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Focus Storia Collection - Primavera

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INTERVISTA E nella storia di Roma?

Nella realtà romana è più difficile individuare un "periodo d'oro", perché vanno presi in considerazione un arco di 2.000 anni e molteplici forme di governo. Senz'altro l'età del primo imperatore Augusto (27 a.C.-14 d.C.) è stato uno dei periodi più fertili. Con lui ebbero fine le guerre civili che avevano a lungo straziato la società romana e iniziò un'era di pace che coinvolse ogni angolo dell'impero. Sotto Augusto vennero tra l'altro ampliate le carreggiate della vasta ramificazione stradale romana e anche le località più remote furono dotate di moderne stazioni in cui erano attivi servizi di posta, ristoro, alloggio, rimessa per cavalli e sorveglianza. In tutta Roma sorsero inoltre nuovi monumenti e la cultura ricevette nuovi impulsi, grazie anche al rapporto di fiducia tra il princeps e il poeta Publio Virgilio Marone. Augusto intervenne in pratica in ogni ambito del vivere civile, distinguendosi peraltro per uno stile di vita austero e passando alla Storia anche per aver in qualche modo creato l'Italia: Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua, "tutta l'Italia mi giurò spontaneamente fedeltà", scrisse nelle Res gestae divi Augusti.

L'accesso al potere era aperto a tutti? E quali erano le tradizionali vie di ascesa politica?

Sempre prendendo come riferimento l'Atene di Pericle, in Grecia la carriera politica -e la relativa diaria -era accessibile a qualunque cittadino libero. Si pensi in proposito a Temistocle, generale e politico di spicco le cui origini erano palesemente umili, essendo figlio di un venditore di legumi. D'altronde, per entrare nell'assemblea del popolo, o Ecclesia, bastava essere cittadini ateniesi e aver compiuto la maggiore età (e questo, seppur con lievi variazioni, valeva in tutte le poleis greche). Peraltro, chiunque volesse emergere come leader politico doveva trovare il supporto proprio di tale assemblea, e per far ciò, oltre a una buona oratoria, era indispensabile -ieri come oggi -crearsi una rete di amicizie "influenti". Quando però si esagerava con l'ambizione di potere, e con il relativo rischio di tirannide, era dietro l'angolo l'ostracismo, ossia l'esilio.

A Roma, dove vi era sia una rappresentanza dell'aristocrazia (il Senato), sia della plebe (il Tribunato della plebe), diversamente che in Grecia non vi erano pregiudiziali etnico-razziali. Non a caso furono molti i "non romani" che salirono al trono imperiale. Traiano (98-117), per esempio, che, essendo di origine iberica, non era nemmeno italico. La porpora imperiale fu inoltre raggiunta anche da barbari come Massimino Trace (235-238) e persino da un arabo: . In tali casi, più delle origini era importante sentirsi parte del mondo romano ed essere valorosi combattenti. Dal III secolo la via più facile per accedere al trono fu infatti quella militare, e ogni grande comandante si affermava in modo naturale anche come leader politico.

Ben diverse dovevano essere le condizioni per l'ascesa delle donne...

Complessivamente le donne erano svantaggiate, in Grecia in modo particolare. La società greca era estremamen-GRANDI IERI 6 un segno INDELEBILE nel nostro modo di vivere e di PENSARE te maschilista e la vita politica era appannaggio maschile. Persino nel periodo d'oro di Atene abbiamo pochissimi personaggi femminili di spicco, fatta eccezione per Aspasia, etera o concubina di Pericle nonché donna dallo spirito libero e regina del suo "salotto", capace di tessere alleanze e condizionare la vita politica.

A Roma, pur rivestendo ruoli di subordine, le donne godevano di maggiore libertà, e soprattutto in epoca imperiale alcune sono state in grado di acquisire un enorme potere. Tra queste, Livia, moglie di Augusto che dettò molte delle scelte del marito e che riuscì con determinazione a non avere figli con lui. Il motivo? Favorire quelli già avuti in matrimoni precedenti, a partire da Tiberio, prossimo a divenire imperatore. Non meno carismatica fu Agrippina, la spietata madre dell'imperatore Nerone. Infine a Roma c'era un'importante istituzione in mano alle donne: le vestali, giovani vergini che avevano il compito di tenere sempre acceso il fuoco sacro alla dea Vesta, simbolo della vita eterna dell'Urbe.

Come erano visti gli intellettuali e i letterati in Grecia e a Roma?

Soprattutto ad Atene, erano tenuti in gran considerazione e rivestirono un ruolo fondamentale nel formare la coscienza dell'epoca, non lesinando in molti casi aspre critiche al potere. Aristofane, per esempio, scrisse varie commedie in cui attaccava in maniera feroce la politica ateniese, a suo parere degenerata in demagogia, e lo stesso Socrate fu condannato a morte per la sua critica della società, per il suo continuo contestare e insinuare dubbi. Il teatro rivestì una particolare importanza nell'educazione della comunità (Pericle favorì l'accesso agli spettacoli per tutti), fornendo modelli positivi -gli eroi -e mettendo in scena esemplari punizioni per i malvagi. Il clima di fervore culturale proseguì tra l'altro in epoca ellenistica, quando con Tolomeo I (367-283 a.C.) sorgerà ad Alessandria il Museion, un centro di studi e di ricerca frequentato dai più grandi scienziati del mondo di allora che gettarono le basi del nostro pensiero scientifico e della nostra letteratura.

In campo romano la situazione è abbastanza diversa, poiché la letteratura tende a essere meno universale e a fondersi con la politica. Giulio Cesare farà per esempio il letterato di se stesso scrivendo il De bello gallico, e complessivamente possiamo affermare che a Roma la politica si auto-racconta e auto-celebra. Come avvenne anche con Virgilio e la sua Eneide, poema nazionale incentrato sul mito di Enea in cui si glorificavano le origini di Roma. Non per questo mancavano autori pronti a fare critica. Iullo Antonio, figlio del triumviro Marco Antonio, compose per esempio il poema epico Diomedea, in cui contestava la propaganda augustea.

Perché il loro pensiero è ancora così attuale?

La "modernità" degli antichi, e in particolare degli autori greci, si spiega con un banale ragionamento: il loro pensiero ci appare così attuale perché ci appartiene. Noi "deriviamo" da loro, ed è quindi naturale che il nostro sistema di pensiero risulti affine a quello dei grandi intellettuali del passato.

Ci sono personaggi giunti a noi alla stregua di eroi, ma che in realtà non avevano particolari meriti?

Non direi. O meglio, poiché la Storia la scrivono i vincitori, è chiaro che in alcuni casi siano stati amplificati i meriti (o attenuati i difetti) di questo o di quel personaggio, ma di solito i grandi protagonisti delle cronache storiche avevano indubbie qualità. Peraltro, la storiografia ha spesso rivestito un ruolo critico: Plinio definì la conquista della Gallia un crimine contro l'umanità, mentre Tacito fece dire a Calgaco, sovrano dei Caledoni, che i Romani "fanno il deserto, e lo chiamano pace". Attribuendo ad altri i propri pensieri, gli storici del tempo -pur appartenendo spesso ai vincitoririuscirono a mantenere un distacco critico dagli eventi e dai loro protagonisti. E oggi? Sfruttando i media, oggi è possibile che emergano personaggi di scarsa sostanza. Ma, almeno nelle democrazie occidentali, c'è una sorta di "allergia" per quelle personalità che, specie a livello politico, tendano a emergere troppo o appaiano eccessivamente decisioniste. Uno spauracchio figlio delle tragedie totalitarie del '900 eppure molto simile a quello degli ateniesi di 2.500 anni fa... Nobile e quindi destinata a una carriera da sacerdotessa, ma anche a diventare moglie e madre, la principessa sarebbe stata iniziata ai culti orgiastici legati alla fertilità. Isolate per lunghi periodi tra i boschi e sulle montagne, le adolescenti spartane entravano in contatto con le divinità attraverso musica e danza, mentre venivano istruite all'uso di piante medicinali come il papavero da oppio, che cresceva spontaneo nel Peloponneso. «Le donne della tarda Età del bronzo erano il tramite privilegiato con gli dèi. E il culto era tutt'uno con gli affari terreni», spiega Hughes.

Influente e in età fertile, la ragazzina era un ottimo partito. Cosparsa di unguenti a base di olio d'oliva, con la pelle di tutto il corpo "sbiancata" da una passata di ossido di piombo e ricoperta di tatuaggi a colori sgargianti, gli occhi truccati pesantemente di nero e di rosso, il corpo avvolto da vari strati di lino indaco e porpora, carica di gioielli, ma a seni nudi, così si sarebbe presentata al suo promesso sposo. Il menù del banchetto nuziale? Minestra di lenticchie al cumino, focacce di farina di ceci, stufati con la frutta e (solo per gli ospiti vip) arrosti di cinghiale e di cervo. Ma quale rapimento! Le corti micenee del XIII secolo a.C. ricevevano spesso inviati stranieri e il troiano Paride, di cui parla Omero, poteva essere uno di questi. «Le giovani aristocratiche erano "merce diplomatica"», continua Hughes, «e capitava che l'ospitalità comprendesse anche lo scambio di donne». Ma c'è di più. Secondo una tradizione che risale alla poetessa Saffo (VII-VI secolo a.C.) nell'antica Sparta era diffusa la poliandria (il corrispondente femminile della poligamia), una pratica la cui origine si faceva risalire proprio alla fuga d'amore (e non al rapimento) di Elena e Paride.

Quel che è certo, è che scendere in guerra per una donna, tre millenni fa, non era così raro, come provano anche molte testimonianze scritte. Sappiamo per esempio che verso il 1230 a.C. i regni di Ugarit e di Amurru (nell'attuale Siria) rischiarono di distruggersi a vicenda a causa della principessa di Amurru. Questa venne data in sposa al re di Ugarit per rafforzare l'alleanza tra le due città-Stato, ma fu rispedita al mittente, forse per non aver voluto consumare il matrimonio. I l filosofo greco Platone, nel IV secolo a.C., la definì "decima musa". Tre secoli dopo, i poeti latini Orazio e Ovidio la presero a modello per i loro versi. Lo storico e geografo greco Strabone, nel I secolo d.C., fu categorico: "Per quanto risaliamo nel tempo, non riusciamo a ricordare, in nessun'altra epoca, una donna capace di rivaleggiare con lei nella poesia". Come educatrice fu paragonata nientemeno che al filosofo greco Socrate (469-399 a.C.) ma fu anche disprezzata per aver cantato l'amore omosessuale tra donne ed esaltata come prima femminista. Saffo, che i Greci soprannominarono "l'allodola nera" perché si diceva avesse i capelli ricci e scuri, fu tutto questo e molto altro ancora. Tra Mito e Storia. Saffo nacque tra il 640 e il 620 a.C. a Èreso, sull'isola di Lesbo. Ma certezze biografiche non ce ne sono. «Era molto celebrata già nell'antichità», spiega Marxiano Melotti, docente di Metodologia della ricerca archeologica all'Università di Milano Bicocca. «Per questo motivo si sentì subito il bisogno di creare attorno al suo personaggio una ricca e romanzesca biografia "ufficiale" nella quale è difficile distiguere il mito dalla realtà. Un testo antico indica il 612 a.C. come sua data di nascita, ma il termine utilizzato può riferirsi anche al momento di massima notorietà». Suo padre Scamandrònimo apparteneva a un'antica famiglia aristocratica e morì quando Saffo era ancora bambina. La ragazza crebbe così insieme alla madre Cleide e sotto la tutela del fratello maggiore Carasso e dei parenti maschi. Fu proprio a causa loro che Saffo fu travolta giovanissima dal turbine della politica.

Guerra di clan. La Grecia arcaica era un mondo di radicali cambiamenti: con il tramonto della civiltà micenea era entrato in crisi il potere dei re. Le famiglie più influenti stavano prendendo il comando e i sovrani furono sostituiti da governi oligarchici o tiranni. A Lesbo, la stirpe regale dei Pentilidi fu deposta da un consiglio di aristocratici del quale facevano parte anche i parenti di Saffo. Quando però un certo Mirsilio diventò tiranno, alcune famiglie si opposero: tra queste c'erano anche il clan di Saffo e quello del suo amico e poeta Alceo, che infiammava gli animi con i suoi canti di guerra e ribellione. Ma il complotto contro Mirsilio fallì e i clan ribelli furono condannati all'esilio a Pyrra, presso Mileto (oggi in Turchia). Saffo era appena adolescente.

Tornati a Lesbo dopo la morte di Mirsilio, i clan di Saffo e Alceo tramarono anche contro il nuovo tiranno, Pittaco, che Alceo definì "grassone con i piedi piatti e ipocrita spaccone". Tra il 598 e il 590 a.C. a Saffo e ai suoi toccò di nuovo l'esilio, ma a condizioni più dure: il patrimonio di famiglia fu confiscato. E Saffo dovette prendere il mare nuovamente.

Questa volta fuggì in Sicilia, sembra a Siracusa, ospite di parenti. A quel tempo si sarebbe sposata con Cèrchila, un ricco mercante dell'isola di Andros, con il quale avrebbe avuto una figlia chiamata Cleide. Alcuni però negano che Saffo si fosse sposata e sostengono che la Cleide citata in alcuni versi fosse in realtà una delle sue amate ragazze. «Non c'è ragione di negare quel matrimonio», obietta Melotti. «Il fatto che si circondasse di fanciulle non significa che fosse contraria alla vita coniugale. Anzi, per lei, come per ogni donna della sua cerchia, le nozze erano un punto d'arrivo irrinunciabile». Sposata o no, verso il 585 a.C. Saffo tornò a Lesbo ricchissima. Con i suoi averi decise di fondare nella città di Mitilene un tiaso femminile, una sorta di club esclusivo per "ragazze bene" in età da marito: era nato il "Circolo delle Muse".

Emancipate. Le donne di Lesbo erano tra le greche più ostinate e indipendenti. I padri più progressisti, come Scamandrònimo, lasciavano persino che le proprie figlie imparassero a leggere e a scrivere insieme ai fanciulli. Ma che cosa studiavano le seguaci di Saffo? Tutto quello che c'era da sapere sul matrimonio, compresi gli aspetti pratici della sessuali-TECNOLOGIA E POESIA Acquedotto romano a Lesbo. Molti letterati romani si ispirarono allo stile poetico di Saffo per creare i loro componimenti. SIMEPHOTO S affo (5) è solo una delle grandi donne del passato, ritratte nel 1902 da Frederick Wallenn in questo acquarello. Miriam (1), sorella di Mosè, e Rebecca (2), moglie di Isacco e madre di Esaù e Giacobbe, furono "primedonne" bibliche. Semiràmide (3) fu la leggendaria regina degli Assiri, Cleopatra (6) l'ultima sovrana d'Egitto e Boadicea (13) guidò gli Iceni della Britannia che si ribellarono ai Romani nel I secolo d.C. La moglie di Ulisse, Penelope (4), è simbolo di fedeltà coniugale, mentre la vedova romana Cornelia (7) rifiutò di risposarsi. Nella Grecia antica, Frine (8) e Aspasia (9) furono influenti cortigiane; per la bella Elena (10) si scatenò la Guerra di Troia e l'eroina Atalanta (11) fu sposata con l'inganno, come Imogene (12). Foto di gruppo: le "primedonne" dell'antichità 1 2 3 4 5 6 tà, ma soprattutto la danza, il canto, il portamento e le buone maniere. Presto a Lesbo accorsero ragazze da tutta la Grecia. «I diversi tiasi erano in concorrenza fra loro», continua Melotti. «Si sfidavano in gare di danza o di canto in cui le giovani mostravano alla comunità di avere acquisito i principi culturali della città meglio delle ragazze di altri tiasi. Il tiaso migliore formava le spose migliori. Un tipo di competizione simile a quello in voga fino a pochi anni fa nei college universitari inglesi». Quando si sposavano, Saffo stessa si occupava della cerimonia e saluta-Appena ti guardo, non mi riesce più di parlare / la lingua s'inceppa, subito un fuoco sottile corre sotto la pelle / gli occhi non vedono più, le orecchie rombano / il sudore mi scorre, un tremore / mi afferra tutta, sono più verde / dell'erba, mi vedo a un passo / dall'essere morta.

va le sue ex allieve con versi struggenti che suonavano proprio come dichiarazioni d'amore. Scuola d'amore. La pedagogia greca più arcaica prevedeva che l'adolescente fosse affidato alle cure di un nobile adulto. Era questo il significato originario della parola "pederastia": l'erastés era infatti l'adulto che istruiva l'erómenos ("oggetto del desiderio"). «Anche il tiaso femminile si basava su rapporti affettivi e sessuali tra donne adulte e fanciulle, analoghi a quelli alla base dei riti di passaggio maschili», dice Melotti. «Lo scopo era simile: cementare la solidarietà tra i membri di uno stesso gruppo sociale, per mantenere unita la città e la sua élite aristocratica. Queste forme di omosessualità erano probabilmente temporanee, limitate al periodo educativo e funzionali a preparare i giovani alla successiva fase eterosessuale della vita matrimoniale». Con l'entrata nella società adulta (cioè con le nozze) la relazione terminava.

«Il tiaso greco, però, era prima di tutto uno spazio dove celebrare riti», continua l'esperto. «In questo l'istruzione delle ragazze era diversa da quella dei

Un mistero mai svelato: era davvero lesbica?

Sei venuta e fu un bene, io ti desideravo / hai dato sollievo / al mio cuore arso dal desiderio. maschi, che con i loro riti iniziatici acquisivano anche competenze militari che dovevano prepararli a divenire cittadini e guerrieri». Nel tiaso femminile invece si veneravano le nove Muse (dee dell'arte e della scienza) e le Càriti (le Grazie dei Romani), divinità minori dispensatrici di bellezza. Ma soprattutto Afrodite, la divinità dell'amore e della fertilità, di cui Saffo fu forse una sacerdotessa. La rosa infatti, simbolo della dèa, ricorre spesso nei suoi versi.

