferia y la consiguiente articulación
política del territorio a través de las relaciones de peticiones y demandas
desde los conselhos a la corte62.
También la génesis y consolidación de la prensa periódica ha
ocupado y preocupado a un buen número de historiadores en las
últimas décadas. Su desarrollo como práctica de comunicación desde
mediados del siglo XVII, ha descubierto nuevas posibilidades para la
expansión de información política y la apertura de tímidos aunque
perceptibles espacios de socialización de ese conocimiento escrito63. A
1677), en A. Castillo Gómez y J. S. Amelang (coords.), Opinión pública y espacio urbano
en la edad moderna cit., pp. 455-472; G. Torres Puga, Los pasquines de Huichapan, el
cura Toral y el espacio público (1794-1821), «Espacio, Tiempo y Forma. Historia
Moderna», n. 26 (2013), pp. 77-102.
61
R. Sánchez Rubio e I. Testón Núñez, El hilo que une las relaciones epistolares en el
Viejo y el Nuevo Mundo (siglos XVI-XVIII), Cáceres, 1999; H. Cortés y Mª del C. Martínez
Martínez, Cartas y memoriales, Universidad de León, 2003; A. Castillo Gómez, Me
alegraré que al recibo de ésta…Cuatrocientos años de prácticas epistolares (siglos XVI a
XIX), «Manuscrits. Revista d Història Moderna», n. 29 (2011), pp. 19-50; X. Baró,
Defender lo que queda: algunes cartes de Don Francesc de Montcada (1586-1635),
historiador i politic, «Estudis. Revista de Historia Moderna», n. 31 (2005), pp. 135-160;
A. Castillo Gómez y V. Sierra Blas (coords.), Cinco siglos de cartas: historia y prácticas
epistolares en las épocas moderna y contemporánea, Universidad de Huelva, 2014.
62
M. Soares da Cunha y F. Farrica, Comunicação política em terras de jurisdição
senhorial. Os casos de Faro e de Vila Viçosa (1641-1715), «Revista portuguesa de
história», n. 44 (2013), pp. 279-308.
63
J. Tengarrinha, História da Imprensa periódica portuguesa, Lisboa, Editora
Caminho, 1989; Mª L. Garcia Pallares-Burke, The spectator. O Teatro das Luzes: diálogo
e imprensa no século XVIII, São Paulo: Hucitec, 1995; A. Belo, As Gazetas e os Livros. A
Gazeta de Lisboa e a vulgarização do impresso (1715-1760), Instituto de Ciências
Sociais, 2001; L. M. Enciso Recio, Opinión pública, periodismo y periodistas en la época
de Felipe V, en E. Serrano Martín (coord.), Felipe V y su tiempo: congreso internacional
cit., pp. 549-596; M. Infelise, Los orígenes de las gacetas: sistemas y prácticas de la
información entre los siglos XVI y XVII, «Manuscrits. Revista d Història Moderna», n. 23
(2005), pp. 31-44; C. Espejo, El impresor sevillano Juan Gómez de Blas y los orígenes
de la prensa periódica. La Gazeta Nueva de Sevilla (1661-1667), «Zer», vol. 13, n. 25
(2008), 243-267; J. Fraga, La “Guerra dels Segadors” desde Portugal. La percepción del
conflicto en las Gazetas da Restauração, «Pedralbes», n. 28 (2008), pp. 173-184; M.
Infelise, El mercado de las noticias en el siglo XVII: las tipologías de la información, en A.
96
¿La edad de la política? Balance historiográfico de los estudios sobre comunicación e...
medio camino entre la correspondencia y la prensa, nos encontramos
un subgénero de avisos y relaciones de sucesos que bien puede
considerarse ejemplo del interés de un público en aumento por saber y
estar al tanto de los acontecimientos más significativos localizados en
el entorno de los reyes, los gobernantes y los poderosos. Su
mercantilización y la especialización de un alto número de individuos
en la redacción de noticias, prueba la existencia de ese particular modo
de adquirir y consumir información sobre una amplia gama de asuntos
fundamentalmente de naturaleza política64.
Junto a todo lo anterior, no podemos dejar de destacar la importancia
de la Iglesia y los religiosos también como activos transmisores de
información y actores de primer orden en la comunicación política. La
actividad de los predicadores y el estudio de los sermones comienza a ganar
un papel bien señalado en la estructura de la incipiente opinión pública
por su enorme virtualidad como cauces para la propaganda política65.
Finalmente, hemos de referirnos a las crónicas de viajes y relatos de
viajeros extranjeros como fuentes para el estudio de la politización de
la sociedad ibérica moderna; unos materiales que, además de las
particularidades organizativas del trayecto y la descripción exagerada
de los lugares de visita o de recibimiento, pueden recoger numerosas
alusiones de rechazo o crítica hacia el gobierno66.
Castillo Gómez y J. S. Amelang (coords.), Opinión pública y espacio urbano en la edad
moderna cit., 153-162; A. Belo, Pouvoir de l’imprimé et valeur du manuscrit dans le
Portugal du XVIIIe siècle: le cas de l’information périodique, en R. Saez (ed.), L’imprimé
et ses pouvoirs dans les langues romanes, Presses Universitaires de Rennes, 2010, pp.
173-189; P. Losa Serrano y R. Mª López Campillo, La controversia política en Inglaterra
sobre la toma de Gibraltar en 1704 a través del Observador, «Estudis. Revista de Historia
Moderna», n. 39 (2013), pp. 153-172; P. Oliveira Texeira, Os sistemas jornalísticos
europeus no século XVII e a gênese do jornalismo. Uma comparação entre Portugal,
Espanha e França, Tese, U. Fernando Pessoa, 2013.
64
H. Ettinghausen, V. Infantes de Miguel, A. Redondo, Mª C. García de Enterría
(coords.), Las relaciones de sucesos en España: 1500-1750. Actas del primer Coloquio
Internacional (Alcalá de Henares, 8, 9 y 10 de junio de 1995), Universidad de Alcalá, 1996;
H. Ettinghausen, Informació, comunicació I poder a l Españnya del segle XVII,
«Manuscrits. Revista d Història Moderna», n. 23 (2005), pp. 45-58.
65
F. Negredo del Cerro, Los predicadores de Felipe IV: corte, intrigas y religión en la
España del Siglo de Oro, Madrid, Actas, 2006; A. Rubial García, El papel de los santos
jesuitas en la propaganda de la Compañía de Jesús en Nueva España, «Historia Social»,
n. 65 (2009), pp. 147-166; P. Pérez García, Los sermones del patíbulo (1780-1801), del
Dr. D. Juan Gascó, «Studis. Revista de Historia Moderna», n. 37 (2011), pp.413-428; F.
Martínez Gil, Los sermones como cauce de propaganda política: la Guerra de Sucesión,
«Obradoiro. Revista de Historia Moderna», n. 20 (2011), pp. 303-336; I. Sánchez Llanes,
El Buen Pastor en Carlos II: equidad y crítica política, «Hispania. Revista española de
Historia», vol. 73, n. 245 (2013), pp. 703-732.
66
R. Ramos, Nas origens da “Lenda Negra” as viagens filosóficas no século XVIII
português, «Penélope: revista de história e ciências sociais», n. 4 (1990), pp. 59-80; A.
Carneiro, Mª P. Diogo y A. Simoes, Imagens do Portugal Setecentista: textos de
97
Francisco Precioso Izquierdo
Conclusiones provisionales entre ciertas ausencias
El balance anterior nos permite evaluar el estado de una parte de la
historiografía española y portuguesa que –desde diversas perspectivas
y planteamientos no siempre coincidentes– ha hecho aflorar indicios
suficientes para valorar la creciente circulación de información política
entre gente corriente. Sin ser completamente definitorio, la comunicación
o el intercambio de información sobre los hechos políticos, constituye
un elemento más a tener en cuenta para calibrar el grado de politización
del mundo social del Antiguo Régimen.
Al poner en común diversos textos –en apariencia poco concordantes
entre sí– e interpretarlos desde nuestra óptica de la politización de la
sociedad moderna, nos hemos podido percatar de la variedad de formas
a través de las cuales poder seguir la participación del común en el
intercambio de información y en la gestación de opiniones sobre los
hechos de más grave contenido político. Al hacerlo, además, desde
nuestra doble categoría administrativa/no administrativa hemos podido
advertir la pluralidad de medios, espacios y estrategias empleadas en
la popularización y comunicación de información entre un público –o
públicos– que recibía continuos mensajes y que quedaba expuesto al
consumo de una información de origen variado.
Sin embargo, esta conclusión ha de matizarse rápidamente ante una
serie de circunstancias que denotan, a nuestro juicio, un escenario en
el que todavía los objetivos y objetos de estudio carecen de cierta
sistematicidad. Las ausencias y los silencios de la historiografía sobre
ciertos temas resultan evidentes. Se echan en falta trabajos
relacionados con la sociedad rural y señorial, espacios de enorme
protagonismo para una parte nada despreciable de la población.
Tampoco la Iglesia y el mundo de la religión y los religiosos parecen
haber cuajado en una historiografía más centrada en otros actores
sociales. De igual modo, llama la atención la falta de estudios relativos
al ámbito familiar67, la cultura material y las formas de sociabilidad de
estrangeirados e de viajantes, «Penélope: revista de história e ciências sociais», n. 22
(2000), pp. 73-92; Mª A. López Arandia, La forja de la leyenda blanca: la imagen de la
Compañía de Jesús a través de sus crónicas, «Historia Social», n. 65 (2009), pp. 125-146;
E. Borrego Gutiérrez, Realidad, crónica y opinión: los avatares del viaje de Anna de
Austria a España (1570) a través de fuentes mixtas, «Mélanges de la Casa de Velázquez»,
n. 43-2 (2013), pp. 17-38; Â. Barreto Xavier, Frei Miguel da Purificaçao entre Madrid y
Roma. Relato del viaje a Europa de un franciscano portugués nacido en la India,
«Cuadernos de Historia Moderna. Anejos», nº 13 (2014), pp. 87-110.
67
N. G. Monteiro y M. Soares da Cunha, Velhas formas: a casa e a comunidade na
mobilizaçao política, en J. Mattoso (dir.), História da Vida Privada em Portugal, vol. 2, pp.
396-423.
98
¿La edad de la política? Balance historiográfico de los estudios sobre comunicación e...
la información política en espacios como las tertulias domésticas68,
tabernas o conversaciones informales en calles o plazas69.
El segundo debe de la historiografía sigue siendo la excesiva
atomización de los episodios analizados, lo que conlleva una ausencia
de lecturas o trabajos de conjunto y la priorización del tiempo corto y
medio frente a la larga duración. En este sentido, si bien parece
necesaria una reducción micro-analítica que favorezca el examen del
“universo particular” de actitudes, valores y formas de comunicación,
no menos importante y recomendable parece una puesta en
consideración de lo reducido en lo colectivo, del caso concreto en un
contexto más amplio en el que valorar cada objeto dentro de un todo
más complejo y estructural.
La práctica inexistencia de la perspectiva relacional, en tercer lugar,
es otra de las ausencias más visibles. Este paradigma historiográfico
podría servir con plena coherencia a la forma más actual de concebir
los procesos comunicativos como un diálogo en el que se destaca la
importancia de las conexiones, interacciones y redes de relación. La
aplicación del enfoque relacional70 podría proporcionar respuestas
básicas sobre quién o quiénes emiten y reciben la información, cómo
se transmite la comunicación que llega al común y finalmente se
procesa y generan las reacciones de aceptación o rechazo hacia lo
comunicado.
Analizar los móviles que impulsaban a la “gente corriente” a mostrar
un determinado grado de interés por los acontecimientos de la más alta
trascendencia política, captar su percepción de los hechos y estudiar
las estrategias desplegadas por el poder para ganar la batalla de la
opinión y contar con su respaldo, son vías de enorme recorrido que nos
permitirán seguir avanzando en el estudio de la organización social del
Antiguo Régimen. Una sociedad que comienza a perder sus notas
No nos referimos a las grandes tertulias y centros de sociabilidad ilustrada,
conocidas cada vez mejor por la historiografía especializada, véase: J. Álvarez Barrientos,
Sociabilidad literaria: tertulias y cafés en el siglo XVIII, en J. Álvarez Barrientos, Espacios
de comunicación literaria, Madrid, CSIC, 2002, pp. 129-146; M. Bolufer Peruga, Del salón
a la asamblea: Sociabilidad, espacio público y ámbito privado (siglos XVIIIXIX), «Saitabi»,
56 (2006), pp. 121-148; nos referimos a las tertulias de ámbito doméstico y casas de
conversación, véase: F. Bouza Álvarez, Decir y oír en el Siglo de Oro. Comunicación política
de las casas de conversación a la República de las Letras, en M. Peña Díaz (ed.), Vida
cotidiana en el mundo hispánico (siglos XVI-XVIII), Adaba, 2012, pp. 335-355; F. Precioso
Izquierdo, Tertulia y medios de circulación política en la España de Felipe V: fray Antonio
Macanaz y el obispo Belluga (1714-1720), «Studia Historica. Historia Moderna», n. 36
(2014), pp. 327-355.
69
M. Olivari, Espacios privados y espacios públicos en la dinámica de la comunicación
protomoderna, M. Peña Díaz (ed.), Vida cotidiana en el mundo hispánico (siglos XVI-XVIII),
Adaba, 2012, pp. 377-386.
68
99
Francisco Precioso Izquierdo
definitorias tradicionales –como sujeto pasivo en lo político– a favor de
una capacidad –cada vez más reconocida– de recibir y formular
mensajes críticos sobre la realidad.
El análisis de la difusión de información –y en paralelo de ideas y
construcciones más o menos elaboradas– a través de la escala social71,
puede representar ese punto de inflexión que nos permita confrontar
los grandes relatos políticos con las experiencias cotidianas vividas por
sus verdaderos protagonistas. El principal reto de esta forma de hacer
historia se dirige –en última instancia– a comprender la compleja
relación de la sociedad del pasado con lo político, entendido éste como
elemento vertebrador de prácticas y relaciones conformadoras, también,
del sistema social.
70
P. Donati, Cultura y comunicación. Una perspectiva relacional, «Comunicación y
sociedad», vol. VIII, n. 1 (1995), pp. 61-75.
71
X. Gil Pujol, Culturas políticas y clases regionales en la formación del estado
moderno cit., 171-192.
100
Paolo Militello
THE HISTORIOGRAPHY ON EARLY MODERN AGE SICILY
BETWEEN THE 20TH AND 21ST CENTURIES
DOI: 10.7431/RIV12012015
ABSTRACT: This article retraces the main research on the history of early modern age Sicily (16th19th centuries) written between the 1950s and the first decade of the 21st century. The first
part of this article is dedicated to the process of moving on from a previous historiographical tradition, a process that spans from Rosario Romeo’s Risorgimento in Sicilia (1950) to the years between 1984-1987, when Giuseppe Giarrizzo, Maurice Aymard and Francesco Renda published
three important works about the history of Sicily. In this phase the new historiography decisively
raised the question of the groundlessness of a “siculo-centred” history focused on the concept of
a Sicilian people-nation and, at the same time, tried to link more firmly the history of Sicily to the
history of both the Mezzogiorno and Italy in general and, comparing itself with the great thèse
of Fernand Braudel, to the Mediterranean Sea. The second part of the article is dedicated to
studies and research works until 2014. These studies, characterised by an enthusiastic openness
to new themes, showed an open island, a land of peoples and cities; a Sicily which was neither
colony nor periphery and which, instead, had an interactive and dialectical relationship between
the “centres” which, in turn, had ruled it (Madrid, Turin, Vienna, Naples…).
KEYWORDS: Historiography, Sicily, Early Modern History, Mezzogiorno of Italy.
LA STORIOGRAFIA SULLA SICILIA D’ETÀ MODERNA TRA XX E XXI SECOLO
SOMMARIO: L’articolo ricostruisce i principali percorsi di ricerca sulla storia della Sicilia d’età moderna
(XVI-XIX secolo) sviluppati tra gli anni Cinquanta del Novecento e il primo decennio del nostro
secolo. La prima parte del contributo è dedicata a quella fase di svolta che va dalla pubblicazione
di Risorgimento in Sicilia di Rosario Romeo (1950) fino al 1984-1987, anni in cui Giuseppe Giarrizzo,
Maurice Aymard e Francesco Renda pubblicavano tre importanti volumi sulla storia dell’isola. In
questa fase la nuova storiografia pone in maniera forte la questione della infondatezza di una
storia “siculocentrica” incentrata sul concetto di “popolo-nazione” siciliano e, allo stesso tempo,
cerca di unire più saldamente, a livello sovra-regionale, la storia dell’isola con quella del Mezzogiorno,
dell’Italia e, misurandosi con la grande thèse di Braudel, del Mediterraneo. La seconda parte del
contributo è dedicata agli studi e alle ricerche condotte fino al 2014. Caratterizzati da una entusiastica apertura a nuove tematiche, questi studi hanno delineato sempre più l’immagine di un’isola
aperta, terra di uomini e di città; una Sicilia che non è colonia né periferia, ma che, al contrario, è
inserita in una condizione interattiva e dialettica all’interno delle strutture statuali delle quali, nel
corso dei secoli, si è trovata a far parte (Madrid, Torino, Vienna, Napoli, ecc.).
PAROLE
CHIAVE:
Storiografia, Sicilia, Storia dell’età moderna, Mezzogiorno d’Italia.
In 1950 Rosario Romeo published Risorgimento in Sicilia1, a work
which offered a new interpretation in the historiography of Sicily and
which was destined to become a point of reference in the following
1
R. Romeo, Risorgimento in Sicilia, Laterza, Bari, 1950. For our analysis, monographs
were preferred: thus, for possible in-depth research, essays which appeared in the main
journals have to be added to the bibliography of this work. Among them there are: «Nuovi
Quaderni del Meridione» (completed in 1987); «Nuove Prospettive Meridionali» (completed
in 1994); «Archivio Storico Siciliano», «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», «Archivio
n. 36
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Aprile 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
101
Paolo Militello
decades2. Thanks to this work, it was possible to begin a process of
moving on from a historiographical tradition which had based the
history of the island on the concept of the Sicilian people-nation. This
people, conquered but never completely tamed, would be the main
driving force of those events which justified the right of Sicily to
independence: from the Vespers to the anti-Spanish revolts; from the
resistance to the Neapolitan government to the Constitution of 1812;
from the Risorgimento (the 1821, the 1848) to the revolution of 18603.
In those years, Sicily was still involved in the decades-long debate
(emphasised by the so-called historiography of limits, which spread in
the 1950s and the 1960s) on the relationship of the history of Southern
Italy with both the Southern Question (the failed economic and civic
growth of the South of Italy and its inferior rank compared with the
North) and Meridionalism (the tradition of analysis and socio-economic
studies on post-unification issues)4. A debate which, in those years,
intertwined with the profound changes affecting the island: at the
politico-administrative level, the attribution, in 1946, of the status of
Italian Region with Special Statute (that is, provided with autonomy
and a wider jurisdiction), which somehow restored the connection with
the, more or less limited, autonomy that Sicily had enjoyed in the
previous centuries; at the economic level, the ambitious development
policy based on considerable state investments; at the demographic
level, the huge wave of migration towards Europe, and, above all,
towards the industrial districts of the North of Italy; at the sociocultural level, the rapid urbanisation which caused the death of the
rural world5. All of this, inevitably, affected the way the historians
Storico Messinese», «Archivio Storico Siracusano», «Incontri Mediterranei» and the most
recent «Mediterranea - ricerche storiche» (also online). I thank Maurice Aymard, Enrico
Iachello, Salvatore Adorno for their indications and suggestions.
2
Among the main bibliographic reviews, it is important to mention G. Giarrizzo’s
notes at the end of his works: La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia, in V.
D’Alessandro, G. Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia, vol. XVI of Storia
d’Italia, Utet, Torino, 1989, pp. 97-783; and La Sicilia moderna dal Vespro al nostro
tempo, Le Monnier, Firenze, 2004, pp. 173-178; together with the publications S. Bottari
(ed.), Rosario Romeo e “Il Risorgimento in Sicilia”. Bilancio storiografico e prospettive di
ricerca, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2002, and F. Benigno, C. Torrisi (eds),
Rappresentazioni e immagini della Sicilia tra storia e storiografia, S. Sciascia Editore,
Caltanissetta-Roma, 2003. Cf. also the essay by G. Schininà, La storiografia regionale:
la Sicilia, «Memoria e Ricerca», 22, 2006, pp. 97-105.
3
G. Giarrizzo, La Sicilia moderna dal Vespro al nostro tempo cit., p. 173.
4
See S. Lupo, Storia del Mezzogiorno, questione meridionale, meridionalismo,
«Meridiana», 32, 1998, pp. 17-52; A. De Francesco, La palla al piede. Una storia del
pregiudizio antimeridionale, Feltrinelli, Milano, 2012.
5
I refer here the considerations made by Maurice Aymard during the seminars on
La Sicilia e il Mediterraneo held in Catania for the students of the Master’s Course
Erasmus Mundus TEMA (European Territories) which I coordinated in January 2015.
102
The historiography on early modern age Sicily between the 20th and 21st centuries
looked at Sicily’s past. «Only an interest in present life can lead us to
examine a past event», Benedetto Croce had written, and, after him,
Federico Chabod would add: «Every historian worth this name asks
themselves questions which arouse from their conscience, soul, spirit»:
they had both been among Romeo’s masters6.
As very soon highlighted by Giuseppe Giarrizzo, this “singularity” of
both Sicily and its people-nation represented a historical ideal type
which deserved to be included in «the history of sicilianism» rather than
«the history of historiography», since it had «translated, into themes
and (pre)judgments, formulas taken from the political debate…,
dignified or not by the most important Sicilian literature»7: an
enormous influence, that of literature, which, from Verga to Capuana
and De Roberto, from Pirandello to Tomasi di Lampedusa and Sciascia
– only to mention the most representative writers – had created the
myth of the singularity and immutability of the sicilianity.
An ideal type which would be followed by Denis Mack Smith’s theory
formulated in his A History of Sicily of 19688: drawing from an
interpretation of Tomasi di Lampedusa’s The Leopard, published
posthumously in 19589 – which, in fact, has little to do with the novel
– Mack Smith observed, in the history of the island, a tendency towards
paralysis profited by, above all, the aristocracy «which, in order to
preserve stability and privileges, gave Sicily to “foreign” masters, and
blocked every domestic growth with corruption and criminality…»10. A
tendentious theory which – as also highlighted by Maurice Aymard –
was based on a modest critical and documental level bibliography11.
Rosario Romeo, therefore, decisively raised the question of the
groundlessness of a history of the Sicily “nation”, and, also through
the civic commitment characterising his generation, he tried to link
more firmly the history of Sicily to the history of both the Mezzogiorno
6
«Solo un interesse della vita presente ci può muovere a interrogare un fatto passato»
(B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Laterza, Bari, 1917, p. 4); «ogni storico degno
di questo nome si pone interrogativi che nascono dalla sua coscienza, dal suo animo,
dal suo spirito» (F. Chabod, Storia dell’idea d’Europa, Laterza, Roma-Bari, 1961, p. 16).
7
«Tradotto in temi e (pre)giudizi formule riprese dalla polemica politica… nobilitate
o meno dalla maggior letteratura siciliana» (G. Giarrizzo, La Sicilia moderna dal Vespro
al nostro tempo cit., p. 173).
8
D. Mack Smith, A History of Sicily. 2. Medieval Sicily. 800-1713; 3. Modern Sicily
after 1713, Chatto & Windus, London, 1968.
9
G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 1958 (English transl.:
The Leopard, Collins and Harvill, London, 1960).
10
«Che per salvaguardare stabilità e privilegi, consegnava la Sicilia a padroni
“stranieri”, e bloccava ogni interno sviluppo con la corruzione e la criminalità…»
(G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità cit., p. 787).
11
See the review of Mack Smith’s books written by M. Aymard, «Rivista Storica
Italiana», 82, 1970, pp. 481-483.
103
Paolo Militello
and Italy in general. Hence the important editorial project (10 volumes
published between 1977 and 1981) on a “new” Storia della Sicilia, also
analysed at a supra-regional level, since «the time has come to question
a point of view centred on the history of the “Padan Italy” as
“exemplary” history which threats to marginalise intellectually the
southern history, in so far as it does not take into account its own
characteristics»12.
The essential turning point introduced by Romeo continued with
two volumes about the History of Sicily published in the mid-1980s,
when the cultural climate had already changed: in a modified southern
society, the intellectuals and the historians (Giuseppe Giarrizzo,
Gaetano Cingari, Francesco Renda, Orazio Cancila and so on) faced
the challenge of «rewriting the history of early modern Mezzogiorno as
well as preparing the cultural foundation of the meridionalism of the
1980s»13.
The first book – which included the actions, the demands, the
ferments of the previous decades – was, in 1985, La Sicilia edited by
Maurice Aymard and Giuseppe Giarrizzo for the collection edited by
Ruggiero Romano and Corrado Vivanti of Einaudi’s Storia d’Italia, Le
regioni dall’Unità a oggi. The title of the collection, though, should
not mislead. If the watershed nature of the Italian process of
unification, which spread from Sicily in 1860, is undeniable, it is
also true that it took place through the unification of “old preunification of early modern states”, each with its own history and its
own tradition of research. Here lies the originality of Romano and
Vivanti’s idea which, as will be seen, Aymard and Giarrizzo will use
as their own14. The book was published with contributions by the
same Aymard (economy and society), by Antonino Recupero (on the
years 1848-1874), by Enrico Iachello and Alfio Signorelli (the urban
bourgeoisies), by Francesco Renda (on the years 1874-1894 and,
above all, on the movement of the Fasci siciliani), by Giuseppe
Barone (urban hegemonies and local power), by Salvatore Lupo
12
«Essendo venuto il momento di mettere in discussione una visione incentrata sulla
storia dell’Italia padana come storia “esemplare”, che rischia di emarginare
intellettualmente la storia meridionale, nella misura in cui non riesca a intenderla nei
suoi caratteri propri.» (Introduzione to Storia della Sicilia, vols. 1-10, Società editrice
Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli, 1977-1981). On Romeo’s meridionalism, see G.
Pescosolido, Il meridionalismo di Rosario Romeo, in F. Bartolini, B. Bonomo, F. Socrate
(eds), Lo spazio della storia. Studi per Vittorio Vidotto, Laterza, Roma-Bari, 2013.
13
«Riscrivere la storia del Mezzogiorno moderno e apprestare la base culturale del
meridionalismo degli anni ‘80» (G. Giarrizzo, Prefazione to E. Iachello, Il vino e il mare.
“Trafficanti” siciliani tra ‘700 e ‘800 nella Contea di Mascali, Maimone, Catania, 1991,
p. 11).
14
M. Aymard, La Sicilia e il Mediterraneo cit.
104
The historiography on early modern age Sicily between the 20th and 21st centuries
(fascism), by Rosario Mangiameli (the years 1943-1950), by Vincenzo
La Rosa (archaeology, antiquity and historiography), by Franco Lo
Piparo (language, dialect), by Salvatore Leone (cultural structures),
by Rosario Spampinato and Paolo Pezzino (Mafia), by Gino
Longhitano (demography) and by Giuseppe Dato (urban planning).
Thanks to Aymard and Giarrizzo, the new historiography of Sicily
(Giarrizzo) would confront itself with the great thèse of Fernand
Braudel (already Aymard’s “master”) who, after all, with La
Méditerranée, had already brought the Sicilian history to the centre
of the Euro-Mediterranean history: «It is customary, when discussing
Sicily – Braudel had written in the paragraph on “The Heart of the
Mediterranean” (and he would dedicate a whole paragraph to the
island: “East and west of Sicily”) – to keep looking to the North,
towards Naples... It is even more important to emphasise its links
with North Africa, that is the value of this maritime world which our
imperfect knowledge or lack of attention has left without a name»15.
Einaudi’s Sicilia was followed by a second volume, Giarrizzo’s book
on the history of Sicily La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia (1987)
(a summary of this volume, with revisions and updates, was published
in 2004 with the title La Sicilia dal Vespro al nostro tempo)16.
In the same years, between 1984 and 1987, Francesco Renda
published, in Palermo, Storia della Sicilia dal 1860 al 197017. The
comparison between the suggestions provided by Giarrizzo’s and
Aymard’s volumes as well as Renda’s work allows us to understand
better the unique characteristics of the new historiographical
orientation. If Renda, «who partly synthesised and partly anticipated
original research results»18, would adhere, by his own admission, to
the concept of the perpetuity of the “Sicilian” characters, the two
scholars would go beyond the idea of a “Siculo-centred history”, by
juxtaposing the characters of a “mythical” Sicily to the characters of
an “authentic” Sicily. In this manner Giarrizzo, in the Introduction
to Einaudi’s volume, summarised the difference between the two
points of view:
15
F. Braudel, The Mediterranean and the Mediterranean World in the Age of Philip II,
University of California Press, Berkeley - Los Angeles - London, 1995, I, p. 117 (1st
edition: A. Colin, Paris, 1949).
16
See supra.
17
The work was updated and republished with the title Storia della Sicilia dalle origini
ai giorni nostri, Sellerio, Palermo, 2003.
18
«Che in parte riassumeva e in parte anticipava risultati di ricerca originali» (G.
Giarrizzo, La Sicilia moderna dal Vespro al nostro tempo cit., p. 174).
105
Paolo Militello
Mythical Sicily: the Sicily-nation, whose “people” endures every oppression
and every conquest; the Sicily-island, proud and seized; “feudal” Sicily with its
municipal feuds, its possessive jealousy, its rural culture.
Behind the myth, the authentic characters: multi-ethnicity, the condition
of island as advantage, the predominant urban dimension, multi-centrism
as a trait of its political and cultural history. From this mixture, [came] a
strong, highly connoted, regional history, but not “different” at first in the
context of the southern kingdom and, later, in the national history of the
new Italy19.
In this open Sicily, an island but not isolated, around which the sea
is not a limit, «but rather a mobile horizon which moves… until it laps
the other coasts of the European, African, Middle-Eastern
continents»20, in this “multifarious” island (from the Sicily of the wheat
to the Sicily of the wine, the silk, the meat…) the new historiographical
season would identify a strong, connotative element: the long-term
importance of the urban dimension, its being a “land of cities”. The
interest in the rural world and the workers of the land was replaced by
the interest in the urban dimension. The city and its relationship with
the territory (modes of settlement, urban hierarchies, territorial
stability), the urban and local élites, the practices and representations
of the territory are only a few of the new themes which came to be
added to the traditional studies.
This change would characterise, thus, the following studies and
research, starting from the outlines, such as the two volumes,
published by Laterza in 2005 (but already published in “instalments”
in 1999), of the Storia della Sicilia, a joint authorship edited by
Giarrizzo himself and by Francesco Benigno. Also in this volume, as
in Einaudi’s, a new generation of historians condense, in short
outlines, «the historiographical work which has been collected over
the last few decades…», by dealing with «a selection of topics, each
assigned to a specialist», in order to «offer a different history of Sicily,
less indefinable and closed, less provincial, able to provide a new,
shared image: that of a Mediterranean crossroads open to influences
and contaminations, to experimentations and additions, to
19
«La Sicilia mitica: la Sicilia nazione, il cui “popolo” sopravvive a tutti i soprusi e a
tutte le conquiste; la Sicilia-isola, orgogliosa e sequestrata; la Sicilia “feudale” delle faide
municipali, della gelosia possessiva, della cultura contadina. Dietro il mito, i caratteri
veri: la polietnia, la condizione di isola come vantaggio, la dimensione urbana dominante,
il policentrismo come carattere della sua storia politica e culturale. Da questo intreccio,
una vicenda regionale forte, fortemente caratterizzata, non per ciò “diversa” nel quadro
prima del regno meridionale, e poi nella storia nazionale della nuova Italia» (G. Giarrizzo,
Introduzione to M. Aymard, G. Giarrizzo (eds), La Sicilia cit., p. XIX).
20
«Bensì un orizzonte mobile che si sposta… fino a toccare l’altra costa del
continente, europeo africano medio-orientale» (Ivi, p. XLIX).
106
The historiography on early modern age Sicily between the 20th and 21st centuries
confluences (to encounters, to clashes) of peoples, of different
traditions and religions. Of course, more appropriate to a new
cultural context, naturally revisionist, but also – hopefully – more
authentic»21.
An open Sicily, land of peoples and cities
The methodological approach so far outlined has modernised and
problematised the studies, carried out over the last thirty years, which
are characterised by an enthusiastic openness also to new themes.
Already in the 1980s, the works on urban demography (started by,
among others, Maurice Aymard who promoted a new demographic
history of the island) were expanded. Initially, Biagio Longhitano’s
studies collected, in one single volume (1988), by applying the new
technological opportunities of computer science, all the Riveli and
censuses from 1570 to 1861 (a period during which the number of
Sicilian cities grew from 158 units to 358)22. A research current then
followed, which would result, in 2002, in an important outline by
Domenico Ligresti; here, as observed by the author, «all the threads
converge on an interpretation of the Sicilian demographic history
centred around the theme of the large and medium cities, their variable
ability to control the territory and their permanent and predominant
presence»23.
The most recent studies on the family have proceeded beyond value
judgments such as the idea that the island’s family structures
(“amoral familism”, the “honour” cult, the lack of public spirit) could
explain the failed growth of the Mezzogiorno and Sicily. On the
21
«Proporre una storia di Sicilia diversa, meno ineffabile e chiusa, meno provinciale.
Che proponga una nuova immagine condivisa, quella di un crocevia mediterraneo aperto
agli influssi e alle contaminazioni, alle sperimentazioni e agli innesti, agli incroci (agli
incontri, agli scontri) di popoli, tradizioni e religioni diverse. Certamente più adatta a
una diversa temperie culturale, naturalmente revisionista, ma anche – sperabilmente –
più vera.» (G. Giarrizzo, F. Benigno (eds), Storia della Sicilia, 2 vols., Laterza, Roma-Bari,
2003, p. VI). Among the outlines, D. Ligresti, Sicilia aperta (secoli XV-XVII). Mobilità di
uomini e idee, Quaderni Mediterranea Ricerche Storiche, Palermo, 2006, has to be
mentioned. An interesting outline for schools is S. Bosco’s Storia della Sicilia, Le Monnier,
Firenze, 2004.
22
B. Longhitano, Studi di storia della popolazione siciliana, I: Riveli, numerazioni,
censimenti (1569-1861), Cuecm, Catania, 1988.
23
«Tutti i fili convergono verso una lettura della vicenda demografica siciliana
ruotante attorno alla tematica della grande e media città, della sua variabile capacità di
controllo del territorio e della sua permanente e predominante presenza» (D. Ligresti,
Dinamiche demografiche nella Sicilia moderna (1505-1806), FrancoAngeli Editore, Milano,
2002, p. 189).
107
Paolo Militello
contrary, already beginning from Maurice Aymard’s work on the Dukes
of Terranova, research studies, influenced also by anthropology, has
focused on kinship and hereditary transmission (fideicommissum, dotal
transmission, the female role etc.) and in particular (see other
contexts24) on economic and family strategies (not only of élites25) to
show how the “family” is one of the principal components of
development not only demographically and urbanwise, but also
economically and socially.
These studies have overturned a historiographical interpretation
which arose in the 1800s (see Giuseppe Giarrizzo) in part due to
development and in part due to the 1700s reformatory anti-feudal
debate being revived26 and which gave rise to representing Sicily as an
island populated by landed “barons” and gabellotti (a sort of tenant
farmers) on the one hand, and on the other by oppressed country folk
and manual labourers at the limits of survival.
Nothing could have been further from a much more complex and
articulate truth in which the feudatories and their gabellotti often tried
to ride market trends by increasing productivity with new investment
(colonisations for the recovery of virgin territories) and new
improvements (crop diversification, new techniques etc.)
Alongside feudal and demographic studies, in the meantime, a tide
of urban history spread (which entered the Italian historiography from
the Anglo-Saxon area, but also by Jean-Claude Perrot’s works on Caen
and by Bernard Lepetit’s epistemological reflections) which goes
24
The reference is, for example, to the studies of Gérard Delille on Manduria and the
Kingdom of Naples and to Bartolomè Clavero on Castile (G. Delille, Le projet Manduria.
Notes pour une étude du pouvoir local aux XVIème et XVIIème siècles, Congedo, Galatina,
1990; B. Clavero, Mayorazgo. Propiedad feudal en Castilla. 1369-1836, Siglo Veintiuno,
Madrid, 1989).
25
M. Aymard, La Sicilia e il Mediterraneo cit. Among the studies on the aristocratic
families, the following have to be mentioned: M. Aymard, Une famille de l’aristocratie
sicilienne au XVIe et XVIIe siècles: les ducs de Terranova. Un bel exemple d’ascension
seigneuriale, «Revue Historique», 501, 1972, pp. 29-66; M.C. Calabrese, I Paternò di
Raddusa, FrancoAngeli Editore, Milano, 2002; Eadem, L’epopea dei Ruffo di Sicilia,
Laterza, Roma-Bari, 2014; S. Laudani, Lo Stato del Principe. I Moncada e i loro territori,
Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma, 2008; C. Salvo, Dalla spada alla fede. Gli Spatafora
(secc. XIII-XVI), Bonanno, Acireale-Roma, 2009; S. Raffaele, Aut virum… aut murum.
Matrimoni strategici, serafiche nozze e mistici divorzi nella Sicilia moderna, Bonanno,
Acireale-Roma, 2010. Regarding the relationships between Sicily and the Order of Malta:
A. Giuffrida, La Sicilia e l’Ordine di Malta. 1529-1550. La centralità della periferia
mediterranea, Mediterranea, Palermo, 2006; F. D’Avenia, Nobiltà allo specchio. Ordine di
Malta e mobilità sociale nella Sicilia moderna, Mediterranea, Palermo, 2009. About
Justice, see V. Sciuti Russi, Astrea in Sicilia. Il ministero togato nella società siciliana dei
secoli XVI e XVII, Jovene, Napoli, 1983 and O. Cancila, Così andavano le cose nel secolo
sedicesimo, Sellerio, Palermo, 1984.