Rivoluzione poetica. Il talento artistico di Saffo fu enorme. Ma la prima poetessa della Storia ebbe anche la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto. Gli Eoli da cui discendevano gli abitanti di Lesbo, originari della Grecia continentale, avevano colonizzato l'isola verso il 1100 a.C. ed erano considerati tra i popoli più sensibili alle arti. Uno di loro, il poeta e musicista Terpandro, si diceva avesse inventato la lira a 7 corde vincendo nel 675 a.C. a Sparta una gara musicale in onore del dio Apollo. Forse per questo proprio a Lesbo, con Saffo e Alceo, nacque una nuova forma poetica ormai lontana dai CORBIS BRIDGEMAN/ALINARI Illustrazione degli anni Venti ispirata al Settecento libertino.

toni guerreschi ed eroici dell'Iliade e dell'Odissea. A Lesbo si componevano infatti semplici poesie e canti ispirati alla tradizione popolare e alle danze, inni agli dèi, lamenti e versi d'amore. L'eros e la passione erano tra gli argomenti preferiti.

Cattiva maestra. Saffo entrò nella leggenda subito dopo la sua morte (avvenuta forse quando aveva poco più di 50 anni) e le sue poesie (di cui oggi restano pochi frammenti, per lo più copie su papiri scoperti in Egitto) furono raccolte in 9 libri. E ben presto cominciò a dividere. Già a partire dal IV secolo a.C. si erano diffuse le scuole pubbliche con insegnanti retribuiti: non c'era dunque più bisogno di nobili che si occupassero dei giovani. E col tramonto dell'età classica, parlare apertamente delle passioni amorose e manifestare i sentimenti come aveva fatto Saffo diventò "indecente". Così, l'eros saffico cadde in disgrazia e Saffo stessa fu descritta ora come corruttrice di giovinette, ora come una divoratrice di uomini.

Ma a Saffo molti Greci (soprattutto Ateniesi) rimproveravano più che altro la libertà di cui godevano le donne di Lesbo. Gli uomini temevano che il suo esempio potesse mettere strane idee in testa alle loro mogli, mentre le donne più conservatrici l'accusavano di aver rotto con la tradizione degli avi.

Amata e odiata. Il tono appassionato dei versi indirizzati alle sue allieve le costò poi, in epoca cristiana, la fama di erotomane. Il teologo Tatiano di Mesopotamia (II secolo) scrisse di lei: "Saffo è una donna dissoluta e pazza d'amore, che canta la sua impudicizia". E nell'enciclopedia bizantina Suda, scritta G li antichi la descrissero piccola e bruttina, di carnagione olivastra e con i capelli arruffati. In realtà, nessuno sa che aspetto avesse Saffo. Questo ritratto corrisponde infatti a un luogo comune diffuso nell'antichità e basato sulla teoria degli opposti: alla bruttezza esteriore corrispondeva la bellezza interiore. Ma è solo una delle tante leggende nate nei secoli intorno alla figura della poetessa di Lesbo. Dicerie. Già nel IV secolo a.C., per esempio, circolava tra i commediografi una storiella sulla sua morte. Saffo si sarebbe suicidata dopo esse-re stata respinta dal barcaiolo Faone, di cui era follemente innamorata. Suicidio. Disperata, si sarebbe gettata da una rupe dell'isola di Lèucade, nel mar Ionio. Questa leggenda è però il riflesso di un racconto mitologico. Faone era infatti una semidivinità del seguito di Afrodite e presso la rupe di Lèucade (oggi Capo Ducaton) in età arcaica si celebravano riti il cui significato è andato poi perduto. Forse, un antico commediografo greco volle prendersi gioco di Saffo facendola morire -lei che aveva cantato l'amore per le donne -per amore di un uomo. (a. c.) Una vita leggendaria attorno al Mille, si condannavano le relazioni tra la maestra e le sue allieve, giudicate indecenti. Per gli umanisti del '400, ma anche per gli esponenti del Neoclassicismo nel '700, fu maestra insuperata di poesia e sentimento. Nel più moralista periodo barocco ('600) fu di nuovo bollata come viziosa.

Di certo, Saffo non cadde mai nell'oblio, come prova la diffusione anche nel linguaggio comune dei termini "amore saffico" e "lesbica" (dall'isola di Lesbo), diventati sinonimo di omosessualità femminile. Ma i giudizi su di lei restarono sempre ambigui. Come quello del filosofo greco Aristotele (384-322 a.C.): "Poetava audacemente e con la maestrìa di un uomo, nonostante fosse solo una donna". Nel VI secolo a.C. governò il suo popolo, una tribù dell'Asia Centrale, ai confini nord-orientali della Persia. Lo difese dagli attacchi dell'imperatore Ciro il Grande, che -stando ai racconti di Erodoto -uccise insieme ai suoi soldati per vendicare la morte del figlio. Non contenta, immerse la sua testa nel sangue dei nemici e bevve, inveendo sul suo teschio: "Tu hai ucciso me, anche se sono viva e ti ho sconfitto, sopprimendo con l'inganno mio figlio: ora io ti sazierò di sangue, esattamente come ti avevo minacciato". Coraggiosa e combattiva, ispirata dall'amore per il suo popolo, Tomiride è diventata simbolo di vendetta e amore materno, ai limiti della follia. Di lei parlò per primo lo storico greco Erodoto nelle sue Storie, ma successivamente anche Strabone, Cassiodoro e Polieno. E se le fonti talvolta si contraddicono (Senofonte, nella Ciropedia, scrisse che Ciro morì di vecchiaia nella sua reggia), Erodoto racconta il confronto tra la regina e il Gran Re come un evento pulp.

Indomita. «Era intelligente e nobile», racconta Guglielmo Colombero, che a lei ha dedicato il romanzo storico Tomyris, la signora delle tigri (Falzea). «Tomiride anticipò i valori di parte del femminismo contemporaneo, rifiutando di sposare in seconde nozze Ciro, simbolo del potere, per difendere il suo popolo. Dopo la morte del marito governò con lealtà e onestà. E grazie alla sua autorità riuscì a preservare i Massageti dal dominio persiano».

La sua storia ebbe inizio nel 529 a.C. Ciro, dopo aver unificato sotto il suo regno le tribù iraniche, aver conquistato Babilonia (540 a.C.) e prima ancora la Media (550 a.C.) e la Lidia (546 a.C.), rientrò in Iran come "Re dell'Universo", investito di tutti i titoli della Mesopotamia e dell'Asia Minore. Il suo obiettivo, ora, era occupare il territorio dei Massageti, per procedere nel suo progetto universalistico: fondare un grande Impero persiano. Il Gran Re, racconta Erodoto, marciò contro di loro, certo di portare a casa una facile vittoria. Come un eroe al culmine del successo, con un'alta considerazione di sé e convinto di essere "qualcosa più che un uomo", era sicuro che questo bastasse a renderlo irresistibile. Non solo in guerra.

Per prima cosa, cercò di risolvere diplomaticamente la questione con i Massageti proponendo a Tomiride di diventare sua sposa. Ma la regina, rifiutando di barattare l'amore con il potere, respinse l'offerta.

Ciro allora passò al contrattacco: dichiarò guerra a lei e al suo popolo iniziando, con un inequivocabile segnale offensivo, a costruire un ponte lungo il fiume Arasse, che separava i due regni. Per indurlo a desistere dall'impresa, sempre secondo Erodoto, Tomiride gli inviò un araldo con un messaggio spavaldo: "Desisti, regna sui tuoi territori e lascia che noi regniamo sui nostri sudditi. Ma so già che non vorrai accettare e anzi tutto vorrai fuorché startene in pace". È a questo punto che ha inizio la parte più avventurosa ed efferata del dramma. Ciro, con l'inganno, mandò sul campo, oltre il fiume, i reparti meno valorosi del suo esercito, allestendo nelle vicinanze ricchi banchetti a base di carne e vino. Sconfitte facilmente le truppe avversarie, i Massageti si illusero di aver vinto la guerra e iniziarono a bere e mangiare approfittando della mensa nemica, fino a ubriacarsi completamente. «La cosa fu estremamente facile, in quanto i Massageti non conoscevano il vino», spiega Guglielmo Colombero. «Il loro "sballo" consueto non era alcolico, ma tossico: erano consumatori di cannabis, che solitamente aspiravano, bruciandola in grandi falò collettivi». Solo quando furono completamente ottenebrati dall'alcol, arrivò il grosso dell'esercito di Ciro che, senza difficoltà, uccise e fece prigionieri molti soldati, tra cui Spargapise, figlio di Tomiride, che al risveglio, per il disonore, scelse di togliersi la vita.

Tremenda vendetta. «La regina, una donna già in lutto per la morte del marito, alla notizia della morte del figlio impazzì di dolore. E meditò vendetta. Una madre a cui si strappa un figlio è capa-ce di gesti estremi, folli». Sentendosi tradita, constatato che Ciro non era stato leale, la regina raccolse le truppe rimaste e attaccò l'esercito nemico. Lo scontro durò a lungo, fino a che le milizie persiane, a colpi di frecce, lance e asce (i Massageti, in gran parte arcieri, combattevano soprattutto a cavallo), furono completamente distrutte. In battaglia cadde lo stesso Ciro. La regina cercò sul campo il suo cadavere, fece riempire un vaso del sangue dei nemici e, immergendovi la testa del Gran Re, bevve dal suo teschio infierendo su di lui e gridando la sua vendetta.

Donna disperata. Il gesto, interpretato da alcuni storici come un rito barbarico, è stato considerato da altri, soprattutto scrittori e artisti, l'espressione estrema di una donna disperata. Non a caso ha acceso nei secoli l'immaginario di molti pittori, tra cui Rubens e Moreau, che l'hanno rappresentata in due celebri dipinti. E di Shakespeare, che l'ha citata come esempio di passionalità femminile nel suo Enrico VI.

Ridurre il gesto della regina a un'usanza rozza e incivile sarebbe riduttivo. I Massageti non furono solo una popolazione barbara, nomade e bellicosa. «Non si può escludere che abbiano avuto scam-

IL PIÙ ODIATO

L'ammiraglia Artemisia

ubriacare: non conoscevano il VINO bi commerciali con le più evolute popolazioni greche», spiega Colombero. «Lo testimoniano i reperti di arte orafa e vascolare ritrovati nelle loro tombe, che confermerebbero anche l'esistenza di un'organizzazione militare abbastanza sviluppata. È probabile infatti che dietro la vittoria dei Massageti ci sia stato anche l'utilizzo dell'arco scitico, ancora sconosciuto ai Persiani, che permise all'esercito di Tomiride una gittata superiore, circa 100 passi (75 metri), rispetto a quella degli archi delle truppe rivali. Né si possono escludere, infine, contatti con alcuni pensatori greci. Anacarsi per esempio, un principe scita che viaggiò per tutta la Grecia, annoverato tra i sette sapienti dell'antichità, potrebbe essere entrato in contatto con la stessa Tomiride».

Grande determinazione. Più che barbara e sanguinaria, l'immagine che della regina dei Massageti emerge è quella di una donna guerriera. Che si oppose a un despota e reagì alla morte del marito e del figlio con determinazione. Forse anche per questo nel cielo c'è un asteroide che porta il suo nome: l'omaggio a una regina che seppe essere guerriera senza dimenticarsi di essere donna e madre.

• E rodoto non ci avrebbe mai creduto: finire in un luogo cancellato dalla Storia! Viaggiatore e scrittore infaticabile, pater historiae per Cicerone, fu messo nel Limbo da Dante, insieme ad altri grandi del passato "colpevoli" di essere nati pagani. Peccato che, nel 2007, il Vaticano abbia abolito ufficialmente il Limbo, lasciando i suoi illustri abitanti senza fissa dimora.

A pensarci bene, però, questo non è l'unico paradosso. Non sappiamo praticamente nulla di Erodoto. Nonostante ciò le sue Storie, scritte nel V secolo a.C., sono una fonte unica e preziosa sulle vicende arcaiche della Grecia e sui popoli e le terre del mondo antico. La sua narrazione impersonale e quasi giornalistica da una parte ha il pregio di consegnarci una testimonianza dettagliata e a prima vista attendibile, ma dall'altra non dà alcuna informazione pratica sulle spedizioni all'origine di quelle conoscenze. Così, sappiamo particolari apparentemente secondari, ma ignoriamo se Erodoto viaggiasse da solo o con qualche servo al seguito. Qualcuno che magari gli faceva da traduttore o lo aiutava a ricordarsi tutto ciò che gli raccontavano, visto che prendere appunti su una tavoletta d'argilla, come si usava allora, non era certamente pratico.

Di lui si sa che nacque in una famiglia influente ad Alicarnasso (oggi Bodrum, in Turchia) intorno al 480 a.C. La madre era greca mentre il pa-dre, Lyxes, orientale. Oltre ad avere sangue misto, era un greco "di frontiera" visto che crebbe in una colonia dell'Asia Minore dove era forte l'influenza della Persia. Questo incrocio culturale lo aiutò a guardare al mondo con curiosità e con meno pregiudizi. Nel 444 a.C. partecipò alla colonizzazione di Thurii, in Magna Grecia (vicino a Sibari, nel golfo di Taranto) e con certezza si recò solo in Egitto, Fenicia e Mesopotamia. Quel che si sa, insomma, è davvero poca cosa, considerata l'enorme quantità di nozioni geografiche, etnografiche e storiche contenute nella sua opera. Un'opera che, nella versione originale, doveva essere piuttosto diversa da quella che conosciamo. La divisione in capitoli e paragrafi, infatti, fu opera dei filologi delle epoche successive, probabilmente grammatici di Alessandria, poiché i nove libri delle sue Storie erano in origine un unico, interminabile testo che si allungava sul papiro senza interruzioni.

Libera scelta. È un mistero anche perché Erodoto si fosse messo in viaggio. «Si possono però fare ipotesi verosimili», dice Antonio Violante, già docente di Geografia storica all'Università di Milano. «Personalmente sono convinto che decise di partire per puro amore di conoscenza. Anche se non ci sono elementi per dirlo, sembra escluso che avesse incarichi ufficiali. La situazione politica dell'epoca vedeva il mondo sostanzialmente diviso in due: Tra i POPOLI che descrisse c'erano i nomadi ANDROFAGI: per lui da una parte le città-Stato greche, dall'altra l'Impero persiano con le sue satrapie, cioè le province. E gran parte dell'opera di Erodoto era rivolta proprio alla descrizione delle terre persiane. Dubito che qualcuno, visto l'etnocentrismo greco, possa avergli commissionato un lavoro del genere».

VIAGGIATORE

Se non viaggiava per conto dei potenti, e quindi non poteva contare sul loro denaro, come si manteneva Erodoto? La tradizione narra che leggeva pubblicamente le sue opere ed è probabile che il compenso fosse piuttosto buono. Almeno stando a quello che riferisce lo scrittore Plutarco (I secolo d.C.). Sembra che in occasione delle Panatenee, la festa religiosa più importante dell'antica Atene, lo storico di Alicarnasso avesse intascato dieci talenti (circa 170 euro di oggi) per una sola lettura. Il fatto che la recitazione fosse il modo principale per diffondere notizie e idee, visto che Johann Gutenberg sarebbe venuto duemila anni più tardi e i papiri erano costosissimi, certamente influì sullo stile di Erodoto che, tra l'altro, visse nell'epo-ca d'oro della tragedia greca e fu amico di Sofocle, uno dei suoi massimi esponenti.

Affabulatore. Forse per tenere la platea con il fiato sospeso, insieme alle gesta di re e grandi eserciti, nelle Storie si leggono anche fatti e creature fantastici, ripresi dai miti e dalla tradizione o inventati, talvolta ricchi di particolari piccanti.Uno di questi è il rapimento della regina greca Io, nel porto di Argo. Racconta Erodoto: "I Fenici affermano che non furono loro che, ricorrendo al ratto, la portarono in Egitto, ma che ad Argo essa ebbe una relazione con il comandante della nave, e che quando si accorse di essere incinta, vergognandosi dei genitori, essa stessa per sua volontà si imbarcò insieme coi Fenici per non essere scoperta".

Storie del genere infiammavano il pubblico. Come i racconti esotici provenienti da luoghi lontani e misteriosi, che parlavano di Amazzoni (donne guerriere), Acefali o Cinocefali (uomini senza testa o con la testa da cane erano "i più selvaggi al mondo [...]. Gli unici a cibarsi di carne umana" ci mise mai piede, Erodoto attribuì per esempio la seguente abitudine alla più popolosa delle satrapie persiane, l'India: "L'accoppiamento di tutti questi Indiani di cui ho parlato si svolge pubblicamente come per le bestie, e il colore della pelle lo hanno tutti uguale, simile a quello degli Etiopi. Lo sperma che essi emettono unendosi alle donne non è bianco come negli altri uomini, ma nero al pari della loro pelle, e anche gli Etiopi emettono uno sperma simile".

In viaggio. Ma come si faceva, 25 secoli fa, a organizzare spedizioni intercontinentali? Serviva il passaporto, e magari anche un visto, per entrare per esempio in Persia? Forse non c'era la burocrazia, ma è quasi certo che Erodoto, nei luoghi che visitò, ebbe l'aiuto del prosseno, una specie di console onorario che si occupava dei viaggiatori greci. Quanto al comfort, non doveva essere un granché.

«Le strade dell'antica Grecia, percorse a piedi o su carri, erano poco più che sentieri tra le varie città», dice Violante. «Nell'Impero persiano, per fortuna, c'era invece la Grande strada reale che colle-gava il mare Egeo con Susa (oggi Shush, in Iran), la capitale amministrativa. Poi, naturalmente, c'era il mare. È logico pensare che Erodoto sfruttasse le navi commerciali per i suoi spostamenti nel Mediterraneo. A quei tempi, però, si navigava soltanto da marzo a ottobre perché, durante i mesi più freddi, nessuno si sognava di lasciare il porto». Sulle pur gloriose galee greche, le tempeste invernali dovevano essere una gran brutta esperienza, ma Erodoto non si fermò davanti a nulla.

«Al contrario di Tucidide, che si concentrò sulla Guerra del Peloponneso e teorizzò la storiografia come testimonianza esclusiva di chi vive gli eventi in prima persona ed è contemporaneo a essi, Erodoto si diede un raggio d'azione, spaziale e temporale, enormemente più ampio», continua Violante. «Descrisse luoghi in cui non era mai stato e fatti precedenti la sua nascita». Ciò, ovviamente, lo mise di fronte a un problema insolubile: il suo impulso a preservare la verità storica si scontrò con le fonti che aveva a disposizione, cioè i fatti riferiti dal-le persone che incontrava. Il suo spirito critico era un ottimo antidoto contro la soggettività e le leggende, ma ovviamente non bastava. E lui lo sapeva benissimo: ogni volta che scriveva senza avere verificato personalmente metteva in guardia il lettore.

Archivio vivente. La trasmissione della memoria fu un altro punto nevralgico nel lavoro di Erodoto e divenne un'ossessione. Lo dichiarò apertamente all'inizio del primo libro: "Questa è l'esposizione della ricerca di Erodoto di Alicarnasso, perché gli eventi umani non svaniscano con il tempo e le imprese grandi e meravigliose, compiute sia dai Greci che dai barbari, non diventino prive di gloria; in particolare egli ricerca per quale ragione essi combatterono tra di loro".

Nel V secolo a.C. non esistevano archivi storici, biblioteche, enciclopedie. L'unico deposito affidabile per le conoscenze umane era la tradizione orale. E l'unico modo per accedere a questo sapere era mettersi in viaggio e incontrare persone. È soprattutto questo, per il giornalista e scrittore polacco Ryszard Kapuścińsky (1932Kapuścińsky ( -2007 a fare di Erodoto il primo autore di reportage.

Il proemio delle Storie contiene un'altra grande intuizione erodotea: la descrizione dell'opposizione tra Occidente e Oriente. Una frattura che iniziò con la pretesa dell'imperatore persiano Dario di sottomettere la Ionia, in soccorso della quale giunsero le truppe di Atene. Fu così che cominciarono le cosiddette Guerre persiane. E fu da quel mo-Erodoto riferì ciò che vide, ma anche MITI e tradizioni orali. Da qui il mix di realtà e FANTASIA mento che i Greci iniziarono a chiamare "barbari" i loro avversari. Questa visione rifletteva il conflitto ideologico tra Persiani monoteisti e assolutisti e Ateniesi politeisti e democratici. Ma fu Erodoto a sintetizzarla per primo: un'intuizione talmente innovativa da rendere il suo lavoro ancora oggi prezioso per gli storici.

Per arrivare a un'analisi di questo tipo, però, non bastava una solida conoscenza, più o meno diretta, delle popolazioni che abitavano i due "blocchi". Era indispensabile inserire il tutto in una concezione geografica dettagliata. Erodoto la ideò e ne fece "l'atlante degli antichi" per diversi secoli.

Vecchio mondo. «Aveva individuato tre continenti: Europa, Asia e Africa», chiarisce Violante. «Siccome poi, come molti Greci, Erodoto aveva un amore per la simmetria, che applicava anche agli schemi mentali, divise i tre continenti in quattro quadranti. A nord-ovest mise l'Europa, a sud-ovest l'Africa, a sud-est l'Asia e a nord-est… di nuovo l'Europa (vedi pagine precedenti). L'idea di un continente europeo esteso fino alla Siberia, per quanto imprecisa, non era del tutto sballata. Erodoto ritenne che gli abitanti della Scizia, un'area che oggi potrebbe corrispondere all'incirca all'Ucraina e alla Bielorussia, fossero più europei che asiatici». Esattamente come riteniamo noi oggi.

SAPEVA lunga

Il grande filosofo fu un uomo buono, assetato di CULTURA, coraggioso. Fu eliminato perché faceva PAURA ai politici. Luciano De Crescenzo gli ha dedicato due libri e questa intervista A lle radici del pensiero occidentale c'è un uomo dall'aspetto dimesso e dal profilo non proprio apollineo, che parlava il linguaggio del popolo. Un individuo semplice che, unico fra i filosofi della sua epoca (il V secolo a.C.), invece di farsi vanto delle sue conoscenze, affermava convinto: "So di non sapere". Eppure, l'oracolo divino proclamò Socrate "il più sapiente". Abbiamo chiesto allo scrittore napoletano Luciano De Crescenzo, talmente innamorato della filosofia greca da ricevere nel 1994 la cittadinanza onoraria ateniese, di raccontarci la vita del filosofo e spiegarci il pensiero di quest'uomo, al quale ha dedicato due monografie tradotte in tutto il mondo (Socrate; Socrate e compagnia bella) e per il quale prova, come lui stesso ci ha confidato, un autentico "amore passionale".

"C'è chi s'innamora di Sofia Loren, chi di Marx, chi porta fiori sulla tomba di Rodolfo Valentino: l'amore della mia vita è stato Socrate". L'ha detto lei. Perché?

«Di tanto in tanto sulla Terra nascono grandi uomini. Penso a Gesù, Gandhi, Buddha, san Francesco. C'è qualcosa, però, che distingue Socrate da tutti gli altri, ed è la sua normalità: era una persona molto semplice, che non lanciava proclami, non pretendeva di trascinarsi dietro torme di seguaci. Non si presentava come depositario di una sua verità, al massimo aiutava gli altri a cercarla in se stessi. Tanto per dirne una, aveva l'abitudine di frequentare banchetti, di bere e, se capitava l'occasione, di fare l'amore con un'etèra (prostituta d'alto bordo, ndr)».

Però non lasciò nulla di scritto e i ritratti che ne fecero Senofonte, Platone, Aristofane sono discordanti... «Tutto quello che sappiamo di Socrate lo dobbiamo a ciò che scrissero i suoi sette discepoli più rappresentativi: Antìstene, Aristippo, Euclide, Fedone, Platone, Èschine e Senofonte. Il problema è che, malgrado tutti i suoi insegnamenti morali, i suoi allievi si odiavano cordialmente, e ognuno di loro si LAIF/CONTRASTO offrì come unico e vero interprete del pensiero socratico. Detto tra noi, quanto a intelligenza filosofica Senofonte non era proprio un'aquila. Quindi Platone è senz'altro la fonte più attendibile».

Com'era Socrate da giovane? «Della sua infanzia non sappiamo nulla, e a essere sinceri facciamo un po' fatica a immaginarcelo bambino. Essendo di famiglia benestante, o quasi, fece studi regolari come tutti gli altri ragazzi di Atene, a diciotto anni prestò servizio militare e a venti divenne oplita (soldato di fanteria, ndr) dopo essersi procurato un'armatura adeguata. Era ancora ragazzino quando il maestro Critone, innamorato della grazia della sua anima, se lo portò via per iniziarlo all'amore della conoscenza. Di uno dei suoi maestri, Archelào, fu anche l'amante, o per essere precisi quello che a quei tempi si definiva "eromene", l'amante più giovane in un rapporto amoroso tra due uomini, contrapposto all'"eraste", l'amante più anziano. Prima di considerare Socrate un gay, però, sarà meglio chiarirsi una volta per tutte: l'omosessualità a quei tempi era una co-sa normalissima, non a caso è passata alla Storia come "amore greco"».

Non è strano che un uomo non violento come lui, che può essere considerato una specie di Gandhi dell'antichità, sia stato un buon soldato?

«Diciamo pure un buon marine: nel 432 a.C. fu imbarcato insieme con altri duemila ateniesi e mandato a combattere a Potidea, una piccola città del Nord della Grecia che si ribellò allo strapotere di Atene. Lì si guadagnò la prima medaglia al valore salvando la vita al giovane generale Alcibiade: lo vide ferito sul campo di battaglia, se lo caricò a cavalluccio e lo portò in salvo in mezzo a una selva di nemici. Ma non fu tanto il suo coraggio a sorprendere tutti, quanto la sua totale indifferenza ai disagi della guerra: girava scalzo sulla neve e sul ghiaccio come se nulla fosse».

Come reagì all'oracolo di Delfi che, in risposta alla domanda di un suo amico su chi fosse il più saggio di tutti, indicò in Socrate "il più sapiente dei sapienti"? «Rimase sconvolto perché non si sentiva affatto tale. Per dimostrare che il responso della pizia (la Nella Battaglia di Potidea, secondo quanto riportò PLATONE nel 469 a.C. Socrate nasce nel demo Alopece, un sobborgo a mezz'ora di cammino da Atene, alle pendici del Monte Licabetto, da una famiglia della classe media: il padre Sofronisco (in greco "Colui che riconosce la saggezza") è uno scultore, la madre Fenarete ("Colei che fa risplendere la virtù") una levatrice. 406 In conformità al principio della rotazione delle cariche, entra a far parte dei "pritani", i membri del consiglio ateniese con compiti di amministrazione civica. Anche qui dimostra la stessa forza d'animo avuta in battaglia, unico a opporsi alla richiesta di giudizio sommario verso 10 strateghi (generali) accusati di viltà. AKG/MONDADORI PORTFOLIO sacerdotessa che pronunciava gli oracoli in nome del dio Apollo, ndr) era sbagliato interpellò tutti quelli che riteneva più sapienti di lui, poeti, artigiani e politici, ma alla fine dovette dare ragione all'oracolo. In effetti, Socrate era il più sapiente proprio perché era il solo a rendersi conto di essere ignorante. E da allora si dedicò a fare ciò che la divinità gli aveva indicato, ovvero educare gli altri alla cura della propria anima, e fece suo il motto che era scritto sul frontone del Tempio di Apollo a Delfi, e cioè "Conosci te stesso". L'amore per la conoscenza divenne la sua ragione di vita: si racconta che prima di morire Socrate avesse ricevuto in carcere un maestro di musica per farsi impartire lezioni di cetra. Alla domanda di un discepolo, "Perché imparare a suonare la cetra, se di qui a poche ore ti faranno bere la cicuta?", lui rispose semplicemente: "Perché mi piace imparare"».

Che cosa lo ossessionava maggiormente? «La ricerca della verità. Quando diceva "So di non sapere" non negava l'esistenza della verità, ne incitava la ricerca. Era come se dicesse: "Guagliù, la verità esiste, anche se io non la conosco; quindi, lavoriamo per trovarla". Braccava gli uomini come un cane da caccia, li costringeva a guardarsi dentro, nel profondo dell'animo. Si considerava un ostetrico dell'anima, proprio come sua madre, che faceva la levatrice, lo era del corpo. Ecco da dove nasceva la sua "maieutica", ovvero l'arte di far "partorire" le menti. Spingendo gli uomini a cercare dentro se stessi, li tempestava di domande: "Che cos'è il vero?", "Che cosa è il bene?". A chi gli proponeva di farsi una bella scampagnata rispondeva: "Ma che cosa vuoi che mi possa insegnare la campagna, quando in città ho a disposizione tutti gli uomini che voglio e tutti così istruttivi?"».

Si autodefinì scherzosamente un "tafano molesto" che punzecchiava Atene... «Se è per questo, Platone lo paragonò alla torpedine, un pesce in grado di dare una scarica elettrica e stordire chi lo tocca. Non tutti gli ateniesi lo ricambiavano dello stesso affetto; secondo lo stori-co Diogene Laerzio, alcuni lo prendevano a pugni e gli strappavano i capelli per potersene liberare. Con tutto il rispetto, sono convinto che molti ad Atene lo evitassero come la peste e che appena la sua figura tracagnotta appariva sotto la Porta Sacra, c'era un fuggi fuggi generale, al grido di "oilloco, oilloco: fuitavenne!", che è un'espressione napoletana e significa "eccolo, eccolo: fuggite!"».

Come se lo immagina fisicamente? «Brutto, basso, peloso, con larghe narici, testa calva, gambe sottili e storte. Ma bello dentro. Sia d'estate che d'inverno vestiva allo stesso modo, con una specie di tunichetta chiamata chitone, alla quale al massimo aggiungeva un trìbon, un mantello di stoffa che portava drappeggiato sulla spalla destra. Sandali e maglie di lana neanche a parlarne. Un giorno si fermò davanti a una bottega di Atene ed esclamò stupito: "Ma guarda di quante cose hanno bisogno gli ateniesi per campare!"».

Sua moglie Santippe è diventata il simbolo della donna bisbetica e possessiva. Ma, poi, era davvero tale?

«Sul suo rapporto con Santippe si è sempre molto ricamato, ma probabilmente la loro vita coniugale era normale. Lei era una casalinga con tre figli da crescere, lui un marito che, a parte una piccola rendita lasciata dalla madre, non portava a casa una dracma. Le voleva bene e la subiva con rassegnazione: a chi gli chiedeva come facesse a sopportarla, rispondeva:"Cosa vuoi che ti dica, ormai mi ci sono abituato, è come sentire il rumore incessante di un argano". Del resto, l'aveva sposata a quasi cinquant'anni, forse più per avere un figlio che non una moglie, e fino ad allora si era sempre tenuto alla larga dal matrimonio. Se qualcuno gli chiedeva un consiglio, sul fatto di sposarsi o meno, rispondeva: "Fai come vuoi, tanto in entrambi i casi ti pentirai"». E invece pare che avesse una seconda moglie segreta... «È Aristotele a scrivere che Socrate aveva anche una seconda consorte, tale Mirto. Altri invece sostenevano che fosse una semplice concubina che si era trascinato a casa una sera in cui aveva bevuto. Sul triangolo amoroso Socrate-Santippe-Mirto ironizzò anche Brunetto Latini, il maestro di Dante citato nel XV canto dell'Inferno, che dipingendo le due donne scrisse che litigavano "perché il marito mostrava amore oggi più all'una e domane più all'altra"».

Perché Socrate fu condannato a morte? «Ce lo chiediamo ancora oggi! Dal punto di vista giuridico, fu accusato di aver corrotto i giovani e di non avere fede negli dèi nei quali, invece, credeva la città. Lui si difese mandando in contraddizione chi lo aveva trascinato in tribunale. Ma la verità è un'altra: ad Atene nessuno faceva caso alla religiosità degli altri, e ogni scusa era buona per far fuori un avversario come lui, che con la sua dialettica minacciava il potere costituito. Gli uomini hanno bisogno di certezze: se uno arriva a sostenere che i politici siano dei presuntuosi ignoranti, ecco che quello diventa il nemico numero uno e deve morire».

Gli fu offerta su un piatto d'argento la possibilità di evadere dal carcere e lui rifiutò. Perché?

«Proprio per rispetto della legge ateniese, per lui sacra. "Quali ragionamenti potrei fare sulla virtù e sulla giustizia", disse, "dopo avere infranto la legge?". Al cancelliere del tribunale che gli chiese quale fosse per lui il prezzo della libertà rispose provocatorio: "Una mina d'argento", cioè nulla. Aveva già 70 anni, tanto valeva finirla lì senza rinunciare ai suoi ideali. E poi Socrate non temeva la morte. Le ultime parole che disse ai suoi amici prima di bere tutto d'un fiato la cicuta furono: "Ecco che è giunta l'ora di andare: io a morire e voi a vivere. Chi di noi abbia avuto il destino migliore è oscuro a tutti fuorché agli dèi". Qualche giorno dopo gli ateniesi si pentirono di averlo condannato: chiusero per lutto i ginnasi, i teatri e le palestre, mandarono in esilio i suoi accusa-tori Anito e Licone, e condannarono a morte il denunziante, Meleto».

Qual è la lezione più importante che ci ha lasciato?

«Si vive meglio da buoni che da cattivi. La felicità che si prova perché si è virtuosi è già un premio. Ed è meglio subire un'ingiustizia piuttosto che farla. Ci sono due aneddoti citati da Platone che fanno capire bene la sua integrità morale. Quando rischiò la pelle, sotto la dittatura dei Trenta tiranni, per opporsi all'arresto del democratico Leonte di Salamina, pare che disse: "Della morte non m'importa un bel niente, molto m'importa di non commettere ingiustizia o empietà". Secondo l'altro aneddoto, mentre la moglie Santippe piagnucolava lamentando "Ma tu muori innocente", lui dalla cella ribatté: "E tu volevi che io morissi colpevole?". Insomma, Socrate era buono, tenace, intelligente, ironico, tollerante e insieme inflessibile. Come si fa a non innamorarsi di lui?». • B ello e seducente. Impulsivo e ambizioso. Nobile e ricco. All'occorrenza gentile. Ma, se necessario, spregiudicato al limite dell'irriverenza. Un Gianni Agnelli dell'antica Grecia, come ha detto qualcuno. Le donne impazzivano per la sua eleganza e la sua erre moscia. Gli uomini erano sedotti dalle sue doti strategiche e dalla sua appassionata arte oratoria capace di "lanciare il cuore oltre l'ostacolo" e far sognare un ritorno agli antichi splendori proprio mentre l'Atene del V secolo a.C. viveva una crisi profonda di valori e prospettive, accresciuta dalla logorante Guerra del Peloponneso.

Esponente dell'ala democratica della città, pose sempre la sua ambizione al di sopra del senso dello Stato e della patria. Addirittura al di sopra degli dèi. Gli Ateniesi lo amarono (e lo odiarono) pazzamente. Come gli Spartani, con cui ebbe una breve liaison, e i nemici Persiani, di cui cercò la benevolenza. Ma chi fu davvero Alcibiade (450-404 a.C.)? Un uomo per tutte le stagioni pronto a cambiar casacca pur di vincere e rimanere a galla, o piuttosto un figlio del suo tempo, relativista e arguto, capace di muoversi con furbizia nei corridoi del potere e di parlare alla "pancia" della gente, esponendosi così alla volubilità del giudizio popolare?

La giovinezza. Sicuramente fu un abile stratega. Figlio di una cugina di Pericle, crebbe frequentando la casa del politico ateniese che tuttavia, a quanto risulta, si disinteressò di lui. Forse perché, come

Grande ORATORE, tradì la sua città, ma da molti fu trattato come un EROE osserva Chiara Pecorella Longo, autrice di Alcibiade, una storia ateniese (Giunti Marzocco), «aveva ritenuto inutile lottare contro una natura ingovernabile». Il clima intellettualmente frizzante dell'Atene di quegli anni fece il resto: allievo di Socrate (v. riquadro alle pagine seguenti), frequentò anche i circoli dei sofisti dove imparò le migliori tecniche di arte oratoria, dibattendo i temi caldi del momento. Alcibiade rese la massima dei sofisti ("la giustizia è l'utile del più forte") sua filosofia di vita. Sostenere che è giusto che il più forte comandi era da un lato la premessa dell'imperialismo ateniese -giustificava il potere dei più ricchi sulla città e sulle colonie -ma dall'altro lato era anche alla base di quel "relativismo etico" secondo cui non esiste un'idea di bene assoluto. L'abilità nell'individuo sta piuttosto nel persuadere gli altri con le argomentazioni più convincenti (che non necessariamente sono anche le più giuste).