26
G. Giarrizzo, Introduzione to M. Aymard, G. Giarrizzo (eds), La Sicilia cit., pp. XXIXXII.
108
The historiography on early modern age Sicily between the 20th and 21st centuries
beyond the traditional model of interpretation of the Sicilian settlement
according to which the economy of the latifundum would determine
the formation of large dormitory villages, authentic agrotowns.
Published in 1963, Giarrizzo’s groundbreaking work on Biancavilla27
prompted a series of studies which underline a remarkable urban
dimension of Sicily, as opposed to the views of the island only as
countryside and latifundum. Among these studies, Enrico Iachello’s
contributions stand out: the analysis of the cities, of the towns, of the
villages highlights a social complexity which generates élites able to
organise their power also in an urban context28.
Thus, the histories of the single cities are published, beginning from
Giuseppe Giarrizzo’s Catania (1986) and Orazio Cancila’s Palermo (1988)29,
both in Laterza’s collection Storia delle città italiane; besides, the studies
on the cities30 and the cultural institutions (above all, the Universities31),
27
G. Giarrizzo, Un comune rurale della Sicilia etna. Biancavilla (1810-1860), Società di
Storia Patria per la Sicilia Orientale, Catania, 1963. See also F. Benigno, Una casa, una terra.
Ricerche su Paceco, paese nuovo nella Sicilia del Sei e Settecento, Cuecm, Catania, 1985.
28
E. Iachello, Immagini della città. Idee della città. Città nella Sicilia (XVIII-XIX secolo),
Maimone, Catania, 1999.
29
Orazio Cancila’s recent study, Nascita di una città. Castelbuono nel secolo XVI,
Mediterranea, Palermo, 2013, should also be mentioned.
30
Among others, the following works should be mentioned (in chronological order):
R. Battaglia, Mercanti e imprenditori in una città marittima. Il caso di Messina (1850-1900),
Giuffré, Milano, 1992; G. Restifo, Taormina. Da borgo a città turistica, Sicania, Messina,
1996; S. Adorno, La produzione di uno spazio urbano. Siracusa tra Ottocento e Novecento,
Marsilio, Venezia, 2004; R. Cancila, Gli occhi del Principe. Castelvetrano: uno stato feudale
nella Sicilia moderna, Viella, Roma, 2007; F. Gallo, Siracusa barocca. Politica e cultura
nell’età spagnola (secc. XVI-XVII), Viella, Roma, 2008; S. Bottari, Messina nella Sicilia
spagnola, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2010.
31
Regarding the University of Palermo: O. Cancila, Storia dell’Università di Palermo.
Dalle origini al 1860, Laterza, Roma-Bari, 2006. Regarding the University of Messina: A.
Romano (ed.), Monumenta Historica Messanensis Studiorum Universitatis, Sicania,
Messina, 1992, and the second volume (1998) of «Annali di Storia delle Università italiane».
Regarding the University of Catania: G. Giarrizzo, Siciliae Studium Generale. I suoi luoghi,
la sua storia, Maimone, Catania, 1990; A. Coco, A. Longhitano, S. Raffaele (eds), La Facoltà
di Medicina e l’Università di Catania (1434-1860), Giunti, Firenze, 2000; G. Baldacci,
L’Università degli Studi di Catania tra XVIII e XIX secolo, Bonanno, Acireale-Roma, 2008;
Idem, La città e la circolazione del sapere. Cultura, editoria e istruzione nella Catania del
XVIII e XIX secolo, Bonanno, Acireale-Roma, 2012. Regarding the relationship between
culture and politics, M. Grillo, L’isola al bivio. Cultura e politica nella Sicilia borbonica,
Edizioni del Prisma, Catania, 2000. Regarding the history of science, of philosophy and of
medicine, the following studies are, above all, recommended: G. Bentivegna, Dal riformismo
muratoriano alle filosofie del Risorgimento. Contributi alla storia intellettuale della Sicilia,
Guida, Napoli, 1999; C. Dollo. Filosofia e medicina in Sicilia, G. Bentivegna, S. Burgio, G.
Magnano San Lio (eds), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005; C. Dollo. La cultura filosofica
e scientifica in Sicilia, G. Bentivgna (ed.), Bonanno, Acireale-Roma, 2012; see, also, L.
Caminiti, Dalla pietà alla cura. Strutture sanitarie e società nella Messina dell’Ottocento,
Giuffré, Milano, 2002; E. Frasca, Il bisturi e la toga. Università e potere urbano nella Sicilia
borbonica. Il ruolo del medico, Bonanno, Acireale-Roma, 2008; the volume of miscellaneous
109
Paolo Militello
on the minorities and the emarginated32, and on the cities and their
schools33 are modernised and problematised.
On a larger scale, both regional and extra-regional, the volume on the
settlement in Sicily in the early modern and contemporary ages34
prompts a debate about the settlement modes within the wider EuroMediterranean context. Here the different contributions (above all, Henri
Bresc’s and Melania Nucifora’s) underline the existence of certain still
unresolved issues in the studies on the settlements in Sicily: the
polycentrism, and, in particular, the rivalry between Palermo and
Messina, as well as between these two and Catania; the urban
hierarchies and the territorial equilibriums following the growth of the
newly founded cities and the earthquake of 169335; the modes of
representation in the organization of the territorial and urban space; the
criticism of a view of the island as a homogeneous space, and,
conversely, the “discovery” of the local realities, of areas with medium
and small-sized centres capable of competing or dealing independently
with the major urban centres (the Ionio-Etnean area, and, above all, the
county of Mascali; south-eastern Sicily, with the County of Modica...)36.
works by D. Ligresti, G. Sanfilippo (eds), Progresso scientifico nella Sicilia dei Borboni,
Maimone, Catania, 2013; and M. Alberghina, Ospedalità antica in Sicilia. Un millennio di
medicina e assistenza ospedaliera, Bonanno, Acireale-Roma, 2014.
32
A. Coco, Le minoranze ebraiche in Sicilia, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma,
2006; G. Fiume, La vecchia dell’aceto. Un processo per veneficio nella Palermo di fine
Settecento, Sellerio, Palermo, 1990.
33
Of particular interest is the research current, started by Giarrizzo, on the histories
of school institutions through the examination of the archives of the single institutes,
the first results of which were published in G. Calabrese (ed.), Archivi delle scuole.
Archivio per le scuole. Atti del seminario siracusano, giugno-novembre 2005, Maimone,
Catania, 2008. See also S. Graci, L’insegnamento nella Sicilia del Settecento. Giovanni
Agostino De Cosmi e le Scuole Normali, Aracne, Roma, 2014.
34
E. Iachello, P. Militello (eds), L’insediamento nella Sicilia d’età moderna e
contemporanea. Settlement in Sicily in the early modern and contemporary ages,
Edipuglia, Bari, 2008.
35
On which, in 1992, the contributions by L. Dufour, H. Raymond (eds), 1693. Catania.
Rinascita di una città, Sanfilippo, Catania, 1992, and, later, always by L. Dufour, 1693. Val
di Noto. La rinascita dopo il disastro, Sanfilippo, Catania, 1994. On Noto, in particular, S.
Tobriner, The Genesis of Noto. An Eighteenth-Century Sicilian City, University of California
Press, Berkeley and Los Angeles, 1982. On Catania, E. Boschi e E. Guidoboni (eds),
Catania. Terremoti e lave. Dal mondo antico alla fine del Novecento, INGV SGA, Roma and
Bologna, 2001. On Avola, F. Gringeri Pantano, La città esagonale. Avola. L’antico sito, lo
spazio urbano ricostruito, Sellerio, Palermo, 1996. On earthquakes in Sicily, see D. Ligresti,
Terremoto e società in Sicilia (1501-1800), Maimone, Catania, 1992, and the volume edited
by G. Giarrizzo, La Sicilia dei terremoti. Lunga durata e dinamiche sociali, Maimone, Catania,
1996; more recently, S. Condorelli, U tirrimotu ranni: lectures du tremblement de terre de
Sicile de 1693, Società di Storia Patria per la Sicilia Orientale, Catania, 2012.
36
E. Iachello, Il vino e il mare cit.; P. Militello, La Contea di Modica tra storia e
cartografia. Rappresentazioni e pratiche di uno spazio feudale (XVI-XIX secolo), L’Epos,
Palermo, 2001; G. Barone (ed.), La Contea di Modica (secoli XIV-XVII). Atti del settimo
centenario, Bonanno, Acireale-Roma, 2008.
110
The historiography on early modern age Sicily between the 20th and 21st centuries
This attention to the spatial dimension results also in a renewed
interest in the literary, graphic, cartographic representations of the
cities and the territory. In the 1980s and 1990s there had been no lack
of traditional stories “through images” of the cities37, or the
cartographic reproductions of cities and territories38; likewise, there
had been no lack of studies on the travel stories of the Grand Tour39.
Yet, it is at the end of the 1990s, with the works of Enrico Iachello,
and, after him, of Militello (who restores the role of Malta in its
relationship with Sicily), that this approach changes and makes a
significant contribution to the new historiography of the island40. By
moving away from post-modern approaches, the descriptions and
images of the islands – both graphic and literary – are no longer
considered as mere illustrations but as authentic sources useful for
identifying historically (also thanks to the new opportunities offered by
computer science, as shown by Giannantonio Scaglione’s works41) the
processes of creation and definition of the urban and territorial space.
In all of these works, the history of the city is seen as a palimpsest
not just of places and forms but also people and society. Urban
territory and urban society, together, become a new, exciting research
37
For example, C. De Seta, L. Di Mauro (eds), Palermo, Laterza, Roma-Bari, 1980,
and, again in the same year, A. Ioli Gigante, Messina, Laterza, Roma-Bari, 1980.
38
Regarding Sicily in the second half of the 16th century: M. Scarlata (ed.), L’opera
di Camillo Camiliani, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1993, and R. Trovato
(ed.), Marine del Regno di Sicilia. Tiburzio Spannocchi, Ordine degli Architetti della
Provincia di Catania, Catania, 1993; for Sicily in the 17th century: N. Aricò (ed.), Atlante
di città e fortezze del Regno di Sicilia. 1640. Francesco Negro, Carlo Maria Ventimiglia,
Sicania, Messina, 1992; V. Consolo, C. De Seta (eds), Sicilia teatro del mondo, Nuova ERI,
Roma, 1990; Regarding the 18th century: L. Dufour (ed.), La Sicilia disegnata. La carta
di Samuel von Schmettau (1720-1721), Società siciliana per la storia patria, Palermo,
1995. As outlines, see A. La Gumina, L. Dufour (eds), Imago Siciliae. Cartografia storica
della Sicilia (1420-1860), Sanfilippo, Catania, 1998; E. Iachello (ed.), L’isola a tre punte.
Maps of Sicily from the La Gumina collection (XVI-XIX Century), Regione Siciliana, Palermo,
2001 (also in French); P. Militello, L’isola delle carte. Cartografia della Sicilia in età
moderna, FrancoAngeli, Milano, 2004; V. Valerio, S. Spagnolo (eds), Sicilia. 1477-1861.
La collezione Spagnolo-Patermo in quattro secoli di cartografia, Paparo, Napoli, 2014.
39
H. Tuzet, Viaggiatori stranieri in Sicilia nel XVIII secolo, Sellerio, Palermo, 1988 and
1995 (1st edition: P. H. Heitz, Strasbourg, 1955); or, more recently, the detailed catalogue
in 4 volumes by S. Di Matteo, Il grande viaggio in Sicilia. Viaggiatori stranieri nell’isola
dagli Arabi ai nostri giorni, Arbor, Palermo, 2008.
40
E. Iachello, Immagini delle città. Idee della città cit.; P. Militello, Ritratti di città in
Sicilia e a Malta (XVI-XVII secolo), Officina di Studi Medievali, Palermo, 2008.
41
Also the works of thematic cartography should be mentioned; they began at the end
of the 1990s, with the volume edited by E. Iachello, B. Salvemini (eds), Per un atlante storico
del Mezzogiorno e della Sicilia in età moderna, Liguori, Napoli, 1998, and their methods
and techniques were applied for the first time in a practical manner in G. Scaglione’s
Cartografia tematica della città di Catania in età moderna, Bonanno, Acireale-Roma, 2012:
here the map, created through a philological study of documents and representations,
becomes a research tool, a document for interpretation, and not a mere illustrative aid.
111
Paolo Militello
subject matter which makes it necessary to reconsider the relationship
between the city and its territory, between the city and the countryside
which are interdependent both from the social point of view as well as
the economic point of view, as already shown by the works of Orazio
Cancila and Marcello Verga42, of Antonino Giuffrida and Rossella
Cancila43 or, for the nineteenth century, of Salvatore Lupo on the
“world of citrus” and of Barone on sulphur44.
A significant synthesis of this approach can be represented by the
editorial venture which, under the direction of Giarrizzo and Aymard,
led to the publication of four important joint authorship volumes (20072012) on the Storia di Catania from its origins to the present day45, a
work in which the city becomes an authentic common ground where
the various fields of study – the history of the language46, architecture47,
42
O. Cancila, Impresa, redditi, mercato nella Sicilia moderna, Laterza, Roma-Bari,
1980 (2a edizione Palumbo, Palermo, 1993); Idem, L’economia della Sicilia. Aspetti storici,
Il Saggiatore, Milano, 1992; Idem, Storia dell’industria in Sicilia, Laterza, Roma-Bari,
1995; Idem, La terra di Cerere, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 2001; Idem, I Florio. Storia
di una dinastia imprenditoriale, Bompiani, Milano, 2008. M. Verga, La Sicilia dei grani.
Gestione dei feudi e cultura economica fra Sei e Settecento, Olschki, Firenze, 1993. S.
Epstein’s An Island for Itself. Economic Development and Social Change in Late Medieval
Sicily, Cambridge University Press, Cambridge, 1992, should also be mentioned.
43
A. Giuffrida, La finanza pubblica nella Sicilia del ‘500, Sciascia, Caltanissetta, 1999;
Idem, Le reti del credito nella Sicilia moderna, Mediterranea, Palermo, 2011; Idem, Stessa
misura, stesso peso, stesso nome. La Sicilia e il modello metrico decimale (secc. XVI-XIX),
Carocci, Roma, 2014; R. Cancila, Fisco, ricchezza, comunità nella Sicilia del Cinquecento,
Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, Roma, 2001. Always valid,
Giarrizzo and his Cultura ed economia nella Sicilia del ‘700, Sciascia, Caltanissetta-Roma,
1992.
44
S. Lupo, Il giardino degli aranci. Il mondo degli agrumi nella storia del Mezzogiorno,
Marsilio, Venezia, 1990; G. Barone, Zolfo. Economia e società della Sicilia industriale,
Bonanno, Acireale-Roma, 2000. Regarding the economic relationships between Sicily
and Great Britain in the first half of the nineteenth century, see R. Battaglia’s volumes
Sicilia e Gran Bretagna. Le relazioni commerciali dalla Restaurazione all’Unità, Giuffré,
Milano, 1983, and M. D’Angelo’s Mercanti inglesi in Sicilia (1806-1815). Rapporti
commerciali tra Sicilia e Gran Bretagna nel periodo del blocco continentale, Giuffré, Milano,
1988.
45
G. Giarrizzo, M. Aymard (eds), Storia di Catania, Sanfilippo, Catania, 2007, 2009,
2010 and 2012.
46
Regarding the history of the language, G. Alfieri’s work I vestigi dei nomi. L’identità
di Catania tra storia e mito, Università degli Studi di Catania, Catania, 2003, and R.
Sardo’s “Registrare in lingua volgare”. Scritture pratiche e burocratiche in Sicilia tra ‘600
e ‘700, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Palermo, 2008, should be
mentioned, as well as G. Caracausi (ed.), Dizionario onomastico della Sicilia. Repertorio
storico-etimologico di nomi di famiglia e di luogo, Centro di studi filologici e linguistici
siciliani, Palermo, 1994. In 2002, under the direction of G. Tropea and S. Trovato, the
project, already started by Giorgio Piccitto, of a Vocabolario Siciliano published by the
Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani (Palermo 1977-2002) was completed.
47
Regarding the architecture and the cities: S. Boscarino, Sicilia barocca. Architettura
e città. 1610-1760, Officina, Roma, 1986 and 1997, and, later, among others: M. Giuffrè,
Barocco in Sicilia, Arsenale, S. Giovanni Lupatoto, 2008; L. Trigilia, La valle del Barocco.
112
The historiography on early modern age Sicily between the 20th and 21st centuries
art48 etc. – meet through a “restricted” (to quote Bernard Lepetit)
interdisciplinary method.
Other currents can be also added to these new orientations, for
instance, the current of studies on the history of Sicily in the
Mediterranean, promoted by Orazio Cancila with a review and a
collection of books (Mediterranea - ricerche storiche) by means of which
the historians (not just the Sicilian historians) can contribute to a history
of the island inserted into the wider Euro-Mediterranean context49.
Neither colony nor periphery
Between the 1980s and 1990s, also the historiography of Sicily
would align with the “pendular” return to political history,
characterised by that revisionism which made the historical studies of
that period possible and which, as observed by Giarrizzo, «applied also
to the “backwardness” of Southern Italy, with the search for more
flexible and less liquidating historiographical approaches»50.
The view of the relationship between Sicily and its “conquerors”,
between the island and the “centres” which, in turn, had ruled it
(Madrid, Turin, Vienna, Naples, Rome etc.), therefore, changed51. New
Le città siciliane del Val di Noto, Patrimonio dell’Umanità, Sanfilippo, Catania, 2002;
A. Iolanda Lima, Architettura e urbanistica della Compagnia di Gesù in Sicilia, Novecento,
Palermo, 2001; E. Pagello, E. Magnano, Difese da difendere. Atlante delle città murate di
Sicilia e Malta, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 2004.
48
Regarding the history of visual arts, see, above all, the superb work on the “Sicilian”
Caravaggio by F. Bologna, L’incredulità del Caravaggio e l’esperienza delle cose naturali,
Bollati Boringhieri, Torino, 1992 and 2006. T. Pugliatti’s work Pittura del Cinquecento in
Sicilia, Electa, Napoli, 1993, and C. Siracusano’s La pittura del Settecento in Sicilia, De
Luca, Roma, 1986, should also be mentioned. See also G. Pagnano (ed.), Dal tardobarocco
ai neostili. Il quadro europeo e le esperienze siciliane, Sicania, Messina, 2000, and B.
Mancuso, Assenze e presenze. Opere, artisti, committenti a Catania nel XVII secolo,
Maimone, Catania, 2011. On antiquities and collecting, see G. Pagnano, Le antichità del
Regno di Sicilia. I «Plani» di Biscari e Torremuzza per la Regia custodia (1779), Lombardi,
Siracusa, 2001, and S. Pafumi, Museum Biscarianum. Materiali per lo studio delle
collezioni di Ignazio Paternò Castello di Biscari (1719-1786), Almaeditore, Catania, 2006.
49
M. Aymard, La Sicilia e il Mediterraneo cit.
50
«Valeva anche per l’“arretratezza” del Mezzogiorno, con la ricerca di approcci
storiografici più flessibili e meno liquidatori» (G. Giarrizzo, Storiografia. Età moderna e
contemporanea, in Enciclopedia Italiana, App. V, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana
Treccani, 1995, p. 298).
51
Besides the already indicated outlines and the very important work of C. Trasselli,
Da Ferdinando il Cattolico a Carlo V. L’esperienza siciliana. 1475-1525, Rubbettino,
Soveria Mannelli, 1982, the following works regarding the various periods should be
mentioned here: R. Cancila, Autorità sovrana e potere feudale nella Sicilia moderna,
Mediterranea, Palermo, 2013; N. Bazzano, Marco Antonio Colonna, Salerno, Roma, 2003;
L. Scalisi, Magnus Siculus. La Sicilia tra impero e monarchia (1513-1578), Laterza, Roma-
113
Paolo Militello
approaches and new studies (carried out no longer only using Sicilian
sources) made it possible to go beyond the idea of a unilateral centreperiphery relationship within which Sicily passively suffered external
control. By contrast, a historiographical interpretation of Sicily would
now emerge, in which Sicily took an active part within State agencies
with an interactive and dialectic role although sometimes unequal and
not always lacking in moments of tension: the riots, revolts and
revolutionary breaches which featured in the Sicilian 1600s with the
two key events being the Palermo revolt (1647) and the anti-Spanish
revolt/revolution/war in Messina (1674-78)52.
Even studies on the Catholic Church and ecclesiastical institutions
have shown the impossibility of distinguishing between Sicilian events
and the dynamics of religion and society as a whole53, as shown, for
example, by the indispensable studies by Vittorio Sciuti Russi on the
Spanish Inquisition researched not only as an ecclesiastical tribunal
but above all as an “instrument of government” (instrumentum regni)
whose actions must be placed not just in a religious, but also a
political, social and cultural context54.
We have already touched on a historiographical bias of Sicily of
“latifundium” from which derives what Domenico Ligresti defines as «two
corollaries: the Sicilianist theory of “two nations” with the conquistadors
and their descendants who are outsiders and indifferent to real Sicilians,
Bari, 2013; V. Favarò, La modernizzazione militare nella Sicilia di Filippo II, Mediterranea,
Palermo, 2009; L.A. Ribot García, La monarquía de España y la guerra de Mesina, Actas
Editorial, Madrid, 2002; F. Gallo, L’alba dei Gattopardi. La formazione della classe
dirigente nella Sicilia austriaca (1719-1734), Meridiana, Catanzaro, 1996. Still
unsatisfactory, on the contrary, are the studies on the Piedmontese period, whereas,
regarding the Bourbon period, E. Iachello (ed.), I Borbone in Sicilia. 1734-1860, Maimone,
Catania, 1998, is still valid.
52
D. Palermo, Sicilia 1647: voci, esempi, modelli di rivolta, Mediterranea, Palermo,
2009; L.A. Ribot García, La rivolta antispagnola di Messina. Cause e antecedenti (15911674), Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011; S. Di Bella (ed.), La rivolta di Messina,
1674-78 e il mondo mediterraneo nella seconda metà del Seicento. Atti del Convegno
storico internazionale, L. Pellegrini, Cosenza, 2001. On revolts, see also R. Cancila, Il
pane e la politica. La rivolta palermitana del 1560, ESI, Napoli, 1999, and S. Laudani,
“Quegli strani accadimenti”. La rivolta palermitana del 1773, Viella, Roma, 2005.
53
Regarding the studies on the religious institutions, on the other hand, see the recent
volume by R. Manduca, La Sicilia, la Chiesa, la storia. Storiografia e vita religiosa in età
moderna, Sciascia, Caltanissetta-Roma, 2012, not forgetting, however, the three volumes
of G. Zito (ed.), Chiesa e società in Sicilia. Atti del I Convegno internazionale organizzato
dall’arcidiocesi di Catania, SEI, Torino, 1995, or the contributions on hagiography, such
as those by S. Cabibbo, M. Modica (eds), La Santa dei Tomasi. Storia di suor Maria
Crocifissa (1645-1699), Einaudi, Torino, 1989, and S. Cabibbo’s Santa Rosalia tra terra e
cielo. Storia, rituali, linguaggi di un culto barocco, Sellerio, Palermo, 2004.
54
Inquisizione, politica e giustizia nella Sicilia di Filippo II, ESI, Napoli, 1999 and
Inquisizione spagnola e riformismo borbonico fra Sette e Ottocento. Il dibattito europeo sulla
soppressione del terrible monstre, Olschki, Firenze, 2009.
114
The historiography on early modern age Sicily between the 20th and 21st centuries
oppressed and poor….; the thesis of “the absence of State” or rather the
inability of Sicilians to respect the law and State authority because they
are living in a kind of feral society...» The historical, cultural and political
motives behind this bias were easily identifiable: «the bourgeois criticism
of the Ancien Régime, the patriotism of the Risorgimento and the
nationalist patriotism opposed to outsiders in the peninsula, the
industrialist mythology and class conflict, anti-regionalist statism, and
the anti-clericism which identified Spanish power and feudalism as
standard-bearers for the Counter-Reformation»55.
The studies cited above were able to show how «Sicilian feudalism was
not a social group enclosed by the Spanish monarchy in a walled garden
of privilege guarding a population which had to be ill-treated and
dominated, but a transnational élite connected to the Italian and Spanish
nobility and directly responsible through appointments, honours and
ancient institutions of the Sicilian government and participant in clashes
and political choices which took place at its heart and at the pinnacle of
that grand empire directly and by means of the game of patronage,
hangers-on, kinship, political parties and court factions»56. An élite
destined above all in the Austrian and Bourbon 1700s to be converted
from the dominant class into the ruling class, and then during the
Bourbon 1800s while the relationship between State and society was
being redefined, in the rest of Europe, as a group of “functionaries” who
tried to redefine their power within the new administrative monarchy.
An example of this is Iachello’s work (a summary of which is in the
already mentioned Storia della Sicilia published by Laterza) on the
processes of administrative and socio-economic modernisation
originating from the constitutional experience during the so-called
English period (1806-1812)57 and from the Bourbon administrative
reform of 1817. The scholar opposed the refrain «a Sicily which did not
experience the French Revolution» with a view highlighting the scope
of the events which had transformed the island during that period and
which could be synthesised in three key points: «a new order in the
relationships between the monarchy and the island; a new ruling class,
or, in any case, a modernisation of the political and social traits of the
traditional ruling class; a redefinition of the territorial equilibriums
D. Ligresti, Sicilia aperta cit., p. 72.
Ivi, p. 77.
57
On which the volume of J. Rosselli, Lord William Bentinck and the British
Occupation of Sicily (1811-1814), Cambridge University Press, Cambridge, 1956 is always
valid, while purely historical contributions on the constitutional experience of 1812 are
still missing. Very recent is the doctoral thesis of Agata Laura Cristaldi dedicated to the
analysis and transcription of Il Sicilian Journal di Lord William Bentinck (1812-1814),
University of Catania, PhD in Humanities and Cultural Heritage, academic year 20132014, tutors: Paolo Militello and David Laven.
55
56
115
Paolo Militello
between the various provincial capital cities»58. Furthermore, for the
period of the Risorgimento, already Romeo and Giarrizzo had
interpreted the revolutionary uprisings (above all, the year 1848) as a
watershed which had favoured the national collocation of the Sicilian
élites and their inclusion in the European political and cultural debate,
both before and after the controversial process of the unification of Italy
(1861). Regarding this last event, the 150th anniversary of the
unification of Italy (2011) was on the one hand the subject of debates
and polemics on the disadvantages for Sicily and the South (nearly one
hundred scholars and intellectuals appealed to the Governor of Sicily
«to reflect on our roots and identity... constructively and not
subversively in a relationship which is fundamental to that little
modernisation which our Island has achieved in the last 150 years»59),
and on the other has inspired renewed historiography on the subject60.
Following this line of analysis we can also insert the studies on the
leading economic and political role of the middle classes, as well as the
relationship between élites and mass movements; or the studies on the
evolution of the political struggle which affects the municipalities,
above all, beginning from the electoral administrative reform of 188889. Or the recent works on the Fasci Siciliani, which highlight not only
the “agrarian question” but also mass organizations as well as the
selection of the ruling groups.
58
«Un nuovo assetto dei rapporti fra la monarchia e l’isola; una nuova classe
dirigente, o in ogni modo un aggiornamento dei tratti politici e sociali della classe
dirigente tradizionale; una ridefinizione degli equilibri territoriali tra le varie capitali
provinciali» (E. Iachello, La riforma dei poteri locali nel primo Ottocento, in G. Giarrizzo,
F. Benigno (eds), Storia della Sicilia cit., vol. II, p. 16). See, also, Alfio Signorelli, Tra ceto
e censo. Studi sulle élites urbane nella Sicilia dell’Ottocento, FrancoAngeli, Milano, 1999;
S. Adorno, S. Santuccio, Notabili e reti notabilari in Sicilia tra Otto e Novecento, «Archivio
Storico Siracusano», XLV, 2010, 327-387. Regarding the moments of conflict, A. De
Francesco, La guerra di Sicilia. Il distretto di Caltagirone nella rivoluzione del 1820-1821,
Bonanno, Acireale-Roma, 1992.
59
«Una riflessione sulle nostre radici e sulla nostra identità… in uno spirito
costruttivo e non eversivo di un rapporto che resta fondamentale per quel tanto di
modernizzazione che la nostra Isola ha realizzato negli ultimi centocinquant’anni». The
letter may be consulted on the site of «Mediterranea - ricerche Storiche» (last consulted:
January 2016).
60
Above all we remember the works of G. Astuto, Garibaldi e la rivoluzione del 1860.
Il Piemonte costituzionale, la crisi del Regno delle Due Sicilie e la spedizione dei Mille,
Bonanno, Acireale-Roma, 2011, and the work on the massacre at Bronte (one of the
most controversial and debated events of Garibaldi’s expedition) by L. Riall, Under the
Volcano. Revolution in a Sicilian town, Oxford University Press, Oxford, 2013. Regarding
the Risorgimento and the city see amongst others: for Messina, R. Battaglia, L. Caminiti,
M. D’Angelo (eds), Messina 1860 e dintorni. Uomini, idee società tra Risorgimento e Unità,
Le Lettere, Firenze, 2011; for Catania, G. Barone (ed.), Catania e l’unità d’Italia. Eventi e
protagonisti del lungo Risorgimento, Bonanno, Acireale-Roma, 2011; for Syracuse, S.
Santuccio, Governare la città. Territorio, amministrazione e politica a Siracusa (18171865), FrancoAngeli, Milano, 2010.
116
The historiography on early modern age Sicily between the 20th and 21st centuries
In closing, a final observation should be made on the Mafia. Only
recently the studies on justice and criminality, already started by
Carmelo Trasselli61, in the 1970s, and the studies on the Mafia, above
all, by Salvatore Lupo and Rosario Mangiameli62, have questioned
stereotypes and commonplaces not only of certain literature but also of
sociological and anthropological currents. As already underlined by
Giovanni Schininà, in this way certain beliefs (for instance, the
exclusive link with the latifundum and the economic backwardness)
were questioned and certain “culturalist or behaviourist” interpretations
were scaled down. On the other hand, the connections with the ruling
classes and with post-unification brigandage, the relationships with the
economic structures, the administrative dimensions were analysed
through detailed historico-archival investigations: «from such studies –
Schininà concludes – the theories on a supposed difference between an
old Mafia and a new Mafia (that is, honorary, patriarchal, non-violent,
only aiming at stability and social order, almost provided with “morality”
the first; violent, terrorist and with no rules the latter) proved to be
baseless… After all, the observation of the international connections of
the Sicilian Mafia, of its expansion in the United States, of its
similarities with other organised crime groups in the South and in the
Mediterranean have tended to reduce also the nature of the regional
uniqueness in the Mafia phenomenon»63.
The historiography of Sicily in the early modern age over the last
few decades has, thus, experienced a phase of modernisation,
rethinking and revision which, with a formidable historical and
philological work, has finally started to free the image of the island from
commonplaces, false stereotypes and fixed historical prejudices.
61
C. Trasselli, Du fait divers à l’histoire sociale. Criminalité et moralité en Sicile au
début de l’époque moderne, «Annales. Economies, Sociétés et Civilisations», 1973, v. 28,
n. 1, pp. 226-246.
62
S. Lupo, Storia della mafia. Dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma, 2013; R.
Mangiameli, La mafia tra stereotipo e storia, Sciascia, Caltanissetta, 2000. Among the
first examples of anthropological analysis, see A. Blok, The mafia of a sicilian village,
1860-1960. A study of violent peasant entrepreneurs, Polity Press, Cambridge, 1974.
Among the first innovative studies, P. Pezzino’s Il paradiso abitato dai diavoli. Società,
élites, istituzioni nel Mezzogiorno contemporaneo, FrancoAngeli, Milano, 1992, should be
mentioned.
63
«Da tali studi sono risultate infondate le tesi di una presunta differenza tra una
vecchia e una nuova mafia (onorifica, patriarcale, non violenta, rivolta solo alla stabilità
e all’ordine sociale, quasi dotata di “moralità” la prima; violenta, terroristica e senza
regole la seconda)... D’altronde, la constatazione dei legami internazionali della mafia
siciliana, della sua espansione negli Stati Uniti, delle affinità con altre criminalità
organizzate nel Meridione e nel Mediterraneo, hanno teso a ridurre anche il carattere di
eccezionalità regionale nel fenomeno mafioso» (G. Schininà, La storiografia regionale: la
Sicilia cit., p. 105).
117
Paolo Militello
Moreover, the most recent research works have started to open up to
the comparison with other European and extra-European experiences,
thus overcoming more and more the insular dimension (both in the
contents and in the comparative approaches) with a constant process
of “internationalisation” also favoured by the studies on Sicily carried
out by foreign scholars often in collaboration with Italian scholars.
Today, however, prospects demand more and more the inclusion of
the history of the island in wider contexts. In particular, there is still a
shortage of studies connecting Sicilian historical events with the
southern and eastern regions of the Mediterranean. From this point of
view, a final observation on the shortage of translations of most
historiographical work on Sicily into “international” languages
(English, Spanish etc.) should be made. As a consequence, Sicily often
appears marginalised. The solution to this problem would certainly
favour the route – already partly started – in the direction of a more
and more comparative dimension.
(Translation of this text by Agata Aladio)
118
Salvatore Bono
MEDITERRANEO, STORIE DI UNA IDEA LIQUIDA*
SOMMARIO: Con il termine Mediterraneo si designano realtà geografiche, politiche e storiche che
si sono evolute nel tempo e che risultano oggi fra loro distinte e differenti; è necessario anzitutto
rendersi conto della evoluzione percorsa da quelle realtà e idee. Valide prospettive e soluzioni
per il futuro non possono più fondarsi sull’idea di un Mediterraneo ‘europeo’ né di un Mediterraneo ‘frontiera’, ostile o quanto meno di ‘separazione’ fra due parti, ma soltanto nella prospettiva
di un ‘mondo mediterraneo’, nel quale l’intera Europa, la Turchia, Israele e tutto il mondo arabo
si accordino per un processo di intesa e di cooperazione, come voleva essere il Partenariato euromediterraneo; le cause di quell’insuccesso devono essere accertate e rimosse.
PAROLE
CHIAVE:
Mediterraneo, Geografia politica, Politica mediterranea, Dialogo mediterraneo.
THE MEDITERRANEAN, STORIES OF A FLUID IDEA
ABSTRACT: The term Mediterranean designates a geographical, political and historical reality that have
evolved over time and which are now distinct and different from each other. It is first necessary to
understand the evolution path of those realities and ideas. Perspectives and viable solutions for the
future can no longer be based on the idea of a “European“ Mediterranean or of a Mediterranean “frontier“, hostile or at the very least the “separation“ between two parts, but only in the perspective of a
“Mediterranean world“ , in which the whole of Europe, Turkey, Israel and the entire Arab world would
agree to a process of understanding and cooperation, as meant to be by the Euro-Mediterranean Partnership; the causes of that failure must be ascertained and removed.
KEYWORDS: Mediterranean, Political geography, Mediterranean Politics, Mediterranean Dialogue.
Nel titolo della riflessione proposta confluiscono due accezioni di
‘liquidità’ che si possono riscontrare nel termine Mediterraneo, e nel
discorso, nelle ‘idee’, intorno ad esso. Lo stesso Fernand Braudel, che
* Testo della conferenza tenuta dall’autore presso il Deutsches Historisches Institut di
Roma, nella sede di via Aurelia antica, il 23 febbraio 2015. L’esposizione è stata preceduta
da queste parole: «Rivolgo un sincero e cordiale ringraziamento al direttore dell’Istituto,
prof. Martin Baumeister, anzitutto per le cortesi parole con le quali mi ha presentato. Fuori
d’ogni retorica considero un grande onore prendere la parola nella sede dell’Istituto Storico
Germanico di Roma, istituzione più che centenaria, erede diretta di una tradizione storiografica che ha avuto un ruolo centrale nella conoscenza europea del Mediterraneo dunque
nell’esistenza stessa di un Mediterraneo oggetto di un percorso di idee».
n. 36
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Aprile 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
119
Salvatore Bono
continuiamo a ritenere il massimo storico del Mediterraneo, ha designato le distese marittime che compongono il grande mare come ‘pianure liquide’; da qui si è passati alla espressione più estensiva
‘continente liquido’, facendone anche un uso al plurale. L’altra accezione di ‘liquidità’ proviene, è ovvio, dal sociologo Zygmunt Bauman,
che ci ha additato come la società dei nostri giorni nel suo insieme e in
tanti suoi particolari aspetti sia appunto ‘liquida’, cioè rapidamente
mutevole, incerta, contraddittoria, sfuggente ad analisi e definizioni
durature1. E ben si appropria al Mediterraneo questa ‘liquidità’, non
solo alle idee che se ne sono avute e se ne hanno, ma a dati stessi che
potrebbero ritenersi fuori discussione, come dimensioni e confini del
Mediterraneo come mare, ovvero come regione geografica, ovvero
ancora come paesi rivieraschi o comunque definibili come mediterranei, o, infine, del Mediterraneo come insieme geo-politico. Dati e idee
peraltro, come ci si può aspettare, non di rado si connettono2.
Mare e regione geografica
Nel primo testo di geografia che svolge un discorso complessivo sul
Mediterraneo, la Nouvelle géographie universelle (Paris, 1876), Elisée
Reclus non ha esitazione nell’affermare che il Mediterraneo Mare sia
esteso per 3milioni di kmq (sei volte la Francia, commenta il geografo
francese); oggi si legge più spesso la cifra di 2milioni e mezzo. La prima
dimensione comprende il Mar Nero e le sue insenature minori, e si
riduce invece se si respinge quella estensione3.