La capacità di persuasione ad Alcibiade non mancava. A dieci anni dallo scoppio della Guerra del Peloponneso, a quasi 30 anni (l'età necessaria ad Atene per ottenere incarichi politici), contava già un certo numero di fedelissimi e si era distinto nella commissione incaricata di rivedere, aumentandolo, il tributo degli alleati per la prosecuzione della guerra, schierandosi apertamente sul fronte interventista. Con spregiudicatezza aveva però aperto anche ai "pacifisti", proponendosi agli Spartani come interlocutore unico per firmare un'eventuale tregua, diventata possibile dopo la morte dei co-di se stesso 37 mandanti che avevano voluto il conflitto. Il gioco, suo malgrado, non funzionò: gli Spartani firmarono sì la pace (421 a.C.), ma con Nicia, a capo della fazione conservatrice ateniese. Alcibiade ingoiò il rospo, ma non desistette. Cinque anni dopo, perdurando la tregua, maturò un piano bellicoso che secondo molti storici, se portato a compimento, avrebbe cambiato il destino di Atene e forse dell'intera Grecia: la spedizione in Sicilia.

Guerrafondaio. La città di Segesta era allora in guerra con Selinunte, a sua volta sostenuta da Siracusa (in quota spartana). Portare aiuto a Segesta significava creare un avamposto ateniese sull'isola, base per una successiva espansione.

«Il suo sogno era ancora più ambizioso: l'occu-pazione dell'Italia intera e di Cartagine», spiega la storica. «Fondato questo grande impero, Alcibiade avrebbe assalito il Peloponneso e Sparta, soggiogandoli una volta per tutte». Per convincere gli Ateniesi a sostenerlo tenne un discorso appassionato, degno della migliore tradizione guerrafondaia: "La nostra città se si manterrà inattiva finirà per logorarsi da sola. Una città abituata a essere attiva cade rapidamente in rovina se rinuncia all'azione". Il comizio funzionò e dall'uditorio partirono applausi scroscianti. Nicia, suo eterno rivale, difendendo i propositi di pace, si oppose però all'iniziativa. Ma rilanciò con una mossa miope: pensando di far desistere gli Ateniesi suggerì di usare un numero altissimo di navi e di armati. Fu Fu un MAGO della comunicazione: tagliò la coda al suo CANE per far parlare di quello e IMPEDIRE agli ateniesi di dire cose PEGGIORI sul suo conto A SCUOLA DI VITA Alcibiade e Socrate discettano di filosofia con Aspasia, concubina di Pericle e coltissima etèra, in un dipinto del '700.

MONDADORI PORTFOLIO

un boomerang: gli Ateniesi votarono favorevolmente e la disfatta a Siracusa fu un colpo dal quale la città non si riebbe. Non solo. Alcibiade cadde vittima di quella che oggi qualcuno chiamerebbe "giustizia a orologeria": accusato di aver mutilato le erme (statue del dio Ermes poste presso i crocevia, numerose in Atene) e di avere organizzato parodie sacrileghe dei misteri eleusini, fu chiamato a giudizio. «La prima accusa era assurda, la seconda verosimile», dice l'esperta. «Fatto sta che salpate le 100 navi dal Pireo, dopo i primi successi Alcibiade fu prelevato dalla Sicilia per essere portato ad Atene; ma nello scalo di Turii lui e i suoi riuscirono a fuggire». Latitante, fu condannato in contumacia, i suoi beni vennero confiscati e il suo nome male-detto da tutti i sacerdoti di Atene. E il bel comandante? Trovò rifugio a Sparta.

Cambio di casacca. A casa del nemico trascorse tre anni, quanto basta per dare a quel popolo di guerrieri oligarchi, amanti della guerra e della vita da caserma, consigli che portarono alla sconfitta della sua città natale, almeno in Sicilia. E non solo: come un camaleonte si adattò ai loro costumi. "Nessuno sa meglio di me, che ci ho vissuto dentro e ne sono vittima, cosa sia la democrazia ateniese. Non fatemi sprecar fiato su una cosa così evidentemente assurda", gli fa dire Tucidide. Musica, per le orecchie spartane. Ma, per essere più convincente, Alcibiade adottò anche il loro look: lui amante dell'eleganza e delle raffinatezze rinunciò ai sandali e prese a girare scalzo con una rozza tunica sulle spalle, si nutriva di cipolle e iniziò a bagnarsi anche in inverno nelle gelide acque del fiume Eurota.

Anche così conciato, riuscì a conquistare la regina di Sparta. E quando il re tornò dalle manovre militari si trovò tra le braccia un bambino di cui non poteva essere padre. Alcibiade affermò poi di aver sedotto la regina perché la sua discendenza regnasse su Sparta. Sarà. Di fatto, il sovrano non gradì e per lo sfrontato ateniese l'atmosfera a Sparta si fece pesante. Per non sbagliare si imbarcò su una flottiglia che partiva verso l'Asia: raggiunse così il satrapo persiano Tissaferne a cui, per non smentirsi, offrì i suoi servigi, questa volta contro Sparta.

Il gran ritorno. Atene intanto era sull'orlo della catastrofe. Dopo la sconfitta, sul banco degli imputati era finita persino la democrazia: si incolpò il regime democratico della sconfitta siciliana e gli oligarchi trovarono terreno fertile per organizzare una rivolta e affidare il potere a un Consiglio dei 400, assassinando alcuni capi dell'opposizione. Seguì un colpo di Stato e un governo guidato da un Consiglio dei 5.000 (oggi parleremmo di una "grande coalizione" tra democratici e conservatori per far fronte all'emergenza nazionale). Al progetto partecipò anche Alcibiade, esule che coltivava il sogno di tornare in patria. Trovò gioco facile e cavalcò l'onda di protesta contro la democrazia che l'aveva messo sotto processo. Eletto stratego dalla flotta dell'isola di Samo, condusse da qui la riscossa democratica contro le forze oligarchiche ateniesi. Quando alcuni inviati dei 400 giunsero a Samo per spiegare che il cambio di regime era volto al bene della città, i soldati stavano per far vela verso Atene per dar vita a una guerra civile. Lui li fermò, ordinò lo scioglimento del Consiglio dei 400, aprendo la strada a quelle "grandi intese". I 5.000 decretarono così il suo ritorno in patria. Era il 411 a.C.

Intanto il teatro principale della guerra si spostò nell'Ellesponto, dove Ate-La storiografia si è divisa sulla figura di Alcibiade. TUCIDIDE, ATTENTATO L'incendio della casa di Alcibiade ordinato dal capo spartano Lisandro, in un dipinto dell'800: lo stratega morì in quella circostanza.

ne macinava vittorie. All'apice del successo della città, Alcibiade, eletto stratego (408-407 a.C.), rientrò effettivamente in patria. L'accoglienza non poteva essere più entusiasta e lui, per non farsi mancare nulla, organizzò anche una parata religiosa in occasione dei misteri eleusini, che anni prima aveva oltraggiato, guidando la processione non per mare -come si faceva ultimamente per paura di attacchi spartani -ma via terra. Una mossa studiata nei minimi dettagli: il popolo secondo una fonte lo esortò addirittura a farsi tiranno. E lui, saggiamente, rifiutò. rievocando la Guerra del PELOPONNESO, ne parlò con benevolenza « È difficile dire quali siano stati i rapporti tra Socrate e Alcibiade, più giovane del maestro di circa vent'anni», spiega la storica Chiara Longo. «Ed è irrilevante la questione che tanto affannò i moralisti del passato, vale a dire se tra i due vi fossero stati rapporti di carattere erotico. È probabile, ma non è questo ciò che importa». Piuttosto, ai contemporanei e alle generazioni successive interessò capire se Socrate, condannato a morte nel 399 a.C., cinque anni dopo la morte di Alcibiade, fu responsabile della condotta dei suoi discepoli. I fan dello stratega sostennero che frequentò Socrate solo per imparare da lui l'arte della parola. E c'è chi ritiene che solo fino a che rimase sotto l'influenza del maestro fu un ottimo cittadino. Le pagine più belle su quel rapporto le ha scritte Platone nel Simposio. Amici a tavola. La cornice è un banchetto al quale, oltre a Socrate e al suo discepolo Aristodemo, presenziano il commediografo Aristofane, il retore Pausania e altri amici: ognuno tiene un discorso sull'eros. Verso la fine, fa irruzione Alcibiade ubriaco, che parlando di Socrate dice: "Quando l'odo mi balza il cuore e lacrime mi sgorgano sotto le sue parole. Quando io sentivo Pericle e altri oratori bravi, pensavo sì che parlassero bene ma non provavo questo, non mi tumultuava l'anima...".

Allievo (e amante) del maestro Socrate

Salpò invece con la sua flotta verso la Caria per saccheggiarla e rifornirsi di quattrini, lasciando temporaneamente il comando della flotta al luogotenente Antioco, con l'ordine di non muoversi. Fu un errore fatale. Antioco, forse per ambizione, trasgredì il divieto e mosse contro la flotta spartana: fu una disfatta, e Alcibiade fu ritenuto responsabile del disastro. Gli Ateniesi, che dallo stratego si aspettavano solo vittorie, gli tolsero il comando e lui, temendo per la sua vita, si recò in Tracia. A capo di un gruppo di mercenari, condusse una guerra personale contro le tribù del luogo, arricchendosi come un comune avventuriero.

Troppo pericoloso. Da qui fece un ultimo tentativo per salvare la propria carriera e la sua città. Trovandosi vicino al luogo dei combattimenti, a Egospotami, vide dall'alto di una collina le navi ateniesi e si accorse che erano schierate male. Si precipitò ad avvisare i suoi compatrioti, ma loro lo cacciarono, accusandolo di essere un traditore. L'indomani la flotta ateniese perse 200 navi; la guerra era finita. Gli oligarchi ateniesi e Lisandro, capo degli Spartani, temevano che Alcibiade si mettesse a capo dei democratici fuoriusciti e riuscisse a restaurare ad Atene la democrazia. Mandarono perciò dei sicari a ucciderlo: a 46 anni la carriera di Alcibiade fu interrotta per sempre. Rimase il suo mito. O meglio, il suo fantasma. Forse la riflessione più efficace fu quella di un suo contemporaneo, Aristofane, nella commedia Le rane, dove fa dire a Eschilo: "La città lo ama e lo odia e tuttavia lo vuole. Non bisogna allevare nella città un cucciolo di leone, ma quando lo hai allevato devi adattarti alle sue abitudini".

Giuliana Rotondi

Busto del filosofo Platone: nel Simposio parlò di Alcibiade e Socrate.

FINALE TEATRALE

La morte di Alcibiade (404 a.C.) colpito da una freccia mentre insegue il suo attentatore, in una stampa tedesca del 1902. S i chiamava Alessandro III, re di Macedonia, ma è entrato nella leggenda con un altro nome: Alessandro il Grande (in greco "Aléxandros Mégas"). Per motivi che vanno al di là di ogni immaginazione. Perché non è stato solo uno dei più grandi condottieri della Storia, che in dodici anni di regno conquistò un enorme impero toccando i confini del mondo allora conosciuto: la sua vita straordinaria ha assunto colorazioni leggendarie in Occidente e in Oriente, narrata dalla letteratura araba (Corano, Libro dei Firdusi), persiana, armena, copta, turca e occidentale. E, soprattutto, perché più di chiunque altro ha incarnato l'eroe morto prematuramente al culmine della sua gloria, ed è al centro di enigmi tuttora irrisolti. Dove si trova la sua tomba, venerata nell'antichità e misteriosamente scomparsa? Chi o che cosa l'ha ucciso, interrompendo bruscamente i suoi sogni di gloria?

Abbiamo chiesto di raccontarci la sua straordinaria vicenda a Valerio Massimo Manfredi, archeologo e grande narratore dell'antichità, che al giovane re macedone ha dedicato studi personali e romanzi tradotti in tutto il mondo.

Nei suoi libri, lei parla spesso del fenomeno "imitatio Alexandri", il fascino dell'invincibile condottiero che ha conquistato i grandi personaggi in tutte le epoche: da Scipione a Cesare, da Caligola a Traiano e Caracalla, fino a Maometto II e Napoleone. Quali sono i motivi di tanta passione? «Non tutto nella Storia è spiegabile. I mo-Valoroso, COLTO, affascinante, in soli 12 ANNI Alessandro Magno CONQUISTÒ l'impero più ampio che si fosse visto fino ad allora.

Ma la MORTE lo colse di sorpresa

Dallo IONIO all'HIMALAYA tivi del fascino di Alessandro Magno hanno una componente umana e cao tica: basti pensare alla sua morte prematura che stroncò il più grande progetto strategico-ideologico di tutti i tempi.

La sua figura racchiude una combinazione dirompente di guerriero e di filosofo, la capacità di fondere insieme mondi lontani e diversi, la resistenza quasi sovrumana alle fatiche, alla fame, alla sete, al gelo, la capacità di pensare in grande senza limiti e senza confini. Nessuno prima di lui si era mai spinto con un esercito a tale distanza dal suo Paese d'origine, nessuno era mai stato così consapevole delle conseguenze che avrebbe avuto nella storia dell'umanità».

È vero che per i contemporanei era un dio vivente?

«Statue e dipinti ci mostrano la sua bellezza impressionante: aveva uno sguardo di tigre e un volto apollineo. Chiunque lo vedesse era pronto a seguirlo all'inferno. Gli storici raccontano che nessuno era immune al suo fascino... né donne, né uomini, né cani, né cavalli.

Si narra che all'età di dodici o tredici anni sia riuscito da solo a domare il cavallo Bucefalo avuto in dono dal padre, con uno stratagemma: intuì la paura dell'animale per la propria ombra, così lo mise con il muso rivolto al sole».

"A mio padre devo la vita, al mio maestro una vita che vale la pena essere vissuta", ha lasciato detto. A chi si riferiva? «Ad Aristotele. Volendo i suoi genitori (il re Filippo II di Macedonia e la principessa dell'Epiro Olimpia) dargli un'educazione greca, per completare la sua istruzione scelsero come maestro Aristotele, il più grande pensatore dell'epoca: oggi potrebbe equivalere a comprare tutta l'Università di Harvard per il primogenito. Fu Aristotele a insegnargli la scienza e l'arte, da cui derivò la sua versatilità di interessi. Scrisse un'edizione dell'Iliade appositamente per lui, firmò un contratto di esclusiva dove s'impegnava a non rivelare a nessun altro ciò che aveva insegnato ad Alessandro. E restò legato a lui per tutta la vita, come amico e confidente».

Come furono invece i rapporti di Alessandro con i suoi genitori? Su di lui pesa il sospetto di avere preso parte, poco più che adolescente, all'assassinio di suo padre.

«Secondo lo scrittore latino Plutarco, Alessandro, pur non essendo direttamente coinvolto nella congiura ordita da una sua guardia personale, ne era a L ' impresa di Alessandro Magno fu straordinaria anche dal punto di vista geografico: migliaia furono i chilometri che il suo esercito, portando con sé la cultura ellenistica, percorse da un capo all'altro del mondo conosciuto. Ecco le quindici tappe principali del suo viaggio. Verso oriente. Partito da Pella 1 , la capitale dell'antica Macedonia, Alessandro sostò subito a Troia 2 per onorare la tomba di Achille, registrando la prima vittoria contro i Persiani presso il fiume Granico 3 . Taglio netto. A Gordio 4 , narra la leggenda, avvenne il celebre episodio del "nodo gordiano": poiché, secondo l'oracolo, colui che avrebbe sciolto il nodo del Tempio di Giove sarebbe diventato imperatore d'Asia, Alessandro lo recise a metà con la sua spada. Deciso a conquistare l'Impero persiano di Dario III, vinse a Isso 5 e, fuggito l'avversario, conquistò le città fenice di Sidone, conoscenza e non la ostacolò. Io non credo.

Certamente Alessandro era molto attaccato a sua madre e la decisione paterna di divorziare da lei per convolare a nozze con la giovane Cleopatra Euridice fu per lui motivo di disprezzo, oltre che di preoccupazione per la discendenza al trono. Ma la dimostrazione della sua estraneità al delitto è nella prima domanda che rivolse all'oracolo di Ammone: "Ho ucciso tutti gli assassini di mio padre o ne è rimasto qualcuno?"».

Un altro mistero riguarda la sua vita sessuale: secondo alcuni ebbe molti amanti tra cui il suo amico Efestione... «Fu lo stesso Alessandro, che adorava Omero, a parlare di sé e di Efestione, amico e amante, come dei nuovi Achille e Patroclo. Una similitudine, secondo me, sbagliata, perché nei poemi omerici non c'è traccia di omosessualità, mentre Alessandro ed Efestione furono indubbiamente amanti. Tanto è vero che la morte di Efestione, oggi attribuibile a una banale appendicite, lo sconvolse: rimase a lutto per sei mesi, volle una pira alta come un palazzo di 7 piani, progettò per lui un sontuoso mausoleo mai portato a termine».

Il pensiero della morte, la sua, non lo sfiorava? «Alessandro sfidò e ignorò la morte mille volte. Credeva in modo così cieco nella sua discendenza dall'immortale Achille da comportarsi, in guerra, da pazzo temerario come lui: "Non c'è una parte del mio corpo che non abbia cicatrici, non c'è arma corta o da lancio che non mi abbia lasciato il segno: sono stato trafitto da frecce, colpito da una catapulta, battuto da pietre e mazze per voi, per la vostra gloria". Disse così, secondo lo storico Arriano, alle truppe ammutinate. La verità è che la sua morte era un evento che nessuno si aspettava, incluso lui». C'è chi dice che morì di malaria, chi assassinato a tradimento. Ma che cosa gli accadde veramente?

«Tutti i racconti concordano su una determinata circostanza: dopo quarantotto ore di ininterrotti banchetti, alcol, cibo, eccessi di ogni genere e dopo avere appena scolato un'intera "coppa di Eracle" (enorme boccale di vino, ndr) il giovane re fu sorpreso da un dolore lancinante, che lo fece urlare come se fosse stato trafitto da una lancia. Un dolore seguito da febbre sempre più alta, e dodici giorni dopo, dal decesso. È normale avere pensato subito ad avvelenamento, ma Alessandro aveva già sventato due congiure e probabilmente si era già cautelato contro il veleno. Credo, invece, che la verità sia un'altra: quel dolore lancinante al fianco è identico a quello riferito da pazienti di pancreatite acuta. Credo sia quella la patologia che l'ha portato alla morte: stimolato dall'eccesso di attività enzimatica, il succo pancreatico può bucare peritoneo e intestino, invadere la cavità addominale, indurre peritonite, setticemia, perdita di conoscenza, coma e morte».

Che cosa sarebbe successo se il suo sogno di gloria non si fosse bruscamente interrotto? «L'avere ammassato una grande flotta in Occidente fa pensare che sognasse Cartagine, che fosse pronto a spingersi al di là delle Colonne d'Ercole. È probabile, a mio avviso, che si preparasse a una monarchia universale e divina».

Il mito di Alessandro sopravvive ancora oggi. Chi è il suo erede naturale? È vero che Fidel Castro è tra i suoi maggiori ammiratori? «Confermo. Fidel Castro scelse addirittura il nome di battaglia "Alejandro" combattendo nella Sierra Maestra. THE ART ARCHIVE L'altra GRECIA N ella Grecia antica, tutti hanno avuto il loro momento di gloria: Micene e Argo nel Peloponneso, Atene in Attica, Sparta ancora nel Peloponneso, Tebe in Beozia. Proprio da Tebe partì l'ascesa dell'"altra Grecia", il regno di Macedonia. Ma chi erano questi parvenus che si affacciavano da neofiti sulla scena della Storia?

Nessuno sa da dove venissero i Macedoni. Nessuno lo sapeva allora, e poco se ne sa oggi. Forse erano Greci che si erano separati dai loro "cugini" in epoca remota, oppure, come sostenevano gli Elleni, Sciti ("barbari" originari delle steppe del Mar Nero) governati da una dinastia, gli Argeadi, di provenienza peloponnesiaca, ovvero da Argo (nel sud del Peloponneso), che vantava una discendenza nientemeno che dall'eroe mitologico Eracle. Non si conosce molto del periodo antecedente al primo re storicamente accertato, Perdicca I, che nella prima metà del VII secolo a.C. amministrava il piccolo regno dalla sua capitale, Ege (oggi Verghina). Ma si sa che, nonostante le sue modeste dimensioni, la Macedonia riuscì a sopravvivere in forma indipendente durante le guerre tra le superpotenze del tempo, la Grecia e la Persia, barcamenandosi con un equilibrismo degno dei politici più trasformisti. Alessandro I, per esempio, si dichiarò vassallo di Dario di Persia ma ammiccò ai Greci, tanto da guadagnarsi il soprannome di "Filelleno", mentre suo figlio Perdicca II evitò di schierarsi nella rivalità tra Sparta e Atene, durante la Guerra del Peloponneso. Era la fine del V secolo a.C. Morto Perdicca (intorno al 413 a.C.), la capitale fu trasferita a Pella (fondata da Archelao I) e dopo un interregno salì al trono Aminta III, che si schierò con decisione con Sparta. Ed eccoci così tornati a Tebe, da dove partì la svolta firmata Filippo.

DE AGOSTINI/GETTY IMAGES la pace, e la forza con gli Illiri, sconfiggendoli in modo decisivo grazie al suo generale Parmenione.

Il consolidamento delle frontiere era indispensabile per mettere il sovrano in condizione di perseguire il suo obiettivo, ovvero l'espansione. Scopo ultimo: rendere la Macedonia, da sempre parente povera della Grecia, più prospera. Per questo gli servivano uno sbocco al mare, una maggiore disponibilità finanziaria e un esercito efficiente. Riformò dunque le sue forze armate e si mise in competizione con Atene, alla quale soffiò Anfipoli e alcuni centri della Tracia (durante queste battaglie perse però un occhio). Poi conquistò le miniere d'oro più a sud, e i Greci diventarono i parenti poveri della Macedonia.

Verso l'Attica. La fase finale dell'ascesa di Filippo non poteva che essere il dominio sulla Grecia, da sempre dilaniata da lotte intestine. Nel 354 a.C. Filippo intervenne nell'ennesimo conflitto ellenico, la cosiddetta Guerra sacra. Si schierò contro la coa lizione guidata da Atene, senza però alcun successo. Non poté raggiungere la Grecia Centrale a causa del blocco posto dagli Ateniesi al passo strategico delle Termopili. Ripiegò allora sulla Tracia, dove continuò a guerreggiare contro Ate-

FALSE ORIGINI DIVINE

Olimpiade e Zeus in un affresco di Giulio Romano (1499-1546) a Mantova: dall'unione, per la leggenda, nacque Alessandro Magno.

Ostaggio. Nella città della Beozia era tenuto in ostaggio uno dei figli di Aminta, il decenne Filippo, appunto, che lì ebbe modo di studiare le tattiche del generale tebano Epaminonda. Un condottiero capace di sconfiggere più volte la falange spartana, fino ad allora pressoché insuperabile. Aminta morì nel 370 a.C. e nel regno di Macedonia si scatenò una feroce lotta per la successione. Filippo era il terzo figlio del re, e la corona spettò al maggiore, Alessandro II, che però fu ucciso dal cognato. Prevalse Perdicca III, anche lui presto passato a miglior vita combattendo contro gli Illiri. Solo dopo 5 anni di lotte Filippo poté ascendere al trono e mettere in atto i suoi ambiziosi propositi.

La dinastia degli Argeadi controllava a quel tempo un modesto territorio nella regione montuosa del Monte Olimpo. Il regno era sotto la costante minaccia delle incursioni delle tribù barbariche da nord, e all'interno dei suoi confini si viveva un'esistenza precaria. Fu questa situazione che il giovane volle sanare prima di ogni altra cosa, e prima ancora di essere riconosciuto re come Filippo II: consolidò immediatamente i confini nord-orientali usando la diplomazia con i Peoni, dai quali comprò Molti MERITI di Filippo II, primo fra tutti quello di essersi schierato le reazioni dei Greci, nella speranza che la sua sola discesa fosse sufficiente a indurli a più miti propositi. Ma Demostene era sempre più determinato a resistergli, e fu capace di guadagnare anche Tebe all'alleanza con Atene. A quel punto, il re si ritrovò la strada della Beozia sbarrata da un'armata congiunta di ateniesi e tebani.

M A R E G E O

Conquistatori. Le schermaglie iniziali tra le due armate avevano visto prevalere i Greci, che si galvanizzarono credendo di rinnovare i fasti di un tempo, quando la democrazia ellenica era stata capace di sconfiggere la potenza di altri monarchi assoluti, gli Achemenidi di Persia, in ben due guerre.

In effetti, la cattiva stagione favoriva chi stava in difesa, piuttosto che gli attaccanti. Così, Filippo non spinse davvero l'acceleratore dell'avanzata prima della primavera del 338 a.C., quando con uno stratagemma riuscì a entrare in Beozia e a costringere i Greci ad arretrare la loro linea a Cheronea. In quella località ebbe luogo una battaglia di importanza capitale, una di quelle in cui il testimone della Storia passa da una mano a un'altra: la tanto celebrata falange greca, modello per i combattenti di pressoché tutti gli Stati del Mediterraneo, si rivelò superata di fronte al maggiore dinamismo di quella macedone (v. riquadro in basso).

Quella vittoria fu talmente decisiva da permettere a Filippo di imporre ancora una volta la sua volontà ai Greci, convocando a Corinto un congresso panellenico; ne scaturì la creazione di una lega ("di Corinto") della quale il re assunse il ruolo di capitano generale. E così come aveva largamente preannunciato, si fece promotore di una campagna per la liberazione delle città greche dell'Asia Minore, ancora sotto il giogo persiano.

Giallo a corte. Filippo non passò mai all'azione su quel fronte. Morì assassinato poco prima dell'avvio della campagna d'Oriente, nel luglio del 336 a.C. Come Giulio Cesare dopo di lui, accoltellato prima di scendere in guerra contro i Parti. A tutt'oggi non è ancora chiaro chi sia stato il mandante del regicidio e se vi sia stato davvero qualcun altro dietro al gesto dell'ufficiale Pausania. A volerlo morto potevano essere in tanti: Dario III Codo-F ilippo, in campo bellico, scardinò concetti radicati da secoli nella mentalità militare greca e creò un esercito la cui efficacia è paragonabile solo a quella della legione romana. Nel mondo antico, non esisteva un esercito professionale di Stato: c'erano il cittadino, che serviva nell'esercito quando era necessario, e il mercenario. Filippo invece creò un esercito nazionale, che si addestrava anche in tempo di pace. Riformatore. Il condottiero rese la pesante e monoli-tica falange greca più leggera, togliendo l'armatura a una parte degli opliti (i pezeteri) e dotandoli di una lancia molto lunga (la sarissa) che consentiva alle file posteriori di partecipare all'impatto con l'armata avversaria, moltiplicando così il potenziale della formazione. Queste innovazioni tecniche si accompagnarono a quelle tattiche: rese più mobile la falange e affidò lo sfondamento alla cavalleria pesante, creando l'effetto incudine (la fanteria) e martello (la cavalleria).

La super-armata di Filippo II a DIFESA della "grecità", furono poi attribuiti al figlio Alessandro manno, il re di Persia che poteva ritenere, uccidendo lui, di eliminare ogni minaccia al suo impero (questa fu la versione ufficiale della corte argeade); il partito antimacedone in Grecia; il figlio ambizioso Alessandro che, con il nuovo matrimonio del padre e la nascita di un fratellastro, vedeva in pericolo la successione; la sua consorte ripudiata Olimpiade, amata madre di Alessandro, messa da parte in favore della nuova sposa Cleopatra Euridice.

Al di là del giallo della sua fine, Filippo merita di essere annoverato tra i più grandi uomini della Storia per il solo fatto di essere stato il primo, e per lungo tempo il solo, a riunire la Grecia. Se Alessandro Magno conquistò il mondo antico fu anche grazie a ciò che aveva appreso dal padre e dai suoi insegnamenti. Senza una Grecia unita alle sue spalle, quel ragazzo non si sarebbe mai azzardato ad affrontare un impero sterminato, seppure decadente, come quello persiano; probabilmente, senza un padre come Filippo, avrebbe trascorso la sua esistenza a cercare di imporre il proprio predominio sulla penisola ellenica, ma con risultati meno brillanti del genitore: di lui, infatti, aveva la capacità di usare la forza ma non quella di ricorrere alla diplomazia quando ve n'era bisogno. Ed entrambe erano necessarie per trovare il bandolo della matassa in un ginepraio come quello ellenico.

Controstoria. Fu però proprio Alessandro a suggellare la gloria dell'"altra Grecia". Allo storico rimane la curiosità di sapere come sarebbero andate le cose se fosse stato invece Filippo II il protagonista della più grande campagna di conquista nella storia dell'umanità, quella che avrebbe costituito, se pur per brevissimo tempo, un vastissimo impero che andava dalla penisola ellenica fino al Pakistan. Probabilmente Filippo avrebbe prevalso sul declinante Impero persiano con la stessa (relativa) facilità del figlio, e adesso parleremmo di Filippo Magno; ma altrettanto probabilmente si sarebbe fermato prima di Alessandro, accontentandosi dell'Impero achemenide -che già racchiudeva, e scusate se è poco, l'Asia Minore, l'Iraq, l'Iran, l'Afghanistan e l'Egitto -senza andare a cercar gloria (e guai) oltre l'Indo.

• Gli ordini sono chiari: Marcello vuole avere a tutti i costi l'uomo più illustre della città, quel geniale Archimede che tanto lo ha fatto penare usandogli contro diaboliche macchine da guerra. E lo vuole vivo. A trovare l'anziano matematico è un soldato, che gli intima di seguirlo. Secondo la leggenda, lo studioso è chino a riflettere sulle figure geometriche che ha tracciato nella polvere: "Noli, obsecro, istum disturbare", dice ("Non rovinare, ti prego, questo disegno"). Il soldato, invece, perde la pazienza e, contravvenendo agli ordini ricevuti, lo trafigge con la spada. Finisce così, tragicamente, la vita di Archimede di Siracusa, il più grande e "moderno" matematico dell'antichità, i cui studi sulle spirali, sugli specchi ustori e sulle leve -per fare solo qualche esempio -sono ancora oggi fonte di ispirazione per gli scienziati e gli ingegneri di tutto il mondo.

Figlio d'arte. Se le opere del genio di Siracusa sono immortali, le vicende della sua vita so-no invece quasi del tutto avvolte nel mistero, tanto che l'episodio su cui si hanno più notizie è proprio la morte. Su di essa, però, gli storici continuano a indagare: secondo una tesi recente, non fu causata dall'eccessivo zelo di un soldato, ma il frutto di un calcolo politico. E per capirne il motivo, occorre ripercorrere dal principio la vita del genio di Siracusa. Come racconta egli stesso nel suo libro Arenario, in base alla ricostruzione del filologo tedesco Friedrich Blass, Archimede era figlio d'arte: nacque nel 287 a.C. a Siracusa da un astronomo di nome Fidia. Visse quindi nel secolo di maggiore splendore dell'ellenismo, l'epoca iniziata nel 323 a.C. con la morte di Alessandro Magno e terminata con la Battaglia di Azio del 31 a.C., quando Ottaviano Augusto sconfisse Antonio e Cleo patra inglobando l'Egitto, l'ultimo Stato erede del grande impero di lingua greca creato dal condottiero macedone. Siracusa, fondata nel 734 a.C. da coloni di Corinto, era allora una monarchia: al tempo di Archimede era governata da Gerone II, salito al trono nel 270 a.C., prima da solo e poi, dal 240, in compagnia del figlio Gelone II.

«Della vita dello scienziato, che Plutarco ci dice In trasferta. Fu proprio in Egitto che Archimede fu proiettato alla ribalta della scena intellettuale del Mediterraneo, direttamente dal privilegiato palcoscenico del Museion (l'importante centro di ricerca scientifica di Alessandria) e della Biblioteca fondata nel III secolo a.C. «Verosimilmente lo scienziato andò ad Alessandria per motivi di studio», dice Braccesi. «Ma forse vi ci si era trasferito in seguito a un raffreddamento dei rapporti con Gerone, descritto dalle fonti come un despota».

Di certo il viaggio fu proficuo. Tutte le opere che gli sono attribuite -dagli studi su cerchio, spirali e parabole, a quelle sulle sfere e sui poliedri -Archimede le produsse, infatti, al suo rientro in patria. Qui visse gli ultimi trent'anni della sua vita, mantenendosi in contatto con gli amici conosciuti in Egitto, come il geografo Eratostene di Cirene e gli allievi del matematico Conone di Samo, la COLPO DI GENIO Sopra, Archimede mentre fa il bagno, in una xilografia del XVI secolo. Fu così che, secondo la leggenda, scoprì il celebre principio che porta il suo nome.

A quarant'anni andò ad ALESSANDRIA d'Egitto: lì entrò in contatto cui morte prematura Archimede rimpianse in diversi scritti. Vite miracolosa! Siracusa, anche se non poteva rivaleggiare con Alessandria, l'unico luogo dove Archimede potesse trovare interlocutori alla sua altezza, era una delle città più ricche, colte e popolose del Mediterraneo, al pari di Atene e Cartagine. Quando Gelone II affiancò Gerone II al potere, la polis siciliana conobbe una prosperità eccezionale, destinata a durare ininterrottamente fino al 212 a.C. E il fiore all'occhiello della sua raffinata corte fu proprio Archimede, che si prodigò per la gloria dei due tiranni e per il bene della comunità.

Secondo Ateneo, scrittore greco vissuto tra II e III secolo d.C., il suo primo geniale contributo fu l'ideazione di una vite per pompare l'acqua necessaria all'irrigazione dei campi, spostandola dal basso verso l'alto: Archimede la realizzò perfezionando un meccanismo che aveva visto in Egitto. L'invenzione affascinò, tra gli altri, anche Galileo Galilei, che la definì "miracolosa" nel suo libro Le mecaniche (1599). E trova ancora oggi applicazioni nella tecnologia moderna.

Sollevare la supernave. Altro fiore all'occhiello della produzione scientifica di Archimede è il principio della leva, alla base del funzionamento degli apriscatole e dei piedi di porco. Schematicamente, una leva è composta da un "fulcro" (il punto d'appoggio) che la divide in due "bracci". E il principio afferma che, quanto più lungo è il braccio della leva su cui si esercita una forza, tanta più forza si riesce a esercitare sull'altro. Archimede dimostrò pubblicamente il principio con una stupefacente esibizione: attraverso una leva composta, riuscì tra gli applausi a innalzare una nave carica con la sola forza delle sue braccia. Stando al racconto di Ateneo, si sarebbe trattato della Siracusia, una delle imbarcazioni più imponenti dell'antichità (era lunga 55 metri) costruita, per volere di Gerone, da Archia di Corinto con la supervisione dello stesso Archimede.

Una parte importante dell'attività dello scienziato fu comunque dedicata al diletto dei regnanti. L'esempio più spettacolare fu un planetarium, una sfera celeste che riproduceva i movimenti di Sole, Luna e pianeti con tanta esattezza da mostrare perfino le eclissi. Un altro esempio è l'aneddoto della corona d'oro, in seguito al quale lo scienziato arrivò a formulare il celebre principio passato alla Storia con il suo nome (v. riquadro qui sopra). Q uando un avido tiranno chiede aiuto a un bizzarro genio, il truffatore è presto smascherato: lo dimostra una storia raccontata da Vitruvio, architetto e scrittore del I secolo a.C. Sospetti. Gerone II, volendo dedicare una corona agli dèi, consegnò a un artigiano l'oro per realizzarla. A lavoro finito, nonostante il peso fosse quello atteso, il sovrano intuì che qualcosa non andava. E, per vederci chiaro, si rivolse ad Archimede, che cominciò a pensarci su. Un giorno, mentre faceva un bagno, lo scienziato notò che quanto più si immergeva, tanto più il livello dell'acqua si alzava: fu questa osservazione a fornirgli la soluzione. Per l'entusiasmo, Archimede si precipitò nudo in strada gridando: "Eureka!" ("Ho trovato!"). E subito si mise all'opera: preparò due masse dello stesso peso della corona, una d'argento e l'altra d'oro puro, riempì un bacile fino all'orlo e vi immerse, prima l'uno poi l'altro, i due modelli. Nel secondo caso osservò che l'acqua che traboccava era tanto minore quanto l'oro era inferiore in volume all'argento, essendo quest'ultimo meno denso. Ripeté l'esperimento con la corona, constatando che traboccava più acqua di quanto succedesse con l'identico peso d'oro, ma meno rispetto a quello d'argento. La corona, dunque, era costituita da una lega: l'artigiano aveva sostituito un po' dell'oro con argento. E fu smascherato. Principio. Da questo episodio deriverebbe dunque il Principio di Archimede, in base al quale le barche galleggiano, che nella sua forma moderna dice: "Un oggetto immerso in un fluido riceve una spinta verso l'alto pari al peso del volume del fluido spostato". Amico del tiranno. Non si sa molto, in realtà, dei rapporti tra Archimede e Gerone II, ma l'amicizia che lo legò a Gelone II appare indiscutibile. Lo testimonia il fatto che proprio a lui Archimede dedicò l'Arenario, un'opera sullo studio dei grandi numeri e in particolare sul calcolo della quantità di granelli di sabbia necessari a riempire l'Universo (che secondo le conoscenze dell'epoca era la sfera delle stelle fisse). «La mancata citazione di Gerone in quest'opera non può che essere voluta», argomenta Braccesi, «e denuncia una precisa scelta di campo tra due sovrani che non coltivavano gli stessi orientamenti politici: mentre Gerone era un fautore dell'alleanza con Roma, Gelone era infatti palesemente filo-punico». La sua politica matrimoniale, in effetti, sembra un manifesto di orgoglio ellenistico: nel 232 sposò Nereide, principessa figlia di Pirro, acerrimo nemico di Roma e discendente di Olimpiade, la madre di Alessandro Magno. Secondo Braccesi, quindi, Archimede era più vicino alle posizioni di Gelone, schierato contro Roma, che a quelle di Gerone.