Il Mediterraneo è comunque ben più che un mare, è un bacino geografico, un insieme di terre che circondano il mare e che, per la contiguità e dunque l’influenza di quel mare, hanno proprie caratteristiche.
Sui criteri però per delimitare il bacino, cioè la regione geografica mediterranea, il dissenso è ancor più ampio: si fa riferimento in vario senso
alla coltivazione dell’ulivo o della vite, alla prima presenza di estesi palmizi quale confine meridionale, ovvero a curve di temperature medie,
ovvero ancora ai bacini fluviali che versano le acque nel Mediterraneo.
Le conseguenze in questa ultima ipotesi sulla delimitazione del perimetro della regione mediterranea, sono molto sorprendenti; basti pensare al Nilo, il cui corso e dunque il bacino si prolunga verso l’Africa
australe a migliaia di km dalla foce4.
1
Diverse opere del sociologo polacco sono tradotte in italiano, fra le quali: Vita liquida,
Laterza, Roma-Bari, 2006; Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2011.
2
Per una analisi di concetti e definizioni di Mediterraneo, fra gli altri: S. Bono, Un
altro Mediterraneo. Una storia comune fra scontri e integrazioni, Salerno, Roma, 2008.
3
Sulla inclusione o no del Mar Nero: Bono, Un altro Mediterraneo cit., p. 19.
4
J. Bethemont, Géographie de la Méditerranée. Du mythe unitaire à l’espace fragmenté, Colin, Paris, 2000, p. 9.
120
Mediterraneo, storie di una idea liquida
Un geografo dell’Università di Bonn, Alfred Philippson, al principio
del secolo scorso, nel suo Das Mittelmeergebiet (Berlin, 1904) ha approfondito questa delimitazione della regione geografica mediterranea:
sulle isole non c’era da discutere, e tutto sommato sulla appartenenza
al Mediterraneo geografico delle penisole iberica, italiana e greca, non
vi è dubbio, ma del vasto territorio della Francia al Mediterraneo geografico ne apparterrebbe appena un decimo, e così via per altri paesi5.
Torneremo peraltro ai geografi poiché essi hanno avuto un ruolo trainante nel discorso mediterraneo ma qualche voce, sconosciuta o molto
illustre, si era espressa a proposito del grande mare interno ancor più
indietro nel tempo, circa due secoli fa. Già dalla fine del Settecento
infatti sempre più numerosi viaggiatori, spintisi verso paesi meridionali
d’Europa e poi sino alle opposte sponde, contribuirono al formarsi di
una ‘idea’ di Mediterraneo.
Nel giro di questa riflessione non potremo che scegliere un percorso
fra i diversi possibili, ora seguendo il filo del tempo, ora dando spazio a
brevi deviazioni o passi indietro o invece a forzati salti. Presteremo prevalente attenzione alle ‘idee’, a ciò che è stato espresso in termini concettualmente elaborati e strutturati e che sottendono a realtà
storico-politiche ovvero tendono a realizzarle. Trascureremo invece il
richiamo al complesso di ‘immagini’ del Mediterraneo, di espressioni cioè
artistiche, letterarie e figurative, scaturite da sensazioni e sentimenti;
un patrimonio molto vasto, non certo sconosciuto, ma non ancora raccolto insieme e considerato come, potremmo dire, il ‘Mediterraneo poetico’. Ci si può peraltro anche chiedere se quelle espressioni poetiche –
come il Cimetière marin (1920) di Paul Valéry o le liriche di Eugenio Montale raccolte appunto sotto il titolo Mediterraneo (1939) – abbiano significato in rapporto a un diretto riferimento mediterraneo o non piuttosto
a realtà e condizioni umane al di là di luoghi e tempi definiti.
Fra Hegel e i Sansimoniani
Quando l’Europa, dopo la tempesta e le speranze della Rivoluzione
francese e del periodo napoleonico, ‘restaura’ un suo assetto e torna
dopo secoli a guardare verso Oriente, un grande filosofo, Georg W. F.
Hegel, nel dare sistemazione razionale a tutto il passato storico, nelle
sue Lezioni sulla filosofia della storia vede il Vecchio Mondo come «spezzato da un’ insenatura profonda», dal Mediterraneo appunto, come oggi
effettivamente lo vede un astronauta. E proprio in virtù di quel dato
5
A. Philippson, Das Mittelmeergebiet, Berlin, 1904, e successive edizioni sino alla
quarta del 1922.
121
Salvatore Bono
geografico, egli dice, le tre parti del mondo antico «stanno fra loro in
un rapporto essenziale e costituiscono una totalità. Il loro carattere
peculiare è proprio il fatto di giacere intorno al mare e di aver perciò
un facile mezzo di comunicazione».
Il mare Mediterraneo – prosegue il filosofo – è perciò il cuore del Vecchio
Mondo, è la sua condizione necessaria e la sua vita. Senza di esso sarebbe
impossibile rappresentarsi la storia, sarebbe come immaginare l’antica Roma
o Atene senza il foro, dove tutti si radunavano.
Una ulteriore riflessione di Hegel a proposito dell’Africa settentrionale è gravida di conseguenze: «Questa parte meriterebbe di essere attirata verso l’Europa, e bisognerebbe farlo, proprio come hanno appena
tentato con successo i Francesi» (1830, conquista di Algeri); il testo
tedesco è forse più forte: «Diesen Theil sollte und müsste man zu
Europa herüber ziehen»6.
Le parole di Hegel anticipano esplicitamente ciò che si stava già
profilando nei fatti, e contemporaneamente nelle teorie, nelle idee, ciò
che segnerà il destino del Mediterraneo sino alla seconda guerra mondiale: l’assoggettamento all’Europa della riva meridionale e di quella
orientale, escluso soltanto il territorio anatolico della Turchia. Sul
piano delle idee si comincia anche a emarginare, se non pure a respingere e a negare, ogni apporto ‘africano’ o ‘orientale’ alla ‘civiltà mediterranea’. Ci si avvia a far coincidere la ‘civiltà’, come termine
universale e assoluto, con la civiltà che ha avuto la sua ‘culla’ nel Mediterraneo, le sue radici nella tradizione greco-romano-germanica; nella
romanità si include il cristianesimo. Il monoteismo – essenziale nel
sostanziare le civiltà del Mediterraneo – viene lasciato in ombra, poiché
altrimenti avrebbe richiamato e valorizzato l’ebraismo e l’islàm. Ecco
un aspetto di ciò che dobbiamo intendere come ‘liquidità mediterranea’:
la reticenza, l’incertezza e l’equivoco, che segneranno in molti punti e
momenti il discorso mediterraneo.
Dalla voce somma del filosofo scendiamo a rievocare una idea ‘perdente’, cioè rimasta, come altre, ignorata più ancora che confutata o
respinta: un progetto utopistico – rievocato ai nostri giorni come
reperto di una archeologia dell’idea mediterranea – del giovane francese
Michel Chevalier, un tardo seguace delle fervide speranze del pensatore
Saint-Simon, presentato nel 1822 con il titolo significativo: Système de
6
G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, a cura di G. Bonacina e L. Schirollo,
Laterza, Roma-Bari, 2003, pp. 76, 81. Il testo così fra l’altro prosegue: «Il mare ci dà
l’idea di qualcosa d’indeterminato, illimitato, infinito e l’uomo, sentendosi in mezzo a
questo infinito, è incoraggiato a varcarne il limite» (p. 79). L’edizione tedesca: Vorlesungen
über die Philosophie der Geschichte, Stuttgart, 1939, pp. 136-137.
122
Mediterraneo, storie di una idea liquida
la Méditerranée (Paris, 1832). Il grande mare e le terre circostanti costituiscono lo spazio per l’‘associazione’, egli dice, «in un’opera comune e
creatrice delle due più grandi potenze belligeranti mai esistite, che
hanno condotto in un campo o nell’altro tutti i popoli del mondo,
l’Oriente e l’Occidente» (p. 29). In prospettiva Chevalier immaginava
una confederazione mediterranea. Al di là dei termini in cui egli si
esprime e delle linee d’azione previste (a cominciare da grandi piani di
sviluppo, anzitutto ferrovie irradiate dai porti mediterranei verso il
retroterra), è significativa questa volontà e disponibilità al superamento
di contrapposizioni, ostilità, incomprensioni di antica data e di apertura convinta e leale verso gli altri7.
L’invenzione del Mediterraneo
Nei fatti e nelle teorie si è andato invece affermando per un lungo
secolo (dal ricordato 1830 alla metà del secolo scorso) un ‘Mediterraneo
coloniale’, possiamo anche dire un ‘Mediterraneo europeo’. Tutto il territorio dell’impero ottomano, per la maggior estensione paesi arabi, venne
sottoposto, in tempi diversi e sotto forme giuridiche differenti, al dominio
di potenze coloniali europee; in quella condizione coloniale, continuarono
a trovarsi paesi, come Malta e Cipro, oggi stati membri dell’Unione europea. Due eventi possono indicare l’inizio e l’epilogo dell’epoca coloniale
nel Mediterraneo. L’apertura del canale di Suez nel settembre 1869 –
dopo una complessa e movimentata storia, dalla spedizione napoleonica
in Egitto – restituiva al Mediterraneo un ruolo mondiale che era stato sottratto dalle aperture atlantiche, dalla circumnavigazione dell’Africa e dal
raggiungimento del continente americano. La nazionalizzazione del
canale e l’insuccesso della reazione militare anglo-francese, nell’autunno
1956, segnarono l’epilogo del Mediterraneo europeo8.
Nel lungo periodo coloniale si manifestarono nei paesi europei
varietà di immagini letterarie e poetiche, più precise definizioni geografiche, concorrenti rivendicazioni politiche, nuove espressioni della vita
sociale, come il nascente turismo di gruppo (non certo ‘di massa’), tutte
rivolte verso il Mediterraneo, verso il mare e verso lo spazio terrestre
che ne era parte integrante. Tutto peraltro convergeva nel convincimento che quell’assetto eurocentrico andasse verso un trionfo sempre
più certo, completo e duraturo; nessuna idea di segno contrario, pur
da qualcuno espressa, arrivava a imporsi.
7
Il Système apparve su «Le Globe» del 20 e del 31 gennaio 1832, poi in un piccolo
volume.
8
S. Bono, Il Mediterraneo. Da Lepanto a Barcellona, Morlacchi, Perugia, 1999, pp.
135-154 (Il Mediterraneo da Suez a Suez, 1869-1956).
123
Salvatore Bono
In questo quadro coloniale il geografo ricordato all’inizio consacrava, con larga risonanza e seguito, nella Géographie universelle
(1876) la ‘invenzione’ del Mediterraneo, una delle tante ‘invenzioni’ ricostruite dagli storici. Nel discorso di Réclus cioè, il Mediterraneo non è
più soltanto una pianura liquida e una regione geografica; è lo scenario
nel quale e grazie al quale popolazioni dei tre continenti del mondo
antico sono entrate in rapporti fra loro ed hanno dato origine alla civiltà
‘occidentale’; per questo suo ruolo di ‘culla della civiltà’, si attribuiva
al Mediterraneo una preminenza su tutti gli altri mari.
Alla idea di Mediterraneo come realtà e come valore d’insieme, al di
là delle sue parti e dei suoi singoli aspetti, contribuirono ben presto
anche gli storici. Ascoltiamo l’aristocratico austriaco Edward von Wilczeck, appassionato di storia marittima, nel saggio Das Mittelmeer.
Seine Stellung in der Weltgeschichte und seine Rolle in Seewesen. Skizze
(Sua posizione nella storia mondiale e suo ruolo nella marineria) (Wien,
1895), un ventennio dopo la cosiddetta ‘invenzione’ geografica del Mediterraneo. Von Wilczek vede nella storia del Mediterraneo
un caleidoscopico frullare di popoli; nazioni e formazioni statali appaiono, fioriscono, appassiscono e scompaiono in una varietà e in una rapidità di successione della quale nessuna altra parte del globo terrestre offre esempi anche
soltanto comparabili.
Più avanti, dopo aver posto in evidenza alcuni aspetti e momenti
delle vicende storiche nel Mare interno, l’autore conclude:
Proprio questo caotico intreccio ha per conseguenza che i popoli più diversi
entrano in reciproco diretto contatto, si conoscono e si impregnano l’un l’altro
delle loro rispettive visioni, istituzioni, necessità; se anche il contatto è perlopiù
ostile, nondimeno esso intreccia in modo ancor più stretto il legame spirituale
e materiale che collega tutte le popolazioni del Mediterraneo9.
Il Mediterraneo coloniale
Nell’idea europea di Mediterraneo durante l’età coloniale spiccano
due tratti: il consolidamento della appartenenza del Mediterraneo
all’Europa e l’emarginazione di ogni altra presenza. Due geopolitologi
tedeschi, Hans Hummel e Wulf Siewert, nel 1936, nel saggio Zur Geopolitik eines maritimen Grossraumes (Heidelberg, Vowinckel, 1936), si
compiacciono di constatare la presunta affermazione della ‘civiltà
mediterranea’, leggi ‘europea’, in paesi come la Turchia – tanto più
9
S. Bono, Il Mediterraneo prima di Braudel. Das Mittelmeer di Eduard von Wilczek,
in Miscellanea in memoria di Alberto Tenenti, Bibliopolis, Napoli, 2005, pp. 651-663.
124
Mediterraneo, storie di una idea liquida
dopo la rivoluzione laica di Kemal Atatürk –, la Tunisia e l’Algeria.
L’islàm era visto per contro come un apporto marginale, definito come
‘extramediterraneo’ nella edizione italiana del volume10 (in tedesco si
legge Mittelmeerentfremdheit, estraneità al Mediterraneo). Alla solidarietà europea, precisamente dell’Europa occidentale, si affianca però
un alternarsi di concorrenze e rivalità fra le potenze coloniali, sempre
però al di sotto di ogni rischio di conflitto.
In queste rivalità il caso più ‘rumoroso’ è quello dell’Italia, il cui
regime fascista, nella fase finale, aveva fatto del Mediterraneo uno dei
punti di forza della propria ideologia politica. Nel discorso del novembre
1937 a Milano, Mussolini affermò: «se per gli altri il Mediterraneo è una
strada, per noi italiani è la vita»11. Le velleitarie rivendicazioni mediterranee trovarono una significativa espressione storiografica nell’opera
di Pietro Silva Il Mediterraneo dall’unità di Roma all’unità d’Italia, edita
nel 1927 e più tardi, 1941, ripubblicata con il sottotitolo Dall’unità di
Roma all’impero (nel senso di impero fascista). Silva pone in evidenza
il ruolo e il potere di città e stati italiani nel corso dei secoli, dall’età
romana al Medioevo e oltre, nell’esplicito intento di fondare le rivendicazioni italiane su un preteso primato storico (al volume si può forse
equamente applicare l’etichetta di ‘un Mediterraneo troppo italiano’)12.
‘Possesso’ dell’Europa progressivamente ‘assimilato’ e perciò reso
per sempre sicuro – ‘pacificato’ diceva il linguaggio coloniale – il Mediterraneo diventava sempre più estesamente, anche nelle sue rive meridionali e orientali, meta di viaggi e soggiorni ‘turistici’. In concomitanza,
il Mediterraneo – mare e regione geografica – veniva esaltato, quasi
mitizzato, da poeti e letterati – come Fréderic Mistral e Charles Maurras, per indicare due nomi significativi; il primo invocava «il limpido
tuo mare, mare sereno […] sempre ridente codesto mare». Persino i geografi negli anni Trenta dalle analisi scientifiche passano a immagini
poetiche come fa la Géographie universelle (1934) dove si parla di
trasparenza dell’atmosfera, la serenità del mare screziato di violetto per la brezza,
la nobiltà delle montagne (che) ci penetrano di un sentimento di piena contentezza e bandiscono dall’animo nostro tutto ciò che non è armonia e bellezza13.
Un altro problematico sviluppo dell’idea mediterranea si può scorgere nel suo rapporto con il progetto di unificazione europea del quale
Mediterraneo, Bompiani, Milano, 1938.
La frase di Mussolini è segnalata, fra l’altro, in mussolini.benito.it/le frasi del duce
(Foglio disposizioni del Partito nazionale fascista, XVIII, dicembre 1939).
12
Su Silva: S. Bono, Un Mediterraneo troppo italiano di Pietro Silva, in M. Antonioli,
A. Moioli (a cursa di), Saggi storici in onore di Romain H. Rainero, FrancoAngeli, Milano,
2005, pp. 67-81.
13
La citazione da J.-C. Izzo, T. Fabre, Rappresentare il Mediterraneo. Lo sguardo
francese, Mesogea, Messina, 2000, p. 57.
10
11
125
Salvatore Bono
si cominciò a parlare in Europa dopo la prima guerra mondiale: talvolta
si accostavano per caso o si usavano come sinonimi le espressioni
‘civiltà mediterranea’ e ‘civiltà europea’, ma non sempre era così; si
arrivava a volte a una contrapposizione. Direi che presso esponenti di
ideali e di interessi mediterranei si riscontra piuttosto diffidenza verso
l’unità europea, nella quale avrebbero inevitabilmente avuto un peso
maggiore i paesi dell’Europa centrale e settentrionale.
Una testimonianza di quel potenziale o esplicito contrasto fra le due
idee, potremmo dire fra i due ideali, di Mediterraneo e di Europa, è
offerta da un testo poco noto, L’unità del Mediterraneo (Roma 1931):
non è altro che la tesi di laurea sostenuta da un giovane italiano
all’Università di Ginevra, Massimo Salvadori (uno zio dell’attuale storico omonimo). La tesi, discutibile in tante affermazioni, è però interessante come testimonianza appunto di idee che indubbiamente
circolavano con qualche credito. Nel volume, mentre si ammette la ‘probabilità di riuscita’ dell’unificazione europea si contrappone a essa una
auspicata Unione mediterranea, guidata dall’Italia14.
La ‘liquidità’ dell’idea mediterranea, in tutte le sue fasi, significa
anche la presenza di contraddizioni interne ad affermazioni e progetti e,
ancor di più, il manifestarsi di voci minoritarie, alcune travolte dal corso
storico altre anticipatrici di idee oggi forse più condivise che non allora.
Negli anni Trenta, per esempio, Albert Camus rifiutava la ‘latinità’ del
Mediterraneo – un’altra ‘idea’ che rendeva fortemente solidali Francia,
Italia e Spagna – e affermava invece: «ciò che è vi è di più essenziale nel
genio mediterraneo viene fuori forse da questo incontro unico, nella storia e nella geografia, tra l’Oriente e l’Occidente». Più esplicita e risoluta
la dichiarazione di un autore certo meno noto, Gabriel Audisio, francese
e italiano insieme, antesignano nel 1936 di una idea di Mediterraneo
che non solo si apriva verso gli altri ma che poneva tutti, cioè ogni popolazione e ogni cultura, su uno stesso piano di dignità e di partecipazione;
alcune sue parole esprimono bene questo atteggiamento: «Per me, io
sono cittadino di questo Mediterraneo a condizione di avere per concittadini tutti i popoli del mare, compresi gli ebrei, gli arabi, i berberi e i
neri»15. È una sincera, leale apertura, che ci fa brutalmente sentire a
quanta discriminazione ci si dovesse opporre nel mondo di allora.
A un altro aspetto si dovrebbe dare spazio in un discorso sulle idee
di Mediterraneo: come è stato ‘visto’ e come lo è oggi il Mediterraneo
dagli ‘altri’? In una valutazione d’insieme si può affermare che gli altri
S. Bono, Da Lepanto a Barcellona cit., pp. 156-167.
Nella raccolta di scritti di Camus, Essais, Paris, 1965 (collana La Pléiade) vi è una
sezione Politique et culture méditerranéennes. Le citazioni di Camus e di Audisio sono
riprese da C. Izzo-T. Fabre, Rappresentare il Mediterraneo cit., rispettivamente pp. 7273 e pp. 73-79 (la citazione riportata è a pag. 78).
14
15
126
Mediterraneo, storie di una idea liquida
non hanno guardato molto al mare, anche perché da tempo ormai il
predominio sul Mediterraneo e su altri mari del mondo era dell’Europa.
In particolare per gli ‘altri’ a noi prossimi, ogni idea mediterranea
risuona e richiama idee appunto coloniali; di per sé suscita dunque
qualche diffidenza, timore, sospetto di ipocrisia.
Un Mediterraneo più grande
Prima di guardare alla storia del Mediterraneo e delle idee mediterranee dopo la fine del secondo conflitto mondiale, consideriamo l’opera
storiografica – il Mediterraneo di Fernand Braudel – che alla meta del
secolo scorso (1949) ha chiuso e aperto il discorso su due diverse idee
di Mediterraneo16. L’opera di Braudel, in gestazione da un ventennio,
aprì orizzonti nuovi con l’introduzione di tempi storici diversi e complementari, dalla lunga durata, il tempo ‘geografico’, agli eventi datati.
Ma Braudel pone interrogativi che vanno più lontano, poiché mettono
in discussione I confini, così si intitola il cap. III, nella prima edizione
dell’opera, da cui riportiamo qualche frase, dalle pagine iniziali:
Poiché la vita del Mediterraneo si diffonde lontanissima dalle sue rive, con
larghe ondate il cui riflusso gli apporta mille ritorni nutritivi […] E’ forse possibile immaginare dei limiti estremi, precisi sul terreno, all’interno dei quali
s’inscriverebbe tutto il movimento storico e vivente del mare? Si tratta non di
una ma di cento vite diffuse contemporaneamente; non di una ma di cento
frontiere, le une politiche, le altre economiche, le altre ancora di civiltà[…] Studiare quest’insieme vivente, largamente esteso nello spazio: ecco l’oggetto di
questo libro, al quale abbiamo dato, non senza ragione il titolo Il Mediterraneo
e il mondo mediterraneo.
Semplici parole ? – chiede retoricamente Braudel – Niente affatto, programma ragionato. Esso non presenta certo il vantaggio di semplificare il compito, bensì quello di lasciare ai problemi, orientando meglio l’indagine, la loro
ampiezza e la loro vera fisionomia. Crediamo che all’angusto Mediterraneo degli
storici, ricalcato su quello dei geografi, ben barricato dalla parte delle terre, si
debba sostituire questo Mediterraneo largamente aperto, quale esso fu, sul
vasto mondo. La storia complessiva del Mediterraneo si rivela meglio all’osservazione proprio quando ci si allontana dal mare, sulle frontiere variabili spinte
lontanissimo nell’interno delle terre17.
16
Come è noto, il titolo preciso in italiano dell’opera fondamentale di Braudel è nella
edizione Einaudi Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, 1953, voll.
2. Il titolo francese è: La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’age de Philippe II,
Paris, 1949.
17
F. Braudel, Civiltà e imperi cit., pp. 188-189. Il tema occupa le pp. 186-225 (cap.
III, I confini). Nella edizione del 1966 (Torino, 1986) il capitolo si intitola I confini o il più
grande Mediterraneo, con un paragrafo iniziale dal titolo Un Mediterraneo alle dimensioni
della storia (pp. 166-169).
127
Salvatore Bono
Quanto alle possibili dimensioni di questo mondo mediterraneo,
dopo Braudel altri studiosi, storici e non, si sono espressi. Ascoltiamo
un autorevole geografo della politica, il francese Yves Lacoste, che nel
2006 nel ragionare sul Mare Mediterraneo e il grande insieme geopolitico
mediterraneo ha scritto:
Si può anche formare un insieme prendendo in considerazione non solamente gli stati che circondano il bacino del Mare Mediterraneo, ma anche stati
e forze che, senza essere rivieraschi e malgrado le distanze, hanno grande
importanza in alcune situazioni geopolitiche sul bordo di questa distesa marina
(è utile per maggiore chiarezza estendere a più di 7.000 km la dimensione di
un grande insieme geopolitico mediterraneo; bisogna dunque prendere in considerazione una trentina di stati)18.
In ogni caso, dopo la seconda guerra mondiale, la decolonizzazione
del Mediterraneo europeo e la nascita dell’Europa (nel 1957 come
Comunità economica europea) separano e possono preludere a contrapporre due idee, di Europa e di Mediterraneo; l’idea di unità mediterranea forgiata in Europa durante il secolo coloniale non ha
comunque più senso alcuno.
L’Europa comunitaria, con capitale a Bruxelles, nasceva allontanandosi dal Mediterraneo, dalla sua ‘culla’ secondo il rituale richiamo
retorico; soltanto l’Italia, fra i sei paesi iniziali, era un paese pienamente mediterraneo. Il peso del passato tuttavia ‘costringeva’ presto i
governi europei ad attuare formule di cooperazione economica con
paesi mediterranei delle altre rive; nel corso degli anni si ebbe una evoluzione, da accordi caso per caso a formule successive: Politica globale
mediterranea nel 1982, Politica mediterranea integrata nel 1986, Politica mediterranea rinnovata nel 1992.
Partenariato euromediterraneo
Soltanto nel novembre 1995, però, la Dichiarazione di Barcellona avviò
un programma organico di Partenariato dell’Unione Europea verso un
certo numero di paesi mediterranei non europei, da attuarsi sino al 2010;
a quel progetto politico sembrava sottendere una idea di Mediterraneo
adeguata ai tempi, l’idea cioè di una pluralità di civiltà e culture degli
stati partecipanti, europei e non, e della possibilità che su un piano di
reciproco rispetto si avviasse appunto un processo di cooperazione e di
integrazione economica fra Unione Europea e paesi mediterranei ‘altri’,
detti anche ‘terzi’. A un decennio dall’avvio però, un realistico bilancio
del Partenariato non parve positivo agli stessi responsabili europei che
18
128
Géopolitique de la Méditerranée, Colin, Paris, 2006, pp. 33-35.
Mediterraneo, storie di una idea liquida
in effetti guardavano già a un politica, definita di ‘vicinato’, rivolta in
prima istanza ai paesi europei confinanti con l’Unione, nel frattempo
ampliatasi. Dal 2005 il ‘partenariato mediterraneo’, pur se si continua a
mantenerne in vita il nome, è stato in effetti del tutto ridotto a un settore
della ‘politica di vicinato’. Si può dire che proprio l’insegna ‘mediterranea’
nel nome della quale ci si era mossi, con iniziale entusiasmo o almeno
con retorica enfasi di commenti e di speranze, veniva di fatto ammainata.
Paradossalmente l’Unione europea proclamava il 2005 come Anno del
Mediterraneo; sembra che la proclamazione non si sia concretizzata in
alcuna iniziativa ‘visibile’ e significativa, anche se soltanto simbolica.
Dialogo mediterraneo
Tutta la politica del Dialogo mediterraneo avviata dall’Unione europea può invero essere qualificata come piuttosto ‘liquida’, nel senso
peggiore. Uno dei tre settori di impegno del Processo di Barcellona –
l’attuazione del Partenariato – riguardava invero «la comprensione fra
le culture», una espressione in verità ‘molto prudente’; l’ordine di enunciazione dei tre ‘settori’ (il primo si intitolava ‘politico e di sicurezza’, il
secondo ‘economico e finanziario’ e il terzo ‘sociale, culturale e umano’,
già di per sé significa qualcosa. Proprio in questo ambito si doveva in
qualche modo palesare una ‘idea guida’, una ‘filosofia ispiratrice’, una
eventuale ‘idea nuova’ di Mediterraneo. Nei principi fondanti di tutto il
grandioso progetto del 1995 si richiamava «una natura privilegiata di
legami forgiati dalla vicinanza e dalla storia», un riconoscimento dunque del valore di una appartenenza mediterranea sostanziata da una
lunga esperienza storica comune (che non vuol dire giustamente né
una civiltà o cultura comune né una vicenda storica senza contrasti e
conflitti). Poi però nel Programma di lavoro annesso alla Dichiarazione
di Barcellona non si diceva nulla e nulla o quasi si è fatto, se non promuovere un Forum annuale dove la società civile dei diversi paesi dialogasse; si operò con le migliori intenzioni ma forse non nelle forme più
razionali ed efficaci e, anzitutto, senza che si definisse sia pure una
pluralità di idee sui fondamenti e le finalità del dialogo. Se si guarda
all’insieme di quelle attività, difficili persino da censire in modo approssimato, – e potrebbe essere un valido progetto di ricerca accademica –
ci si trova di fronte piuttosto a una dispersa babele di discorsi, dibattiti,
scritti. Predrag Matvejevic ha giustamente scritto: «il discorso sul Mediterraneo ha sofferto della loquacità mediterranea»19.
Dal settembre 2001 per chi non abbia accolto l’idea e la previsione
di un ineluttabile ‘scontro di civiltà’, nello scenario mediterraneo
19
Breviario mediterraneo, Garzanti, Milano, 1987, p. 14
129
Salvatore Bono
appunto – ma forse quello scontro sta già accadendo – appare invece
sempre più urgente la necessità del dialogo, per proporre un’alternativa,
per formulare una base di rispetto reciproco e dunque di convivenza,
per scongiurare il rischio di uno scontro dal quale verosimilmente nessuno uscirebbe indenne.
Nel 2002 il presidente della Commissione europea Romano Prodi
chiese a un gruppo di Saggi, di paesi e di qualifiche individuali diverse,
di fornire indicazioni sui fondamenti e le vie di un possibile dialogo.
Nel rapporto conclusivo dei Saggi noi storici troviamo convinzioni confortanti: «Niente può esser detto e fatto nel Mediterraneo senza tener
conto del peso della storia e degli immaginari rispettivi»; e ancora:
«Nell’amalgama della storia mediterranea ogni civiltà è penetrata in
maniera profonda, durevole e complessiva nel cuore delle altre»20.
In accoglimento della proposta dei Saggi, nell’ottobre 2004 la Commissione europea creò la Fondazione euro-mediterranea per il dialogo
delle culture – come sua agenzia specifica, collocata però, forse con poca
saggezza, ad Alessandria d’Egitto e dotata di una struttura molto complessa, che vedeva fra l’altro in ogni paese del Partenariato – una quarantina nella fase finale – una rete ‘nazionale’, in alcuni paesi costituita
da un numero di componenti prossimo o superiore al centinaio; questa
articolazione può essere criticata mediante numerose argomentazioni. La
Fondazione è sopravvissuta, come formalmente il Partenariato, ma se si
vuol riflettere sulla insufficiente efficacia della sua azione, basti considerare che la sua stessa esistenza dopo un decennio dall’istituzione risulta
piuttosto poco nota anche a coloro che operano nel campo delle relazioni
culturali internazionali e del dialogo mediterraneo. Forse ciò che più ha
nuociuto è stato non avere neppure preso in considerazione le indicazioni
già date dai ricordati saggi o da altri durante l’iter di gestazione della Fondazione stessa. Ogni valutazione è pur sempre personale e può essere
contestata, ma mi sia permesso di dire che della Fondazione ho seguito
direttamente l’attività, quale componente del primo Comitato consultivo,
di dodici membri, sei dei quali europei. Direi che è mancata nella Fondazione di Alessandria una chiara strategia e l’avvio di un piano d’azione
organico, secondo principi già proclamati autorevolmente dai ‘saggi’21.
Dal Partenariato al Vicinato
Mentre sul piano dei principi e delle idee si continua da molte parti
a proclamare la ricerca del dialogo, appare invece evidente la diffusione
20
Vedi S. Bono, Un altro Mediterraneo cit., pp. 267-268. Il testo del rapporto in
http:/europa.eu.int/ dgs/policy_advisers/ experts/ group.
21
Sulla Fondazione di Alessandria: S. Bono, Un altro Mediterraneo cit., pp. 176-179.
130
Mediterraneo, storie di una idea liquida
nell’opinione pubblica e presso responsabili dell’attività politica e di
governo di una idea di Mediterraneo come ‘frontiera’ fra due parti
‘diverse’, separate o persino considerate apertamente ostili e destinate
allo scontro; idea affermatasi con più estensione dal settembre 2001,
quando lo ‘scontro di civiltà’ è parso ormai in atto. Parallelamente si è
esteso l’uso di designare uno degli attori del Dialogo come Europa, considerando, in fondo giustamente, come un dato ormai secondario il
carattere mediterraneo, meridionale o insulare, di alcuni paesi europei;
il termine Mediterraneo è stato invece sempre più utilizzato per designare soltanto i ‘paesi terzi’, non europei, del bacino mediterraneo o
considerati convenzionalmente tali. Da un decennio si trova sempre
più di frequente l’espressione Europa e Mediterraneo come due termini
del tutto distinti.
Nel 2008 – dopo cioè la ‘retrocessione’, diciamo così, del Partenariato a settore, non certo privilegiato, della nuova Politica di vicinato
(PEV) – il presidente francese in modo piuttosto improvviso prese l’iniziativa di dar vita ad una Unione mediterranea, che già nel nome
poteva apparire complementare o concorrenziale con l’Unione europea;
lasciava perplessi il fatto che all’Unione mediterranea avrebbero partecipato soltanto i paesi rivieraschi o convenzionalmente considerati
come tali. L’immediato, ragionevole e fermo dissenso del maggior paese
dell’Unione europea fece rapidamente mutare denominazione e significato alla nuova istituzione che diveniva ed è la Unione per il Mediterraneo, con una responsabilità paritaria dei membri dell’Unione europea
verso i paesi terzi mediterranei cui ci si rivolge.
È in verità difficile comprendere chiaramente la gerarchia e la divisione di competenze e di compiti fra le diverse istituzioni o programmi europei e internazionali che si richiamano al Mediterraneo.
Ancor più difficile valutare il significato della istituzione da parte
dell’Assemblea generale dell’ONU, il 24 ottobre 2005, di una Alleanza
delle civiltà, con sede a Barcellona, con suo Alto rappresentante e
una sua struttura. La Spagna nel campo delle ricerche e degli studi
sul Mediterraneo ha un riconosciuto e meritato primato, grazie all’Instituto europeu del Mediterraneo, con sede a Barcellona; dal nostro
punto di vista ci rammarichiamo che l’attenzione, da una decina di
anni, sia rivolta – con un lavoro, ripetiamo egregio – in assoluta prevalenza agli aspetti economico-sociali nelle loro più varie specializzazioni, mentre gli aspetti più propriamente umanistici, ed anzitutto
storico-letterari, sono ormai del tutto trascurati nelle indagini e nelle
iniziative22.
22
Uno dei prodotti più utili e apprezzati dell’Istituto mediterraneo di Barcellona è
l’annuale IEMed. Mediterranean Yearbook, pubblicato dal 2003. Ogni numero, di oltre
400 pagine offre una cinquantina e più di contributi di informazione e commento.
131
Salvatore Bono
Prima di concludere, mi sia permesso esprimere succintamente una
personale opinione; se si vuole perseguire ancora, e forse più efficacemente, il ‘dialogo fra le culture’, che vuol dire dialogo fra popolazioni e
fra stati, è necessario abbandonare molte vecchie idee, alcune valide
ancora ma soltanto per problemi di cooperazione nel campo ambientale, economico, persino politico, riferiti ad ambiti circoscritti, come
non può mai essere il caso del dialogo. Molte volte e da molte parti si è
parlato di una necessità di ‘ripensare’ o di ‘costruire’ il Mediterraneo,
con riferimento non certo al mare o a un territorio geografico, ma come
idea, progetto di una convivenza di stati e popoli, da attuare su un fondamento storico, nella cornice storica e politica perciò di un ‘Mediterraneo più grande’, come ce lo ha additato Braudel e come tocca a noi
ora definire, nei modi in cui l’ulteriore percorso della storia richiede e
consente.
132
Giulia Delogu
VIRTÙ, COMMERCIO E POLITICA:
CIRCOLAZIONE DELLE IDEE NELL’AREA ADRIATICA
TRA SETTECENTO E PRIMO OTTOCENTO*
SOMMARIO: Questo studio mette in luce l’esistenza di un network commerciale e culturale nell’Alto Adriatico che, muovendo dalla Trieste asburgica e napoleonica, favorì la circolazione di
merci, idee, testi letterari e persone; il caso analizzato documenta un processo di ricodificazione concettuale e linguistica che investì il concetto di virtù, in particolare all’interno della
battaglia delle idee tra istanze rivoluzionarie e controrivoluzionarie prima, e filo e anti-napoleoniche in seguito.
PAROLE CHIAVE: Storia dell’Adriatico, contesti transnazionali, circolazione delle idee, comunicazione
politica.
VIRTUE, COMMERCE AND POLITICS: CIRCULATION OF IDEAS IN THE ADRIATIC AREA
BETWEEN EIGHTEENTH CENTURY AND EARLY NINETEENTH CENTURY
ABSTRACT: This essay on one hand highlights the existence of a commercial and cultural network, which
had its centre in Hapsburg and Napoleonic Trieste and fostered the circulation of goods, ideas, texts
and people in the Adriatic area. On the other hand, it utilizes Trieste as a case study to show the recodification process that characterized the concept of virtue, in particular during the battle of ideas, which
opposed initially revolutionary and counterrevolutionary positions and later on filo-Napoleonic and antiNapoleonic ones.
KEYWORDS: History of the Adriatic, transnational contexts, circulation of ideas, political communication.
L’obiettivo di questo studio è da un lato mettere in luce l’esistenza
di un network commerciale e culturale, che, avente come centro la
Trieste asburgica e napoleonica, favoriva la circolazione di merci, idee,
testi e persone all’interno dell’area adriatica; dall’altro utilizzare Trieste
come caso particolarmente significativo per mostrare il processo di
ricodificazione che investì il concetto di virtù, in particolare all’interno
della battaglia delle idee tra istanze rivoluzionarie e controrivoluzionarie
prima, filo e anti-napoleoniche poi.