Mani metalliche. Già allora, infatti, doveva essere evidente la minaccia rappresentata dai "barbari" Romani, che attesero il 218 per sfidare di nuo-Alla sua morte i SIRACUSANI lo scordarono e PERSONAGGIO SCOMODO Archimede in un'altra incisione ottocentesca.

Il matematico, legato al tiranno siracusano Gelone II, fu forse ucciso perché ostile a Roma.

ARMI TERRIBILI

L'assedio di Siracusa, con le armi ideate da Archimede contro i Romani. Sotto, le "mani di ferro" usate per ribaltare le navi nemiche. A destra, nel cerchio, gli specchi ustori. GETTY IMAGES (3) dopo più di un secolo la tomba fu ritrovata tra i ROVI da Cicerone vo i Cartaginesi, uomini di stirpe fenicia ma di riconosciuta cultura greca. Nel bel mezzo della Seconda guerra punica fu il quindicenne Geronimo, morto il padre Gelone nel 216 e succeduto al nonno Gerone nel 215, a infrangere i legami con Roma, per scegliere l'alleanza con Annibale e provocare nel 212, di conseguenza, l'intervento del console Marcello. Plutarco, la cui Vita di Marcello rappresenta la nostra fonte principale, sostiene che, durante l'assedio, alla forza bruta di Roma la raffinata Siracusa non poté che opporre il genio di un vecchio. Archimede si dedicò infatti alla realizzazione di macchine belliche, tra cui la manus ferrea, un artiglio meccanico in grado di ribaltare le imbarcazioni nemiche, e gli specchi ustori (v. disegno in alto a sinistra), lamiere metalliche concave che riflettevano la luce solare concentrandola sui nemici. Galeno, il celebre medico del III secolo d.C., racconta che lo scienziato riuscì con questo sistema a incendiare numerose triremi romane. Ma la supremazia di Roma era troppo schiacciante. Plutarco narra che dopo la caduta della città Archimede sarebbe morto da incosciente, supplicando un ignorante soldato di non rovinare il suo disegno senza rendersi conto che così facendo lo avrebbe esasperato, condannandosi a morte. Ma le cose andarono davvero così? Secondo Braccesi, la realtà è un'altra: «Nell'ora della resa dei conti tra Roma e Cartagine fu lo stesso Archimede a consigliare al giovane e inesperto Geronimo, di cui era stato maestro, di ribaltare le alleanze, schierandosi con Annibale. Marcello, che non poteva ignorarlo, ne ordinò così la morte, affidandosi al sicario di turno».

Dimenticato. All'eliminazione fisica, seguì la rimozione dalla memoria: meno di un secolo e mezzo bastò ai siracusani per dimenticarsi di Archimede, la cui tomba finì abbandonata fuori della città. A identificarla, nel 75 a.C., fu Cicerone, seguendo le indicazioni contenute in un documento dove si diceva che sulla sua sommità era scolpita una sfera, inscritta in un cilindro. Il celebre oratore nato ad Arpino, nel Frusinate, non riuscì a trattenere il disappunto: "Così la nobilissima cittadinanza della Grecia, una Chi era: nipote di Ciro il Grande, figlio di Dario I, salì al trono alla morte del padre. Descritto nelle fonti greche come un esaltato, fu ossessionato dalla conquista della Grecia. Il nome con il quale è noto è la forma greca di Khshahyar-shan, ovvero "re dei re" o "gran re". Realizzò quella che viene riconosciuta come la più grande operazione anfibia dell'antichità, trasportando in Europa nel 480 a.C. un esercito di quasi 200mila uomini; fece realizzare allo scopo un ponte di barche sull'Ellesponto (la cui preparazione prese 4 anni) e assicurò l'approvvigionamento delle armate grazie all'appoggio della flotta. Che cosa ha fatto: i suoi uomini penetrarono in Grecia Centrale sfondando alle Termopili ed espugnando Atene; ma la sua marina fu sconfitta a Salamina sotto i suoi occhi: "Tutti per timore di Serse si prodigavano e ognuno credeva che il re lo guardasse", scrive Erodoto circa gli sforzi compiuti dai suoi uomini nella battaglia. La conquista si limitò perciò a un'occupazione parziale del territorio ellenico, il cui perfezionamento Serse affidò al solo esercito, per poi tornarsene in Asia. A Platea, nel 479 a.C., le sue truppe subirono dalla lega ellenica una pesante sconfitta, che sancì il fallimento della spedizione. Poco si sa di lui dopo di allora e fino al suo assassinio, avvenuto a Persepoli in seguito a una congiura. Chi era: generale persiano, fu il satrapo al centro degli intrighi tra Grecia e Persia negli anni a cavallo tra V e IV secolo. Governò la Lidia e la Caria, e in tale ruolo fu abile nell'influire sulla politica greca. Che cosa ha fatto: durante la Guerra del Peloponneso tra Sparta e Atene, Tissaferne si legò inizialmente alla seconda, trovandosi però in contrasto con la politica del Gran re Dario II, che nel 408 gli tolse la Lidia a favore del figlio Ciro il Giovane. Il satrapo riuscì per qualche tempo a mettere il rivale in cattiva luce presso il nuovo re, Artaserse II, fratello di Ciro, ma il favore di cui godeva il principe presso la corte lo costrinse a rinunciare anche alla Caria. Tuttavia quando Ciro, ingaggiati 10 mila mercenari greci, marciò contro il fratello provocando la guerra civile, il re restituì fiducia a Tissaferne, affidandogli l'ala sinistra nella decisiva Battaglia di Cunassa del 401 a.C. La vittoria arrise alle truppe lealiste, Ciro fu tra i morti (Tissaferne si vantò di averlo ucciso egli stesso), ma i mercenari greci sopravvissero. Il satrapo tentò di neutralizzarli invitando a un abboccamento i loro capi, che massacrò; ma i Greci riuscirono a raggiungere in gran parte salvi il Mar Nero. Tissaferne, tornato alla guida delle sue satrapie, riprese la guerra contro Sparta, ma fu sconfitto. Accusato di incompetenza e tradimento, fu imprigionato e decapitato dai Persiani. Chi era: imperatore persiano di un ramo cadetto della dinastia achemenide. Le sue conquiste appaiono piuttosto magre rispetto a quelle dei predecessori Ciro il Grande e Cambise. Succeduto a quest'ultimo nel 522 a.C. senza esserne il figlio, si consegnò alla Storia come grande amministratore. Divise i territori persiani in 20 satrapie (province) e avviò un efficiente servizio di posta veloce a cavallo, favorendo le comunicazioni. Iniziò i lavori per la splendida Persepoli, che divenne una delle cinque capitali del regno. Che cosa ha fatto: Dario non rinunciò ad ampliare i confini del regno. Estese il controllo agli Stati greci più orientali, come Bisanzio, Chio, Lesbo, Samo e fu il primo re persiano a mettere piede in Europa, con la costruzione di un ponte di barche sul Bosforo. Il suo obiettivo erano le tribù nomadi della Scizia Occidentale, che non riuscì a domare; tuttavia, la spedizione gli valse la sottomissione della Tracia e il riconoscimento della sovranità in Macedonia. L'Impero persiano raggiunse la massima espansione, dall'attuale Pakistan alla penisola balcanica, ma nel 499 a.C. gli Stati greci dell'Asia Minore gli si ribellarono. Dario ordinò una rappresaglia contro le città che li avevano sostenuti, Atene ed Eretria. La spedizione si risolse nella sconfitta di Maratona nel 490 a.C. L'imperatore morì 4 anni dopo. Chi era: politico e generale, potenziò la flotta ateniese sia a fini strategico-militari sia per risolvere la crisi sociale, offrendo ai nullatenenti un'occupazione sui banchi delle nuove triremi. Fece armare le navi a spese dei cittadini ricchi e, costruendosi la fama di "uomo dei poveri", si garantì il loro appoggio elettorale. La spregiudicatezza con la quale valutò l'eventuale alleanza con i nemici persiani gli costò la condanna alla pena capitale, la fuga e la morte in esilio. Che cosa ha fatto: fu l'artefice della schiacciante vittoria di Salamina (480 a.C.); da vero stratega, anziché dare battaglia in mare aperto, attirò le navi persiane all'interno di uno stretto dove si trovarono imbottigliate e incapaci di manovrare. Rese Atene la maggiore potenza navale dell'epoca facendo approntare navi da guerra di nuova concezione che le assicurarono il dominio sul mare. Fortificò la città e fece del Pireo il suo porto militare. La sua eredità: quando la flotta ellenica assunse il controllo dell'Egeo, ebbero straordinario impulso gli scambi commerciali lungo le rotte marittime; inoltre il numero e l'importanza dei marinai nella difesa delle polis alterò per la prima volta gli equilibri di classe nella formazione del potere politico. Chi era: fu uno storico ateniese, formatosi nelle scuole dei più celebri sofisti del tempo. Ebbe, da stratega, un ruolo di protagonista in importanti operazioni militari e fu testimone oculare della guerra che avrebbe descritto nelle sue opere. Conservatore moderato, auspicò una combinazione tra democrazia e autorità statale. Che cosa ha fatto: dedicò la vita alla Guerra del Peloponneso, accurato resoconto cronologico del conflitto fra Atene e Sparta, considerato il primo esempio di imparziale analisi storica. Teorizzò che il passato, non indagabile per mancanza di fonti certe, si possa arguire solo per indizi. Ritenne la Storia una conseguenza delle azioni (e delle risorse) degli uomini, escludendo l'intervento degli dèi. Evitando ogni giudizio morale, ebbe una visione razionale e disincantata della realtà umana e l'unico fattore esterno che accettò fu il destino. Concentrò la sua analisi sugli avvenimenti contemporanei mirando al fine pratico di ricavare dalla Storia insegnamenti utili alla vita politica per prevedere gli sviluppi del futuro. La sua eredità: stabilì i criteri ai quali uno storico doveva attenersi. Per il suo approccio oggettivo fu considerato il padre della storiografia moderna. Influenzò tutti gli scrittori posteriori. Dissero di lui: per Cicerone fu "uno storico degno di fede". Chi era: medico, conferì per la prima volta un carattere autonomo e specifico alla medicina, trasformandola da pratica empirica in tecnica fondata su un metodo "scientifico". Fu il primo a volgere l'attenzione al malato più che alla malattia e ad auspicare il dialogo tra medico e paziente. La fama gli derivò anche dall'attività didattica: fondò una vera e propria scuola e, poiché riteneva che il medico dovesse possedere una conoscenza di tipo universale, scrisse una serie di trattati clinici raccolti nel Corpus hippocraticum. Che cosa ha fatto: sostenne l'innovativo principio che salute e malattia dipendono da condizioni umane e non dall'intervento degli dèi, capì l'importanza di osservare i sintomi e introdusse il concetto di prognosi. Elaborò la teoria umorale secondo cui a generare le malattie sono squilibri tra i fluidi organici all'interno del corpo. Le sue terapie furono diete, purghe, salassi e infusi vegetali. Intorno al 430 a.C. contribuì a debellare la peste ad Atene. La sua eredità: riconosciuto indiscusso padre della medicina, ebbe enorme influenza per secoli, non solo in ambito teorico ma anche morale. A lui è attribuita la formula che tuttora codifica l'etica dei medici, il giuramento di Ippocrate. Dissero di lui: Dante lo definì "sommo" e creato dalla natura "per gli uomini, gli esseri viventi che essa ha più cari". Chi era: scultore e architetto, massimo esponente dello stile classico. Mostrò un'impronta particolarmente dinamica e plastica, che gli consentì di distinguersi in tutte le tecniche della scultura. In particolare, si deve a lui l'uso della tecnica del "panneggio bagnato". Che cosa ha fatto: la sua opera più grandiosa fu la sistemazione dell'Acropoli. Ideò i propilei e il Partenone, concependone tutta la decorazione con una ricchezza che non si riscontra in nessun altro tempio greco, e scolpì la monumentale statua di avorio e oro della dea Atena. A Olimpia realizzò la statua più famosa dell'antichità, Giove olimpio (o gigante), una delle 7 meraviglie del mondo. La sua opera incarnava perfezione ed equilibrio ed esprimeva compiutamente lo spirito della Grecia classica, la ricerca dell'ideale di eterna bellezza. La sua eredità: la sua statuaria fu copiatissima, ed è grazie a queste riproduzioni di età romana che oggi conosciamo la sua opera che non ci è pervenuta in originale. Influenzò tutta la scultura greca della seconda metà del V secolo e quella che da allora si è ispirata al classicismo attico, così come Prassitele, il grande scultore del IV secolo a.C. Dissero di lui: Plinio il Vecchio scrisse che Fidia "è lo scultore più famoso fra tutti i popoli a cui giunge la fama di Giove olimpio". Chi era: statista ateniese tra i più carismatici, detenne il potere per oltre trent'anni amministrando saggiamente sia le finanze sia i consensi. Con lui Atene toccò l'apice della sua evoluzione politica, militare, economica e artistica, ma al contempo si alienò la fiducia delle altre città-Stato, entrò in guerra con Sparta e vide l'inizio della propria decadenza. Che cosa ha fatto: pose l'architrave del meccanismo democratico di Atene, introducendo il salario per coloro che si dedicavano ai pubblici uffici e ammettendo le classi inferiori all'effettivo governo della polis. In politica estera perseguì un aggressivo imperialismo. Dopo una disastrosa spedizione contro la Persia, firmò con questa una pace che mise fine ai suoi sogni di espansione in Oriente, rese inutile la Lega di Delo, costituita per combattere i Persiani, e porse il fianco al desiderio di rivalsa di Sparta. Si assicurò le risorse degli alleati per finanziare grandiose opere ad Atene, facendone la città più bella della Grecia. La sua eredità: la sua politica di progresso civile e l'incoraggiamento della cultura fecero fiorire la vita intellettuale e artistica di Atene, tanto che quel periodo è ricordato come l'Età di Pericle. Dissero di lui: secondo Plutarco "si dedicò al popolo, preferendo le cose dei molti e poveri a quelle dei ricchi e pochi, contro la sua natura che era per nulla democratica". Chi era: filosofo, fu allievo di Socrate del quale approfondì le riflessioni. Ad Atene fondò la celeberrima Accademia dove insegnò usando il metodo dialettico del dibattito. Che cosa ha fatto: elaborò la "dottrina delle idee", secondo la quale l'idea è la "base" universale e assoluta che fa esistere il mondo e consente di pensarlo; a essa si contrappongono i fenomeni sensibili, che sono un'imitazione imperfetta e transitoria. Solo gli dèi possiedono la conoscenza, mentre l'uomo può cercare la verità attraverso la "filo-sofia", l'amore per il sapere. Affrontò la tematica religiosa (dove inserì l'"amor platonico" che cerca nell'amante i segni della moralità più elevata, disdegnando l'apparenza) e quella dell'organizzazione sociale (in Repubblica sostenne la dipendenza tra condotta individuale e politica Annibale cartaginese, Scipione romano (soprannominato, a un certo punto della sua vita, "l'Africano), entrambi cultori dell'antica Grecia, andarono in rovina per colpa di una guerra che li vide rivali: Annibale perché fu sconfitto, Scipione perché vinse troppo. Ma non fu solo questo ad accomunarli. Entrambi persero infatti in battaglia i propri cari: Scipione il padre e lo zio, ammazzati in Spagna, Annibale due fratelli, uno caduto in Italia, l'altro morto durante la traversata per tornare a Cartagine, a causa delle ferite subite. Infine, li unì la Spagna che giocò un ruolo chiave nel destino di entrambi: possederla era fondamentale per vincere. Dopo averla conquistata, Annibale mosse le sue truppe contro Roma, passando per l'Italia nella famosa traversata delle Alpi con gli elefanti; quando invece fu Scipione a impadronirsi dell'Iberia, portò poi la guerra sul suolo africano. I due si scontrarono direttamente solo nella battaglia finale, il 202 a.C. a Zama (in Libia). Prima di allora cercarono solo di trasferire il conflitto nei reciproci territori.

Avversari alla pari. Iniziamente il ruolo di Publio Cornelio Scipione rimase defilato, mentre Annibale (il suo nome significava "grazia di Ba'al", divi- nità fenicia) fu costretto dal padre Amilcare a giurare odio eterno ai Romani durante le operazioni militari in Spagna. Solo quando nel 219 a.C. Roma dichiarò guerra a Cartagine, il destino dei due -nessuno dei quali era ancora generale -fu segnato: l'uno doveva necessariamente avere la meglio sull'altro. E così avvenne, salvo morire entrambi, quasi per uno scherzo del destino, nello stesso anno (183 a.C.).

L'AFRICANO A CARTAGINE

Annibale e Scipione furono tanto arditi quanto innovatori. In un'epoca in cui i combattimenti si risolvevano in scontri frontali, loro adottarono nuove strategie con avvolgimenti e allungamenti del fronte e attacchi a sorpresa alle spalle. Di giorno combattevano e di notte si spostavano. Ma i due erano anche attenti osservatori e studiavano i grandi condottieri del passato per trarne ispirazione. Annibale, raffinato grecista, per esempio mise in atto, nella battaglia di Canne (in Puglia), le tattiche belliche che AVANTI TUTTA! Annibale varca le Alpi (218 a.C.) con gli elefanti per impressionare il nemico.