I due processi sono infatti strettamente correlati. A partire dagli
anni ’80 del Settecento Trieste emerse come agente economico e
culturale di primo piano, soprattutto attraverso un fitto scambio di
testi poetici che, sia giunti da tutta Europa sia prodotti da letterati
triestini, venivano poi ridistribuiti verso i limitrofi centri adriatici,
seguendo di fatto le stesse rotte delle merci. Infatti, attraverso la
* Abbreviazioni utilizzate: Bcts: Biblioteca Civica A. Hortis di Trieste; Cmsp: Biblioteca
del Civico Museo di Storia Patria di Trieste.
n. 36
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Aprile 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
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raccolta e l’analisi di oltre 1.500 poesie manoscritte e a stampa –
molte delle quali non avevano mai conosciuto edizioni moderne né
erano mai state studiate – circolanti a Trieste tra il 1780, data della
fondazione dell’Arcadia a Gorizia, e il 1816, visita dell’imperatore
Francesco I che sancì definitivamente il ritorno di Trieste all’Impero
austro-ungarico, ho potuto ricostruire il ‘network poetico triestino’,
una inedita mappa delle reti culturali avente come centro il porto
asburgico1. I testi raccolti sono stati il punto di partenza per un
progetto di digital humanities condotto presso il Center for Spatial
and Textual Analysis della Stanford University (2014). Il principale
strumento di lavoro è stato Palladio, un software open-source
appositamente sviluppato per l’analisi spazio-temporale nel campo
della ricerca socio-umanistica, che permette la creazione di database
testuali, grafici, linee temporali e mappe (fig. 1) e che in questo caso
è stato per la prima volta utilizzato per lo studio in ottica storica di
un corpus poetico in lingua italiana.
Ricostruendo i percorsi di circolazione testuale è stato dunque
possibile osservare come Trieste fosse legata ai maggiori centri europei
dell’epoca (Vienna, Parigi, Roma, Napoli, Venezia, Firenze, Torino),
avesse ricorrenti contatti con altre aree italofone sia entro sia fuori
dai confini politici della monarchia asburgica (Bologna, Ancona,
Senigallia, Fano, Mantova, Pavia, Udine, Bassano, Brescia, Treviso,
Verona, Asti) e in particolare con i centri della costa istriano-dalmata
(Muggia, Capodistria, Montona, Parenzo, Pirano, Fiume, Spalato).
Proprio i centri dell’Istria e della Dalmazia, poi, erano la destinazione
privilegiata di tanti dei testi prodotti localmente tra Trieste e Gorizia.
In questa sede saranno presi in esame alcuni esempi tratti da questo
vasto corpus.
Con la rivoluzione francese e l’inizio delle ostilità tra Francia e
monarchia asburgica, gli esistenti canali di comunicazione e il ricco
bagaglio di strumenti retorici acquisiti nel tempo dagli intellettuali
triestini si rivelarono risorse di fondamentale importanza.
Iniziarono, infatti, ad essere prodotti e fatti circolare testi poetici di
carattere politico-propagandistico, costruiti in particolare sulla
dialettica tra virtù e vizio, e sull’antitesi tra l’eroe virtuoso e il
nemico demoniaco.
Se come ha affermato Fernand Braudel «tra tutti i piccoli
Mediterranei, giardini di un solo o più padroni, l’Adriatico è l’esempio
più vistoso […] la regione marittima più coerente» che da sola «per
analogia pone tutti i grandi problemi di metodo impliciti nello studio
1
Il corpus è formato da testi conservati presso la Bcts, la Cmsp, l’Archivio della
Società di Minerva e la Biblioteca Angelica di Roma.
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Virtù, commercio e politica: circolazione delle idee nell’area adriatica
Fig. 1 - Visualizzazione del progetto Trieste Poetic Network,
tratta da http://palladio.designhumanities.org/#/visualization
dell’intero Mediterraneo»2, il caso di Trieste può essere allora letto come
laboratorio e paradigma per l’applicazione di un approccio culturale che
– mettendo in luce la centralità del ruolo della poesia come veicolo di
trasmissione delle idee – mostri l’importanza del concetto di virtù come
punto di partenza per la creazione di narrative politico-morali che, tra
loro contrapposte, polarizzarono lo scontro ideologico sette-ottocentesco3.
2
F. Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II (trad. it), Einaudi,
Torino,1976, p. 118; v. anche E. Ivetic, L’Adriatico come spazio storico transnazionale,
«Mediterranea - ricerche storiche», 35 (2015), pp. 483-498.
3
Per un primo orientamento sulle declinazioni della virtù si veda l’analisi storicolinguistica di E. Leso, Lingua e rivoluzione: ricerche sul vocabolario politico italiano del
triennio rivoluzionario 1796-1799, Ist. veneto di scienze, lettere ed arti, Venezia, 1991,
pp. 131-138. Per il dibattito internazionale sulla sulla virtù nel Settecento, v. J. Pocock,
Virtue, Commerce and History. Essays On Political Thought and History, Chiefly In the
Eighteenth Century, Cambridge University Press, Cambridge, 1985; M. Viroli, The Languages of Political Theory, in Anthony Pagden (ed.), Early-Modern Europe, Cambridge
University Press, Cambridge-New York, 1987, pp. 159-178; M. Linton, The Politics of
Virtue in Enlightenment France, Palgrave, Houndmills, 2001; G. Partoens, G. Roskam, T.
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Giulia Delogu
Accademie, logge, biblioteche: il ‘network poetico triestino’
L’indagine ha preso le mosse come tentativo di ricostruire il panorama
culturale e letterario di Trieste tra Settecento ed Ottocento, che, come è
parso evidente fin da subito, era inserita in una fitta rete di scambi
commerciali e culturali dalla dimensione europea e con una marcata
vocazione mediterranea. Noti sono i fattori e gli avvenimenti che
portarono all’ascesa di Trieste nel corso del XVIII secolo. La concessione
dello statuto di porto franco nel 1719 da parte dell’imperatore Carlo VI
diede il via ad una vertiginosa crescita tanto economica quanto
demografica, che portò il piccolo borgo di 3.000 anime a trasformarsi,
alla fine del secolo, nella città di 50.000 abitanti4. Tale sviluppo fu anche
culturale, favorito sia da una crescente consapevolezza nelle élites
cittadine sia da una precisa volontà del governo centrale di Vienna, in
particolare in epoca teresiana e giuseppina. Tra anni ’70 ed ’80 del
Settecento Trieste, dunque, si affermò come centro culturale dell’area
soppiantando di fatto Gorizia, l’antica sede gentilizia a vocazione agricola.
Uno dei fattori propulsivi della crescita di Trieste fu senza dubbio il
governatorato di Karl von Zinzendorf (1776-1782), il cui lungo soggiorno
triestino rappresentò un rilevante contributo alla vita culturale e sociale
della città e del territorio circostante5. Uomo dagli ampi interessi,
Zinzendorf contava nella sua biblioteca personale testi controversi sia
classici sia moderni – Lucrezio, la Storia del Concilio di Trento di Sarpi,
De l’homme di Hélvetius, l’Esprit des lois di Montesquieu, Giachin e
Boas (un trattato inglese sulla massoneria), la Storia civile del reame
di Napoli di Giannone – ed una ricca collezione poetica: il Saul di
Alfieri, la Gerusalemme di Tasso, l’Adone di Marino, e ancora Berni, il
Vendemmiatore di Tansillo, l’Iliade di Omero nella traduzione di
Giacomo Casanova, gli Idilli di Gessner nella traduzione italiana di
Giandomenico Stratico vescovo di Cittanova6.
Van Houdt (eds.), Virtutis imago: studies on the conceptualization and transformation of
an ancient ideal, Peeters, Louvain-Namur-Paris-Dudley MA, 2004; J. Shovlin, The Political
Economy of Virtue: Luxury, Patriotism, and the Origins of the French Revolution, Cornell
University Press, Ithaca NY, 2006; J. Foyer, C. Puigelier, F. Terré (eds.), La Vertu, PUF,
Paris, 2009. Tali studi si concentrano sopratutto sull’area inglese e francese, il presente
contributo intende invece indagare il dibattito in quella italiana ed è parte di un più
ampio progetto (in corso) sul concetto di virtù nel Settecento e nel primo Ottocento.
4
E. Apih, Trieste, Laterza, Roma, 1988, p. 7; R. Finzi, F. Tassinari, Le piramidi di
Trieste, in R. Finzi, C. Magris, G. Miccoli (a cura di), Il Friuli Venezia Giulia, Storia
d’Italia, Einaudi, Torino, 2002, t. I, pp. 289-311.
5
Cfr. Europäische Aufklärung zwischen Wien und Triest: die Tagebücher des Gouverneurs Karl Graf Zinzendorf 1776-1782, herausgegeben und bearbeitet von G. Klingenstein,
E. Faber, A. Trampus, Böhlau, Wien, 2009.
6
C. Pagnini, Impressioni di vita triestina (1776-1777) dal diario inedito del conte
Carlo de Zinzendorf primo Governatore di Trieste, LINT, Trieste, 1978, pp. 14-15.
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Virtù, commercio e politica: circolazione delle idee nell’area adriatica
Tra i fatti salienti che segnano l’ascesa di Trieste si possono poi
ricordare la fondazione della prima loggia massonica nel 1773, la
petizione per l’istituzione di un’università in lingua italiana nel 1774 e
di una biblioteca pubblica nel 1782, la creazione di una sotto-colonia
arcadica, l’Arcadia Romano-Sonziaca, nel 1784.
La prima loggia fu innalzata con il titolo distintivo Alla Concordia e
ricevette la bolla di fondazione dalla Loggia Provinciale di Praga nel
17757. Massoni triestini, inoltre, compaiono negli elenchi di logge di
Vienna, Graz e Praga: il vescovo di Lubiana Michele Brigido, ad
esempio, era tra i membri della Loggia Provinciale di Praga (1774);
Giuseppe Brigido governatore della Galizia apparteneva alla loggia La
Concordia di Vienna e aderì alla setta degli Illuminati; Hamilton,
Presidente dell’Intendenza, era iscritto alla loggia viennese Ai tre
cannoni (alla quale apparteneva pure Francesco il marito di Maria
Teresa); Leopoldo e Antonio De Giuliani erano affiliati rispettivamente
alla loggia della Speranza coronata e a quella della Speranza
neocoronata di Vienna; Domenico Piatti, futuro martire della
Repubblica napoletana, era iscritto alla loggia della Vera Concordia di
Vienna; il negoziante Girolamo Belusco (poi console del re di Sardegna)
alla loggia Le Tre Aquile di Vienna e Dobler a quella dei Cuori Riuniti
di Graz. Molti degli alti funzionari imperiali, d’altra parte, erano liberi
muratori: da Pompeo Brigido, governatore di Trieste dal 1782, a
Kaunitz, Sonnenfels, Zeiller, Gebler e Zinzendorf8.
Poco o nulla si sa della loggia nel decennio successivo, fino al 1784,
quando cambiò nome in De l’harmonie et concorde universelle e aderì
alla Federazione eclettica (Eklektischer Bund), sorta dalle rovine della
Stretta Osservanza a Francoforte, dopo il convegno di Wilhelmsbad.
Con la concessione da parte di Giuseppe II della sua personale
protezione alla massoneria e sembra su consiglio del Gran Maestro
Francesco di Brunswick, la loggia triestina passò alla Federazione delle
Logge austriache (Oesterreischischer Logenbund).
La notizia dell’adesione della loggia triestina alla Federazione
austriaca fu riportata anche sul Journal für Freymauer9. Il decreto di
Giuseppe II dell’11 dicembre 1785 sulla massoneria – che di fatto
diede il via libera alla sua propagazione in tutta la monarchia asburgica
– fu subito diffuso ad opera dell’allora governatore Pompeo Brigido,
7
C. Francovich, Storia della massoneria in Italia. Dalle origini alla rivoluzione francese,
La Nuova Italia, Firenze, 1974, pp. 390-391.
8
P.Y. Beaurepaire, L’espace des francs-maçons: une sociabilité européenne au 18e
siècle, Presses universitaires de Rennes, Rennes, 2003, pp.151-179.
9
Journal für Freymauer als Manuskript gedruckt für Brüder und Meister des Ordens
– II Jahrgang, I. Vierteljahr – 5875, p. 218.
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Giulia Delogu
che lo fece pubblicare in lingua italiana con un ordine circolare del 21
dicembre10.
L’Arcadia Romano-Sonziaca, in effetti, si configura come vero e
proprio centro propulsore per lo sviluppo culturale cittadino.
Originariamente dedotta a Gorizia per opera di Giuseppe de Coletti –
intraprendente ex-gesuita divenuto tipografo dopo trascorsi militari –
con la protezione del conte Guidobaldo Cobenzl, l’accademia inaugurò
quattro anni più tardi una filiale triestina che finì di fatto per sostituirsi
alla casa madre goriziana. Coletti, infatti, comprese le maggiori
potenzialità offerte dal porto franco, non solo fece pressioni per
trasferire l’Arcadia, ma spostò anche tutte le sue attività tipografiche,
inaugurando nello stesso 1784 la pubblicazione del foglio periodico
l’«Osservatore triestino».
Gli studiosi concordano nel riconoscere all’Arcadia triestina caratteri
peculiari: abbandonato l’atteggiamento di fuga dalla realtà e disimpegno
‘pastorale’ che caratterizzava tante accademie coeve, gli arcadi triestini
mostrarono attenzione per gli aspetti socio-economici, non limitandosi
alla conversazione erudita, ma impegnandosi in concreti progetti volti
allo sviluppo della città11. L’Accademia triestina, inoltre, abbandonati
gli appellativi pastorali, accoglieva accanto ai nobili negozianti (anche
ebrei come Samuele Vital), ecclesiastici e persino conclamati liberi
muratori di estrazione borghese quali Leonardo Vordoni, Federico
Ossezky, Ignazio Gadolla, Giovanni Weber e Cesare Pellegrini,
configurandosi come uno spazio d’incontro tra le diverse componenti
sociali cittadine12. La vocazione civile degli arcadi triestini si manifestò
soprattutto nella progettazione di opere pubbliche rivolte alla
cittadinanza. Inizialmente gli sforzi degli accademici si indirizzarono
verso la costruzione di un nuovo faro, coerentemente con l’anima
mercantile e portuale della città. Di questo progetto, ideato da Samuele
10
Codice ossia Collezione sistematica di tutte le leggi e ordinanze emanate sotto il
regno di S.M. Imperiale Giuseppe II, Milano, 1789 (Bcts, n. 13271). Fu questo il periodo
che vide la maggior espansione della massoneria in Trieste, soprattutto ad opera di
Francesco Emanuele Baraux, su cui v. A. Trampus, Tradizione storica e rinnovamento
politico. La cultura nel Litorale Austriaco e nell’Istria tra Settecento e Ottocento, Del Bianco,
Udine, 2008.
11
A. Trampus, Tradizione storica e rinnovamento politico cit., p. 45; S. Tavano, Accademie a Gorizia nel Settecento, «Archeografo triestino», 70 (2010), pp. 147-161. Più in
generale, M. Pastore Stocchi, componendo un’«Apologia dell’Arcadia», ha messo in rilievo
i molteplici meriti dell’Arcadia: dall’apertura verso le nuove scienze ai tentativi di divulgazione delle scoperte scientifiche stesse attraverso la poesia didascalica, dalla dimensione nazionale alla presenza femminile (M. Pastore Stocchi, Appunti per un’Apologia
dell’Arcadia, in A. Battistini, C. Griggio, R. Rabboni (a cura di), La Repubblica delle
lettere, il Settecento italiano e la scuola del secolo XXI. Atti del congresso internazionale,
Udine, 8-10 aprile 2010, Serra, Pisa-Roma, 2011, pp. 19-26).
12
Bcts Ad Rp Ms 3-26/1: Catalogo dei membri.
138
Virtù, commercio e politica: circolazione delle idee nell’area adriatica
Vital, risalente al 1796 e mai compiuto, resta ampia testimonianza
documentaria, attraverso la quale si possono ricostruire le diverse fasi
e soprattutto la collocazione prescelta, che fu poi quella dove sorse il
novecentesco Faro della Vittoria13.
Se la richiesta relativa all’università rimase senza seguito, la
Biblioteca civica fu inaugurata, grazie soprattutto agli sforzi degli arcadi
tergestini, sorretti dalla volontà del governatore Pompeo Brigido, e
rappresentò il coronamento dello spirito civile dell’Accademia. La
Biblioteca, costituita già nel 1793, fu donata con gran pompa alla città
nel 179614. Un momento ricordato come fondante per lo sviluppo delle
lettere a Trieste anche da Domenico Rossetti in un discorso del 1815:
Quello che può dirsi essere stato veramente un primo passo alquanto
efficace per le lettere fu ciò che s’intraprese dal diligente, zelante, ed in molti
aspetti benemerito nostro socio, il defunto Sig. de Coletti; cioè l’istituzione
dell’accademia degli Arcadi romano-sonziaci, quale colonia della romana
Arcadia, e più ancora la fondazione di una pubblica biblioteca15.
L’apertura della Biblioteca fortemente voluta da Coletti e dal
governatore Pompeo Brigido rappresentò il culmine dell’attività
arcadica, che negli anni successivi, anche a causa delle guerre e dei
tumulti, nonché dei continui cambi ai vertici dell’amministrazione
cittadina, andò riducendosi fino di fatto a spegnersi nel 1809. Tali
istituzioni concorsero a creare una vasta rete di scambi culturali,
incentrato in particolare sulla circolazione di testi poetici.
La poesia e la comunicazione (politica) della virtù
La ricostruzione di tali circuiti culturali ha inteso anche indagare
quali contenuti venissero in tal modo veicolati. Prima di analizzare nel
dettaglio i contenuti, occorre però fare alcune precisazione sulla scelta
di utilizzare principalmente testi poetici. La poesia aveva nel Settecento
un ruolo che si potrebbe definire ‘strumentale’, era cioè, ancora prima
13
Bcts Ad Rp Ms 3-26/7: Dissertazioni scientifiche, progetti degli Arcadi. Sulla correlazione tra il progetto arcadico e il faro novecentesco, v. F. Salimbeni, Il Faro della Vittoria a Trieste tra architettura e ideologia, «Quaderni giuliani di storia», 22 (2001), pp.
139-143
14
Molti gli studi sulla Biblioteca pubblica arcadica, primo nucleo della odierna
Biblioteca Civica, v. A.R. Rugliano, La Biblioteca civica nel secolo dei Lumi, in Neoclassico.
Arte, architettura e cultura a Trieste, 1790-1840, Marsilio, Venezia, 1990, p. 93, che contiene un dettagliato elenco dei donatori, tra cui figura anche Pompeo Brigido che donò
una copia completa dell’Encyclopédie.
15
D. Rossetti, Discorso tenutosi nella sera del 31 dicembre 1815 in Generale Adunanza
dei Soci del Gabinetto di Minerva, Venezia, s.n.t., 1816, p. 9.
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Giulia Delogu
che un prodotto artistico-letterario, un medium di comunicazione
anche e soprattutto politica ed era il genere privilegiato per le occasioni
pubbliche celebrative e commemorative. In ossequio ad una autorevole
tradizione avente le sue radici nella Poetica di Aristotele e nell’Ars
poetica di Orazio, ripresa poi in età moderna da Vincenzo Gravina,
Paolo Mattia Doria e Ludovico Antonio Muratori, si riteneva infatti che
la poesia, per le sue stesse caratteristiche ritmiche, stilistiche e
linguistiche, fosse in grado di comunicare anche agli illetterati,
riuscendo a toccare le corde del cuore là dove la prosa sollecitava la
sola ragione16. Spesso brevi (prevalente è la forma del sonetto), cantabili,
scritti quasi in ‘serie’ i testi poetici erano dunque diffusissimi ed
utilizzati per far circolare i più diversi messaggi.
Centrale nella produzione in lingua italiana, e anche nel corpus
triestino17, è il discorso sulla virtù e sulla definizione di modelli di
uomini virtuosi. Virtù è un concetto polisemico e in continua evoluzione
che nel corso del Settecento si trova al centro delle tensioni tra tentativi
di secolarizzazione e difesa dei valori religiosi. L’esclusiva della vera
virtù viene rivendicata tanto dal pensiero laico illuminista quanto da
quello cattolico conservatore, passando per le più svariate sfumature
intermedie. Dopo i tentativi di conciliare le diverse prospettive, operati
prima da Ludovico Antonio Muratori in particolare con Della pubblica
felicità (1749) e da Antonio Genovesi con la Diceosina (1766), tra anni
’60 e ’70 si consuma una frattura destinata a radicalizzarsi
ulteriormente dopo i fatti dell’8918. Un altro terreno di vivace dibattito
era quello della relazione tra virtù, lusso e commercio19. Tale
discussione, di portata continentale, aveva visto anche tra gli
16
Tale chiave di lettura per la produzione poetica settecentesca, con particolare riferimento al Triennio repubblicano, è già presente nei lavori di L. Guerci (in partic. Istruire
nelle verità repubblicane. La letteratura politica per il popolo nell’Italia in rivoluzione (17961799), Il Mulino, Bologna, 1999, p. 132), ed è stata recentemente ripresa, per l’età dell’Illuminismo, da G. Tocchini (L’Œdipe del giovane Voltaire alla prova della scena pubblica.
Canone politico, strategie e autocensure nel tetro tragico della prima età dei Lumi, «Rivista
Storica Italiana», 125 (2013), p. 681); trova inoltre conferma negli studi letterari ed in
partic. nel recente contributo di A. Quondam (Risorgimento a memoria. Le poesie degli
italiani, Donzelli, Roma, 2011), che la applica ad una lettura di lungo periodo che giunge
fino all’età del Risorgimento.
17
Il corpus triestino, seppur contenente da testi in nove differenti lingue (ebraico,
francese, tedesco, latino, greco antico, sloveno, dialetto veneziano, dialetto goriziano), è
per l’80% composto di poesie in lingua italiana.
18
M. Rosa, Settecento religioso. Politica della ragione e religione del cuore, Marsilio,
Venezia, 1999, p. 12.
19
K. Stapelbroek, Love, Self.-Deceit, and Money: Commerce and Morality in the Early
Neapolitan Enlightenment, University of Toronto Press, Toronto, 2008; per una dimensione europea v. I. Hont, Jealousy of Trade: International Competition and the NationState in Historical Perspective, Harvard University Press, Cambridge MassachusettsLondon, 2005.
140
Virtù, commercio e politica: circolazione delle idee nell’area adriatica
intellettuali di lingua italiana due fronti opposti, con da una parte i
sostenitori dell’inscindibile nesso tra virtù e frugalità sul modello
dell’antiche repubbliche quali Roma e Sparta, e dell’altra coloro che
invece sostenevano, come Cesare Beccaria, che «dal seno del Lusso, e
della Mollezza, nacquero le più dolci virtù, l’Umanità, la Beneficenza,
e la Tolleranza degli errori umani»20.
Echi di tali discussioni vennero recepiti anche a Trieste dove, negli
anni ’80, quando ormai l’ambiente culturale cittadino era giunto a
maturazione, si sviluppò un’intensa produzione pubblica, recitata in
occasioni festive, pubblicata su riviste e fogli volanti distribuiti agli
astanti. Nelle poesie triestine, ad esempio, si affronta il tema del
carattere virtuoso (o meno) del commercio: si incontrano posizioni
contro la trasformazione in senso mercantile della città e strali contro
il commercio assimilato addirittura al «rubare»21, ma sono in netta
maggioranza i pronunciamenti in favore del moderno commercio e del
lusso che ne deriva, che concorrono a rendere Trieste «di tesori e virtù
sede gioconda»22. Concorrente è il motivo della delineazione di modelli
di uomini ideali. L’accezione di virtù alla quale si ispiravano i letterati
triestini era quella codificata da Pietro Metastasio per la corte di Vienna
già a partire dagli anni ’30. Come è stato già messo in luce, infatti, il
poeta cesareo con i suoi fortunati drammi aveva compiuto una vera e
propria operazione politica e aveva tratteggiato una figura di sovrano
virtuoso e umano, le cui principali caratteristiche – in opposizione al
distante e divinizzato Luigi XIV – erano clemenza e amor paterno23. Le
suggestioni metastasiane, unite ai più recenti contributi di Joseph
von Sonnenfels sui concetti di amor di patria e di virtù (Sull’amor della
20
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene [1764], a cura di G. Francioni, Mediobanca,
Milano, 1984. Che possa essere rintracciata una dimensione tipicamente italiana e una
declinazione mediterranea del tema della virtù, grazie a spunti che ancora attendono
approfondimenti, è testimoniato anche da altre fonti. Ad esempio dai dibattiti all’interno
dell’Accademia degli Ereini a Palermo, che accolse proprio al suo interno le riflessioni di
I. Bianchi, del quale v. Delle scienze e belle arti Dissertazione apologetica letta nell’Accademia degli Ereini di Palermo (Stamperia de’ SS. Apostoli, Palermo, 1771), tesa ad argomentare, contro Rousseau, che «dove le scienze fioriscono, fioriscono insieme con loro le
virtù più rare».
21
La citazione è tratta da una poesia in dialetto triestino-veneto dell’arcade Valentino
Mazorana, dottore in legge e notabile cittadino, tra le voci più critiche verso la moderna
città mercantile; il testo è edito in E. Apih, La società triestina del XVIII secolo, Einaudi,
Torino, 1957, p. 197.
22
La citazione è tratta da dal sonetto Ai Sig. Negozianti di Trieste dell’improvvisatore
Luigi Massari (ms). Luigi Massari, poeta improvvisatore, aveva girato le corti d’Europa
con alterne fortune, v. A. Vitagliano, Storia della poesia estemporanea nella letteratura
italiana dalle origini ai nostri giorni, Loescher, Roma, 1905, p. 132.
23
G. Giarrizzo, L’ideologia di Metastasio tra cartesianesimo e illuminismo, in Atti del
convegno indetto in occasione del II centenario della morte. Roma, 25-27 maggio 1983,
Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 1985, pp. 43-77.
141
Giulia Delogu
patria. Trattato, fu pubblicato in traduzione italiana a Vienna nel 1772),
fornivano dunque il modello privilegiato ed il messaggio centrale per la
rappresentazione positiva del leader. A distanza di cinquant’anni erano
ancora le virtù metastasiane di clemenza, pietà, giustizia e bontà le
parole chiave sulle quali i poeti triestini costruivano i loro elogi dei
sovrani di casa d’Asburgo, da Maria Teresa a Francesco II. La griglia
di valori del sovrano virtuoso veniva poi riadattata e rimodellata per
descrivere anche altre figure positive, dall’uomo di fede – caratterizzato
anche da zelo e carità e identificato col sintagma «buon pastore» – al
funzionario, fedele e modesto.
Particolarmente rilevante in questo senso è l’analisi degli elogi
funebri. Un caso di risonanza continentale fu la dipartita di Maria
Teresa, per la cui morte furono stilati componimenti in tutta Europa
nelle diverse lingue nazionali, in modo che i messaggi – non confinati
alla sola apologetica della defunta, ma mirati alla persuasione e
all’educazione del popolo – fossero facilmente intellegibili anche dagli
strati meno colti della società. In Francia, ad esempio, Maria Teresa fu
presentata come vessillo della religiosità e della cristianità contro
l’ateismo e la secolarizzazione. In area tedesca il modello ufficiale era
rappresentato dall’orazione di Sonnenfels, pronunciata presso il
Collegio Teresiano. Al testo di Sonnenfels, che appoggiava le politiche
giuseppine, risposero diversi ex-gesuiti che utilizzarono l’elogio della
defunta sovrana con fini apertamente politici, per rivendicare il ruolo
del clero e avversare le politiche di Giuseppe II, trasformandola in
madre della patria e imperatrice cristiana24.
Anche l’Arcadia triestina partecipò allo scontro letterario giocato
intorno alla figura della defunta imperatrice, schierandosi abbastanza
nettamente dalla parte di Sonnenfels. Nei testi arcadici, infatti,
cordoglio per la morte di Maria Teresa e gioia per l’ascesa di Giuseppe
II si mischiano in ugual misura. Gli arcadi dunque parteciparono al
dolore generale, ma dedicarono i loro sforzi poetici tanto al compianto
per Maria Teresa, quanto alla celebrazione del suo successore.
Esemplare in questo senso è un sonetto di Marzio Strassoldo, stampato
nel dicembre 1780, nel quale il poeta, dopo aver ricordato la clemenza,
la giustizia e le virtù della defunta, dà voce a Maria Teresa stessa che
invita gli afflitti sudditi a consolarsi, perché le sue stesse virtù rivivono
nel figlio Giuseppe25. Gli stessi toni si ritrovano in un sonetto di
Giuseppe de Coletti, dato alle stampe sempre nel dicembre 1780. Il
dolore per la morte di Maria Teresa è anche qui mitigato dalla
24
A. Trampus, Da Maria Teresa a Giuseppe II: gli ex-gesuiti e la tradizione letteraria
degli elogi, «Ricerche di storia sociale e religiosa», 54 (1998), pp. 59-89.
25
A Sua Ecc. Sig. Sig. Adamo Filippo del S.R.I. C. di Logymthal, sonetto di Everisco
Plateo, nella Ces. Reg. Privilegiata Stamperia Tommasini, Gorizia, 10 dicembre 1780.
142
Virtù, commercio e politica: circolazione delle idee nell’area adriatica
consapevolezza che il nuovo imperatore è «immagin della Madre»26.
Nella medesima linea si pone un altro sonetto del dicembre 1780,
composto dall’abate Francesco Tosti, nel quale si ricorda come in
Giuseppe siano impressi «tutti della Madre i pregi»27. Interessante è
anche il contributo, in francese, di Marianna Coronini Cronberg, dove
torna l’elenco di quelle virtù ‘metastasiane’ – che erano la cifra
caratteristica della celebrazione dei sovrani di Casa d’Asburgo – come
patrimonio tanto della madre quanto del figlio: «Les Vertus […] / Elle
les posséda toutes […] / Il lui manqua aucun pour gouverner l’Empire.
/ La Piété, Clémence, / Justice, et Bonté, / dans les plus grands
revers Courage, Fermeté. //Nous avons son digne Fils pour Père, / si
Vertueux, Clément, Juste comme sa Mère»28. Chiudono, infine, il ciclo
arcadico tre composizioni latine: due epitaffi, l’uno di Rodolfo Coronini
Cronberg e l’altro di Francesco Radieucig, ed un’elegia di Antonio
Pietro Codelli29. Il testo di Coronini ebbe una notevole fama e diffusione
e fu tradotto anche in tedesco. L’epitaffio di Radieucig riecheggia i
temi delle composizioni in lingua italiana, invitando a porre un freno
alle lacrime, perché il nuovo imperatore pareggia per virtù la defunta
genitrice: «Pone modum lacrymis; parili virtute micantem / orbi
Phoenicem iam cinis iste dedit, / qui solida ad vivum magnam pietate
Parentem, / qui magnos Proavos indole, fronte refert».
Se dunque gli elogi per Maria Teresa mostrano una partecipazione
attiva della periferica arcadia triestina alle strategie comunicative
promosse nella capitale Vienna, diverso è il caso di quelli per Giuseppe
II e Leopoldo II. Il decesso del primo, nel 1790, non trova alcuna eco a
26
Publicus dolor sonetto di Giuseppe de Coletti, fra gli Arcadi Coribante Tebanico,
dedicato a Sua Altezza, Rodolfo Giuseppe, arcivescovo di Gorizia, Principe del S.R.I. de’
Conti e Signori d’Edling, nella Ces. Reg. Privilegiata Stamperia Tommasini, Gorizia,18
dicembre 1780.
27
Nel giorno delle pubbliche esequie di Sua Maestà la Imperadrice regina, sonetto di
Carmide Etolio P.A. Sonziaco alla Nobil Donna Maria Benigna Contessa di Cobenzl, nata
Contessa de Montrichies, nella Ces. Reg. Privilegiata Stamperia Tommasini, Gorizia, 18
dicembre 1780.
28
Sur la morte de sa majesté l’Impératrice par Marie Coronini Comtesse de Cronberg,
née Comtesse de Dietrichstein, Valerio de’ Valerj Stampatore del Ces. Reg. Gov. e degli
Incliti Stati Provinciali, 1780.
29
Epitaffio in occasione della morte di Sua Maestà l’Augustissima Maria Teresa Imperadrice regina, composto da Sua Ecc. il Sig. Rodolfo Coronini conte di Cronberg, tra gli
Arcadi Libanio Crissanteo, Valerio de’ Valerj Stampatore del Ces. Reg. Gov. e degli Incliti
Stati; Epitaphium Augustae Imperatrici et Reginae Mariae Theresiae dedicatum Illustrissimo
D.no D.no Paulo Radetio Lib. Baroni ac Jus Dicenti in Merna, inter arcades sontiacos Philomelus Tirynthius, compositum ab ejusdem agnato Rev. D. Francisco Radetio, nella Ces.
Reg. Privilegiata Stamperia Tommasini, Gorizia, 1780; Jo Baptistae Ex Lib. Baronibus et
Dominis ab Edling de Heidenschaft in obitu Imperatricis Reginae Mariae Theresiae, Archigenis Beotii Arcadiae Sontiacae Pastoris Elegus, nella Ces. Reg. Privilegiata Stamperia
Tommasini, Gorizia, 1781.
143
Giulia Delogu
livello ufficiale: né sulle pagine dell’«Osservatore triestino» né nelle
cerimonie arcadiche. Le uniche due menzioni in merito sono sonetti
manoscritti e anonimi, contenuti nel Taccuino dell’arcade Giuseppe
Tognana di Tonnenfeld, canonico della Cattedrale di San Giusto e
parroco di Sant’Antonio Nuovo. Il Taccuino è un documento di estrema
rilevanza, contenente 162 testi poetici (in italiano, francese, latino,
dialetto veneziano), ricopiati tra il 1790 e il 1794, che da un lato
forniscono una ulteriore testimonianza circa quale poesia circolava a
Trieste e dall’altro permettono di delineare un ritratto del triestino
colto, frequentatore dell’Arcadia, che può essere utilizzato per
ricostruire (con tutte le cautele del caso) la mentalità corrente30. Quello
che emerge è un ritratto piuttosto negativo del defunto imperatore,
criticato per le sue azioni in materia sia religiosa sia di politica estera
e colpevole di aver lasciato al suo successore Leopoldo un impero in
rovina, sconvolto da un «fanatismo audace», senza più religione,
giustizia e pace:
Lascia irato l’Etruria, e ferma altero / nel Regio Soglio il piè Leopoldo
appena, / che dal dolente, desolato Impero / s’apre agli sguardi suoi l’orrida
scena. / Geme la religion, e in tuon severo / l’umanità le lagrime non frena, /
grida giustizia al diritto suo primiero, / mostra innocenza la servil catena; /
chieder volea qual fanatismo audace / l’Austria turbò? Ma cupa allor s’udio /
voce suonar, per cui sen trema, e tace: / Rendi, o Germano, a questo soglio, a
Dio / l’onor rapito, a figli tuoi la pace, / o un destino paventa uguale al mio31.
Interessante, poi, è che Tognana, a contrastare il modello negativo
incarnato da Giuseppe II, proponga, quasi a cornice dei testi che ne
compongono un anti-elogio funebre, due esempi di sovrani virtuosi:
Amedeo di Savoia – «l’util, la fede, il giusto ognor amate, / piucchè il
rigido, pietà sieda sul Trono» – del quale ricorreva il centenario della
beatificazione; e Federico il Grande di Prussia, ricordato come uomo a
tutto tondo, capace di unire in sé le virtù del filosofo, del re, del
guerriero, del legislatore e del padre.
La morte di Leopoldo II trova invece celebrazione ufficiale in una
coppia di sonetti Giambattista Ballabeni stampati a Trieste nel 1792 e
poi riediti nel 1799. I versi del poeta esprimono convenzionali
sentimenti di cordoglio, tuttavia, se letti in confronto con quelli per
Maria Teresa, presentano una rilevante differenza: mentre, infatti, nel
30
Per un’analisi completa del Taccuino, che è conservato presso il Cmsp (Codice
13495, Manoscritto del parroco Tognana di Trieste, 1790-1794), v. G. Delogu, Trieste «di
tesori e virtù sede gioconda». Dall’Arcadia Romano-Sonziaca alla Società di Minerva: una
storia poetica, Società di Minerva, Trieste, 2015, pp. 121-146.
31
Sonetto, in Manoscritto del Parroco Tognana cit.
144
Virtù, commercio e politica: circolazione delle idee nell’area adriatica
1780 il dolore per la morte dell’imperatrice si accompagnava alla gioia
per la l’ascesa al trono di Giuseppe II, nel 1792, in un clima politico
completamente mutato, non sembra esserci nessun motivo di
consolazione e la «pace, cui il Gran Leopoldo a far ritorno / mosse ne’
regni suoi» sembra più minacciata che mai.
La virtù ed il suo opposto: una battaglia delle idee
Gli anni ’90, in seguito agli avvenimenti francesi che dopo un
iniziale disinteresse presto divennero l’argomento principale delle
colonne dell’«Osservatore triestino», in effetti videro una rimodulazione
della produzione poetica, che sì andò concentrando soprattutto sulla
definizione dell’opposto della virtù, solitamente identificata con
l’«empietà». La mancanza di virtù era considerata sia la causa
originaria sia la caratteristica presente della Rivoluzione di Francia e
dei suoi fautori. Partendo da illustri modelli quali Vittorio Alfieri,
Ippolito Pindemonte, Giuseppe Colpani, Appiano Buonafede – testi
dei quali circolavano a Trieste – anche i triestini iniziarono a delineare
un quadro seconda il quale i filosofi moderni, detti «immonda greggia
di Epicuro», avevano diffuso «empie massime» che avevano causato
gli «orrori» francesi. E con i filosofi imputati erano anche i massoni,
secondo il paradigma del complotto codificato e reso poi celebre da
Augustin Barruel.
Si assiste in questi anni anche ad un massiccio ingresso di tematiche
religiose, in precedenza assai trascurate, e al ricorso a figure bibliche
per la definizione dei modelli postivi e negativi. La guerra contro la
Francia rivoluzionaria viene dunque presentata come una crociata tra
il giovanissimo Francesco II, sempre clemente ma ora anche «pio», e
una «gente sitibonda di sangue» guidata da demoni senza nome. È in
questo contesto di demonizzazione dell’avversario che Charlotte Corday,
l’assassina di Jean-Paul Marat, assurge a paradigma dell’eroina
virtuosa e a novella «Giuditta» che uccide il depravato Oloferne sia nel
racconto dell’«Osservatore triestino» sia nei versi dell’arcade Marzio
Strassoldo32.
Un momento di particolare intensità nello scontro anche ideologico e
letterario fu sicuramente il triennio 1796-1799 che vide la penisola
italiana e anche Trieste divenire uno dei teatri bellici principali, in seguito
alla prima campagna d’Italia di Napoleone Bonaparte. Illuminante in
questo senso è l’analisi quantitativa dei testi apparsi sul già citato
32
M. Strassoldo, La Cordé. Azione eroica scritta dal conte Marzio Strassoldo, Seconda
Edizione ritoccata dallo stesso Autore, Tommasini, Gorizia, 1794.
145
Giulia Delogu
«Osservatore triestino», diretto in quel periodo da Giuseppe de Coletti33.
L’«Osservatore triestino» nacque il 3 luglio 1784, tradizionalmente fedele
alla Casa d’Austria, nel 1797, all’arrivo dei Francesi, fu mutato in
«Gazzetta di Trieste», con apposto in testata il binomio «LibertàEguaglianza». Subito dopo la partenza delle truppe di Napoleone, però,
Coletti si premurò di dare alle stampe un libello antifrancese intitolato
All’Italia e aperto significativamente dal motto «Patientia laesa fit furor».
In generale Coletti, oltre al periodico di informazione, stampava libri
scolastici e di devozione, trattatelli di medicina e igiene, qualche libretto
di versi, qualche romanzetto, versioni dal tedesco e dal francese.
Un dato molto significativo che emerge dallo spoglio della gazzetta è
quello dell’enorme incremento nella pubblicazione dei versi nel 1796,
in coincidenza con l’arrivo delle armate napoleoniche in territorio
italiano: se nei dodici anni precedenti erano state pubblicate 40 poesie,
nel solo 1796 videro la luce ben 13 testi poetici, 10 dei quali
apertamente antifrancesi e 3 di argomento religioso. Tale esplosione
poetica si verificò in concomitanza con un momento di forte crisi e
diffusa paura per un nemico considerato empio e demoniaco; un fatto,
questo, che concorre a mettere in luce il ruolo fondamentale attribuito
allora alla poesia, considerata mezzo di comunicazione e persuasione
estremamente efficace. Speculare è il silenzio poetico che si verificò,
invece, nel periodo della prima occupazione francese del 1797, quando
fu pubblicato un solo sonetto, in data 24 aprile, nel quale si auspicava
il ritorno della pace, senza tuttavia prendere alcuna parte. Il resto
dell’anno fu scandito dalla pubblicazione di ben 9 componimenti, tutti
apertamente schierati in favore della monarchia asburgica.
La recensione delle poesie contenute nell’«Osservatore» rivela
un’interessante e non casuale correlazione tra scelte editoriali e
avvenimenti storici (fig. 2). In coincidenza, infatti, di eventi notevoli si
faceva pronto ricorso agli strumenti della poesia, evidentemente
considerati più adatti ed efficaci sia a celebrare le vittorie, sia a
combattere (anche sul piano delle idee) i nemici34. Anche la scelta di
33
Sull’importanza delle gazzette nel processo di formazione e diffusione delle idee a
fine Settecento, v. G. Ricuperati, La cultura italiana nel secondo Settecento europeo, in
G. Santato (a cura di), Letteratura italiana e cultura europea tra illuminismo e romanticismo. Atti del convegno internazionale di studi Padova-Venezia, 11-13 maggio 2000, Droz,
Ginevra, 2003, p. 53. Sulla stampa a Trieste, in Istria e più in generale nelle Provincie
Illiriche tra fine Settecento e primo Ottocento, v. C. Pagnini, I giornali di Trieste dalle
origini al 1959, Centro Studi Spi, Milano, 1959, in partic. pp. 30-44; E. Apih, Catalogo
analitico della stampa periodica istriana (1807-1870), Unione degli Italiani dell’Istria e di
Fiume-Università Popolare di Trieste, 1983.
34
Ulteriore testimonianza dei sentimenti antifrancesi di Coletti sono gli opuscoli da
lui stampati e pubblicizzati proprio sull’«Osservatore» nel corso del 1799: L’ombra della
Cisalpina poemetto di Stefano Crema da Casalmaggiore dedicato a S.E. il Sig. Bar. de
146
Virtù, commercio e politica: circolazione delle idee nell’area adriatica
Fig. 2 - Andamento delle pubblicazioni poetiche sull’«Osservatore triestino», 1784-1802.
ridurre al minimo la presenza di poesie durante la breve occupazione
francese del 1797 (e sarà così anche per quella del 1806) può essere
spiegata con la volontà, da parte dell’estensore Coletti, strenuo
difensore della Casa d’Austria, di non fornire ulteriori armi agli odiati
Francesi: non era certo possibile opporsi apertamente alle truppe di
occupazione, ma, quanto meno, si voleva evitare di elogiarle e
supportarle. Il grafico mostra l’andamento delle pubblicazioni poetiche
sull’«Osservatore triestino» che subisce periodici picchi in occasione di
grandi rivolgimenti storici. Il primo significativo aumento si ha nel
1796, con l’inizio della campagna d’Italia di Napoleone Bonaparte, per
culminare nel 1799, in occasione delle celebrazioni per la cosiddetta
reazione austro-russa, che pose fine al Triennio repubblicano in Italia,
ed ebbe tra le sue vittorie più significative la (ri)conquista di Mantova.
Ad anni di relativa stabilità, seguiranno poi altri picchi nel 1809, in
occasione della guerra promossa dalla V coalizione, e nel 1814, in
concomitanza con il ritorno della città sotto il dominio asburgico.
Kray, Gio. Andrea Foglierini, Venezia, 1799; Relazione ex ofitio della malattia e morte
della fu Republica Cisalpina scritta per ordine del Direttorio Esecutivo di Francia, ed a lui
trasmessa il dì 11 fiorile (30 aprile) anno VII (1799) dal Dottore N.N. già Direttore, e Medico
primario della defonta [sic], e f.ta L’Ex-Cittadino N.N.
147
Giulia Delogu
Per quanto riguarda lo specifico dei contenuti, nel corso del triennio
1796-1799 il discorso sulla virtù subisce un’ulteriore rise mantizzazione e diventa la base per il confronto-scontro tra Napoleone
Bonaparte e Francesco II, tema che si profila negli anni della prima
campagna d’Italia e diviene poi dominante fino alla fine dell’epopea
napoleonica.
Una immagine di particolare potenza evocativa è quella del
«liberatore», che, come è ben noto, è l’epiteto con il quale Ugo Foscolo
caratterizza il giovane generale corso nella sua celebre ode (A
Bonaparte liberatore, ed. 1797). Foscolo delinea un ritratto idealizzato,
riprendendo l’immagine del Napoleone ‘biondo’ che guida le truppe
all’assalto durante la battaglia di Arcole e facendo del condottiero
francese il depositario delle virtù repubblicane latine di Bruto e dei
Gracchi:
E guerrier veggo di fiorente alloro / cinto le bionde chiome / su cui /
purpuree tremolando vanno / candide azzurre piume; egli al tuo nome / suo
brando snuda e abbatte, arde, devasta; /senno de’ suoi corsier governa il
morso, / ardir li ’ncalza, e de’ marziali il coro / Genj lo irraggia, e dietro lui si
stanno / in aer librate con perpetuo corso /Sorte, Vittoria, e Fama.
Tale iconografia trasfigurata aveva trovato diffusione anche in altri
media ed in particolare nel Ritratto del generale Bonaparte ad Arcole di
Antoine-Jean Gros, un dipinto eseguito nelle settimane immediatamente successive alla battaglia (15-17 novembre 1796) e destinato
ad avere straordinaria fortuna ed ampia circolazione attraverso
molteplici riproduzioni35.
Nell’area triestina si assiste invece ad un totale rovesciamento e
l’epiteto «liberatore» viene associato prima al conte Joahann von Klenau
e poi al barone Paul von Kray. Tale strategia comunicativa rispondeva,
nel primo caso, alla necessità di presentare l’acquisizione dell’Istria
come una liberazione e non una conquista e divenne uno dei leit-motiv
della produzione di fine secolo, come dimostra appunto il sonetto
dedicato a Klenau, il generale che, entrando a Rovigno il 14 giugno
1797, avrebbe ‘liberato’ gli ex-possedimenti veneziani:
Debil Legno giacea d’Euro sonante / esposto all’infuriar, lungi da porto; /
e da i flutti abbattuto, nel spumante / seno del mar era già quasi assorto. //
Squarciato il fianco avea, le sartie infrante, / inutili le vele; e già l’accorto /
passeggier si vedea la morte innante, / ogni speme perduta, ogni conforto. //
35
T. Lentz, L’officina della memoria, in N. Bonaparte, Memorie della campagna d’Italia
(trad. it.), con introduzione di E. Ferrero, Donzelli, Roma, 2012, p. xlvi.
148
Virtù, commercio e politica: circolazione delle idee nell’area adriatica
Quando scese dall’alto a quel Naviglio, / Genio pietoso, che, a salvarlo inteso,
/ benefico lo trasse del periglio. // EGIDA [Capodistria] è il Legno: almo Klenau
qual sei, / che a salvarla dal ciel quasi è disceso: / oh quanto al di Lui Cuor,
Patria tu dei36!
Il secondo caso risponde ad un esigenza simile: presentare per la
riconquista di Mantova del 1799, che come si vedrà più avanti ebbe
vasta eco e fu assurta ad evento-simbolo della campagna di reazione
austro-russo, come avvenimento positivo. Ad essere celebrato fu
dunque Kray, che aveva assunto nel 1799 il comando delle operazioni
in Italia ed aveva affrontato con successo l’armata francese del generale
Schérer, riportando una serie di vittorie a Pastrengo, Verona, Magnano
e Legnago, e occupando successivamente la città di Mantova.
Particolarmente efficace è un testo di provenienza fiumana, nel quale
gli echi ed il rovesciamento degli stilemi foscoliani sono ancora più
evidenti37. Anche l’anonimo poeta, infatti, presenta Kray come un
novello Giulio Cesare, concludendo ogni strofa con il distico «Venne,
vide e vinse / dei Galli il Distruttor», rilettura del celebre detto cesariano
già impiegato nel Bonaparte liberatore. Nei versi finali c’è poi un ritratto
del «liberatore»: «O Distruttor de’ Galli, / sostegno dei Monarchi! / tu
sdegni Busti, ed Archi, / e chiedi il nostro Amor. / L’avrai l’Europa
grata, / in Tua Virtù sicura / eterno amor qui giura / al Suo Liberator»;
versi che contraddicono la celebre conclusione di Foscolo secondo la
quale il destino aveva riservato alle genti italiche un solo ed unico
«liberatore», appunto Napoleone Bonaparte.
Rilevante, sempre in ottica di circolazione delle idee – questa volta
dal centro-Vienna alla periferia-Trieste – e di riuso del discorso sulla
virtù, è l’Inno popolare a Francesco II, un testo di Giuseppe de Coletti
rimaneggiato a partire dall’ Österreichische Volkshymne musicato da
Franz Joseph Haydn. Una prima versione risale al 1797 e fu
pubblicata sull’«Osservatore triestino» per il genetliaco dell’im peratore. L’inno fu pubblicamente cantato e si può ipotizzare si tratti
di uno strumento propagandistico diffuso in tutti i territori asburgici,
che veniva riadattato a seconda delle circostanze. Nel caso pubblicato
sull’«Osservatore», ad esempio, nonostante l’occasione festiva, il
presente stato di guerra non viene dimenticato e il lessico insiste su
una terminologia militar -guerresca: gloria, «bandiere vincitrici»,
vittoria, inimici, gesta. Altri campi semantici esplorati sono quelli
contrapposti del ‘buono’ e del suo antagonista. Francesco II incarna
36
Sonetto a Giovanni conte di Klenau, comandante del Ces, Reg. Corpo d’Armata nell’Istria, in attestato di profondissima stima il Ceto Mercantile (a stampa).
37
Le vittorie dell’immortale Barone Kray Ces. Reg. generale d’artiglieria, in segno di
ammirazione e rispetto Li Socii del Casino di Fiume (a stampa).
149
Giulia Delogu
naturalmente il primo ed è depositario di una serie di attributi
positivi (buon, saviezza, benefico, umano, amor), mentre il suo
avversario, che resta senza nome, si connota per caratteristiche
negative (empio, insano, rio, perturbator). Il componimento, pensato
per la diffusione orale, proprio grazie alle sue semplicità ed apparente
spontaneità, risulta estremamente comunicativo. Una seconda
versione risale ai festeggiamenti per l’onomastico dell’imperatore,
tenutisi a Trieste il 4 ottobre 1798, occasione nella quale l’inno fu
cantato su musiche di Domenico Rampini e distribuito al pubblico
su fogli volanti a stampa38. Il testo, a struttura corale, fu pensato
per la rappresentazione pubblica: ha un carattere dichiaratamente
popolare e mira ad essere compreso (e imparato a memoria) da tutti.
Presenta un linguaggio e un tessuto ritmico semplici e ripetitivi, ma
molto efficaci. Francesco è presentato innanzitutto come padre, poi
come imperatore. Egli, in opposizione a Napoleone Bonaparte e ai
Francesi in generale, è portatore di pace e magnanimo anche con i
vinti. A fianco di Francesco sono celebrati anche l’arciduca Carlo,
condottiero vittorioso, e la consorte dell’imperatore, Teresa, ricordata
come madre di futuri sovrani.
L’efficacia e la penetrazione di tali messaggi prevedeva naturalmente
il persistere della rete di rapporti delineata all’inizio del presente lavoro.
Due casi mostrano con chiarezza il persistere, anche negli anni del
conflitto, della dimensione di scambio tanto verso territori della penisola
italiana quanto verso il litorale istriano-dalmata.
Il primo riguarda la già ricordata presa di Mantova, capitolata il
28 luglio 1799, assurta ad evento simbolo della campagna di reazione
asutro-russa. Ben quindici sono i componimenti circolanti a Trieste
(su fogli volanti o sull’«Osservatore triestino») dedicati alla celebrazione
della vittoria e provenienti da Trieste stessa, Capodistria, Gorizia,
Muggia, Fiume, Venezia e Brescia. Tra le poesie vi è anche la
traduzione italiana, pubblicata sull’«Osservatore», dell’inno in ebraico
composto e recitato dalla «nazione ebrea» di Trieste appositamente
per festeggiare il lieto avvenimento. In parallelo poi ai testi
esplicitamente dedicati alla celebrazione delle virtù di Francesco II,
sovrano sempre clemente, e di Kray, il «liberatore», si sviluppa anche
una riflessione sul vero significato della parola libertà, sempre in
stretto collegamento al concetto di virtù. Particolarmente illuminante
è il sonetto L’Uomo libero, pubblicato sempre sul periodico cittadino,
38
Solennizzandosi in Trieste nel dì 4 ottobre 1798, il giorno onomastico di Sua Maestà
l’Imperadore e re Francesco II, nostro amatissimo sovrano, inno popolare scritto a pubblica
richiesta dal Bibliotecario pubblico Giuseppe de Coletti, Segretario dell’Inclita Accademia
degli Arcadi Sonziaci, posto in musica dal Sig. Maestro Domenico Rampini, dalla Ces. reg.
Privilegiata Stamperia Governariale, Trieste, 1798.
150
Virtù, commercio e politica: circolazione delle idee nell’area adriatica
nel quale attraverso un’argomentazione serrata si vuole dimostrare
come libertà, virtù e saggezza – ben lungi dall’essere ciò che predicano
i Francesi – coincidano e siano semplicemente il saper obbedire alla
giuste leggi di un sovrano-padre giusto, nel quale non è difficile
riconoscere Francesco II39.
L’ultimo caso mostra infine l’intrecciarsi di poesia, politica e virtù
nella dimensione adriatica. Si tratta di una serie di componimenti
pubblicati sull’«Osservatore triestino» tra il 1801 e il 1802 e che
insieme formano una singolare cronaca del viaggio intrapreso
nell’Istria ex-veneta dal nobile friulano, ed arcade romano-sonziaco,
Francesco Maria Steffaneo, plenipotenziario per l’Istria e la Dalmazia
e dal 1802 aio dell’erede al trono Ferdinando a Vienna. L’operazione
messa in atto dall’«Osservatore», che segue da vicino il viaggio di
Steffaneo e ne arricchisce il racconto giornalistico con poesie
provenienti dai centri toccati (Capodistria, Fiume, Pirano, Montana,
ed nuovo Capodistria), rientra nelle strategie impiegate, fin dal 1797,
per presentare in luce positiva l’acquisizione dei territori ex-veneti.
L’Istria, in realtà, ai primi dell’800 era una zona attraversata da
profonde inquietudini e a Capodistria, diversamente che nella vicina
Trieste, molti, soprattutto tra i liberi muratori, erano coloro che
nonostante il ‘tradimento’ di Campoformio attendevano il ritorno delle
truppe napoleoniche40. I testi dell’«Osservatore», per contrasto,
insistono su un’immagine ridente dell’Istria e la parola più ricorrente
delle loro narrazioni è «pace»: una felice sorte di pace, infatti, spetta
a tali territori sotto il nuovo governo grazie alle «eccelse auree virtudi»
dell’imperatore Francesco II.
Il quadro delineato, sia attraverso i dati quantitativi sia attraverso
l’analisi qualitativa di casi specifici, ha inteso mettere in luce la
vitalità del network europeo avente come centro Trieste. Trieste,
allora porto franco della monarchia asburgica, godeva di una posizione
privilegiata per intessere una rete di scambi dalla forte vocazione
adriatica. Quello che si è voluto far emergere è l’esistenza di una rete
39
L’Uomo libero, sonetto di un Accademico Arcade-Sonziaco, e Risorto, in «Osservatore
triestino», 15 luglio 1799.
40
Sull’attività massonica filofrancese a Capodistria v. L. Kammerhofer, Jakobinismus
in Triest, in G. Casa (a cura di), Influenze ed echi della Rivoluzione francese a Trieste e
nel Friuli: maggio 1789-maggio 1797, Atti del Convegno di Trieste, 18 novembre 1989,
Italo Svevo, Trieste, 1991, pp. 39-59; G. Quarantotti, Trieste e l’Istria nell’età napoleonica,
Le Monnier, Firenze, 1954, p. 256; A. Tamaro, La loggia massonica di Capodistria (18061813), «Atti e memorie della società istriana di archeologia e storia patria», 39 (1927),
pp. 91-183. Si noti, inoltre, che, tra le pochissime poesie circolanti a Trieste scritte in
lode di Napoleone, la maggioranza erano opera di autori istriano-dalmati (Giuseppe
Calderari di Umago, Pietro Favento di Capodistria, Niccolò Ivellio di Spalato, Giovanni
Rado di Cattaro).
151
Giulia Delogu
non solamente commerciale, ma anche culturale, caratterizzata da
una forte e perdurante vitalità. Se poi non ci limita alla mera raccolta
di dati, ma si entra nel vivo dei testi, ci si accorge che ci si trova di
fronte soprattutto ad una rete di comunicazione politica, all’interno
della quale i contenuti forgiati nei maggiori centri culturali vengono
sparsi e riadattati anche nelle zone periferiche. Il medium principale
di tali strategie comunicative appare essere la poesia, diffusa
capillarmente e capace di veicolare idee attraverso un linguaggio fatto
di parole ed immagini altamente evocative – come quelle del sovrano
clemente o del liberatore – che vengono plasmate e riplasmate per
rispondere ad esigenze in continua mutazione. Centrale in questo
senso è la voce virtù, polisemica al limite dell’indefinito e forse proprio
per questo onnipresente e capace di evocare nei diversi contesti
contenuti anche contrastanti, divenendo la miglior chiave di lettura
per le contraddizioni e gli scontri che caratterizzano i decenni tra il
Settecento e l’Ottocento.
152
Francesco Benigno
GIUSEPPE GIARRIZZO: UN RICORDO
S OMMARIO : Un breve ricordo personale di Giuseppe Giarrizzo come intellettuale e Maestro
di una generazione di studiosi siciliani, come figura di rilievo della cultura nazionale,
come creatore a Catania di un mondo intellettuale ricco e aperto agli stimoli della storiografia internazionale.
PAROLE
CHIAVE:
Storiografia, Storia culturale, Sicilia.
GIUSEPPE GIARRIZZO: A COMMEMORATION
ABSTRACT: A short personal souvenir of Giuseppe Giarrizzo as an intellectual and Master of a
generation of sicilian scholars, as an important figure of Italian culture and as builder in Catania
of a rich intellectual atmosphere, open to the stirrings of international historiography.
KEYWORDS: Historiography, Cultural History, Sicily.
Ho conosciuto Giarrizzo a lezione, durante i mei anni di studio alla
Facoltà di Lettere e Filosofia di Catania, nel 1976. Prima di allora, naturalmente, l’avevo già visto e ascoltato come preside della Facoltà,
che allora si distribuiva tra il palazzo centrale dell’università, e, dall’altro lato della piazza antica, palazzo Sangiuliano. Una delle cose che
prima di tutto colpivano di lui era l’eloquenza. C’era nei suoi discorsi
un vigore intellettuale, oserei dire una veemenza che impressionava, e
anzi lasciava stupefatti. Questa forza, vibrante come una corda tesa,
poteva giovarsi di un’erudizione straboccante, che non ho mai più incontrato in nessuno. Erano tempi aspri, quelli, di contestazione e di
assemblee, spesso di proteste e di scioperi, qualche volta di scontri.
Ma lui si muoveva con naturalezza, come se l’effervescenza movimentista gli si confacesse, come se si trovasse a suo agio tra i bizantini stilemi discorsivi, nel labirinto ideologico del radicalismo studentesco.
Più spregiudicato di quelli tra noi, che, membri della Sezione universitaria del Pci, avevamo il nostro daffare a frenare il massimalismo ram-
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Francesco Benigno
pante dei gruppettari, egli si muoveva in scioltezza, senza troppi problemi di equilibrio, con libertà. Amato e odiato, criticato e rispettato,
affascinava e anzi soggiogava senza particolare sforzo. Lo sosteneva
una memoria invidiabile, che gli consentiva di spaziare tra i più vari
argomenti con la stessa naturalezza. Tutte queste qualità convergevano
in una sorta di aura di predominio che lo avvolgeva e che coincideva
perfettamente con la denominazione con cui veniva universalmente
indicato, in una sorta di perfetta e armonica coerenza tra conoscenza
e comando: ‘u Presidi.
A lezione veniva fuori un altro tratto della sua abilità retorica. Quella
di procedere nel ragionamento mediante un procedimento ellittico.
Funzionava così: iniziato un tema, diciamo il tema A, a un certo punto,
bruscamente, il discorso «svoltava» in una direzione imprevista, come
se si trattasse di una digressione. Non era così. Il tema B, così iniziato,
veniva perseguito con la stessa coerenza del primo, salvo poi, di nuovo
lasciare spazio (attraverso una simile brusca rottura) a ciò che appariva
come una subordinata, ma invece non lo era: si trattava invece di un
tema ancora diverso, un tema C, che veniva trattato autonomamente
fino a lasciare spazio al tema D e poi al tema E. Improvvisamente poi,
come alla fine di un lungo periplo, il tema E sfociava nel tema originario,
il tema A, e tutto l’insieme del ragionamento si svelava allora come un
affascinante circumnavigazione, una serie di fantastiche catene legate
l’una all’altra che si raccoglievano in cerchio, coerentemente, in una
sorta di meraviglia di senso ritrovato. Certo, negli ultimi tempi capitava
che l’ellisse non si chiudesse in se stessa e allora ci si perdeva in discorsi che sembravano propagarsi all’infinito, senza un senso compiuto,
pur mantenendo ognuna per sé elementi di estremo interesse.
Per Giarrizzo parlare significava far tesoro e anzi mettere a frutto
un patrimonio immenso di conoscenze. Chi ha scherzato sulla sua
verbosità spesso non lo capiva. Perché questa era poi un’altra caratteristica del suo modo di comunicare conoscenza. Egli teneva il livello
del discorso su standard elevatissimi, che mettevano fuori gioco, a
turno (uno, alcuni o tutti insieme) i suoi interlocutori. Non aveva un
approccio pedagogico, se non quello di offrire un discorso che si poteva
leggere a due livelli: uno, essoterico, che era, sia pur con qualche
asprezza, comprensibile ai più. L’altro, esoterico, che si appoggiava su
parole in codice, segnali nascosti che aprivano, a coloro che sapevano
decrittare quei messaggi, universi di senso nascosti.
Dire che non avesse un atteggiamento pedagogico è forse un po’
ingiusto: diciamo meglio che per lui la pedagogia consisteva nel fissare
un’asticella che non veniva mai abbassata, perché segnava il livello
che lui considerava accettabile per la discussione e che, come tale,
veniva imposta equanimemente a tutti: interlocutori, allievi o occasionali postulanti. Che venivano posti davanti ad una barriera che
era difficile contestare o sopravanzare: come dire, hic Rhodus hic salta.
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Giuseppe Giarrizzo: un ricordo
Certo, qualche volta, in occasioni pubbliche, quando vi erano ragioni
particolari a spingerlo, provava a piegarsi ad esigenze di maggiore
chiarezza, ma con effetti non sempre sicuri, che venivano però celati
da una retorica efficace, abile nell’uso dei toni variati, che colpiva
sempre nel segno.
Vi era una dimensione spiazzante ma assai produttiva nel seguire
i suoi discorsi: un mix tra la consapevolezza di non sapere e la rivelazione dell’esistenza di giacimenti di conoscenza ancora tutti da
esplorare. Che questo fosse, per dei ragazzi di vent’anni appassionati
di politica e di storia, molto attraente, è indubbio. Da parte mia
questa consapevolezza si nutriva di un elemento in più: mi ero iscritto
a filosofia, ma col passare del tempo la storia mi aveva conquistato.
Merito dei maestri storici che avevo avuto: tra essi Gastone Manacorda, Mario Mazza, Francesco Sirugo e, certo, soprattutto, Giarrizzo.
Da tutti (e da altri, come Francesco Alberoni, che avevo seguito a
Scienze Politiche) avevo ricevuto l’insegnamento di uno sguardo libero
e culturalmente aperto, che spaziava ben oltre i confini della Sicilia e
anche dell’Italia. Tutto questo era merito dell’atmosfera di apertura
internazionale creata da Giarrizzo in Facoltà. I suoi primi allievi erano
lì a provarlo, quasi con la loro presenza fisica: Nino Recupero aveva
studiato a Londra il Seicento Inglese e Gino Longhitano a Parigi il
Settecento francese. Insomma, a Catania non si respirava un’aria
catanese bensì internazionale, ivi inclusa la possibilità di conoscere
personaggi del calibro di Helmut Koenigsberger, Edward P. Thompson,
Rosario Romeo, Jacques Revel e tanti altri che Giarrizzo trovava il
modo di invitare, ingaggiando talora memorabili dispute: come quando
accusò in pubblico Carlo Ginzburg di «mettere l’altoparlante alle formiche», volendo criticare così la scarsa rappresentatività euristica
dell’approccio microstorico.
Il dialogo con lui a lezione non era frequente. Non perché fosse indisponibile, anzi. Ma perché schiacciava l’interlocutore, e nella fattispecie noi studenti, scaricandogli addosso dosi massicce di erudizione
a cui non era facile resistere e quasi impossibile contrapporsi. Il suo
spirito anti-pedagogico trovava anche qui modo di manifestarsi, perché
anche nelle lezioni egli non faceva sconti e toccava a noi arrabattarci
e cercare di capire cosa avesse voluto veramente dire. C’è però un
altro aspetto che emergeva a lezione, quando taluno di noi riusciva a
trovare le forze e lo spazio di un intervento o una domanda. Vale a
dire la grande liberalità che lo animava. Proprio come era pronto ad
ingaggiare furiose controversie sui punti in discussione, era viceversa
estremamente attento a non chiedere a nessuno, e tantomeno pretendere, di uniformarsi alla sua visione. Rispettava profondamente le
posizioni altrui che pure non condivideva. Ne ebbi la prova in occasione
della tesi di laurea. Avevo trovato, in una casa di campagna di un mio
zio, una serie di registri del porto di Trapani, dai quali poi trassi la
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Francesco Benigno
dissertazione di laurea, e più tardi il mio primo libro. Bene: ricordo
nitidamente una conversazione nella quale, informandolo del mio lavoro (la tesi era stata affidata a Longhitano) e sottolineando il carattere
tradizionale di attività come le saline e le tonnare, egli si mise a discutere con me delle idee di Ruggero Romano sul famoso «blocco di
XV secoli» nella storia dell’economia italiana. Non era d’accordo, questo
mi era chiaro, ma al contempo mi attribuiva un ruolo di contendente
intellettuale al quale ero impreparato e scarsamente consapevole, ma
che mi onorava. Un altro esempio: a Cambridge ero stato preso da
vero e immaturo entusiasmo per la tematica dell’onore nelle società
mediterranee e gli sottoposi uno scritto che era pressappoco un programma di ricerca. Lui da una parte mi diede a leggere il suo saggetto
sul ratto consensuale, sfociante cioè in un matrimonio combinato,
nella Sicilia moderna, quasi a legittimare una prospettiva di indagine
che in generale non condivideva; ma al contempo mi fece osservare
che aveva scritto quel testo una volta divenuto ordinario, sconsigliandomi di imbarcarmi su un terreno di ricerca magari innovativo ma
che mi avrebbe penalizzato rispetto alla carriera. Mi fu chiaro che
aveva perfettamente ragione.
Al contempo, mi resi presto conto, in questo contesto, della necessità
di difendermi dalla sua prevaricante onniscienza e di ritagliarmi uno
spazio di autonomia. Scartati i suoi temi maggiori, l’illuminismo e più
in generale la storia culturale, mi dedicai alla storia economico-sociale,
che allora andava per la maggiore. Studiando un paese siciliano di
nuova fondazione, Paceco, mi resi però presto conto che la chiave di
molte delle questioni aperte non solo non stava nella vicina Trapani
ma neppure a Palermo, bensì a Madrid. Mi fu chiaro allora che quel riferimento internazionale che Giarrizzo costantemente additava nel mio
caso sarebbe stata la monarchia spagnola, una prospettiva che aveva
il vantaggio di offrire percorsi di indagine relativamente nuovi. Giarrizzo
tuttavia, anche su questo terreno, non era impreparato. Per scrivere
la sua Storia della Sicilia si era più volte recato, assieme a Vittorio
Sciuti Russi e a “Toti” Leone all’Archivo Histórico Nacional e a Simancas
e ne aveva tratto idee, suggestioni e anche montagne di fotocopie. La
frequentazione con Maurice Aymard, inoltre, aveva spesso la storia
della Sicilia (ma anche la Monarchia degli Asburgo) come punto comune
di osservazione e di scambio intellettuale. Ora, in vista di una nuova
edizione Utet dell’opera, chiese a me e a Mimmo Ligresti di rivedere (in
pratica di comporre ex novo, a partire da fuggevoli accenni) le note al
testo. Fu un lavoro improbo ma io ebbi un’altra prova – insieme con la
fiducia che mi aveva conferito, e che mi emozionava – della sua enorme
capacità di lavoro. In quel volume Giarrizzo spaziava infatti, volta a
volta, dalla storia politica a quella culturale alla storia economico-sociale. Si può ben dire che egli avesse assorbito il concetto (e l’ideale)
annalista di histoire à part entière ma anche che ne avesse poi elaborato
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Giuseppe Giarrizzo: un ricordo
una versione particolare, tutta giarrizziana, che egli enunciava più o
meno così: ci sono periodi, diceva, in cui i temi economici prendono il
sopravvento mentre in altri sono le questioni religiose ad interessare
la gente e in altri ancora è la politica ad avere l’egemonia. La sua versione dell’histoire à part entière, perciò, non aveva nulla di enciclopedico,
di quella sorta di visione propria dell’occhio di Dio che un certo positivismo annalista (della seconda generazione) tendeva a riprodurre: era
invece una selezione continua dei temi dominanti di un’epoca, che andavano, sosteneva, seguiti nel loro emergere e valorizzati dallo storico,
non giustapposti piattamente.
Nello studiare la Spagna e nel farlo nel Seicento (un secolo su cui
egli aveva approfondito mirabilmente il pensiero politico inglese ma
che comunque non era al centro dei suoi interessi), io tentavo così di
trovare una mia strada periferica rispetto agli interessi centrali del
mio maestro, in modo da ritrovarmi in un contesto meno esposto,
meno, per dir così «nell’occhio del ciclone». Ma intanto avevo assorbito
una fondamentale lezione di metodo. Un oggetto storico, diceva spesso,
va guardato non solo di fronte. Provate a girargli attorno, sosteneva, a
mirarlo di lato e poi ancora, di dietro. Le cose vanno viste da diversi
punti di vista, superando la tentazione della prima lettura, che è
sempre una lettura troppo semplice.
L’applicazione di questo metodo ha prodotto in Giarrizzo una fondamentale postura critica e decostruttiva che va rimarcata. L’applicazione rigorosa del metodo storicista lo portava a contestualizzare
l’evento e perciò anche a demitizzarlo e a decostruirlo. Molte visioni
astratte della storia di Sicilia sono state perciò da lui riviste in profondità: dove la visione tradizionale parlava di una terra senza uomini e
di un dominio del latifondo lui indicava nella struttura urbana e policentrica come uno dei caratteri originari dell’esperienza siciliana; dove
era tradizionalmente delineato il tema del dominio si faceva strada
quello, assai più sfrangiato e ricco di implicazioni, del potere; dove la
storiografia tendeva a leggere la storia siciliana sulla base di pregiudizi,
come una storia «altra», lui ne rimarcava la consustanzialità alla storia
europea; dove si tendeva a enfatizzare un carattere insulare della cultura siciliana, lui, instancabile, ne mostrava i nessi con le principali
tendenze dell’epoca prescelta; dove si enfatizzava l’eccezionalismo del
percorso storico siciliano lui ne riconduceva la talora sofferta vicenda
ad una, magari frustrante, e quotidiana normalità.
Noi, i suoi allievi, abbiamo attinto a questi concetti come a formule
in grado di aprire varchi inattesi di senso e in molti ce ne siano giovati
rielaborandole poi in vario modo. Io. in particolare, ho ben presente il
mio debito intellettuale verso di lui e so bene che, se lui non ci fosse
stato, sarei stato uno storico diverso, e forse neppure uno storico. Poi,
certo, a partire dagli anni Novanta, il mio allontanamento fisico da Catania ha accentuato a tratti gli elementi di differenza tra noi. Ricordo
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Francesco Benigno
con nettezza quando all’uscita del mio Specchi della rivoluzione mi
disse che la nuova storiografia di ispirazione decostruttiva, tra cui il
gruppo radunato attorno a Storica, aveva ragione ad esporre i cadaveri
di costrutti storiografici ormai obsoleti come carcasse di animali al
gancio del macellaio. Su quelle storiche carcasse, aggiunse, si era forgiato un tempo di dispute accese, una stagione intensa di controversie
storiografiche in buona sostanza ideologiche che voi ora dimostrate illusoria. Ma in quella illusione, concludeva con malcelato orgoglio, si
era giocata allora una grande partita, mentre i vostri inappuntabili
esercizi critici si applicano a una natura ormai morta, resa irrilevante
dalla perdita di contatto con l’arena pubblica.
Aveva, ancora una volta, ragione: e molta parte del mio sforzo successivo sarà un tentativo di replicare nei fatti a quella sua osservazione,
tenendo fermo il suo insegnamento ma al contempo cercando di ragionare su ciò che potremmo chiamare l’utilità della storia per la vita.
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Salvatore Fodale
RICORDO DI SALVATORE TRAMONTANA
S OMMARIO : Ricordiamo il medievista Salvatore T ramontana con un intervento inedito di
Salvatore Fodale pronunciato in occasione della presentazione del volume Il Regno di
Sicilia. Uomo e natura dall’XI al XIII secolo, di cui T ramontana era autore.
PAROLE
CHIAVE:
Salvatore Tramontana, Regno di Sicilia, Medio Evo.
COMMEMORATION OF SALVATORE TRAMONTANA
ABSTRACT: We remember the medieval historian Salvatore Tramontana with this unpublished
work written by the author Salvatore Fodale on the occasion of the presentation of the book Il
Regno di Sicilia. Uomo e Natura dall’XI al XIII secolo, of which Tramontana was the author.
KEYWORDS: Salvatore Tramontana, Kingdom of Sicily, Middle Ages.
La scomparsa di Salvatore Tramontana, avvenuta il 21 settembre
del 2015, dopo una lunga, ricca e sempre stimolante attività, tutta
svolta nell’insegnamento all’Università di Messina, nella costante e
significativa presenza ai maggiori incontri congressuali, in una abbondante e lineare produzione storiografica, ha lasciato nella storiografia
non solo siciliana, meridionale e italiana un vuoto che si riflette nell’assenza per familiari, allievi ed amici del calore della sua parola e dell’intelligenza e attenzione del suo consiglio. Le principali vicende e i
risultati della sua vita di storico del medio evo e la sua bibliografia1
possono ripercorrersi nelle pagine della sua allieva Elina Rugolo2 e in
quelle di un altro caro amico scomparso, Enrico Pispisa3.