G. RAVA

Alessandro Magno aveva usato contro i persiani: la cavalleria che attaccava ai lati e le riserve utilizzate per riempire i varchi lasciati aperti. In più fece sua la straordinaria capacità di condurre alla perfezione manovre di aggiramento. Scipione però non fu da meno e osservata la tattica del nemico la apprese e gliela rivolse contro alla prima occasione: la guerra in Spagna. L'esercito romano si trovava in inferiorità numerica, ma grazie alle tattiche alla "greca" riuscì a vincere. In questo gioco di specchi in cui Scipione imitò Annibale, che a sua volta imitò Alessandro Magno, ebbero la meglio i Romani. Il risultato fu infatti che in meno di quattro anni i Cartaginesi furono cacciati dalla Spagna che da quel momento in poi diverrà provincia dell'Urbe.

I contatti giusti. Ma poiché le guerre si vincono anche con la diplomazia, e le alleanze hanno lo stesso peso di un buon esercito, entrambi si improv- L'epilogo. Nonostante l'agilità di manovra che Annibale dimostrò in questa difficile situazione, Scipione ebbe la meglio, favorito dalla sua astuzia. I Romani e i loro alleati presero infatti la cavalleria cartaginese alle spalle e riuscirono a sferrare il colpo finale. La sconfitta fu sonora: Annibale, che fino a quel momento non aveva mai perso una battaglia, rientrò a Cartagine con il proposito di rimettere in sesto le finanze della città. Scipione invece, che da quel momento divenne l'Africano, dopo il trionfale ingresso a Roma nel 201, diventò l'uomo politico più autorevole dell'Urbe e fu eletto console.

Eppure entrambi, uno da sconfitto e l'altro da trionfatore, furono costretti ad abbandonare il potere. Le loro abilità politiche scatenarono le gelosie degli avversari. Così se Annibale lasciò Cartagine e si rifugiò a Efeso, a Scipione fu impedito di partecipare ai combattimenti contro Antioco, re dei Siriani (presso il quale si era rifugiato Annibale): i suoi avversari politici non volevano che Scipione sottomettesse anche l'Asia, dopo l'Africa. Nel 183, Annibale si avvelenò a Libyssa (Turchia) per non cadere in mano ai Romani mentre l'Africano morì a Literno (Napoli) dove si era ritirato. Avvenne così che i due nemici furono accomunati anche nel giorno finale dalla stessa sorte: morire fuori dalla loro patria. •

Alessandro Marzo Magno

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Straniera. Sul carattere e le intenzioni di questa donna gli storici antichi e moderni sono divisi. Concordano però nel riconoscerle intelligenza, cultura e ambizione da vendere. Caratteristiche che la portarono a soli 18 anni sul trono e la aiutarono CLEOPATRA -69 A.C. a tenerselo stretto per oltre un ventennio. Più di un mito cinematografico, di un'eroina da romanzo rosa o di una civettuola mangiatrice di uomini, l'ultima dei faraoni era una donna dai mille volti.

Che, intanto, non era egizia. Nata nel 69 a.C. nei lussuosi appartamenti di una delle concubine del faraone Tolomeo XII, Cleopatra era macedone, come tutta la sua famiglia. Discendeva infatti da uno dei diadochi, i generali di Alessandro Magno che alla morte del condottiero greco si erano spartiti il suo grande regno.

Fu la settima della dinastia cui venne affibbiato il nome di Cleopatra (che in greco significa "Gloria del padre") e forse fu veramente l'unica gloria che quel faraone, soprannominato dal popolo l'Aulete (cioè il flautista), poté vantare.

Tolomeo XII, figlio illegittimo di Tolomeo X, non aveva mai mostrato una grande propensione per il governo. Preferiva piuttosto i banchetti, durante i quali si ubriacava e si esibiva appunto come suonatore di flauto.

Favorevoli alla parità dei diritti, i Tolomei adottarono l'antica legge dei faraoni: anche le donne di famiglia potevano salire al trono, ma solo come mogli dei loro fratelli. Cleopatra fece buon viso a cattivo gioco. Quando il padre morì, nel 51 a.C., sposò il fratellino di 10 anni (Tolomeo XIII) e iniziò a governare l'Egitto.

74 Lo fece con capacità, lungimiranza e totale autonomia, pur legandosi ai personaggi politici più influenti del tempo, e si comportò da mecenate accogliendo alla sua corte medici e scienziati.

Bruttina ma colta. Le mancava però la folgorante bellezza che tanto avrebbero celebrato i posteri (nel Rinascimento la immaginarono persino bionda come una svedese).

Plutarco, che fra gli storici antichi è la fonte più attendibile su Cleopatra, non ne elogia l'aspetto, ma l'intelligenza e la simpatia. Caratteristiche che di solito vengono attribuite a una donna per sopperire ad altre mancanze. Certo non le donava l'acconciatura con cui si fece ritrarre sulle monete, con i capelli (bruni) raccolti in una crocchia che metteva in evidenza profilo marcato e naso aquilino.

In compenso, quanto a cultura non aveva rivali. La regina era cresciuta a pane e poemi, tragedie e commedie greche. Aveva appreso l'arte della re-torica e se la cavava anche con la geometria, l'aritmetica, l'astronomia e la medicina. Non solo aveva una preparazione da far invidia ai letterati, ma sapeva anche dipingere, suonare la lira a sette corde, cantare e cavalcare. Cleopatra aveva ricevuto un'istruzione di tipo greco.

Sempre secondo Plutarco conosceva almeno otto lingue e sicuramente parlava il greco, il copto e il latino. Per sua fortuna: come, altrimenti, avrebbe potuto incantare con i suoi discorsi i due uomini chiave della sua vita? Per quel che ne sappiamo, Cleopatra non ebbe mai altre relazioni oltre a quelle con i due condottieri romani Giulio Cesare e Marco Antonio. Che fosse amore sincero o meno, di sicuro la scaltra regina approfittò della loro disponibilità, tra le lenzuola e in politica, per salvaguardare gli interessi dell'Egitto.

Nell'ANTICHITÀ la ritrassero anche con VESTI DA UOMO, segno ARIE DA SNOB Cleopatra sull'isola di File, lungo il Nilo, in un dipinto del 1896. Con Antonio, fondò un esclusivo "Club dei viventi inimitabili". ESTETISTA Sotto, una scultura che ritrae la regina d'Egitto. In un saggio di cosmetica Cleopatra illustrò i rimedi contro la caduta dei capelli.

A. DE LUCA DEA/SCALA di POTERE. Così qualcuno ha creduto che fosse un TRAVESTITO P iù di 1.400 anni prima di Cleopatra un'altra donna governò l'Egitto da sola. E senza coreggenze imposte a fianco di mariti o amanti: la regina Hatshepsut fu tra le prime donne della Storia con un potere assoluto. Immortale. Soffiò il trono al figliastro, Thutmosi III, che alla morte di lei, dopo aver aspettato vent'anni per governare, ricambiò la cortesia cancellando il nome della matrigna da tutti i monumenti ufficiali. Ebbe per amante un architetto, che le costruì una tomba spettacolare, ancora oggi visitata da milioni di turisti nella Valle dei Re, a Tebe. Barbuta. Per 22 anni Hatshepsut rese prospero l'Egitto, riducendo al minimo le campagne militari e organizzando imponenti spedizioni commerciali. Come quella alla terra di Punt (l'odierna Somalia ed Eritrea) da dove importò incenso, mirra, ebano, avorio e animali esotici. Se la cavò così bene nei panni di uomo, che la sua immagine, all'inizio scolpita con tratti femminili, fu parificata a quella dei faraoni maschi. Con tanto di barba posticcia come attributo regale.

Il precedente di Hatshepsut

A. DE LUCA ra orientale dell'Egitto, era pronta a riconquistare il regno con la forza. Ma non servì combattere perché Cesare, forte delle sue legioni, risolse la lite familiare e convocò Cleopatra ad Alessandria, a palazzo.

Lei si presentò avvolta in un tappeto e gli si sdraiò ai piedi, vestita semplicemente e senza tanti fronzoli. Fu un colpo di fulmine? Risposte sicure, dopo più di 2mila anni, evidentemente non si possono dare. Certo è che gli antichi non erano troppo diversi da noi: così come oggi ci sono ragazze che corrono dietro a uomini ricchi e potenti solo per raggiungere uno scopo o una posizione, Cleopatra può aver fatto più o meno lo stesso mossa da un evidente interesse politico. Cesare aveva molti più anni (52 lui, 21 lei) ma anche la fama e il fascino di un George Clooney d'altri tempi: la giovane regina gli cadde tra le braccia e lui non se la fece scappare. Poi, per compiacerla, le riconsegnò il trono e si stabilì a palazzo. Ma non vissero felici e contenti. Gli alessandrini, sobillati dal faraone-fratello spodestato, presero le armi contro i legionari stanziati in città. Nella concitazione della battaglia, oltre ad avere la meglio sull'inesperto Tolomeo XIII, pare che Cesare abbia dato fuoco alla famosa biblioteca mandando in fumo 40mila rotoli di papiro.

Luna di miele. Cleopatra non poteva lamentarsi. L'odiata sorella Arsinoe IV in prigione, il marito-fratello-rivale morto, l'amante padrone dell'Egitto: per festeggiare si concesse una crociera sul Nilo in compagnia di Cesare, forse una fuga d'amore, certamente un modo per presentarsi ai sudditi in veste di sovrana. Nove mesi dopo Cleopatra diventò mamma per la prima volta e l'anno successivo accompagnò il primogenito, Tolomeo Cesare, detto Cesarione, a Roma da suo padre. Che fosse figlio di Cesare ci sono pochi dubbi: gli storici e le sculture dell'epoca li ritraggono rassomiglianti come due gocce d'acqua. I tratti del viso, il naso, persino le rughe: il ragazzo, crescendo, sarebbe diventato davvero un piccolo Cesare. Ma i Romani non si lasciarono intenerire. L'accoglienza per la signora d'Egitto fu ostile e le illazioni sulle mire sue e dell'amante si sprecarono. Non solo le matrone parteggiavano apertamente per la vera first lady, la moglie di Cesare Calpurnia, ma l'impressione diffusa era che il condottiero volesse diventare re di Roma facendo regina quella straniera.

Non potremo mai sapere se si trattasse solo di pettegolezzi: Cesare infatti venne ucciso due anni dopo (44 a.C.). Cleopatra si affrettò a rientrare in Egitto, fece uccidere il secondo fratello e mise sul trono, accanto a sé, Cesarione. A Roma intanto si scatenò una guerra civile tra i sostenitori di Cesare e Al tappeto. Il suo regno era infatti la Svizzera del I secolo a.C.: ricchissimo e strategicamente importante. La regina scelse di percorrere la strada tracciata dal padre, cioè mantenere con i Romani, la superpotenza dell'epoca, un rapporto di collaborazione che lasciasse una certa autonomia al regno dei faraoni. E Giulio Cesare, che il 2 ottobre del 48 a.C. era sbarcato ad Alessandria per risolvere alcune grane politiche, capitò a fagiolo.

Cleopatra ricorse a lui per difendersi dagli intrighi del fratello-sposo che, istigato dai suoi consiglieri, l'aveva costretta a lasciare la capitale. Accampata con un esercito di mercenari sulla frontie-

Il volto della regina Hatshepsut.

A Cleopatra il MATEMATICO Potino dedicò un suo TRATTATO. La REGINA aveva una grande PASSIONE per le scienze quelli dei tirannicidi. La questione fu risolta dal figlio adottivo del defunto, Ottaviano, e dal generale Marco Antonio, che poi, insieme al console Emilio Lepido, si spartirono il controllo dei domini romani. Ma la storia dell'Urbe stava per incrociare di nuovo quel faraone scomodo. Un nuovo amore. Dopo aver vendicato Cesare, nel 41 a.C. l'ex braccio destro del condottiero romano ormeggiò la sua flotta a Tarso (sulla costa dell'attuale Turchia) e convocò Cleopatra: probabilmente lo fece per interesse politico, perché voleva ottenere l'appoggio militare ed economico dell'Egitto, ma non si può escludere che quella di Antonio fosse una scusa per conoscere più da vicino l'orientale che aveva stregato il suo comandante.

Stavolta Cleopatra non arrivò avvolta in un tappeto. Altri tempi, altri mezzi, ben altro stile: la regina giunse su un battello dalla prua dorata e dalle vele purpuree, sdraiata sotto un padiglione ricamato d'oro. Seguì un banchetto al lume di centinaia di fiaccole e la promessa del romano di mettere a morte Arsinoe in cambio dell'appoggio egizio alle manovre contro i Parti (gli abitanti degli attuali Iran e Iraq) che minacciavano i protettorati romani della Giudea.

L'accordo fu siglato in camera da letto. E quando Cleopatra volse la prua verso l'Egitto, Antonio, cotto a puntino, la seguì ad Alessandria. Insieme ebbero tre figli: due gemelli (Cleopatra Selene e Alessandro Elios) e il piccolo Tolomeo Filadelfo. Non è improbabile che Cleopatra si fosse davvero innamorata di lui, ma gli antichi la accusarono di aver circuito il generale con filtri magici.

Latin lover. In realtà Marco Antonio non si era fatto pregare più di tanto: era un bel pezzo d'uomo, un imponente soldato 42enne, fisico curato, risata contagiosa. Forse era un po' rustico, ma dalla sua aveva la tempra, l'aspetto virile e un debole per il gentil sesso.

Si racconta per esempio che avendo sentito parlare della bellezza di una figlia del re della Giudea, Erode, avesse chiesto un ritratto della ragazza, scatenando le ire di Cleopatra. La regina infatti non era immune dalla gelosia e sicuramente non la prese bene quando, tornato in Italia, Antonio sposò la sorella di Ottaviano, Ottavia, per sancire un nuovo accordo per la spartizione dei domini romani: Ottaviano si prese l'Occidente e Antonio l'Oriente. Così, mentre la moglie era incinta, ebbe la scusa per tornare da Cleopatra. Lei stavolta non perse tempo e lo ingabbiò in un matrimonio con rito egizio. Lui in cambio ottenne l'appoggio per una nuova grande spedizione contro la Persia.

Il mistero della tomba

COMPAGNI DI MORTE

Antonio morente condotto da Cleopatra, barricata nel suo mausoleo, in un dipinto tedesco del 1863. Il condottiero si sarebbe ucciso credendola morta. A sinistra, il profilo di Cleopatra "abbellito" su una moneta d'oro.

Ma Ottaviano, che voleva governare da solo, non tollerava l'espandersi della potenza dell'alleato-rivale. Lo scontro (inevitabile) fu preceduto da una rissosa corrispondenza: "Antonio e Cleopatra passano il loro tempo ubriacandosi e facendo orge. Cleopatra è una maga e tiene Antonio in pugno", scriveva Ottaviano. E Antonio, che non era proprio un lord, replicava seccamente: "Perché ti turba tanto che vada a letto con la regina? Non è forse mia moglie [...]? E tu, te la fai solo con Drusilla (la moglie di Ottaviano, ndr)?". Intanto, a Roma, la violenta campagna anti-Cleopatra, che la dipingeva come una strega, arrivò all'apice.

Invece di perdersi in chiacchiere, da donna pratica qual era la regina cominciò a mettere insieme un potente esercito navale e terrestre. Sesto senso femminile: Ottaviano non dichiarò guerra ad Antonio, ma a Cleopatra. Prendersela con lei era più facile, perché era una donna e per di più straniera. Gli stessi motivi per cui, secondo lo storico Dione Cassio (che però visse due secoli dopo i fatti), la regina abbandonò la sua flotta, seguita peraltro da Antonio, nello scontro finale sul mare di Azio, nel 31 a.C.

Con Ottaviano ormai alle porte di Alessandria, Cleopatra ammassò oro, gioielli, profumi e si barricò nel suo mausoleo. Antonio, convinto che fosse morta, si tolse la vita da vero romano, gettandosi sulla propria spada. La regina si disperò e si strappò i capelli, ma, secondo alcuni, quando Ottaviano entrò a palazzo giocò il tutto per tutto e provò a sedurre anche lui. Non riuscendoci, si concesse l'unica libertà che le restava: il suicidio. Aveva 39 anni.

L'ultima leggenda. Certo Cleopatra non si uccise per amore. Probabilmente preferì morire da regina invece che sfilare in catene come una schiava nel trionfo di Ottaviano a Roma. Qualcuno sostiene che si punse con uno spillone intinto in un potente veleno, ma la versione più accreditata dice che si fece mordere al seno da un serpente.

Non poteva però essere l'aspide della tradizione, che si sarebbe fatta portare -narra Plutarco -nascosto in una cesta di fichi. Il vero aspide (Vipera aspis) non vive in Nord Africa; e l'altro candidato killer, il cobra d'Egitto sacro ai faraoni (Naja haje) è troppo grande per stare in una cesta. A finire in pochi attimi Cleopatra sarebbe stato invece l'echide carenato (Echis carinatus), non più lungo di 80 centimetri ma letale. Incancellabile. Con la regina morì anche il regno d'Egitto, ridotto a provincia romana. E, dopo aver eliminato Cesarione, a Ottaviano restò un'unica preoccupazione: far sparire il cadavere di Cleopatra, per cancellarne persino il ricordo. Ma non raggiunse il suo scopo: ancora cinque secoli dopo qualche nostalgico sacerdote egizio costruiva templi in onore di quell'ultimo, discusso, faraone. " T u quoque, Brute, fili mi". "Anche tu, Bruto, figlio mio". E così dicendo Giulio Cesare affondò il suo pugnale nella gola di Bruto. Chissà, forse sarebbe andata così la Storia, se il 15 marzo del 44 a.C., mentre si dirigeva alla Curia, la più famosa vittima di congiura dell'antica Roma avesse letto il papiro che il maestro greco Artemidoro di Cnido gli aveva passato per avvisarlo; o se un mese prima non avesse congedato le guardie ispaniche che gli facevano da scorta; o se, cosa più improbabile per un marito, avesse dato retta a sua moglie Calpurnia che, messa in allarme da un brutto sogno, gli aveva consigliato di non presentarsi ai senatori.

Se solo uno di questi condizionali fosse stato un indicativo, Cesare sarebbe probabilmente sopravvissuto alle Idi di marzo e all'attentato organizzato da una sessantina di esponenti della nobiltà romana, preoccupati, a torto o a ragione, dell'atteggiamento autoritario assunto dal dittatore a vi-ta idolo delle masse. In questo caso, la storia di Roma e dell'impero avrebbe potuto avere svolte inaspettate.