Dei molti incontri, dal primo ad Alessandria in Piemonte nel 1968,
degli infiniti colloqui conviviali a Bari, ad Erice, in famiglia, dei loro
tempi calmi e lenti, delle tante conversazioni, dei ragionamenti, delle
discussioni, che mi procuravano conforto scientifico o sostegno accademico, mai scontato, ma sempre guadagnato prima o poi col suo con-
1
C.M. Rugolo (a cura di), Bibliografia degli scritti di Salvatore Tramontana, in E.
Cuozzo (a cura di), Studi in onore di Salvatore Tramontana, E. Sellino, Pratola Serra (Av),
2003, pp. 5-20; Shara Pirrotti (a cura di), Bibliografia degli scritti di Salvatore Tramontana, in B. Saitta (a cura di), Città e vita cittadina nei paesi dell’area mediterranea (secoli
XI-XV), Viella, Roma, 2006, pp. 21-37.
2
C.M. Rugolo, Salvatore Tramontana: un percorso di vita tra Accademia e Storia, in S.
Tramontana, Le parole, le immagini, la storia. Studi e ricerche sul Medioevo, a cura di C.M.
Rugolo, Centro interdipartimentale di studi umanistici, Messina, 2012, I, pp. XXIII-LXI.
3
E. Pispisa, Fare storia a Messina. La ricerca di Salvatore Tramontana, in Studi in
onore di Salvatore Tramontana cit., pp. 21-46; Id., Salvatore Tramontana storico delle
città del Mezzogiorno, in Città e vita cittadina nei paesi dell’area mediterranea (secoli XIXV) cit., pp. 39-47; Id., Ragioni e motivi di una raccolta, in S. Tramontana, Le parole, le
immagini, la storia. Studi e ricerche sul Medioevo cit., I, pp. LXIII-LXX.
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Salvatore Fodale
vincimento, degli anni di riunioni del nostro dottorato di ricerca in
comune, mi resta memoria ancora viva, con il ricordo speciale dell’ultima e indimenticabile coversazione telefonica, nella quale volle quasi
darmi un commiato imprevisto di affetto e di stima.
Aveva ritrovato tra le carte e riletto il testo della presentazione, che
mi aveva chiesto di fare a Reggio Calabria il 22 novembre 1999, per il
suo libro su Il Regno di Sicilia. Uomo e natura dall’XI al XIII secolo, dopo
la pubblicazione da Einaudi nel 1999. Volle ripetermi con calore il suo
apprezzamento, offrendosi di inviarmene una copia. Pensavo di averla
nel computer e lo ringraziai, ma non avevo riflettuto che a quella data
utilizzavo ancora la macchina da scrivere. Alla sua morte mi dispiacque
che la materia di quell’ultimo colloquio mi fosse sfuggita di mano: pensavo di non averne alcuna copia. Ho invece ritrovato quel testo, che a
Tramontana era piaciuto, che parla di lui e del suo libro, ritenendo che
avessi detto tutto. Lo ripropongo appresso, come sigillo di un’amicizia,
in ricordo di Salvatore Tramontana, così come fu pronunciato.
Il lettore interessato alla storia del Regno normanno-svevo di Sicilia
è abituato a leggere delle opere che, tra le molte difficoltà e apparenti
contraddizioni delle scarse fonti, raccontano e interpretano le vicende
politiche e militari della conquista del Mezzogiorno d’Italia e della Sicilia, descrivono la situazione economica e quella sociale, la fitta trama
delle relazioni con gli altri poteri interni ed esterni al Regno, i rapporti
con la Chiesa e con il papato, la sedimentata e perfezionata struttura
giuridica, che caratterizza esemplarmente il Regno di Sicilia, il ricco
intreccio della sua cultura.
Una storia e un’interpretazione del Regno da questo tradizionale
punto di vista dello storico, che osserva i fatti e le loro testimonianze
dall’esterno del suo oggetto di studio, ci era già stata data anche da
Salvatore Tramontana alcuni anni fa, quando nella Storia d’Italia della
Utet diretta da Giuseppe Galasso ha pubblicato il suo bel libro di sintesi su La monarchia normanna e sveva.
Il nuovo libro, recentemente pubblicato nella “Biblioteca di cultura
storica” delle edizioni Einaudi, è invece una storia del regno normanno
e svevo vista come dall’interno del regno stesso. Quello che Salvatore
Tramontana ha voluto descrivere e raccontare, utilizzando le fonti,
tutte le fonti possibili, con molto rigore e con molta passione, e traendo
da ogni fonte il massimo che poteva darci e dirci, quello che a me è
sembrato che abbia voluto descrivere, è la realtà ultima ed essenziale,
cioè la condizione esistenziale, più e meglio che le condizioni di vita, in
quelle terre e in quel tempo, che va dall’XI al XIII secolo.
É dunque un Regno di Sicilia in filigrana, come in controluce, quello
ora descritto da Salvatore Tramontana, nel volume appunto intitolato
Il Regno di Sicilia. Uomo e natura dall’XI al XIII secolo. L’avvio di tale
riflessione storiografica del resto già si poteva avvertire addirittura in
molte pagine del volume pubblicato nel 1963 su Michele da Piazza e il
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Ricordo di Salvatore Tramontana
potere baronale in Sicilia. Ancora più si avvertiva in opere successive,
quali L’effimero nella Sicilia normanna del 1984 e Vestirsi e travestirsi
in Sicilia del 1993, e nelle molte relazioni puntualmente svolte a Bari a
cadenza biennale, nelle “Giornate normanno-sveve”, a partire dal 1973.
È del resto l’autore a dichiarare che il suo libro «ha l’impronta inconfondibile delle metodologie e dei dibattiti del “Centro di studi normanno-svevi” di Bari dove, in questi ultimi anni, particolare attenzione
è stata prestata agli approfondimenti dei nessi tra gruppi umani e territorio nel Mezzogiorno italiano e in Sicilia dei secoli XI-XIII».
Un Regno di Sicilia, dunque, visto come dal suo interno, nel rapporto degli uomini che vi vivevano con l’ambiente e con i fenomeni
naturali, nei condizionamenti prodotti dalla loro percezione e interpretazione, nei riflessi sulla mentalità, sulla religiosità, perfino nelle paure
e nelle angosce esistenziali che producevano, nell’osservazione scientifica dell’ambiente naturale, nella sperimentazione, nell’utilizzazione,
nella regolamentazione, nel rapporto con lo spazio, il cielo e la terra, e
con gli animali, nel rapporto con il corpo, il proprio e l’altrui, con le esigenze fisiologiche, con le malattie, con le deformità, con la nascita e
con la morte, con il dolore e con la fatica, con la sessualità, con l’igiene
e la cura fisica, con l’alimentazione, con i piaceri della vita, con la bellezza del corpo umano, con i sogni, con il trascorrere del tempo. Il sentimento della vita e dell’esistenza, dunque, la scienza e la cultura, il
dominio sulla natura, quindi anche la conoscenza, la salvaguardia e
l’utilizzazione del mondo vegetale.
Tutto il percorso, tutte le difficoltà, tutte le gioie, tutte le sofferenze,
tutti i sentimenti della vita umana, tutte le credenze, i pregiudizi, le
conoscenze e le leggi, la teoria e la pratica, e in mezzo l’uomo, gravidanza e parto, afrodisiaci, aborti, pratiche sessuali e sistemi contraccettivi, il cibo e il vino, le carenze alimentari, i banchetti e le taverne,
le donne, i cani, i cavalli, le cacce, i bagni pubblici e privati, le terme,
la giovinezza e la vecchiaia, gli acciacchi senili, i salassi, le droghe, i
veleni, le torture, il magico e il sacro, le reliquie.
La vita di questi uomini e di queste donne certo somiglia a quella
degli altri uomini e delle altre donne che vivono fuori dal Regno. Difatti
l’autore fa a volte giustamente ricorso all’analogia, utilizzando anche
fonti che non descrivono direttamente quella realtà. Tuttavia mi pare
che questo libro dimostri che anche visto dall’interno, per così dire, il
Regno di Sicilia abbia la sua identità, si presenti insomma con una
realtà definita e diversa, come già appariva ad una visione esterna, cioè
in quella lettura tradizionale, della quale dicevamo al principio, che ne
osserva, ne studia e ne interpreta le vicende politico-militari, le strutture giuridiche e amministrative, le relazioni politiche, i rapporti con
la Chiesa romana, il pluralismo etnico e culturale.
L’osservazione e lo studio delle condizioni esistenziali degli uomini
che vivono nelle terre conquistate e governate dai Normanni mi sembra
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Salvatore Fodale
dimostrare che il loro rapporto teorico e pratico, mentale e operativo,
con la natura che li circonda, col cielo, la terra e le acque, con gli animali e le piante, con gli altri uomini e donne e con lo stesso proprio
corpo, presenta alcune peculiarità, specificità e diversità, che sono proprio da ricondurre alle peculiarità, specificità e diversità della sua storia esterna, cioè della sua storia politica e istituzionale, che ne
rappresentano l’identità.
Salvatore Tramontana difatti, pur riscrivendo la storia del Regno di
Sicilia sotto la originale angolazione che abbiamo indicato, da profondo
conoscitore anche della sua storia politica e istituzionale, è sempre
molto attento ad indicare i riflessi della seconda sulla prima. Ne risulta,
ad esempio, che un personaggio centrale della storia politico-istituzionale e culturale del Regno normanno-svevo, quale è Federico II,
rimanga e risalti in primo piano anche nella nuova ottica adottata, sia
per il ruolo propulsivo da lui avuto in rapporto alla diffusione delle
scienze, al dialogo con i dotti, ai quesiti loro rivolti, alle traduzioni di
molte e importanti opere scientifiche, alla redazione del De arte venandi
cum avibus, sia sotto il rispetto operativo per i numerosi e importanti
interventi legislativi.
Sicché anche in questa nuova ottica l’imperatore, che spesso riordina e riassume la tradizione e i precedenti realizzati dai suoi predecessori normanni, ben lungi dall’essere portatore, come purtroppo è
stato scritto da altri, soltanto di una cultura per corrispondenza, appare
come l’anima di quel corpo che abbiamo verificato essere il Regno, non
solo come organizzazione politico-amministrativa, ma anche come
comunità di uomini che, sottoposti agli stessi ordinamenti e partecipi
dello stesso afflato culturale, alimentato e guidato, a volte imposto,
dall’indirizzo politico del sovrano, sembrano condividere non solo le
condizioni del vivere quotidiano, ma anche idee e sentimenti della vita.
Questo è almeno l’insegnamento fondamentale che io ho tratto dalla
lettura, lettura affascinante, del nuovo libro di Salvatore Tramontana.
Altri trarrà forse diversi insegnamenti e conclusioni, da un libro di
quasi 500 pagine che va letto tutto d’un fiato, per non perderne il ritmo
vitale, la passione con cui è stato scritto, il rincorrersi dei numerosi fili
che ne tessono la trama, la visione complessiva, dall’interno, costruita
su mille e mille testimonianze, di un Regno di Sicilia così com’era (o
almeno com’è stato possibile, e non facile, ricostruirlo) nel ritmo e nelle
pulsioni della sua stessa vita, cioè della vita e delle idee e dei sentimenti
e delle condizioni degli uomini che tra XI e XIII secolo si sono trovati a
stare al mondo sotto il governo dei re normanni e svevi.
Un’opera, questa di Tramontana, che rinnova la tradizione storiografica siciliana, nel cui solco tuttavia si colloca saldamente, e che,
attraverso lo svisceramento delle fonti e un’analisi minuta, offre lo
spaccato di un regno e di un’epoca e le ragioni di una identità, che non
sfuggiva all’azione e ai poteri della politica.
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Paola Bianchi
PER ENRICO STUMPO*
SOMMARIO: Enrico Stumpo (Brindisi 1946 - Firenze 2010) ha dedicato alla storia del Piemonte nei
primi secoli dell’età moderna grande attenzione, per almeno due ragioni: l’attività da lui svolta
all’inizio della sua carriera come funzionario dell’Archivio di Stato di Torino, e l'interesse per
quello che considerava il “modello sabaudo”. In queste pagine ripercorro brevemente le tappe
della formazione, in Italia e all'estero, dello storico, che ha interpretato il suo mestiere con
grande originalità e curiosità intellettuale, lasciando alla comunità scientifica un raro insegnamento di rigore e coerenza.
PAROLE CHIAVE: Storia del Piemonte e degli Stati sabaudi, storia economica, storia degli antichi
Stati italiani.
AN HOMAGE TO ENRICO STUMPO
ABSTRACT: Enrico Stumpo (Brindisi 1946 - Florence 2010) devoted great attention to the history of
Savoy-Piedmont in the early-modern age, for, at least, two reasons: his activity, at the beginning
of his career, as official in the Turin Archives, and his interest for what he considered the
"Sabaudian model". These pages shortly describe the formation, in Italy and abroad, of the historian, who has interpreted its work with great originality and intellectual curiosity, leaving a
rare lesson of rigor and coherence to the scientific community.
KEYWORDS: Savoy-Piedmont, Economic History, History of Ancient Italian States.
Poco prima della sua scomparsa (13 giugno 2010) Enrico Stumpo
consegnò al Laboratorio di Studi storici sul Piemonte e gli Stati sabaudi
otto suoi saggi, esprimendo il desiderio che fossero raccolti in un volume,
del quale dettò titolo e indice. Il Laboratorio ha raccolto quel mandato
spingendosi un poco oltre: unendo cioè un nono saggio (strettamente
legato ai temi trattati nei precedenti), un inedito (le pagine, databili ai
primi anni ottanta, post 1981, dedicate al nunzio, a Torino Girolamo
Federici: un plico che Stumpo aveva consegnato in copia dattiloscritta a
Paolo Cozzo con l’auspicio che la massa documentaria schedata e studiata potesse approdare alla pubblicazione) e una bibliografia trovata
anch'essa fra le carte dell'autore.
Uso come soggetto il Laboratorio perché la redazione di questo
volume è stata, in realtà, frutto di un lavoro di gruppo, svolto con la
* Per ricordare l’amico Enrico Stumpo nel sesto anniversario della sua prematura e
dolorosa scomparsa, riproponiamo le pagine dell’introduzione di Paola Bianchi alla
ristampa di alcuni suoi saggi storici sul Piemonte con un inedito nel recentissimo
volume E. Stumpo, Dall’Europa all’Italia. Studi sul Piemonte in età moderna, Silvio
Zamorani, Torino, 2015, pp. I-XVIII. Si ringrazia l’editore Silvio Zamorani di Torino
(www.zamorani.com;info@zamorani.com) per averne concesso l’autorizzazione.
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Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Aprile 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
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Paola Bianchi
preziosa collaborazione di Irene Cotta Stumpo e di Elisabetta Stumpo,
senza le quali il libro difetterebbe di molte informazioni. Gli amici e colleghi Stefano Calonaci, Paolo Cozzo e Davide Maffi e mio marito,
Andrea Merlotti, mi hanno accompagnata nel coordinare la realizzazione di quanto era stato già annunciato in una giornata organizzata
in Archivio di Stato di Torino. Era il 5 ottobre 2012. Franco Angiolini,
Stefano Calonaci, Davide Maffi, che avevano sposato l’idea avanzata
da noi torinesi, ci raggiunsero nella sala conferenze di piazzetta Mollino, dove, con Andrea Merlotti e Claudio Rosso, intervenimmo non
tanto per ripercorrere con dovizie di riflessioni storiografiche il ricco
percorso delle ricerche di Enrico1; a ciò era già stata dedicata, per iniziativa dell’amico e collega Renzo Sabbatini, una densa giornata di
studi ad Arezzo, presso l’ateneo in cui Enrico aveva insegnato dal
19882. La nostra volontà era stata, piuttosto, quella di ricordare l’amico
e il collega che aveva saputo aggregare un gruppo di studiosi di formazione e di età anagrafica diversa andando al di là dei consueti rapporti
di scuola, che ingessano spesso la vita accademica. E avevamo fortemente voluto, insieme con i familiari, creare tale occasione in un luogo
che era stato particolarmente significativo nella biografia dello storico:
appunto Torino. Questa città aveva rappresentato una palestra archivistica per il giovane Stumpo ed era tornata a essere, nei suoi periodici
ritorni in Piemonte, fino agli ultimi anni di vita, il luogo per tessere con
alcuni di noi iniziative e progetti.
Conobbi Enrico all’Istituto Storico Italo-Germanico di Trento, in
occasione di un convegno, e fu lui a stabilire il dialogo, dimostrando di
non aver mai perso di vista – dopo che da diversi anni si era trasferito
a vivere altrove, a Firenze – quel che si studiava e si produceva in Piemonte. Chi l’ha frequentato sa bene, per esserselo sentito ripetere
molte volte, quanto fosse stato importante per lui il “modello” sabaudo:
un modello che – come ci ricordarono nell’ottobre 2012 anche alcuni
ex funzionari dell’Archivio di Stato di Torino che lo avevano conosciuto
in quelle stanze maturando con lui un duraturo rapporto di stima e
d’amicizia3 – trovava ineguagliato in analoghe strutture archivistiche
italiane. Ce lo rammentò e ne portò ancora testimonianza in un seminario di studi che era stato accolto, alla fine del 2007, alla Reggia di
Venaria da poco restaurata e riaperta al pubblico: un seminario dal
quale speravamo di poter avviare, con la sua collaborazione, più di un
1
Fra i relatori doveva essere anche Luciano Pezzolo, che non poté da ultimo raggiungerci a Torino, ma che inviò un saluto a distanza a tutti i presenti.
2
In ricordo di Enrico Stumpo, 13 giugno 2012, Dipartimento di Scienze storico-sociali,
filosofiche e della formazione, ex Facoltà di Lettere e Filosofia, sede di Arezzo, Università
di Siena, con il patrocinio della Società Italiana degli Storici dell’Economia (Sise) e della
Società Italiana per la Storia dell’Età Moderna (Sisem).
3
Isidoro Soffietti, Isabella Massabò Ricci, Marco Carassi, Guido Gentile
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Per Enrico Stumpo
cantiere di ricerca4. Qualche cantiere maturò e anzi poté raggiungere
risultati concreti nel volgere di poco tempo5; altri cantieri rimasero purtroppo soltanto intenzionali, certo non per cattiva volontà di chi li aveva
proposti e immaginati.
Ma veniamo al corpus di saggi qui raccolti. Perché ripresentarli alla
comunità scientifica? Credo di non tradire il pensiero di Enrico dicendo
che il Piemonte aveva rappresentato per lui un terreno di studio ideale
per entrare nel merito dei dibattiti storiografici che avevano segnato le
premesse e la prima fase della sua carriera accademica, lasciando
aperti inoltre precisi percorsi di ricerca documentati dai titoli che
furono inclusi successivamente nella sua produzione. Il Piemonte era
lo spazio in cui mettere alla prova non solo la categoria di “Stato
moderno”, riportata in auge in Italia fra gli anni Settanta e Ottanta non
senza che ne nascessero, per reazione, puntuali contestazioni, ma
anche l’utilità di una storia economica da interpretarsi in stretta relazione con il contesto sociale, come frutto d’indagini da sviluppare nella
diacronia e nelle complessità dell’antico regime. Di queste complessità
il Piemonte, negli anni Settanta, costituiva un caso interessante,
ancora ambiguamente appiattito sulla rappresentazione dello Stato
centralizzato (eppur composto da territori culturalmente, socialmente
ed economicamente assai differenti al là e al di qua dell’arco alpino),
nato da una società aristocratica di origini feudali (che dal Quattrocento invece aveva imparato a coesistere a corte e nelle strutture statuali con élites, in particolare nei territori subalpini, di ben altra
4
Il seminario si svolse in due giornate di studi (30 novembre-1° dicembre 2007) che
coinvolsero Stumpo come chair e come discussant, senza purtroppo averne potuto conservare traccia scritta a causa della malattia. Cfr. P. Bianchi (a cura di), Il Piemonte come
eccezione? Riflessioni sulla «Piedmontese exception», Centro Studi Piemontesi, Torino,
2008. Con la Reggia di Venaria Enrico aveva iniziato a progettare alcune attività per il
2011, in occasione dei 150 anni dell’unità d’Italia, che purtroppo non gli fu possibile
realizzare: una di esse sarebbe dovuta essere incentrata sulla storia del mercato dell’arte,
tema che molto lo appassionò negli ultimi anni.
5
Mi piace ricordare la troppo breve, eppure intensa, esperienza vissuta nel coordinare, con Davide Maffi, la collana che Stumpo aveva ideato e via via accompagnato come
prezioso mentore: Guerra e pace in età moderna. Annali di storia militare europea, uscita
per i tipi dell’editore milanese Franco Angeli fino al quarto volume (I, Italiani al servizio
straniero in età moderna, a cura di P. Bianchi, D. Maffi ed E. Stumpo, 2008; II, Mutazioni
e permanenze nella storia navale del Mediterraneo. Secc. XVI-XIX, a cura di G. Candiani
e L. Lo Basso, 2010; III, Sulla diplomazia in età moderna. Politica, economia, religione, a
cura di R. Sabbatini e P. Volpini, 2011; IV, Tra Marte e Astrea. Giustizia e giurisdizione
militare nell’Europa della prima età moderna (secc. XVI-XVIII), a cura di D. Maffi, 2012).
La collana nacque abbastanza velocemente dopo una fortunata occasione d’incontro e
di scambio d’idee: il convegno madrileno del marzo 2005 (cfr. E. García Hernán, D. Maffi
(eds), Guerra y Sociedad en la Monarquía Hispánica. Política, Estrategia y Cultura en la
Europa Moderna. 1500-1700, Laberinto, Madrid, 2006, 2 voll.), e inoltre a seguito di
poche, ma mirate, conversazioni svolte, ancora, nelle sale e anticamere dell’Archivio di
Stato di Torino.
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Paola Bianchi
matrice), fondamentalmente dedito alla guerra per ragioni di tipo naturale e geografico (attività indubbiamente presente, ma accanto a un
“indotto” che non esauriva le capacità, gli obiettivi e le potenzialità della
popolazione).
Non penso di esagerare dicendo che Enrico iniziò, negli archivi torinesi, un’intensa, articolata e, per certi aspetti, pionieristica attività di
studioso che lascia un’eredità ancora aperta, laicamente sostenuta da
una visione storiografica di largo respiro. La sua attenzione per il Seicento potrebbe bastare per dimostrarlo. Secolo di transizione e di
svolta, a un tempo, per trasformazioni sociali e riforme istituzionali che
erano state spesso attribuite esclusivamente al secolo successivo,
quell’arco cronologico era rimasto a lungo una sorta di zona d’ombra
nella storiografia dedicata agli spazi sabaudi: fra il Cinquecento (celebrato per la ricostituzione dello Stato) e il Settecento (periodo di riforme
e di espansione per definizione). Chi, dagli anni Ottanta, si è misurato
con la storia dei domini dei Savoia durante l’antico regime, in particolare dell’area subalpina, non ha potuto prescindere, perciò, dalla
monografia di Stumpo del 1979: Finanze e Stato moderno nel Piemonte
del Seicento, che l’accreditò fra i più autorevoli esperti di storia della
fiscalità e della finanza degli antichi Stati italiani. Nelle pagine che
seguono, il saggio del 1974, uscito originariamente nella «Rassegna
degli Archivi di Stato», aiuta a comprendere il lavoro di scavo che stava
dietro quel volume: un volume pubblicato a Roma, per i tipi dell’Istituto
storico italiano per l’età moderna e contemporanea, dove Stumpo aveva
vinto un concorso nel 1973 e lavorato per cinque anni.
Enrico, come ha scritto Calonaci in un affettuoso e limpido ricordo
dell’«autentico gentiluomo», parlava poco della sua produzione scientifica6. Il curriculum che ha lasciato tra i file del suo computer è estremamente stringato, privo di ogni compiacimento: una sorta di scheda
di servizio, che tuttavia sottintende o accenna appena a uno straordinario spettro d’interessi e di contatti con istituzioni culturali italiane e
straniere (curioso, piuttosto, il fatto che Enrico – nemo propheta – non
si trovi iscritto tra gli elenchi dei soci e dei corrispondenti dei principali
cenacoli di studi storici torinesi, che in questo – come in altri casi –
han rivelato un singolare spirito esclusivo). Il suo interagire con quelle
istituzioni era caratterizzato da un approccio diretto alle questioni,
molto vicino al lavoro fattivo della ricerca, alle regole della corretta
indagine storica, privo invece di albagica staticità. La sua capacità di
ascoltare gli interlocutori si traduceva, infatti, spesso in un dialogo propositivo, in cui emergevano nuove idee, nuovi suggerimenti, che elar-
6
S. Calonaci, Un ricordo di Enrico Stumpo, in Stringere la pace. Teorie e pratiche della
conciliazione nell’Europa moderna (secoli XV-XVIII), a cura di P. Broggio, M.P. Paoli, Viella,
Roma, 2015, pp. 29-34.
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Per Enrico Stumpo
giva con grande generosità non solo ai suoi stretti colleghi accademici.
La vis polemica, d’altro canto, non gli mancò, esprimendosi in forme
talvolta drasticamente nette, ma in modo sempre rigoroso: il suo dissenso era, cioè, sempre documentato, da buono storico, mai ostentato
per una presa di posizione aprioristicamente ideologica o, tanto meno,
estetica. Di questa sua retorica, che definirei limpida, c’è testimonianza
anche nelle pagine qui raccolte, che offrono al lettore tutti gli strumenti
per ricostruire gli antefatti e lo stato dell’arte da cui partivano le sue
riflessioni.
Forse ancor più che negli anni in cui furono pubblicati, i saggi di
Enrico dedicati alla «distribuzione sociale degli acquirenti dei titoli del
debito pubblico» e al rapporto fra «credito privato e credito pubblico»
sono in grado di parlare al presente, intercettando questioni alle quali
il linguaggio economicistico-finanziario, imperversando sui media, dà
oggi la preferenza7. Chi, tuttavia, cerchi nelle pagine dello storico facili
ricette per confrontare le crisi attuali resterà deluso. L’opera di Stumpo
nasceva, infatti, da una formazione e da sollecitazioni culturali che non
conoscevano ancora – o non conoscevano così pesantemente come
negli anni più recenti – l’emarginazione dello statuto degli insegnamenti
e della ricerca storica, in nome di una sorta di eterno, ingannevole presente: come se il lessico della contemporaneità possa essere compreso
senza una storia di lungo periodo, fatta di analogie, ma anche di salti,
di cesure, di differenze.
Grandi maestri della storiografia del secolo che si è chiuso hanno
spiegato, in termini inequivocabili, perché il lavoro del vero storico consista – debba consistere – in una continua tensione tra il suo interrogarsi sul presente e la ricerca di risposte che provengono dal passato.
Scorrere in sequenza i saggi che Enrico aveva consegnato al Laboratorio per quest’edizione invita, in effetti, a leggere in controluce tutta una
serie di relazioni scientifiche che lo storico aveva costruito in modo
nient’affatto scontato, attraversando un’epoca della storia italiana in
cui i termini Stato, regione, federazione avevano assunto nuove coloriture d’impegno politico rispetto all’immediato secondo dopoguerra.
In tal senso, quel confronto attento fra Toscana e Piemonte, restituito da alcuni dei saggi presenti in questo volume, andava ben al di là
del percorso biografico che aveva portato lo storico a trasferirsi da
Torino nella campagna fiorentina. C’era, sicuramente, la sollecitazione
di un archivio come quello di Firenze in cui la moglie Irene lavorava
7
Sulla storiografia dedicata alla finanza pubblica in relazione al fenomeno storico
della nascita dello Stato moderno, con particolare attenzione agli antichi Stati italiani, è
utile la rassegna di G. Sabatini, La storiografia piu recente sulla finanza italiana dell’eta
moderna: gli studi sul debito pubblico, «Rivista di storia finanziaria», VI (2003), n. 10, pp.
79-128.
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Paola Bianchi
ancora (dopo aver avuto come il marito le prime esperienze archivistiche a Torino) e intorno al quale si era creata un’affiatata comunità
scientifica. Era venuto, dunque, spontaneo allo storico richiamare le
diverse architetture di sedimentazione della memoria documentaria dei
governi sabaudo e mediceo: due realtà che Enrico trovava lontanissime
e perciò stimolanti per ricostruire le ragioni e le forme del differente
tessuto sociale e politico che le aveva prodotte. Ecco dipanarsi dunque,
nella bibliografia dello studioso, la storia dei ceti dirigenti, ma anche
degli spazi urbani, la fiscalità accanto alla storia della medicina, la storia della diplomazia e quella militare, fino all’ultimo innamoramento
per il mercato dell’arte, un tema rimasto incompiuto anche se nel deposito degli appunti esistevano già molti materiali.
Dietro questa trama di argomenti e di documenti era un ordito non
meno fitto di rapporti personali con grandi storici e autorevoli istituzioni, tra cui l’Istituto Internazionale di Storia Economica “F. Datini”
con il quale Enrico collaborò per molti anni: un percorso peculiare se
confrontato con altre traiettorie, più lineari, di colleghi e amici coetanei.
Vale la pena di ricordare, del resto, che Stumpo, nato da una famiglia
d’origine siciliana e abituato a seguire il padre, ufficiale di marina,
aveva conosciuto più di un luogo di residenza fino al completamento
della sua formazione. Nei suoi scritti sul Piemonte sabaudo, come in
quelli sulla Toscana, nulla era stato più alieno di un attaccamento alla
piccola patria. Enrico era, si potrebbe dire, autenticamente e originalmente italiano, essendo legato di persona al nord come al centro e al
sud della Penisola. Cresciuto alla Maddalena, in Sardegna, ma nato a
Brindisi nel 1946, si era laureato nel 1969 a Roma con Rosario Romeo
discutendo una tesi di laurea sull’abbazia di Farfa rimasta fino a ora
inedita8. Nel 1971 vinceva un concorso da funzionario nel ruolo della
carriera direttiva degli Archivi di Stato, prendendo così servizio a
Torino, dove si occupò in particolare della sezione Guerra e Marina
nella sede di via Piave, già via Santa Chiara: l’amore per il mare, una
delle più forti passioni nutrite da Stumpo fino ai suoi ultimi giorni, lo
accompagnava nelle ancora polverosissime stanze delle “Sezioni Riunite”9 dell’archivio torinese. Là, rimboccandosi le maniche, con la collega Isabella Ricci Massabò, riordinò e inventariò due miscellanee di
8
Millenaria e già ricchissima abbazia carolingia, oggi benedettina. Cfr. i cenni in E.
Stumpo, Economia naturale, economia monetaria: l’imposta, in R. Romano, U. Tucci (a
cura di), Storia d’Italia, Annali, 6, Economia naturale, economia monetaria, Einaudi,
Torino, pp. 536, 540-541.
9
I frequentatori della sala studio di questa seconda sede dell’Archivio di Stato di
Torino, accanto a quella centrale di piazza Castello, ricorderanno gli spartani tavoli di
studio e la contiguità con i vecchi depositi dei faldoni prima che intervenisse lo straordinario restauro che, fortemente voluto da Isa Ricci divenuta direttrice, ha trasformato
le due sedi archivistiche torinesi in un fiore all’occhiello nel panorama italiano.
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Per Enrico Stumpo
disegni di notevole interesse: Piante e disegni del Ministero della Guerra
e Tipi e disegni dell’archivio delle Regie Finanze, di cui diedero conto
sul «Bollettino storico-bibliografico subalpino»10. E fu a Torino che
Enrico strinse un rapporto di stima, ma anche di straordinaria amicizia
nata da una comune esperienza archivistica prima che accademica,
con Marino Berengo e con quella che sarebbe diventata la compagna
di vita, oltre che di studi, dello storico veneziano, Renata Segre.
Iniziava, così, nel capoluogo piemontese, l’interesse per una vasta
documentazione sul Cinque e Seicento, che Stumpo avrebbe continuato a studiare negli anni seguenti pubblicando numerosi saggi,
spesso con uno sguardo comparativo al Piemonte sabaudo. Nel 1973
aveva intanto vinto un posto di allievo presso la scuola dell’Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, allora diretta da
Armando Saitta. In quell’istituto lavorò per cinque anni occupandosi
della Nunziatura di Savoia.
Da quegli studi nacque il lavoro inedito che si trova qui pubblicato
e che avrebbe dovuto accompagnare la documentazione legata all’attività del nunzio Girolamo Federici (1516-1579). Si tratta di fonti della
serie Nunziatura Savoia presenti nel fondo Segreteria di Stato dell’Archivio Segreto Vaticano, in cui, alla segnatura 225, si trova il quaderno
copialettere comprendente i dispacci inviati da Roma, dal segretario di
Stato cardinale Tolomeo Gallio, al nunzio presso il duca Emanuele Filiberto (20 giugno 1573-2 ottobre 1577); nella stessa serie, nei volumi
4, 5 e 6, si trovano gli originali delle lettere inviate da Federici, durante
il suo incarico in Piemonte, al cardinale. Il ricco lavoro di spoglio e di
trascrizione che Stumpo aveva seguito meriterebbe di essere riproposto
a qualche generosa istituzione che ne possa sostenere l’edizione integrale11.
Tornando al percorso professionale di Stumpo, va ricordato che dal
1978 al 1981 egli passò a prestare servizio in Archivio di Stato a
Firenze. I contatti col Piemonte non si erano, però, interrotti. Robella,
con il castello Cotta-Radicati, era diventata una sede di villeggiatura
favorevole per incursioni temporanee negli archivi e biblioteche torinesi
e non lontana dalle amate mete marine, dove la passione per la vela fu
coltivata fino all’ultimo. Nel marzo 1981 Stumpo teneva una conferenza
10
I. Ricci Massabò, E. Stumpo, Due fondi iconografici dell’Archivio di Stato di Torino,
«Bollettino storico-bibliografico subalpino», LXXI (1973), fasc. II, pp. 780-782.
11
L’edizione metteva in conto di comprendere tutte le lettere scambiate fra la nunziatura di Savoia e la segreteria pontificia con la sola eccezione delle missive di semplice
ricevuta o di comunicazione della trasmissione di plichi spediti dalla Santa Sede a nunzi
e legati; i criteri sarebbero dovuti essere quelli stabiliti dall’Istituto storico italiano per
l’età moderna e contemporanea per l’uscita delle Nunziature d’Italia. Secoli XVI-XVIII,
indicati da Franco Gaeta nella prefazione al primo volume (2 marzo 1533-14 agosto 1535,
Roma, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, 1958).
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Paola Bianchi
presso la Deputazione subalpina di storia patria dal titolo Emanuele
Filiberto di Savoia uomo europeo, in cui si chiariva la prospettiva internazionale che lo storico avrebbe impresso nei propri lavori, sul Piemonte e non12. Nel 1981 Stumpo si recava a Parigi, per sei mesi, grazie
a una borsa di studio del Cnr, che gli offrì la possibilità di lavorare con
Alberto Tenenti e Fernand Braudel. Senza subire una rigida influenza,
che poteva essere scontata all’epoca, da parte della scuola delle Annales, ne ricavò un autentico approfondimento dei temi di storia sociale,
culturale, economica, partecipando da allora con una certa frequenza
a convegni italiani e stranieri. Oltre a Parigi, fu a Londra, Murcia, Berlino. Nel 1983 entrava infine nei ranghi accademici come professore
associato di storia economica presso l’Università di Sassari, dove, nel
1985 vinse l’ordinariato. Nel 1988 si trasferiva alla Facoltà di Lettere
nella sede di Arezzo dell’Università di Siena, dove dal 2001 passava alla
cattedra di Storia moderna.
L’itineranza dello storico ha creato un reticolo di contatti personali
e istituzionali in cui il suo nome lascia un segno di grande rispetto e
rimpianto. L’ho sperimentato di persona, molto semplicemente, rivolgendomi ad alcuni di quegli istituti per ottenere le liberatorie che
hanno consentito la riedizione di questi saggi; le risposte che ho ricevuto me lo hanno tangibilmente confermato. Membro del Cirsfi, il
Centro Interuniversitario per la Storia della Finanza Pubblica,
Stumpo aveva fatto parte del direttivo della Sise, la Società Italiana
per la Storia Economica, ed era stato vice-presidente e socio fondatore
della Sisem, la Società Italiana per la Storia dell’Età Moderna, che
molto gli deve. Aveva, poi, partecipato al collegio dei docenti del dottorato in Storia economica con sede amministrativa presso l’Università di Verona, entrando inoltre nel Comitato scientifico della rivista
«Studi storici Luigi Simeoni», mantenendo un forte legame con Giorgio
Borelli, che aveva assistito ai suoi esordi accademici in ambito storico-economico.
L’aggiornamento continuo e la grande attenzione ai lavori dei “giovani”, ai quali non risparmiava critiche schiette, ma anche elogi, mai
mediati, lo aveva portato a investire nell’impresa della collana Guerra
e pace in età moderna. Annali di storia militare europea; gli erano
bastati pochi suggerimenti (anche dai “giovani” di cui si fidava, e che
ascoltava senza far pesare in alcun modo la gerarchia dei ruoli) per
partire fiducioso nella programmazione del coinvolgimento di studiosi
12
È interessante il fatto che Stumpo, nel ricordare quella conferenza negli stringati
appunti lasciati sul suo computer, da cui desumo queste informazioni biografiche, avesse
annotato: «Al riguardo diverse lettere di Viora», Mario Viora (Alessandria 1903 - Torino
1986), il maestro di tanti studiosi di storia del diritto che lo storico aveva frequentato e
con cui restò legato a Torino.
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Per Enrico Stumpo
italiani e stranieri13. Così fu, in effetti, fino a quando il suo generoso
patrocinio, non solo intellettuale, ma anche economico, è durato.
Esito, peraltro, a utilizzare l’espressione “intellettuale” riferendomi
a Enrico, a dispetto dell’uso e abuso che questo termine ha incontrato
presso la sua generazione; se dovessi chiedergli conferma, forse mi sentirei dire che preferirebbe essere ricordato come “storico” e “studioso”,
geloso di un mestiere e delle sue regole, ostinato nella ricerca, caparbio
nello stanare carte (i “fondi sporchi” di cui ci parlava Calonaci in occasione della giornata svolta a Torino nell’ottobre 2012), curioso nel rovistare tutta la letteratura possibile su un tema e di interrogarla con la
sensibilità e la cultura di un uomo calato nel presente. Una delle prove
di questa sua condotta può essere testimoniata dalla lunga collaborazione con l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana nella stesura di oltre una
quarantina di voci per il Dizionario biografico degli italiani, di cui una
buona parte dedicata a personaggi piemontesi. Di questo lavoro Enrico
andava giustamente fiero: alcune sue voci costituiscono, in effetti, brevi
saggi, non a caso corredati da una puntualissima appendice di «fonti
e bibliografia».
Nella bibliografia che abbiamo inserito nelle ultime pagine di questo
volume non risulta una stagione in cui pure lo storico investì non
poche energie: quella dedicata ad apprezzati manuali scolastici per i
corsi della secondaria di primo grado e di secondo, istituti tecnici e
licei, pubblicati dalla casa editrice Le Monnier, oltre che per l’università14. La capacità comunicativa dell’autore si sposa, in questi testi,
con un’attenzione particolare, quasi maniacale, per il documento, per
ragioni, come si può ben comprendere, indipendenti dagli aridi e convenzionali dettati della normativa ministeriale, ma legate a una consumata abitudine. Né si deve credere che lo storico proponesse solo
forme di fonti “tradizionali”: il digitale e i supporti filmati erano da
Enrico non solo apprezzati, ma ben conosciuti e selezionati, con l’aiuto
dei figli Elisabetta e Michele.
13
Il Comitato scientifico ha accolto i nomi di: Franco Angiolini, Mariano Bianca, Paola
Bianchi, Irene Cotta, Alessandra Dattero, Piero Del Negro, Enrique Garcia Hernan,
Michael Hochedlinger, Davide Maffi, Francesco Manconi, Giovanni Muto, Giuseppe Vittorio Parigino, David Parrot, Luciano Pezzolo, Luis Ribot Garcia, Renzo Sabbatini, Carla
Sodini, Angelantonio Spagnoletti, Christopher Storrs, Elisabetta Stumpo, Jean-Claude
Waquet. Enrico non si attribuì il ruolo di direttore, limitandosi a dichiararsi a capo di
«un’iniziativa progettata e avviata» da lui.
14
Cfr., con Maria Teresa Tonelli, Il libro di storia 1. Dalla preistoria all’impero carolingio, 2. Dalla società feudale al Congresso di Vienna, 3. Dalla Restaurazione ai nostri giorni,
per la scuola media, Firenze, Le Monnier, 1993, con successive riedizioni fino al testo
universitario, scritto con Giovanni Muto e Giuseppe Gullino, Il mondo moderno. Manuale
di storia per l’Università, Milano, Monduzzi Editoriale, 2007 (e ristampe successive), 2007
(ried. 2011).
171
Paola Bianchi
Ai libri, quelli cartacei, Enrico era tuttavia affezionato più che mai,
ed è perciò motivo di grande orgoglio aver ricevuto, insieme con altri
amici, preziosi esemplari della biblioteca che aveva costruito negli anni
nella sua bella casa in Chianti: volumi generosamente consegnati, negli
ultimi mesi della sua vita, a noi fortunati, suddivisi per temi e per spazi
geografici. Nel mio caso, in “condivisione” con Andrea Merlotti, alcuni
classici della storiografia sul Piemonte d’antico regime, volumi che avevamo consultato anche più volte in biblioteca e di cui possedevamo già
schedature analitiche; ci mancavano, però, gli appunti, le glosse, i commenti autografi di Enrico, che preservano, tangibilmente, traccia della
sua autentica intelligenza.
Per concludere queste poche pagine è doveroso quanto gradito ringraziare gli amici che mi hanno aiutata, moralmente e materialmente,
a portare a compimento l’edizione. Innanzitutto Irene Cotta Stumpo e
la figlia Elisabetta, costantemente presenti a ogni mia domanda o dubbio. E poi i già citati Stefano Calonaci, Paolo Cozzo, Davide Maffi,
colonne insostituibili nell’amicizia e nella complicità di studio. Con tutti
loro, più da vicino con Andrea Merlotti, ho condiviso, fino all’ultima
rilettura, l’elaborazione del volume.
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Alessandro Tuccillo, Il commercio infame. Antischiavismo e diritti dell’uomo nel Settecento italiano, ClioPress, Napoli, 2013, pp. 432
Il libro di Alessandro Tuccillo merita di essere analizzato e discusso
anzitutto perché è l’esito di un progetto coraggioso: come preannuncia
il titolo, si tratta non soltanto di un
confronto diretto con una tradizione
di studi – quella sulla schiavitù atlantica e sull’antischiavismo – molto intensa e particolarmente vivace a livello internazionale negli ultimi anni.
È anche uno dei primi tentativi, forse
il più organico apparso sinora, di declinare questo tema attraverso il prisma del dibattito italiano e di collegarlo ad un orizzonte ancora più
complesso, e questo certamente
meno esplorato, che è quello del nascente dibattito sui diritti dell’uomo
nel tardo Illuminismo.
Per delineare questo percorso
Tuccillo si è mosso seguendo due
percorsi che poi ha messo in relazione mostrandone i punti di dialogo.
Uno è quello del dibattito italiano
contro la schiavitù, che si nutre nel
corso del XVIII secolo di suggestioni
umanistiche e di spunti tratti dalla
tradizione cristiana, e che denota la
vivacità di un Antischiavismo senza
colonie (come recita il titolo del primo
capitolo) nella penisola italiana. L’altro è quello del dibattito europeo e
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soprattutto francese che trova il culmine nel celebre capitolo XV dell’Esprit des lois e poi nella storiografia
philosophique del secondo Settecento,
ai quali viene dedicato il secondo capitolo del libro. Il punto d’incontro
fra questi due percorsi, quello italiano e quello francese, è dato dal dibattito intellettuale sviluppatosi a
partire dal Regno di Napoli, attraverso gli scritti di Antonio Genovesi,
di Ferdinando Galiani, di Francesco
Longano e di Francescantonio Grimaldi e dalla sua diffusione – principalmente attraverso il magistero di
Genovesi – in tutto il resto della penisola. La centralità riconosciuta da
Tuccillo al pensiero napoletano consente di mettere in evidenza la cifra
autentica di questa esperienza, che
consiste da una parte nella riflessione specifica sul rapporto tra schiavitù e moderne società commerciali
(oggetto del terzo capitolo del volume)
e dall’altra nell’introduzione del nesso
esplicito tra schiavitù e politica, anche in termini di difesa della dignità
e dei diritti dell’uomo, che si avverte
soprattutto in un autore come Gaetano Filangieri, discusso nel quarto
capitolo.
Nella temperie degli anni rivoluzionari, quando il confronto sulla
schiavitù e sui diritti dell’uomo diventa un fenomeno europeo destinato a roventi discussioni proseguite
anche oltre l’impero napoleonico e la
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Recensioni e schede
Restaurazione, la cultura italiana
non si trova quindi affatto impreparata, ed anzi contribuisce al dibattito
europeo attraverso gli scritti e l’iniziativa politica di personalità come
Filippo Mazzei e Matteo Galdi, ai
quali viene dato rilievo nel quinto e
conclusivo capitolo.
La ricerca di Tuccillo, che è bene
informata sul dibattito storiografico
internazionale e ben documentata
sul piano delle fonti come dimostra
la bibliografia finale, offre un profilo
di storia intellettuale che mancava
per poter mettere in relazione più diretta le sensibilità del Settecento italiano con un dibattito europeo che si
faceva via via sempre più atlantico e
universale. Allo stesso tempo questo
volume aiuta a sostanziare, a mio avviso, alcune più recenti proposte interpretative che suggeriscono di
guardare anche all’Italia per capire
l’origine del linguaggio moderno sui
diritti dell’uomo, come quelle di Vincenzo Ferrone confluite ora nella sua
Storia dei diritti dell’uomo. L’Illuminismo e la costruzione del linguaggio
politico dei moderni (Laterza, 2014).
Il volume di Tuccillo apre però anche una serie di interrogativi densi
di implicazioni entro un quadro interpretativo che, come si è detto, rimane complesso ed è costantemente
arricchito da nuovi apporti storiografici. Ad esempio, rimette in campo il
problema di capire quanto l’antischiavismo italiano fosse una moda
o un tentativo di connettersi ad un
più ampio discorso internazionale e
quanto invece fosse strumentale ad
una rifondazione della cultura e della
società politica italiane. Evidenzia il
bisogno di comprendere meglio, proprio alla luce dello sviluppo delle moderne società commerciali, i nessi fra
l’antischiavismo e la schiavitù atlantica con quella mediterranea, i cui legami quantomeno in termini ideolo-
174
gici apparivano chiari a uomini come
Genovesi, Filangieri, Mazzei e più
tardi – dalla sponda atlantica – a statisti come John Quincy Adams e James Monroe.
Infine, come osserva l’autore stesso
nelle conclusioni, pone la questione
della complicata e sofferta gestione
dell’eredità dei Lumi italiani nell’Ottocento europeo, soprattutto all’indomani della Restaurazione quando
nella cultura politica francese divennero più evidenti, anche attraverso
l’opera di Benjamin Constant, gli
spunti polemici verso l’esperienza italiana. Nello sviluppo di queste ricerche
il contributo di Tuccillo rimarrà certamente un utile punto di riferimento.
Antonio Trampus
Salvatore Bono, Schiavi. Una storia
mediterranea (XVI-XIX secolo), Il Mulino, Bologna, 2016, pp. 481
Salvatore Bono esplora in maniera
approfondita un tema a cui ha dedicato buona parte delle sue ricerche:
la schiavitù mediterranea. La novità
nella sua nuova pubblicazione sta
non tanto nell’arco cronologico di
lunga durata preso in considerazione,
quanto nel numero delle questioni
toccate attraverso un’impeccabile metodologia applicata all’indagine storica e storiografica.
Nel primo capitolo l’autore esplicita
con estrema chiarezza l’oggetto della
sua analisi, ossia lo studio di quella
schiavitù che ha avuto come grande
scenario il Mediterraneo di età moderna. Sottolinea come la schiavitù
fosse diffusa non solo lungo le coste
bagnate dal Mare Nostrum, ma andava
a interessare anche territori europei
distanti dal Mediterraneo, come la
Germania, le Fiandre, e l’Europa
orientale, quest’ultima oggetto particolare delle mire espansionistiche del-
Recensioni e schede
l’impero ottomano. La presenza schiavile nel mondo mediterraneo nel lungo
periodo è, come sottolinea Bono, uno
dei tratti caratteristici della storia di
questo ecumene. L’autore parlando di
“schiavitù mediterranea”, e distinguendola dalle altre come ad esempio
quella atlantica, intende un insieme
di presenze schiavili segnate da almeno due caratteristiche – la reciprocità e la tendenziale reversibilità – grazie alle quali tale sistema appare
diverso da ogni altro. Salvatore Bono
forgia questo primo capitolo anticipando tutti gli aspetti che vengono poi
approfonditi nel corso della narrazione: l’analisi storiografica del fenomeno della schiavitù a partire da La
Méditerranée (1949), in cui Braudel
mise in primo piano la guerra corsara
e il fenomeno servile; l’attività delle
confraternite e dei redentori per liberare le persone rapite e asservite e riportarle nella terra di origine; i riscatti;
l’integrazione in Europa degli schiavi
musulmani e degli europei all’interno
dell’impero ottomano e delle reggenze
barbaresche; le memorie scritte da alcuni degli oppressi, a partire dal Don
Chisciotte di Miguel de Cervantes.
Nel secondo capitolo l’autore analizza la composizione delle comunità
servili in rapporto alla loro posizione
geografica: dal Maghreb all’impero ottomano, dall’Austria all’Italia, dalla
Germania alla Spagna e al Portogallo,
Bono tenta una prudente stima del
numero degli schiavi presenti nel continente europeo nel corso dell’età moderna. Nella penisola iberica il delinearsi delle nuove caratteristiche del
fenomeno servile ha origine tra la
metà del XV secolo e i primi decenni
del XVI, innanzitutto per l’arrivo della
componente nera africana – smistata
da Lisbona, il più grande centro di
arrivo e di distribuzione degli schiavi
– mentre, dalla fine del ‘500 e più ancora dalla metà del ‘600, nella peni-
sola iberica decrebbe la presenza dei
neri africani e aumentò quella maghrebina. A proposito della città lusitana, nel 1551 vi erano presenti
9.950 schiavi su 100.595 abitanti: il
10% della popolazione; a Evora la
percentuale era sullo stesso livello,
mentre era più bassa a Porto (6%) e
più alta a Lagos (12%). Per quanto riguarda la Spagna, le sue due maggiori città atlantiche, Siviglia e Cadice,
ricevevano schiavi neri dalle coste occidentali africane, ne accolsero in
buon numero dalle Americhe insieme
agli indiani “occidentali” e poi, più
tardi, acquisirono anche moriscos,
mori e turchi. A proposito di Cadice,
il censimento del 1565 accertò l’esistenza di 6.327 schiavi uomini, oltre
il 13% degli 85.000 abitanti.
Nella prosecuzione del capitolo
l’autore abbandona il Mediterraneo
occidentale e importanti centri quali
Parigi, Marsiglia, Roma, Firenze, Livorno, per far rotta verso est. Specialmente nei paesi balcanici, limes
tra occidente e oriente, le costanti frizioni tra le due parti fecero sì che costantemente da una parte o dall’altra
si catturassero schiavi. Persino
l’estremo paese orientale dell’Europa,
la Moscovia, fu coinvolto nella schiavitù mediterranea per effetto dei suoi
rapporti con il Mare Nostrum attraverso la Crimea, il mar Nero e l’impero ottomano. I tatari consegnavano
annualmente 2.000 schiavi all’impero ottomano e una parte di essi era
costituita da russi e da cosacchi; negli anni ’70 del XVI secolo si attesta
una fornitura annua di 20.000
schiavi sulla piazza di Caffa, da parte
dei tatari e degli stessi russi che consegnavano, ovviamente, oppressi di
altre nazioni. Il penultimo paragrafo
è dedicato all’impero ottomano e al
Maghreb, dove la presenza di schiavi
europei era importante. Istanbul, da
quando divenne capitale dell’impero
175
Recensioni e schede
ottomano, fu probabilmente la città
islamica con la più numerosa popolazione servile, sia nera, sia europea,
sia di altre provenienze; allo stesso
modo importanti presenze servili conobbero le reggenze barbaresche di
Algeri, Tunisi e Tripoli. Nell’ultimo
paragrafo Bono, con l’ausilio di tabelle, cerca di stimare il numero degli
schiavi che popolarono il Mediterraneo in età moderna e, nel complesso,
ipotizza che furono tra i 7 e i 9 milioni
gli esseri umani coinvolti nella schiavitù del Mare Nostrum.
Nel terzo capitolo l’autore analizza
la cattura degli schiavi, fenomeno che
si dipana negli scontri e nelle razzie
che caratterizzano il mondo Mediterraneo dell’età moderna. Dal punto di
vista cronologico Bono individua un
periodo – dal 1487, anno della riconquista di Malaga, al 1571, anno di
Lepanto – caratterizzato dalla Reconquista dei regni iberici sotto l’egida
dell’islam e da una serie di guerre e
di battaglie sul mare che permisero
la diffusione della schiavitù in tutto
il bacino. Nella riscossa religiosa della
Reconquista e con l’intenzione di garantire sicurezza alla penisola iberica,
i sovrani spagnoli estesero verso est
le occupazioni lungo la costa maghrebina, facendo incetta di schiavi: nel
1497 Melilla, nel 1505, in prossimità
di Orano, Mers el-Kebìr, nel 1508 il
Peñón de Vélez, nel 1509 Orano, nel
1510 Bugia e Tripoli. In quegli stessi
anni il Mediterraneo occidentale fu
oggetto di importanti scorrerie corsaresche. Tra i corsari turchi primeggiarono i fratelli Barbarossa, soprannome con il quale è noto il minore
dei due Khair ed-Din, che nel 1518
fondò la reggenza di Algeri, vassalla
dell’impero ottomano. Nel primo ventennio del Cinquecento nel Mediterraneo prevalse l’attività musulmana:
nel 1510 una spedizione sbarcò in
Corsica portando via un migliaio di
176
schiavi; nel 1514 la squadra di Kurdogli (Curtogoli) imperversava nell’alto Tirreno, mentre l’anno successivo i corsari fecero razzie nei mari di
Sicilia, Sardegna, Liguria e nuovamente in Corsica, dove rapirono 600
persone. La risposta di Carlo V a queste incursioni fu l’insediamento a
Malta nel 1530 dei cavalieri di San
Giovanni, costretti dai turchi a ritirarsi da Rodi nel 1522; il 1530 segnò
dunque l’inizio di una combattiva presenza, contro i turchi e i barbareschi,
nel cuore del Mediterraneo.
L’autore, proseguendo l’analisi
delle serie di scontri che segnarono
la storia del Mare Nostrum fino a Lepanto, ci proietta così nel paragrafo
successivo che prende in considerazione gli anni 1572-1644, l’epoca
d’oro della guerra corsara. In effetti,
proprio la battaglia di Lepanto e gli
eventi successivi portarono ad una
tregua tra i due grandi imperi del Mediterraneo – quello spagnolo e quello
ottomano – permettendo così l’emergere di una “guerra inferiore”, come
la definì Braudel, in cui la corsa fu
davvero protagonista. Nei primi
vent’anni del XVII secolo si raggiunse
il culmine dell’attività corsara europea, esercitata dall’Ordine di Malta e
dall’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano, dalle squadre delle marine statali e da privati armatori corsari: 180
persone furono catturate dai cavalieri
maltesi a Castelnuovo di Morea nel
1601; 423 tratte schiave dagli stefaniani nel giugno 1602 da equipaggi e
ciurme della flotta di Alessandria; tra
le 400 e le 700 persone portate via
dai melitensi nell’incursione ad Hammamet alla metà di agosto del 1602.
Il 1644 risultò un anno cruciale: a
settembre i cavalieri di Malta catturarono un galeone turco, La Sultana,
con 380 persone rese schiave, tra le
quali probabilmente la favorita del
sultano Ibrahim, con un figlio da lui
Recensioni e schede
avuto, il quale, convertito e più tardi
entrato nell’ordine dei frati predicatori, divenne noto come padre Domenico Ottomano. Comunque, la clamorosa cattura sfociò nella guerra
veneto-turca, detta di Candia (164569) e a un generale rianimarsi dell’attività corsara nel Mare Nostrum.
Se nel corso del XVII e della prima
parte del XVIII secolo tale fenomeno
proseguì con una certa intensità, nel
corso del ‘700 la guerra di corsa andò
pian piano diradandosi, mostrando
però alcuni picchi. Anche le navi
americane, sempre più numerose nel
Mediterraneo in seguito alla dichiarazione di indipendenza (1787), furono preda dei corsari barbareschi e
diverse centinaia di americani subirono l’esperienza di un periodo di
schiavitù nel Maghreb. Ancora durante il Congresso di Vienna (1815)
il Mare Nostrum era il palcoscenico
di queste scorrerie e solo il 1830,
quando i francesi occuparono Algeri,
può essere assunto come termine ad
quem della guerra corsara e della
schiavitù degli europei.
Nel quarto capitolo l’autore approfondisce una delle caratteristiche
della schiavitù mediterranea, ossia
l’accentuata mobilità degli schiavi a
seguito della cattura: mutamenti di
proprietario, compravendite, doni,
erano fasi attraverso le quali un soggetto nella condizione servile poteva
passare diverse volte nel corso della
sua vita. Presso le società maghrebine le vittime erano spesso in grado
di contestare la legittimità della propria cattura e gli europei, con l’appoggio dei loro rappresentanti consolari, cercavano di aprire un
contenzioso. Più difficile, invece, era
per gli schiavi immessi nella società
europea contestare la propria condizione; solitamente per dichiarare un
soggetto come schiavo de bona guerra
era sufficiente che fosse infedele. In
ogni caso, per gli schiavi e le schiave
di ambe le parti i giorni della cattura,
dell’esposizione al pubblico e della
vendita, costituivano tra i momenti
più angosciosi dell’intera vicenda.
Dalle città corsare maghrebine, da
Tripoli a Salè, dai principali centri
dell’impero ottomano, come Istanbul,
Smirne, Aleppo, Alessandria, Bursa,
Il Cairo, alle città cristiane come Siviglia, Trapani, Palermo, Lagos vi
erano dei luoghi espressamente dedicati alla vendita degli schiavi.
L’operazione di compravendita e il
prezzo della manodopera servile,
come mostrato nel secondo e nel terzo
paragrafo, dipendevano da una serie
di fattori: ciò che cercava l’acquirente,
se preferiva uno schiavo o una
schiava, l’età del soggetto, l’estrazione
sociale, quale mansione affidargli ecc.
In Europa, nel corso del XVI secolo,
il costo degli schiavi mostra
un’ascesa, in analogia con l’andamento generale dei prezzi; inoltre, il
mercato europeo a partire dalla seconda metà del secolo successivo, fu
influenzato dalla minore disponibilità
di manodopera servile con il ridursi
dell’attività corsara. Spesse volte,
come scrive l’autore nell’ultimo paragrafo, gli schiavi venivano donati, o
scambiati o passavano ad altro proprietario per successione ereditaria e
proprio l’essere oggetto di tale operazioni poteva – come nel caso del giovane al-Hasan al-Wazzan divenuto
Giovanni Leone l’Africano presso la
corte di papa Leone X – mutare radicalmente la sorte dell’asservito.
Nel quinto capitolo l’autore analizza le diverse condizioni in cui era
costretto uno schiavo e i suoi rapporti
con il padrone. Le prestazioni degli
schiavi “domestici” potevano essere
sfruttate non solo dal diretto proprietario o comunque da privati, ma anche
esser fruite da chi prendeva gli schiavi
a nolo o li otteneva in benefit per la
177
Recensioni e schede
sua carica. In Europa, tra i proprietari,
si annoverano nobili ed ecclesiastici
di un certo rango e nel mondo islamico, accanto a i visir e ai pascià, troviamo governatori di province e raìs.
In entrambe le società i ricchi mercanti possedevano numerosi schiavi,
ma anche soggetti meno abbienti,
come funzionari pubblici, letterati ed
esponenti del clero, disponevano di almeno un soggetto asservito. Parallelamente nel mondo islamico il sultano
ottomano, quello del Marocco, il pascià
di Algeri possedevano il maggior numero di schiavi, ma anche ogni ministro di corte e governatore di una reggenza barbaresca ne aveva qualche
decina. Tornando all’Europa, coloro
che possedevano non più di 3 o 4
schiavi li impiegavano spesso, oltre
che nel lavoro domestico, in attività
produttive e imprenditoriali: ad esempio a Valencia alla fine del XVI secolo
un certo numero di proprietari terrieri
e di fornai utilizzavano la manodopera
schiavile in lavori agricoli e nella produzione del pane.
Frequentemente i padroni riponevano piena fiducia nei propri schiavi
così da affidargli compiti delicati
come la cura dei figli, delle persone
malate e bisognose di assistenza. Allo
stesso modo gli oppressi venivano
scelti come guardiani, custodi, guardie del corpo, valletti e persino, dopo
opportuno addestramento, come segretari, contabili e collaboratori nella
gestione della casa e degli affari. Se
in questi casi la condizione delle persone asservite migliorava, non poteva
dirsi altrettanto per gli schiavi alquilados (affittati): uno degli scenari peggiori era quello di essere alquilado
dalla marina statale e di finire ai banchi delle galere. Un’altra terribile
sorte a cui spesso gli schiavi andavano incontro e sulla quale l’autore
richiama l’attenzione in un paragrafo
appositamente dedicato, è quella del
178
possesso sessuale dell’asservito: cristiani e musulmani consideravano
parimenti l’utilizzo sessuale dei propri schiavi tra le prestazioni alle quali
essi erano tenuti.
Il penultimo paragrafo è dedicato
all’harem, destino di molte schiave
non solo di uomini ricchi e potenti,
ma anche del sultano stesso: nel
“serraglio delle donne”, la parte proibita del palazzo imperiale, vivevano
in isolamento le donne prescelte per
essere a disposizione del sultano,
sorvegliate da eunuchi neri e da
donne più anziane. Infine, nell’ultimo
paragrafo Salvatore Bono approfondisce il tema della cattura e della
schiavitù di coppie di coniugi, o di
intere famiglie, ricordando – attraverso la citazione di una scena dei
Tratos di Argel di Cervantes – come
la separazione dai più stretti congiunti era uno degli aspetti più dolorosi della riduzione in schiavitù.
Nel sesto capitolo l’autore affronta
il tema del lavoro degli schiavi. Come
i privati affittavano la propria manodopera servile a chi avesse bisogno
di prestazioni lavorative, così facevano le amministrazioni pubbliche
europee e anche la marina quando i
galeotti erano in esubero o la stagione
risultava inoperosa. Nei paesi islamici uno schiavo che dimostrasse
competenze mediche poteva acquisire
stima, assicurarsi un rapporto privilegiato, e arrivare ad entrare nel favore della corte e dei notabili. Viceversa, più difficilmente che non fra
gli schiavi europei, fra i neri e i musulmani in condizione schiavile qualcuno poté far fortuna, come nel caso
di un certo Juan de Zafra, un nero
che nel primo ventennio del Cinquecento fu agente di commercio per il
ricco mercante sivigliano Alvarez
Chanca. Alcuni africani vennero persino inviati dai loro padroni come
agenti nel continente americano.
Recensioni e schede
Nel secondo paragrafo l’autore
mette in luce il ruolo degli schiavi
impiegati in attività lavorative autonome, cosa che permetteva loro di
entrare in contatto con diversi ambienti della realtà cittadina. In Europa le attività alle quali gli schiavi
si dedicavano erano varie: vendite al
dettaglio, spaccio di cibi e bevande,
lavori artigianali. A Lisbona gli
schiavi trasportavano ceste di pesce
dalle barche ai banchi del mercato,
pulivano le strade e facevano spaccio
ambulante di cibo; quelle attività
erano esercitate allo stesso modo a
Genova nel corso del XVII secolo e a
Civitavecchia nel ‘700. Notizie simili
si trovano anche per Livorno, Algeri
e Malta; nell’isola ci si servì di schiavi
anche per il trasporto d’acqua da
Marsa al forte Sant’Angelo.
Non sempre l’attività concorrenziale degli schiavi era ben vista e, in
effetti, commercianti e artigiani sollevavano spesso reclami e proteste;
le autorità a volte intervenivano –
come nel caso del granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici che nel
1616 proibì agli schiavi di Livorno di
“fare bottega sulla darsena” – ottenendo risultati di temporanea efficacia. Le attività della manodopera
schiavile meritano attenzione anche
per aver contribuito all’introduzione
nella società di accoglienza di usi e
abitudini nuovi. L’esempio più importante è quello della mescita del
caffè: proprio a Livorno agli inizi del
Settecento il turco affrancato Mustafa, detto Topal, ne gestiva una in
via San Giovanni e in Germania furono schiavi e affrancati turchi a diffondere il consumo della bevanda.
Nel 1690 a Würzburg il convertito
turco Johann Ernst Nikolaus Strauss
ottenne forse la prima licenza per
aprire una Kaffeehaus.
Altri due paragrafi sono dedicati
all’impiego della manodopera servile
nella costruzione delle strade e nel
lavoro nelle fabbriche, nelle campagne e nelle miniere, mentre in un altro paragrafo si mette in luce la funzione ostentatoria degli schiavi sia
nella società europea, sia in quella
ottomana. Il capitolo si conclude con
ulteriori due paragrafi: il primo dedicato ai delitti commessi dagli schiavi
e dai conseguenti castighi; il secondo
dedicato alla tutela della manodopera
servile, affinché gli schiavi non venissero né maltrattati né picchiati.
Nel settimo capitolo l’autore affronta il tema degli uomini addetti al
remo (forzati, schiavi e buonavoglia)
a bordo delle galere. Il bisogno crescente di rematori, nel corso del XVI
e del XVII secolo, costituì uno stimolo
per catturare un maggior numero di
schiavi, soprattutto per mezzo dell’attività corsara e dello scontro bellico. Nel primo paragrafo Salvatore
Bono analizza il numero di braccia
umane necessarie come forza motrice
del legno, sia per quanto riguarda le
marinerie europee che per quelle
dell’impero ottomano e maghrebina.
Nel mondo mediterraneo, inoltre, a
causa della contiguità delle due parti,
vi era un alto rischio di fuga e di
azioni violente da parte della componente schiavile della ciurma.
Quando perciò nel corso del XVI
secolo si accrebbe il numero degli
schiavi a bordo delle galere, per tenerli sotto controllo e per offrir loro,
come a tutta la ciurma, un riparo
durante la notte, nelle città barbaresche si adottarono a tal fine locali di
vario genere: vennero utilizzati innanzitutto edifici già destinati a bagni
pubblici, gli hammam, e così gli
schiavi europei cominciarono a chiamare in questo modo i locali destinati
alla loro detenzione.
Nel secondo paragrafo l’autore richiama l’attenzione sulla presenza dei
galeotti a bordo delle flotte europee
179
Recensioni e schede
e, con l’ausilio di tabelle, fornisce dei
numeri per quanto riguarda le due
marine “corsaresche” dei Cavalieri di
San Giovanni e dell’ordine di Santo
Stefano. Salvatore Bono prende in
considerazione anche le altre principali flotte europee, a partire da quella
spagnola, passando per quella napoletana, quella siciliana, quella francese, quella genovese, quella veneziana, quella pontificia, terminando
con la marina del ducato di Savoia. Il
paragrafo successivo non poteva non
essere dedicato ai legni ottomani e
maghrebini e l’autore ci fornisce i numeri della componente schiavile a
bordo di queste flotte. L’ultimo paragrafo è infine dedicato alla provenienza dei galeotti – su entrambe le
sponde del Mediterraneo – e del loro
trattamento e, anche in questo caso,
l’autore ricorrendo a una ricca bibliografia e ad un’accurata ricerca di archivio, ci fornisce non solo numeri e
percentuali della componente servile
sui legni, ma anche la loro generale
condizione di salute.
Nell’ottavo capitolo viene affrontato il tema della pratica religiosa degli schiavi; come Bono sottolinea
nell’incipit, le conoscenze a tal proposito sono piuttosto scarse, mentre
sono ben più robuste quelle a proposito dell’attività dei religiosi europei,
perlopiù cattolici, nella loro veste di
operatori di riscatti. Nel primo paragrafo si discute come, a differenza
dei cristiani fatti schiavi, sono stati
ben più numerosi i musulmani convertiti e integrati che non quelli tornati liberi. L’appartenenza religiosa
risultava un fattore fondamentale di
integrazione e di solidarietà all’interno di una comunità ed era anche
un elemento di consolazione per la
propria condizione schiavile.
Le funzioni religiose cattoliche nel
mondo ottomano erano tollerate, soprattutto quando gli edifici di culto
180
venivano eretti fuori dalle mura della
città; spesse volte anche i bagni
erano in qualche modo adattati a
cappelle per il culto. Inoltre, come
ben evidenziato nel secondo paragrafo, nei decenni successivi alla sua
fondazione (1622) la Congregazione
de Propaganda Fide istituì stabili
missioni cattoliche – affidate a ordini
e congregazioni diverse – soprattutto
nei paesi dove si trovavano comunità
schiavili cristiane: nel 1629 Algeri divenne sede di una missione, con giurisdizione anche su Tunisi e Tripoli.
Se ai cristiani era concessa una certa
libertà di culto, nel quadro della reciprocità anche agli schiavi nei paesi
europei furono concessi propri luoghi
di culto: a Malta, ad esempio, già alla
fine del XVI secolo venne allestito uno
spazio idoneo alla preghiera dei musulmani e di un luogo analogo si ha
notizia a Livorno alla fine del Seicento. Parimenti, su entrambe le
sponde del Mediterraneo non mancavano gli ospedali per gli uomini in
condizioni servili né i cimiteri dove
seppellire membri di una comunità
fedele ad una religione diversa da
quella della comunità che li teneva
in una condizione schiavile.
Nel paragrafo seguente l’autore
sottolinea come in Europa gli schiavi,
se africani di colore, subito dopo l’acquisto o trascorso un certo tempo venivano indotti o sottoposti al battesimo; lo stesso avveniva con i
musulmani e, quanto ai bambini
arabi e turchi, se separati dai genitori
venivano educati ed istruiti alla fede
cristiana: i registri delle parrocchie,
una delle fonti che ha fatto conoscere
il fenomeno schiavile in Europa in età
moderna, documentano in effetti migliaia di battesimi di individui che in
precedenza erano infedeli. Bisogna
anche dire che la conversione era un
atto ambiguo e ci fu chi si pentì;
spesse volte il ritorno alla fede origi-
Recensioni e schede
naria poteva essere non tanto una
scelta personale, quanto un adeguamento alla situazione e ai suoi cambiamenti. Nell’ultimo paragrafo l’autore si sofferma sulla conversione dal
cristianesimo all’islam e sottolinea
che per farsi turco era sufficiente, tenendo alzato l’indice della mano destra, pronunciare la formula rituale
della professione di fede islamica, la
shahada: «non vi è altro Dio che Dio
e Muhammad è il profeta di Dio» (p.
246). A proposito di rinnegati, l’autore
fa l’esempio di quello più noto e dalla
storia eccezionale, Uluj Ali (conosciuto anche con il nome di Euldj Ali,
Uccialì, Occhiali, Ulucciali), un umile
calabrese catturato nel 1536 nella località di Le Castella, non lontano da
Crotone. Si fece turco a Istanbul dove
iniziò a dedicarsi all’attività corsara;
da qui fu inviato a Tripoli e poi ad Algeri come governatore e dopo la battaglia di Lepanto venne nominato ammiraglio supremo – kapudan pasha –
della flotta ottomana.
Nell’ultimo e più corposo capitolo
Salvatore Bono analizza le possibilità
di ritorno alla libertà degli schiavi.
Europei, arabi, turchi, neri africani
desideravano tutti tornare alla libertà,
ma non per tutti erano praticabili le
stesse vie, né tutti avevano le stesse
speranze di rientrare in patria. Sulla
sorte di ognuno pesava l’appartenenza originaria, il censo, la condizione socioeconomica e anche le circostanze in cui si sviluppava la
propria condizione schiavile. Le vie
per riacquistare la libertà erano
molte, ma con prospettive diverse: la
liberazione, il riscatto, lo scambio, implicavano il ritorno in patria; la manumissione invece, ottenuta con più
frequenza dai non europei, portava
all’integrazione nella società altra. Per
quanto riguarda la pratica del riscatto
ai due ordini religiosi di origine medievale, i trinitari e i mercedari, dal
XVI secolo si aggiunsero numerose
nuove istituzioni attive in singole città
o stati; in altre realtà vennero invece
istituite magistrature governative e
vennero creati fondi assicurativi finanziati da contributi della gente di
mare e dai viaggiatori esposti al rischio di cattura. Nel paragrafo seguente l’autore affronta il tema della
liberazione e dell’affrancamento, sottolineando come sinora gli storici abbiano insistito prevalentemente sul
riscatto, trascurando altre modalità
di recupero della libertà, a partire
dalla cessazione fortuita della condizione schiavile quale conseguenza di
eventi bellici per mare o per terra.
Allo stesso tempo le modalità dello
stesso riscatto, come si evince dal
terzo paragrafo, sono spesso poco indagate, come nel caso del rilascio
compiuto in tempi rapidi, alcune ore
dopo la cattura, o come nel caso in
cui gli schiavi, di entrambe le parti,
riuscivano a sottrarsi alla condizione
servile grazie al guadagno e al risparmio realizzati giorno per giorno con
impegno e sacrificio. Il prezzo del riscatto era il punto di incontro tra la
condizione sociale dello schiavo e le
conseguenti disponibilità finanziarie
da parte di chi voleva riscattarlo, e il
valore assegnatogli dal padrone, sia
sul piano pratico che affettivo. Per
quanto riguarda gli europei in condizione schiavile le liste dei redenti,
come mostrato dall’autore che dedica
un paragrafo all’argomento, ci forniscono una serie di informazioni preziose sul numero dei riscatti, sui loro
costi e sul ruolo che i negoziatori avevano nel mandar in porto le operazioni. Dopo aver analizzato le relazioni
fra i governi, che spesse volte, come
nel caso turco-veneziano facilitavano
la restituzione reciproca degli schiavi,
e l’andamento dei riscatti nel XVIII
secolo, l’autore chiude il capitolo con
un paragrafo dedicato alle ribellioni e
181
Recensioni e schede
alle fughe, toccando anche l’aspetto
più estremo, coraggioso e disperato
insieme, per sottrarsi alla condizione
schiavile: quello del togliersi la vita.
Il volume di Salvatore Bono, nella
cui parte finale troviamo le note dei
rispettivi capitoli, la lista delle fonti e
una ricchissima bibliografia, rappresenta il punto di arrivo di decenni di
ricerche. Come l’autore sottolinea nei
ringraziamenti, questo lavoro affonda
le sue radici negli studi universitari,
studi che avrebbero poi condotto
Bono a diventare uno dei massimi
esperti della schiavitù mediterranea
di età moderna. Il suo approccio all’argomento, che distingue il sistema
schiavile mediterraneo dagli altri sistemi, sia nello spazio che nel tempo,
rappresenta senz’altro una primazia
storiografica a cui far riferimento anche per l’analisi di altri fenomeni in
cui il Mare Nostrum, come limes e
come frontiera di realtà diverse ma
contigue, non ha mai smesso di essere protagonista.
Fabrizio Filioli Uranio
Luigi Robuschi, La croce e il leone. Le
relazioni tra Venezia e Ordine di Malta
(secoli XIV-XVIII), Mimesis, Udine,
2015, pp. 185
La croce e il leone di Luigi Robuschi, studioso di storia veneziana
dell’evo moderno e lecturer in Italian
Studies presso la University of Witwatersrand di Johannesburg (Sudafrica), è il frutto di un’intensa attività
di ricerca dell’Autore svolta presso
l’Archivio del Gran Priorato di Lombardia e Venezia del Sovrano Militare
Ordine di Malta.
Come ricordato nella Prefazione
dal ricevitore Gherardo degli Azzoni
Avogardo Malvasia, tale Archivio,
scampato alle razzie napoleoniche del
1806 per merito della coraggiosa ini-
182
ziativa del ricevitore Fulvio Alfonso
Rangone e del segretario Antonio Rota
Merendis, fu risistemato nel palazzo
di Venezia intorno al 1843 e reintegrato tra il 1896 e il 1903 con una serie di documenti restituiti dall’Archivio
di Milano e dall’Archivio di Stato.
La ricerca di Robuschi consiste in
una dettagliata ricostruzione dei rapporti tra la Repubblica di Venezia e
l’Ordine di Malta tra il XIV e il XVIII
secolo, svolta anche con l’intento
esplicito di ridimensionare talune tesi
della letteratura scientifica più accreditata (Luttrell, Spagnoletti, MalliaMilanes) tendenti a valutare come oltremodo negativi i rapporti tra la
Repubblica e l’Ordine. Robuschi, infatti, fa tesoro di numerose fonti archivistiche per sostenere che i rapporti tra il patriziato veneziano e i
cavalieri di Malta, nel periodo preso
in considerazione, furono intensi e
tutto sommato positivi, tanto che importanti famiglie veneziane videro numerosi propri membri annoverati tra
le fila dell’Ordine.
A tal proposito, risultano emblematici i casi di alcuni importanti casati,
come quelli dei Corner e dei Lippomano,
che, avvicinatisi all’Ordine per ragioni
sostanzialmente economiche, finirono
per interiorizzarne la mentalità cavalleresca, imprimendo una svolta in
senso oligarchico e aristocratico al patriziato della Repubblica.
Ciò che contribuì principalmente a
tale trasformazione in una vera e propria aristocrazia di rentiers fu la concessione delle “commende di giuspatronato” da parte dell’Ordine ai patrizi
veneziani che divenivano cavalieri
(l’ereditarietà delle commende, peraltro, riguardava soltanto i membri del
casato che accedevano all’investitura).
Si assistette quindi a importanti investimenti sulla terraferma, incoraggiati
anche dalla forte concorrenza lungo le
vie marittime di inglesi, francesi e olan-
Recensioni e schede
desi, nonché dalla progressiva perdita
di colonie per mano turca (Negroponte
1470, Cipro 1571, Creta 1669).
Questa situazione portò, così, a
una generale distensione dei rapporti
tra Ordine di Malta e Repubblica di
Venezia. Sarebbe, però, errato ritenere
che le ripercussioni si videro soltanto
nel campo economico e commerciale.
Nell’interpretazione di Robuschi, infatti, la politica militare veneziana, ad
un certo momento della sua storia,
risentì anche della mentalità cavalleresca, al punto che essa si spinse arditamente in campagne militari talvolta sconvenienti. Il che risulta
alquanto paradigmatico dell’avvenuto
mutamento, visto che, nel passato,
una delle ragioni per cui l’Ordine
aveva diffidato di Venezia risiedeva
proprio nel fatto che il patriziato veneziano, più volte durante le campagne militari della Cristianità occidentale contro l’infedele musulmano,
aveva preferito salvaguardare i propri
interessi commerciali.
Durante il XVII secolo, invece, la
Repubblica si avventurò in imprese
militari in cui il valore simbolico oltrepassò la convenienza immediata e
a lungo termine. Emblematiche furono la guerra di Candia (1645-1669)
e la guerra di Morea (1684-1699), operazione militare, quest’ultima, condotta per il possesso dell’improduttivo
Peloponneso e funzionale alla sola mitopoiesi pubblica, interessata a restituire un’immagine di Venezia “patria
delle arti” e “altera Atene”. Scrive a
tal riguardo Robuschi: «miti, ricordi,
simboli che ben poco avevano a che
fare con vantaggi economici e militari,
un tempo perseguiti con oculato
senso pratico. Venezia non combatteva più per arricchirsi, ma per consolidare un mito» (p. 118).
Le pagine de La croce e il leone accompagnano il lettore attraverso la ricostruzione di questo complesso rap-
porto tra Ordine e Repubblica, condotta mediante la presentazione di alcuni momenti chiave che videro impegnati i cavalieri in prima linea: dalla
perdita di San Giovanni d’Acri del
1291, alla conquista di Rodi (13061310), per giungere al lungo conflitto
contro Solimano il Magnifico, circoscrivibile cronologicamente dalla caduta della stessa Rodi (1523) alla
grande battaglia di Lepanto del 1571.
Una dettagliata analisi viene dedicata anche alle tensioni che caratterizzarono i rapporti tra le marinerie
della Repubblica e dell’Ordine nel periodo che fece seguito alla comune vittoria di Lepanto; tensioni, queste, che
portarono al grande sequestro dei
beni dell’Ordine nel 1584, ma che si
dissiparono in occasione della sopracitata guerra di Candia, durante la
quale veneziani e cavalieri si trovarono
ancora una volta alleati.
Dal XVIII secolo in poi, invece, si
assistette al progressivo declino non
solo di Venezia, ma anche dell’Ordine,
il quale, ormai ridimensionato nella
capacità bellica, dovette fare i conti
con il nuovo volto “illuminista” del
Settecento, il cui Zeitgeist era insensibile non solo alla necessità di una
tuitio fidei contro l’infedele, ma anche
all’esistenza stessa di un ordine religioso militare.
Nonostante ciò, l’Autore sottolinea
come l’Ordine di Malta riuscì a sopravvivere a tali stravolgimenti epocali, attraversando la parentesi napoleonica
e giungendo fino ai nostri giorni, mentre la Serenissima ridimensionò drasticamente il proprio ruolo nello scacchiere politico mondiale, fino a sparire
definitivamente. Nell’interpretazione di
Robuschi, ciò avvenne perché, pur
cercando entrambi di sopravvivere ancorandosi alle proprie tradizioni e alla
memoria dei fasti del proprio fiero e
glorioso passato, Venezia non fu in
grado di reggere l’impatto con la mo-
183
Recensioni e schede
derna statualità e i nuovi modelli di
amministrazione, rimanendo imbrigliata in schemi non più compatibili
né applicabili in modo efficace nel mutato panorama politico europeo; l’Ordine, invece, seppe reinterpretarsi,
abbandonando progressivamente ma
inesorabilmente il compito della difesa
militare della fede e concentrando le
proprie forze su ciò che ancora oggi
ne caratterizza l’operato: l’obsequium
pauperum. Secondo Robuschi, si
trattò di «una vera e propria palingenesi spirituale e culturale, che conferì
all’antica istituzione una nuova vitalità, indirizzandone gli sforzi verso una
“crociata ospitalaria” che, allora come
oggi, costituisce la ragion d’essere ed
il motivo fondante dell’Ordine di San
Giovanni di Gerusalemme» (p. 154).
Francesco Mascellino
Antonino Giuffrida, Stessa misura,
stesso peso, stesso nome. La Sicilia e
il modello metrico decimale (secoli XIVXIX), Carocci, Roma 2014, pp. 176
Nelle ultime settimane il sito della
NASA, l’agenzia spaziale degli Stati
Uniti, pubblica inedite immagini ravvicinate del pianeta Cerere che la
sonda spaziale Dawn esplora dall’aprile del 2015. Ed è proprio di pochissimi giorni fa la notizia che la
sonda Dawn, grazie a uno strumento
costruito dall’Agenzia Spaziale Italiana, ha scoperto l’esistenza di acqua
sulla superficie di Cerere, detto anche
il “pianeta nano” perché il suo diametro misura appena 950 chilometri.
Queste notizie hanno riportato
l’attenzione degli astronomi e del
grande pubblico interessato alle scoperte spaziali non solo sul pianeta
nano, ma anche e giustamente sull’abate Giuseppe Piazzi che il 1° gennaio 1801 scoprì Cerere e a cui la
NASA rende oggi omaggio sulla sua
184
homepage sottolineando l’importanza
della scoperta avvenuta 215 anni or
sono a Palermo.
Dopo oltre 2 secoli l’abate Giuseppe
Piazzi viene così “riscoperto” assieme
al “suo” pianeta, ma l’ammirazione
verso l’astronomo era piuttosto diffusa
ai suoi tempi tra gli uomini di scienza
in tutta Europa. Ad esempio, si può
ricordare che quando il capitano della
Royal Navy, William Henry Smyth, autore di una carta idrografica della Sicilia, conosce l’abate a Palermo nel
1801, non solo si appassiona all’astronomia tanto da diventare nel 1845 presidente della Royal Astronomical Society, ma soprattutto fa battezzare
all’abate Piazzi e con il cognome dell’abate Piazzi uno dei suoi figli, Charles
Piazzi Smyth, nato a Napoli nel 1819 e
a sua volta destinato a diventare un
famoso astronomo e direttore del Royal
Observatory of Scotland.
Basterebbero forse questi brevi
cenni per delineare lo spessore scientifico dell’astronomo padre Giuseppe
Piazzi, di cui il libro di Antonino Giuffrida mette in luce altri aspetti non
meno rilevanti, illustrando il suo ruolo
nell’elaborazione di una riforma dei
sistemi di misurazione in Sicilia che
culmina nell’introduzione del Codice
metrico del 1809 come premessa di
modernizzazione nel caotico, variegato
e complesso sistema di pesi e misure
esistenti fino ad allora nell’isola.
Nato in Valtellina nel 1746, Giuseppe Piazzi entra a 18 anni nell’ordine dei Teatini e, una volta terminati
gli studi, insegna filosofia a Genova,
matematica a Malta e teologia dogmatica a Roma prima di approdare
nel 1781 in Sicilia. L’arrivo di padre
Piazzi e di altri teatini come, ad esempio, Joseph Sterzinger a Palermo si
inserisce in un contesto culturale in
grande fermento e rinnovamento
dopo l’espulsione dei gesuiti. Nel
1781 padre Piazzi è chiamato a inse-
Recensioni e schede
gnare calcolo sublime (calcolo infinitesimale) nella Reale Accademia degli
Studi di Palermo, dove poi, il 19 gennaio 1787, viene nominato professore
di astronomia. Prima di iniziare le lezioni di astronomia, il teatino è inviato a spese della Deputazione de’
Regj Studi per due anni a Parigi e a
Londra per “migliorarsi nella pratica
delle osservazioni astronomiche” e
per visitarne gli osservatori.
Tornato a Palermo alla fine del del
1789, Piazzi l’anno successivo ottiene
da re Ferdinando di Borbone l’autorizzazione per la costruzione di una
Specola nella Torre di S. Ninfa del Palazzo Reale di Palermo e qui nel 1791
fonda l’Osservatorio Astronomico che
dirigerà fino alla morte avvenuta a Napoli nel 1826. Grazie agli strumenti
moderni di cui dispone, l’abate Piazzi
scopre il 1 gennaio 1801 una “nuova
stella” dotata di moto proprio che
chiamerà Ceres Ferdinandea, in onore
della dea delle messi, simbolo della
Sicilia, e in onore del sovrano dell’epoca. Per le sue scoperte astronomiche, nel 1804 a Piazzi è assegnato
in Francia il Prix Lalande, mentre
l’Académie des Sciences di Parigi premia per ben due volte le edizioni del
1803 e del 1814 del suo catalogo che
descrive la posizione di 7.646 stelle.
È con questo background di tutto
rispetto che si inserisce nel 1808 la
nomina dell’abate Piazzi a presidente
della commissione incaricata dal sovrano borbonico di riformare il sistema
di pesi e misure nell’isola, una riforma
quanto mai necessaria e sempre più
richiesta dalla società siciliana.
Nel 1806, ad esempio, anche il
Parlamento siciliano «riconoscendo
quanto fastidioso riesca al commercio
interno la diversità de’ pesi e delle
misure delle derrate, e la varietà delle
lunghezze delle corde nella dimensione delle terre», aveva chiesto al sovrano di stabilire per mezzo di una
prammatica «un peso ed una misura
fissa ed uguale per tutto il Regno e
una corda parimente uniforme per le
misure delle terre». In risposta a questa richiesta avanzata soprattutto dal
“braccio” nobiliare, re Ferdinando
aveva incaricato la “Giunta de’ Presidenti e del Consultore” di preparare
il testo delle prammatiche «sentendo
le persone perite». La Giunta, però,
con una strisciante resistenza alla riforma bloccava la stesura di ogni
norma e all’inizio del 1808 il sovrano
decideva di nominare una apposita
“Deputazione dei pesi e delle misure”,
formata da tre docenti dell’Università
di Palermo, cioè dall’astronomo Giuseppe Piazzi, che ne è anche il presidente, dal professore di matematica
Domenico Marabitti e dal professore
di economia Paolo Balsamo, affiancati
dall’architetto Giuseppe Marvuglia.
Inizia così un complesso lavoro
per uniformare un sistema di misurazione che si era sempre più diversificato nel corso dei secoli precedenti
e che era sopravvisuto a ogni tentativo di riforma. Il compito affidato a
Piazzi non è, quindi, semplice per
tanti motivi. Oltre che uno strumento
di modernizzazione dello Stato, all’inizio dell’800 il progetto di uniformare pesi e misure si presenta non
solo come una scelta tecnica, ma anche come una opzione “politica” tra i
due principali sistemi di misurazione
presenti in Europa, cioè il sistema
metrico decimale che si basa sul metro e sui numeri decimali cui fa riferimento l’area francese e il “sistema
imperiale britannico” dei numeri
complessi in uso nell’area inglese.
Nel 1808, infatti, quando Piazzi
inizia il suo lavoro, la Sicilia sta vivendo quella particolare congiuntura
politica, economica e sociale che la
vede alleata della Gran Bretagna contro Napoleone. Nel cosidetto “decennio
inglese” 1806-1815 la Sicilia, una
185
Recensioni e schede
delle poche aree mediterranee non occupate dai francesi, è al centro della
politica e degli interessi inglesi nel Mediterraneo, come testimonia l’arrivo di
oltre 20.000 soldati inglesi e di un
centinaio di mercanti inglesi nell’isola,
nella quale, come già nel 1799, si è
rifugiato re Ferdinando dopo l’occupazione francese di Napoli.
In questo contesto scegliere tra il
sistema metrico decimale, quello del
“nemico” francese, e il “sistema imperiale” degli alleati inglesi si arricchiva
di significati politici di non poco rilievo.
Il sistema metrico decimale – come
scrive Antonino Giuffrida – era «nato
con la nuova scienza e assurto a stendardo del riformismo illuminato, politicamente proteso a favorire la formazione di uno stato centralizzato legato
a un unico sistema di misure», mentre
il sistema dei numeri complessi in uso
nell’area inglese è «politicamente
espressione di un impero che ha imposto alle sue colonie uno standard
basato sulle misure di Londra».
L’opzione francese si presenta, apparentemente, come la più moderna
perché elaborata alla fine del ‘700 da
una commissione di scienziati francesi e adottata da numerosi paesi. Secondo Saverio Scrofani, autore di una
Memoria su le misure e pesi d’Italia in
confronto col sistema metrico francese
pubblicata a Parigi proprio nel 1808,
l’adozione del sistema decimale francese avrebbe consentito «di ridurre al
giusto e di nominare in Sicilia, in Napoli, in Roma, in Toscana, Lucca etc.
la stessa misura e lo stesso peso con
lo stesso nome cioè con quel nome
che risponde perfettamente al valore
delle cose misurate o pesate».
Piazzi ha ben presenti le implicazioni politiche e sociali che la scelta
francese avrebbe comportato e –
come scrive Giuffrida – «consapevolmente sceglie di escludere l’opzione
del sistema metrico decimale fran-
186
cese e optare per un sistema metrologico e ponderale basato sul 12» (anziché sul 10) anche per «ragioni legate
alla necessità di recuperare la memoria dei sistemi ponderali antichi
cosolidatisi nel periodo arabo e stravolti dopo la conquista normanna».
Da questa scelta dell’abate Piazzi
nasce il Sistema metrico per la Sicilia
che nel 1809 si tradurrà nel Codice
metrico siculo che, alla vigilia dell’abolizione della feudalità nel 1812, diventa anche uno strumento di lotta
alla feudalità con l’imposizione di regole comuni in tutto il Regno che resteranno in vigore fino all’Unità,
quando anche in Sicilia arriverà il sistema metrico decimale.
Il libro di Giuffrida, che ricostruisce abilmente e puntualmente le
complesse vicende di elaborazione e
attuazione della riforma Piazzi, ci
aiuta a capire come, quando e perché la Sicilia passa dal vecchio sistema nel quale il grano si misurava
e l’olio si pesava al nuovo sistema
nel quale, viceversa, ancora oggi il
grano si pesa e l’olio si misura… Anche attraverso questa “rivoluzione
ponderale” è passata la modernizzazione della Sicilia.
Michela D’Angelo
Paolo Frescura, Altri tempi: attività e
mestieri svaniti, Edizioni Magister,
Matera, 2015, pp. 160
Altri tempi! Eravamo all’inizio degli
anni Sessanta, più esattamente nell’anno scolastico 1962-63, quando ci
siamo conosciuti a Grassano: insegnavo lettere in una prima media e tu,
Paolino, eri uno dei miei allievi più attenti e desiderosi di apprendere. Nella
foto di fine d’anno, stai alla mia sinistra, a destra c’è Michele Lopergolo –
che, mi dici, oggi è primario di chirurgia
toracica molto affermato in un ospedale
Recensioni e schede
romano – e poi via via tutti gli altri: il
povero Nicola Mazzei, Sileo, Vignola,
Musacchio; accanto a te Ettorre, Gramegna e Pontrandolfi; in basso Salvatore, Vizzuso, Paone, Mafaro, Rinaldi,
Di Leo, Rubino e Dell’Erba.
A Grassano mi ritrovai catapultato
in un mondo che credevo ormai scomparso. È il mondo che tu ricostruisci
così amorevolmente nel tuo libro e che
era stato anche quello della mia infanzia a Castelbuono, mio paese natale, dove però allora esso era ormai
in fase avanzata di superamento. A
Grassano invece resisteva tenacemente, forse perché – come ai tempi
di Carlo Levi, che vi aveva trascorso
alcuni anni d’esilio – Cristo era ancora
fermo a Eboli. Il mercato settimanale
stringeva il cuore: le donne che mettevano in vendita uno o due frutti di
stagione o due uova erano il simbolo
di una povertà diffusa e inimmaginabile. Una povertà che è confermata
dalle attività da te descritte, in cui il
baratto era un mezzo di pagamento
ancora frequente.
Così le donne barattavano i loro
capelli con qualche cianfrusaglia
(pettine, fermaglio, spilla, anellino,
braccialetto, ecc.) che il capillaro
esponeva nel suo banco ambulante:
una cassetta di legno con vari scomparti sostenuta, all’altezza della cintola, da una cinghia di stoffa legata
al collo. «Al suo annuncio, le donne
del vicinato uscivano dalle loro case
con un groviglio di capelli in mano e
facevano capannello intorno a lui per
visionare la merce e cominciare la
contrattazione. Le donne più scaltre
rendevano il groviglio più vaporoso
per aumentarne il volume ed ingannare l’ambulante, ma lui, che ben conosceva questi espedienti, non si lasciava raggirare: quelle con più
grinta, tuttavia, in quella sorta di baratto, riuscivano ad ottenere sempre
qualcosa in più».
Quello, caro Paolino, non era una
sorta di baratto, ma baratto puro e
semplice, come baratto era quello
tra il cenciaiolo, che raccoglieva
stracci, da vendere più tardi ai produttori di carta, in cambio di «cianfrusaglie varie, utensili per la casa e
per il lavoro della campagna, giocattoli per bambini… Al suo passaggio
in paese, annunciato ad alta voce
accorrevano tutte le donne che avevano messo da parte i capi d’abbigliamento in disuso [direi, meglio,
irrecuperabili] e cominciava la contrattazione per portare a casa qualche oggetto in più o più importante
e cercare anche di accontentare i
bambini con un giocattolo».
Anche il compratore d’uova, quando
poteva, ricorreva al baratto, ma non
sempre ci riusciva: «cercava di barattarle con la sua mercanzia per averle
a miglior prezzo, ma se proprio la
massaia insisteva, gliele pagava dopo
aver mercanteggiato».
Frescura scheda nel suo libro ben
sessantaquattro tra mestieri e attività
d’altri tempi e lo fa con molta perizia,
insistendo parecchio sulle tecniche
di lavorazione, ricostruite in parte sul
filo della memoria ma soprattutto
grazie alla consulenza di vecchi artigiani sopravvissuti alla modernizzazione dei loro mestieri. Il volume si
avvale anche di un ricco e interessante apparato iconografico, che risulta di notevole aiuto per una migliore comprensione del testo.
Forse non tutti i mestieri elencati
sono effettivamente scomparsi, ma se
ancora resistono il numero dei loro
addetti si è ormai alquanto ridotto e
le tecniche di lavorazione sono notevolmente cambiate grazie all’utilizzazione di nuovi strumenti di lavoro.
Penso a falegnami, calzolai (ridotti ormai al rango di ciabattini), fabbri, gelatai, tavernai (titolari di pizzerie), orologiai, mietitori, figuli, arrotini, ecc.
187
Recensioni e schede
Del tutto scomparsi sono invece sarti,
acquaioli, banditori, bastai, campanari, canestrai, cestai, guardafili, impagliasedie, lampionai, lanaioli, lattai,
lavandaie, materassaie, mulattieri,
ombrellai, scopai, spazzacamini, spigolatrici, tessitrici, tintori.
Un mestiere caratteristico dell’area calabro-lucana, ormai scomparso, era quello del sanaporcelli, ossia dell’esperto che in determinati
periodi dell’anno faceva il giro dei
paesi per evirare il maialino o la maialina che quasi tutte le famiglie allevavano per macellarli, ormai ingrassati, nella stagione invernale. «Era
piuttosto semplice l’evirazione dei
maschi, maggiormente impegnativa,
invece, la sterilizzazione delle femmine... Con un rasoio il castraporcelli
liberava dalla peluria la parte da incidere e, senza anestesia, affondava
con destrezza il suo castratoio, un
coltello tagliente a lama ricurva, nella
carne della giovane femmina del maiale per praticare una piccola incisione e asportare le ovaie con le dita.
Senza perder tempo, suturava la ferita con grosso ago, già pronto all’uso, e la disinfettava alla meglio».
Aggiungo che la castrazione riguardava anche i galletti per farne dei
capponi e talora anche qualche gatto
e qualche cucciolo di cane.
Una lunga scheda molto sentita
dall’autore è quella dedicata al “signor maestro”. Sebbene laureato in
Materie Letterarie, Frescura ha svolto
sempre il ruolo di maestro nelle
scuole elementari del suo paese natale (Grottole) fino al pensionamento
nel settembre 2014. Vi racconta la
sua esperienza, ma forse ancor più
quella dei suoi predecessori, perché
già ai suoi tempi il ruolo del maestro
cambiava rapidamente: non era più
l’unico docente di un’unica classe seguita dalla prima alla quinta, bensì
uno dei due e talora anche dei tre in-
188
segnanti che si alternavano nell’aula.
Non a caso nella scuola del suo “signor maestro” erano ancora in uso
l’inchiostro, il pennino e la carta assorbente. Di biro infatti non c’è traccia nella scuola del “signor maestro”,
che «esercitava la sua professione
come una missione e aveva autorità
e autorevolezza. Ad un tempo temuto
e quasi venerato, era tenuto da tutti
in gran considerazione … Era detentore di un sapere inconfutabile e nessuno osava mettere in dubbio la sua
didattica, la sua valutazione… Era il
tempo delle bacchettate… eppure
nessun genitore aveva da ridire sulle
punizioni inflitte al proprio figlio, anzi
incoraggiava il “signor maestro” ad
essere ancora più severo, se non studiava o si distraeva».
Era bello insegnare in una scuola
elementare: chi scrive lo ha fatto sino
all’anno precedente il suo passaggio
alla Scuola Media di Grassano e l’incontro con Frescura. Proprio nel lontano anno scolastico 1961-62 a Palermo mi affidarono una prima
elementare costituita da 40 iscritti e 4
uditori, cioè bambini non ancora in
età scolastica che alla fine avrebbero
sostenuto l’esame per il passaggio in
seconda. Il numero elevato non costituì affatto un problema: il ricorso al
mutuo insegnamento – che successivamente ho adottato con successo anche nel mio insegnamento universitario, in particolare nella preparazione
delle tesi di laurea – agevolò tantissimo
il mio lavoro e alla fine dell’anno tutti
i bambini, tranne uno con problemi
psichici, avevano raggiunto gli obbiettivi prefissati. È molto gratificante cogliere giorno dopo giorno gli incredibili
e talora inaspettati progressi dei bambini. Di quell’anno conservo ricordi
bellissimi e considero quell’esperienza
come la più formativa della mia ultracinquantennale attività d’insegnante.
O. C.
L’Acropoli, rivista bimestrale diretta da
Giuseppe Galasso, anno XVI, 4/luglio
2015, 5/settembre 2015, 1/gennaio
2016.
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2014).
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CXXXIII- 2014, Lodi, 2015.
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123-134.
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Aprile 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
189
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F. Figlia, Istruzione ed educazione pubblica prima e dopo l’Unità in un paese
delle Madonie. Petralia Sottana, Il Petrino, Petralia Sottana, 2015.
S. Laudani, Lettere a Costanza: La duchiessa Moncada Notarbartolo di Villarosa e il suo mondo (1792-1876), Bonanno Editore, Catania, 2015.
G. Focardi, C. Nubola (a cura di), Nei
tribunali. Pratiche e protagonisti della
giustizia di transizione nell’Italia repubblicana, il Mulino, Bologna, 2015
A.I. Lima (a cura di), Lo Steri dei Chiaromonte a Palermo. I. Significato e valore
di una presenza di lunga durata; II. Disegni e graffiti dei prigionieri dell’Inquisizione. Atlante fotografico, Plumelia,
Bagheria (Palermo), 2015.
G. Foscari (a curadi), L’Europa e la scoperta dell’altro, Ipermedium libri, s.i.l.,
2015.
G. Foscari, La gran macchina della solleuatione. Duecittà e un capopopolo nella
rivolta di Masaniello (1647-1648), Ipermedium libri, s.i.l., 2015.
Gaetano Costa 35 anni dopo, Atti del
convegno svoltosi il 19 settembre 2015
nell’aila magna dell’Università di Palermo, La Tipolitografica, Palermo,
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and his Subjects in the Thirty Years’War,
Oxford University Press, Oxford, 2014.
G. Hanlon, Italy 1636, Oxford University Press, Oxford, 2016.
190
Quaderni Storici, n. 148, I liberi di colore
nello spazio atlantico, a cura di Federica
Morelli e Clément Thibaud, 1/2015.
Quaderni Storici, n. 149, Cambiamento
urbano e cittadinanza in Asia contemporanea, a cura di Tommaso Bobbio e
Marco Buttino, 2/2015.
R. Quiros Rosado, C. Bravo Lozano
(eds.), Los hilos de Penélope. Lealtad y
fidelidades en la Monarquía de España,
1648-1714, ALBAtros, Valencia, 2015.
L. Robuschi, La croce e il leone. Le relazioni tra Venezia e Ordine di Malta (secoli XIV-XVIII),Mimesis, Milano-Udine,
2015.
R. Rossi, La manifattura cotoniera a
Barcellona tra innovazione e persistenza. Il caso della J.B. Sires y Cia
(1770-1810), Rosenberg & Sellier, Torino, 2015.
Studi storici Luigi Simeoni, vol. LXVI
(2016), Istituto per gli Studi Storici Veronesi, Verona.
S. Stumpo, Dall’Europa all’Italia. Studi
sul Piemonte in età moderna, a cura di
Paola Bianchi, Silvio Zamorano Editore,
Torino, 2015.
G. Tonelli, Investire con profisso e stile.
Strategie imprenditoriali e familiari a Milano tra Sei e Settecento, FrancoAngeli,
Milano, 2015.
Christopher Wright
Christopher.Wright@rhul.ac.uk
Dottore di ricerca in Storia presso la Royal Holloway University of London, i suoi
studi riguardano Bisanzio e l’Oriente latino nel tardo Medioevo. È autore del volume
The Gattilusio Lordships and the Aegean World 1355–1462 (Leiden 2014) e di diversi
saggi sulle signorie e società dell’Egeo, l’interazione fra Bisanzio e le Crociate, le
politiche bizantine sui Palaiologoi, e la trasmissione dello Scolasticismo latino a
Bisanzio. I suoi interessi comprendono anche la paleografia greca, in particolare la
creazione di risorse digitali; è autore del A Descriptive Catalogue of the Greek Manuscript Collection of Lambeth Palace Library, con la collaborazione di Maria Argyrou
e Charalambos Dendrinos (2016) (https://www.royalholloway.ac.uk/Hellenic-Institute/Research/LPL/Greek-MSS/Catalogue.pdf).
Laure-Hélène Gouffran
laurehgouffran@yahoo.fr
Dottore di ricerca in Storia Medievale, presso il laboratorio TELEMMe UMR 7303
(MMSH / Aix-Marseille Université), con la tesi La figure de Bertrand Rocaforti. Expériences, identités et strategies d’ascension sociale en Provence au début du XVe siècle, dedicata ai protagonisti della vita economica e politica di Marsiglia all’inizio del
XV secolo, della quale è stata tutor Laure Verdon. Attualmente è ricercatrice associata presso lo stesso Laboratorio, impegnata in ricerche sulle élite urbane nella
Provenza medievale, reti commerciali e sociali nel Mediterraneo occidentale, cultura
mercantile.
Giuseppe Mrozek Eliszezynski
giuseppemrozek@virgilio.it
Dottore di ricerca in Storia Moderna, è attualmente borsista presso la Società
Napoletana di Storia Patria. Recentemente ha pubblicato il suo primo libro, frutto
della rielaborazione della sua tesi dottorale: Bajo acusación: el valimiento en el reinado de Felipe III. Procesos y discursos (Polifemo, Madrid, 2015). Si occupa di storia
politica del XVII secolo, con particolare attenzione al fenomeno del valimiento e ai
rapporti tra la corte di Madrid e il regno di Napoli. Tra le sue pubblicazioni più
recenti, Noble, político y arzobispo. Ascanio Filomarino entre Roma, Madrid y Nápoles, in F. Labrador Arroyo (a cura di), II Encuentro de Jóvenes Investigadores en
Historia Moderna. Líneas recientes de investigación en Historia Moderna (Ediciones
Cinca, Madrid, 2015, pp. 291-304).
n. 36
Mediterranea - ricerche storiche - Anno XIII - Aprile 2016
ISSN 1824-3010 (stampa) ISSN 1828-230X (online)
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Gli Autori
Francisco Precioso Izquierdo
f.precioso@gmail.com
Dottore di ricerca in Storia moderna (Università di Murcia) e Ricercatore postdottorato della Fundación Séneca (Agencia de Ciencia y Tecnología de la Región
de Murcia) presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Università di Lisbona. Le sue
linee di ricerca, concentrate inizialmente sulla famiglia Macanaz (Poder político y
movilidad familiar en la España moderna. Los Macanaz, siglos XVII-XIX, Tesis Doctoral, Universidad de Murcia, 2015), si sono estese ad altri temi: riformismo politico XVIII secolo, formulazione del discorso politico nella Spagna dei Borboni,
rinnovamento sociale delle istituzioni centrali della monarchia spagnola, analisi
della “politicizzazione” delle opinioni comuni nella società moderna, circolazione
della informazione politica o costruzione di “memorie politiche”. È autore dell’opera Melchor Macanaz, la derrota de un héroe (Cátedra, en prensa), e di diversi
saggi su riviste specializzate e in opere collettive.
Paolo Militello
militel@unict.it
Professore associato di Storia moderna presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università degli Studi di Catania, è coordinatore del Dottorato
di ricerca in Scienze umanistiche e dei beni culturali e Scientific manager, per
l’ateneo di Catania, del Master Erasmus Mundus TEMA – European territories
(Civilisation, Nation, Region, City): Identity and Development (sedi consorziate:
EHESS Paris, Università Eötvös Loránd di Budapest e Università Charles di
Praga). Tra i suoi volumi più recenti: Il disegno della storia. Storici e immagini
nella Sicilia d’età moderna (2012) e Ritratti di città in Sicilia e a Malta (XVI-XVII
secolo) (2008). Con Enrico Iachello ha curato il volume Il Mediterraneo delle città.
Atti del convegno internazionale (2011). Attualmente conduce una ricerca su
città e territorio nel Mediterraneo d’età moderna.
Salvatore Bono
bono-med@libero.it
Professore emerito dell’Università degli Studi di Perugia, fondatore nel 1995 e
presidente (ora ‘onorario’) della SIHMED (Société internationale des historiens de
la Méditerranée), è stato uno dei sei membri europei del Comitato consultivo della
Fondazione euro-mediterranea Anna Lindh, e responsabile scientifico del Progetto
HistMed per la storia del Mediterraneo. Dagli anni Cinquanta si interessa del
Mediterraneo nell’età moderna e contemporanea, in particolare sui temi: ‘idea’ del
Mediterraneo e prospettive storiografiche, rapporti fra paesi europei e islamici,
guerra corsara, schiavitù, conversioni religiose, colonialismo. Fra i volumi più
recenti: Schiavi musulmani nell’Italia moderna (1999), Lumi e corsari. Europa e
Maghreb nel Settecento (2005), Tripoli bel suol d’amore (2005), Un altro Mediterraneo. Una storia comune fra scontri e integrazione (2008).
Giulia Delogu
giulia.delogu@hotmail.it
Assegnista di ricerca in Storia Moderna presso l’Università Ca’ Foscari, ha
conseguito il dottorato presso l’Università di Trieste, si è perfezionata all’École
Normale Supérieure (Parigi) ed è stata Visiting Researcher presso la Stanford
University. Suo campo di ricerca sono gli studi settecenteschi, con particolare
attenzione alla circolazione e alla ricodificazione delle idee. Ha pubblicato tre
monografie: su massoneria e letteratura («Di virtù lira sonante». Poesia e massoneria in Italia tra Settecento e primo Ottocento, Pavia, 2014), su Giovanni Rasori
(«Compagno delle vostre fatiche». Giovanni Rasori maestro di virtù nella Pavia del
192
Gli Autori
triennio repubblicano, Milano, 2015), sulla poesia come strumento di comunicazione politica (Trieste «di tesori e virtù sede gioconda». Dall’Arcadia Romano-Sonziaca alla Società di Minerva: una storia poetica, Trieste, 2015).
Francesco Benigno
frabenigno@gmail.com
Ordinario di Metodologia della Ricerca Storica presso l’Università degli studi
di Teramo, i è occupato di storia economica e sociale della Sicilia e del Mediterraneo occidentale (Ultra pharum. Famiglie, commerci e territori nel Mezzogiorno
moderno, Meridiana-libri 2001) e di storia politica dell’Europa moderna, pubblicando su questo tema, tra l’altro L’ombra del Re. Ministri e lotta politica nella Spagna del Seicento, Marsilio 1992; Specchi della rivoluzione. Conflitto e identità
politica nell’Europa moderna, Marsilio 1999; Favoriti e ribelli. Stili della politica
barocca, Bulzoni 2011. Più recentemente si è interessato di storia concettuale
(Le parole del tempo. Un lessico per pensare la storia, Viella 2013) e della formazione delle identità sociali marginali (La mala setta. Alle origini di mafia e camorra
1859-78, Einaudi 2015).
Salvatore Fodale
s.fodale@virgilio.it
Professore emerito dell’Università di Palermo, già ordinario di Storia Medievale
nell’Università di Palermo, ha studiato prevalentemente le relazioni tra il papato e
il regno di Sicilia e il grande scisma d’Occidente, pubblicando tra l’altro Comes et
legatus Siciliae, Palermo 1970; La politica napoletana di Urbano VI, CaltanissettaRoma 1973; Scisma ecclesiastico e potere regio in Sicilia, Palermo 1979; Il clero siciliano tra ribellione e fedeltà ai Martini, Palermo 1983; L’Apostolica Legazia e altri
studi su Stato e Chiesa, Messina 1991; Alunni della perdizione. Chiesa e potere in
Sicilia durante il Grande Scisma (1372-1416), Roma 2009.
Paola Bianchi
p.bianchi@univda.it
Ricercatrice confermata e professore aggregato di Storia Moderna presso il
Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università della Valle d’Aosta. Si
occupa di storia socio-culturale dell’età moderna, con particolare attenzione alla
storia militare, alla formazione delle élites, alla storia delle corti e del fenomeno del
viaggio in Europa. Membro del Comitato editoriale della Collana del Centro Interuniversitario di Studi e Ricerche Storico-militari (Milano, Unicopli), fa parte del Comitato di direzione della rivista «Società e Storia» e ha collaborato con Enrico Stumpo
nel Comitato scientifico di Guerra e pace in età moderna. Annali di storia militare
europea (Angeli. Milano), curandone (con lo stesso Stumpo e Davide Maffi) il primo
volume. Tra le sue ultime pubblicazioni: Sotto diverse bandiere. L’internazionale
militare nello Stato sabaudo d’antico regime, Franco Angeli, Milano, 2012; L’Italia e
il “militare”. Guerre, nazione e rappresentazioni dal Rinascimento alla Repubblica, a
cura di P. Bianchi e N. Labanca, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2014.
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Fotocomposizione e Stampa
FO TO G R APH S . r. l . - PAL E R MO
per conto dell’Associazione no profit “Mediterranea”
Aprile 2016