Punto di rottura. Cesare sarebbe partito per la programmata campagna contro i Parti? Avrebbe spostato la capitale dell'impero da Roma ad Alessandria? Cosa avrebbe riservato il futuro al più famoso e amato condottiero romano? «Un punto di rottura con le cerchie senatorie a lui ostili ci sarebbe comunque stato, magari qualche anno più tardi», afferma Luciano Canfora, filologo e storico del mondo antico. «Non è detto che tale rottura avrebbe preso la forma di una congiura, ma non è affatto escluso, dal momento che nella mentalità romana repubblicana la coniuratio diventa legittima se si è persuasi che il potere sia illegittimo».

Ancora più facilmente, però, il tempo avrebbe giocato a favore degli scontenti: Cesare, infatti, non era più un ragazzino. Quando venne ucciso aveva 55 anni, un'età di tutto rispetto per un uo-SCALA I n largo Argentina, a Roma, più di duemila anni fa si trovava la Curia di Pompeo, sede provvisoria del Senato distrutto da un incendio. Qui il 15 marzo del 44 a.C. si consumò la fine di Cesare. Nonostante i presagi avversi e i tentativi di uno schiavo, del maestro Artemidoro di Cnido e dell'aruspice Spurinna di metterlo in guardia, il dictator si lasciò convincere da Decimo Bruto a presentarsi ai senatori. Stando alle fonti, alle 11 Cesare uscì di casa senza scorta e percorse la Via Sacra tra la folla acclamante. Le dinamiche. Una volta nella Curia, mentre Trebonio, un congiurato, tratteneva Marco Antonio con una scusa, il dictator venne circondato dai cesaricidi. Tullio Cimbro si gettò ai suoi piedi, come per implorarlo, tirandogli la toga: era il segnale. Publio Casca pugnalò il condottiero, ferendolo. "Scelleratissimo Casca, che fai?", reagì lui, colpendolo a sua volta. Poi gli altri congiurati gli furono addosso. Quando vide brillare la lama di Marco Bruto, Cesare cadde ai piedi della statua di Pompeo, suo nemico nella guerra civile del 49 a.C., e morì colpito da 23 coltellate. I senatori fuggirono in preda al panico e i congiurati si sparpagliarono per informare il popolo. Il corpo restò nell'atrio dell'edificio per ore, prima che tre schiavi lo caricassero su una lettiga per riportarlo a casa.

La congiura: come andò veramente mo di quell'epoca. In più, non stava bene: lo scrittore greco Plutarco raccontava che soffriva di attacchi di mal di testa e, nei suoi ultimi anni di vita, di quello che gli autori latini definirono "morbus comitialis". Oggi la chiameremmo epilessia ma, dicono i medici, poteva essere anche il sintomo di un male peggiore, come un tumore al cervello. Insomma, Cesare forse non aveva molto da vivere. Ma se fosse sopravvissuto alle pugnalate del 44 a.C. si sarebbe certamente tolto qualche sassolino dal sandalo. Tra i congiurati spiccavano non solo i nomi di nemici dichiarati come Caio Cassio, ma anche quelli di suoi presunti alleati e familiari: Trebonio, uno dei migliori generali cesariani, Decimo Bruto, un fedelissimo nominato persino nel testamento e parente di Marco Bruto, quel "fili mi" pupillo di Cesare e figlio di Servilia, amore giovanile del condottiero. Nella nostra storia alternativa, quando li vede stretti come un branco di pecore spaventate tra le lame dei soldati del generale Marco Antonio, Cesare prende la sua decisione: lascia al giudizio del popolo la fine dei congiurati. Tranne quella di Bruto, al quale taglia la gola sul posto. Cesare era stato sempre clemente con i suoi nemici, ma negli ultimi tempi si era fatto più restio a concedere la propria fiducia: il tradimento da parte del presunto figlio l'aveva ucciso senza togliergli la vita.

Eliminati i congiurati, Cesare avrebbe forse indetto una nuova seduta del Senato e, come sarebbe dovuto accadere il 15 marzo, avrebbe ricevuto il titolo di rex delle terre soggette all'impero. Non di Roma e dell'Italia, però: così voleva Cesare, che preferiva non inimicarsi il popolo romano. Ancor più perché, con il consolato continuo, la dittatu-Il movente della CONGIURA era la DIFESA delle prerogative dell'aristocrazia del Senato. Se Cesare fosse scampato, la sua VENDETTA avrebbe colpito nomi illustri ra perpetua, la prefettura dei costumi, il prenome di imperator, il cognomen di pater patriae e la sua statua posta tra quelle dei sette re di Roma, poteva già considerarsi un imperatore a tutti gli effetti.

Verso l'oriente. E dopo? Cosa avrebbe fatto il dictator sopravvissuto? Probabilmente sarebbe partito per l'Oriente, come preannunciato, per combattere i Parti, gli abitanti dell'antica Persia (l'attuale territorio di Iran, Iraq, Armenia, parte del Caucaso e Asia Centrale). Il pensiero fisso di Cesare era uno: recuperare le insegne militari e l'orgoglio persi nel 53 a.C. dal generale romano Crasso nella sconfitta di Carre, nell'attuale Turchia. Ed eguagliare in grandezza l'impero di Alessandro Magno.

Ma la motivazione dell'ennesima difficile campagna militare avrebbe potuto anche essere un'altra. «Lo scrittore latino Cicerone sostiene che Cesare volesse tentare una spedizione in Oriente "per non ritornare più", intendendo dire che avrebbe cercato una morte gloriosa in una campagna memorabile», sottolinea Canfora. E in effetti era stato proprio Cesare ad affermare di preferire una morte "rapida e improvvisa" a una lenta e sfinente vecchiaia.

Ma queste potrebbero essere solo le illazioni di un detrattore. Cesare era un tipo egocentrico: anche volendo, forse alla fine non si sarebbe lasciato uccidere in battaglia da un parto qualsiasi. Non prima di aver celebrato l'ennesimo trionfo a Roma, vestito di porpora, sul carro tempestato di gemme. Poi, siccome l'appetito vien mangiando, una volta a casa si sarebbe imbarcato in qualche altro progetto. Magari quello paventato dai congiurati: il trasloco della capitale da Roma ad Alessandria.

AKG/MONDADORI PORTFOLIO Trame d'egiTTo. «Una campagna a Oriente avrebbe accentuato lo spostamento a est dell'impero: il che poteva rientrare tra i piani a lungo termine del dittatore», ammette Canfora. «Non va dimenticato però lo sviluppo di Roma da lui pianificato». A che scopo, nell'estate del 46 a.C., mettere mano a grandi iniziative edilizie e a progetti importanti come una biblioteca bilingue modellata su quella d'Alessandria, il prosciugamento delle paludi pontine e l'apertura di una nuova strada per l'Adriatico attraverso gli Appennini, per poi andar via dall'Urbe? Soprattutto considerato che, con il padre di suo figlio ancora vivo, Cleopatra non avrebbe avuto fretta di lasciare Roma: anzi, ne avrebbe approfittato per preparare il figlio Cesarione a governare, con un po' di speranza e di moine, tutto l'impero.

«Il vincolo di sangue rappresentato da Cesarione era, così immaginava Cleopatra, un'arma nelle sue mani», spiega Canfora. E così sarebbe stato finché il condottiero fosse vissuto. «La regina avrebbe tutelato l'integrità dell'Egitto e Cesare non si sarebbe opposto: tanto più se puntava verso est, cioè contro il Regno dei Parti. Tenere in piedi l'ultima monarchia dell'impero di Alessandro sarebbe stato in ogni caso un gesto politicamente lungimirante», prosegue Canfora. Cesare non aveva commesso l'errore di trasformare l'Egitto in provincia romana, "temendo", riporta Svetonio, "che un domani, nelle mani di un governatore troppo audace e intraprendente, divenisse focolaio di rivolta". Aveva preferito affidarlo a una figura politicamente debole nel suo Paese, com'era allora (e come sarebbe potuta essere anche dopo) Cleopatra.

Cambio di erediTà. E Marco Antonio? Con Cesare vivo e sempre più potente, difficilmente Cleopatra avrebbe posato gli occhi sull'eterno secondo. «Antonio, da tutti tranne che da Cesare ritenuto erede politico del dictator, sarebbe comunque, prima o poi, entrato in rotta di collisione con Ottaviano, erede designato per testamento», precisa lo storico. Cesare, dicono le malelingue, aveva avuto modo di apprezzare il pronipote sotto ogni punto di vista e pare che proprio per ricompensarlo della sua versatilità avesse deciso di adottarlo. Ma se il dittatore fosse morto di vecchiaia o in guerra, siamo sicuri che Ottaviano sarebbe diventato imperatore anche senza la scusa di voler vendicare il "padre della patria"? E se poi, ormai vecchio e malato, Cesare avesse dovuto assistere dal letto alla battaglia tra Antonio e Ottaviano? Allora avrebbe rimpianto amaramente la salvezza ottenuta quel 15 marzo del 44 a.C. Una scena che si sarebbe risparmiato se -controstoria per controstoria -mentre ritraeva il pugnale dalla gola di Bruto, Cesare avesse perso l'equilibrio e avesse battuto la testa sullo spigolo della statua di Pompeo, morendo sul colpo.

• A veva timore anche delle ombre, scrive di lui Cicerone ("Iste qui umbras timet"). Era cagionevole di salute, basso di statura, esile. Il contrario, si direbbe, del fascinoso capo carismatico. Eppure il sanguigno Mussolini, rifondatore dell'impero e del mito di Roma caput mundi, ne fece il proprio idolo d'elezione, fino a desiderare di essere sepolto nel suo mausoleo romano, a Campo Marzio.

Maria Leonarda Leone

SCONTRO EVITABILE

Ad Augusto e alla sua politica Mussolini si ispirò non solo per la marcia su Roma -Ottaviano ne aveva fatte addirittura due -, ma anche e soprattutto nella strategia del consenso, nelle manifestazioni propagandistiche: dalla grandeur urbanistica alle bonifiche, al culto delle tradizioni, alle adunate giovanili paramilitari. Eppure è difficile immaginare due dittatori più distanti per indole e atteggiamenti.

Calcolatore. Gaio Ottavio, detto Ottaviano, lasciava pochissimo al caso. Era un calcolatore, un concentrato di astuzia, prudenza e riservatezza. Poco brillante come stratega e non molto portato a guerreggiare -anche a causa della salute malferma, che tuttavia non gli avrebbe impedito di raggiungere l'allora veneranda età di 77 anni -il princeps era molto meno robusto di come fu effigiato. Diafano, esile e freddoloso, era tuttavia molto bello. Biondo, fronte alta, naso importante, occhi cui non si poteva restare indifferenti: "Straordinariamente limpidi e penetranti e acuti… Più azzurri che grigi, anche se facevano pensare alla luce, non al colore", li descriverà nel Novecento l'accademico e romanziere John Edward Williams nel suo Augustus. Possedeva doti comunicative, non solo diplomatiche.

AUGUSTO -63 A.C.

Buona stella. Aveva visto la luce a Roma il 23 settembre del 63 a.C., accolto fin dal concepimento da fenomeni ritenuti soprannaturali e beneauguranti dagli indovini dell'epoca: dal serpente che si era insinuato sotto il corpo della madre addormentata in lettiga al fulmine che aveva abbattuto un pezzo delle mura di Velletri, la città paterna. Gaio Ottavio (il padre) apparteneva al ceto equestre ed era stato governatore della Macedonia. La madre, Azia, era nipote di Giulio Cesare. Dunque il futuro imperatore, per metà "parvenu", era per l'altra metà imparentato con la stirpe che, secondo la leggenda, aveva fondato Roma: la gens Iulia.

Cesare, che non aveva avuto eredi maschi -Cesarione, avuto da Cleopatra, non poteva essere riconosciuto come discendente legittimo in quanto figlio adulterino -, pensò di adottarlo e farne il suo successore. Ottaviano era allora un ragazzo assennato e riflessivo, ma da sgrossare. Non particolarmente colto, zoppicava in retorica e parlava il greco "in modo atroce", sempre secondo il suo biograforomanziere John Williams, pur avendo scritto una tragedia (l'Aiace, in seguito rinnegata). Ascoltava i poeti che declamavano le loro opere -e se ne sarebbe circondato per tutta la vita -più per cortesia che per passione. Faceva colpo, invece, per maturità e morigeratezza. Usava poco la lettiga: preferiva raggiungere a piedi il Senato fermandosi a parlare con chiunque. Indossava di preferenza una ruvida toga tessuta dalle donne di casa. Sobrio verso se stesso, non lo sarebbe stato altrettanto nell'autocelebrarsi, una volta agguantato il potere. Ludi, feste e sfarzo architettonico: "Ho trovato una città di mattoni, 14 d.C. Muore a Nola, dove si era fermato in preda a gravi disturbi intestinali.

La lunga vita di Ottaviano

lascio una città di marmo", si sarebbe vantato in età matura. Questa, però, era solo la facciata, se diamo retta ai suoi avversari, i quali malignavano che privatamente fosse un libertino depravato, che si era guadagnato il favore del prozio prostituendoglisi.

Capricci. In prima fila nel diffondere tali dicerie c'era il suo antagonista Marco Antonio, di certo più virile di lui. Nella realtà, come molti giovani del suo ceto, Ottaviano fu probabilmente bisessuale. Si fece infatti la nomea di adultero matricolato: quando si incapricciava di un'ancella o di una matrona non guardava in faccia nessuno. Di certo, ha osservato lo storico Augusto Fraschetti, «tutta la vita del principe fu segnata da un fortissimo moralismo (forse non solo apparente) contraddetto però da passioni violente e irrefrenabili»; e «anche nel più maturo Augusto a una studiata e apparente freddezza sembrarono contrapporsi grandi coinvolgimenti»: alcuni «profondamente affettivi» (su tutti, il matrimonio con Livia), altri «più chiaramente erotici».

Cesare, che l'aveva nominato prefetto urbano nel 47 a.C., aveva intuito in lui la stoffa del politico, ma non aveva fatto in tempo a saggiarne la tempra guerresca: era morto assassinato prima, nel 44 a.C.

Ottaviano, che allora aveva 19 anni, fu una sorpresa per tutti. Accettò l'adozione con tutti i rischi connessi e si rivelò duttile e spregiudicato. Cercò dapprima l'appoggio di Cicerone, l'ex console che mediava tra i cesaricidi (appoggiati dalla vecchia oligarchia senatoria e invisi alla plebe e ai veterani) e i cesariani capeggiati dal miglior amico di Cesare, Antonio. Quest'ultimo, allora console, ambiva Fu lui a introdurre, nell'8 a.C., il FERRAGOSTO. Il nome deriva infatti da FERIAE AUGUSTI, "riposo di Augusto" a succedere al dictator perpetuus (Cesare). Alla fine, Ottaviano abbandonò al proprio tragico destino il vecchio "padre della patria", appena ottenuta la carica di console. Poiché Antonio non voleva consegnargli l'ingentissimo patrimonio del padre adottivo, Augusto vendette alcune proprietà di famiglia: con i sesterzi ricavati, arruolò un esercito di veterani e si ingraziò il popolo distribuendo a pioggia doni e regalie. Per avere la meglio, alternò le maniere forti alla diplomazia in un andirivieni che rasentava il doppio gioco.

In marcia su Roma. Quando Antonio s'allontanò inseguendo le armate dei cesaricidi Bruto e Cassio, Ottaviano ne approfittò per marciare su Roma e tentare il colpo di mano. Subito dopo, non riuscendo a spodestarlo, patteggiò e formò con lui e Lepido un nuovo triumvirato (43 a.C.) che in pratica si spartì l'impero: a lui l'Occidente, ad Antonio l'Oriente, a Lepido l'Africa. Si servì del rivale, che nel frattempo aveva sposato sua sorella Ottavia, per eliminare gli assassini del prozio (nella Battaglia di Filippi); si sbarazzò quindi, grazie al generale Agrippa, del pericoloso Sesto Pompeo che scorrazzava tra Sicilia e Corsica bloccando i rifornimenti di grano alla capitale; e, subito dopo, scaricò il terzo incomodo, Lepido. Infine sfruttò l'imprudenza di Antonio, che, espugnata l'Armenia, aveva conferito ai tre figli avuti da Cleopatra i nuovi territori conquistati e ripudiato la moglie Ottavia, per regolare i conti anche con lui. Ebbe gioco facile nel far passare i suoi atti per un'offesa mortale a Roma e all'Italia e poté serenamente dichiarare guerra a Cleopatra e all'Egitto.

LEGIONARIO DELL'IMPERO

A destra, particolare della statua di Augusto con la corazza imperiale, trovata a casa della moglie Livia Drusilla. C on un padre adottivo considerato dio, il Divo Giulio, Augusto brillava di luce divina riflessa. Poi divenne divus in proprio. Mentre Giulio Cesare era associato a Enea e Venere, Augusto veniva imparentato -da Virgilio nell'Eneide e da Ovidio nei Fasti -con altre divinità esportate dai troiani: Vesta, dea protettrice del focolare domestico, e altri dèi equivalenti ai nostri penati, protettori di Roma e del popolo romano. Il suo tempio d'elezione era quello dedicato a Vesta: un luogo in cui i culti privati della sua famiglia trascoloravano in culti pubblici. Ricorrenze. Per di più, nel 2 a.C. il princeps venne insignito del titolo di pater patriae, il che alimentò il suo culto. A Cuma (in Campania), si immolava una vittima ogni anno nel giorno del suo compleanno. In varie località si celebrava il giorno in cui aveva assunto la toga virile, la data (16 gennaio) in cui gli era stato conferito il titolo di Augusto e altre tappe della sua carriera. Ogni giorno, infine, in colonie e municipi si ricordava il giuramento di fedeltà con cui aveva trascinato le popolazioni italiche alla guerra contro Antonio e l'Egitto. Padrone assoluto. Vinse ad Azio (nel 31 a.C.), il rivale si suicidò assieme alla regina egiziana e Ottaviano entrò da trionfatore in Alessandria d'Egitto il 1° agosto del 30 a.C. Non ebbe pietà del figlio bastardo del padre adottivo, Cesarione. La partita era vinta, ma Ottaviano seguitò ad alternare pugno di ferro e diplomazia, crudeltà e clemenza, finché non ebbe conseguito il suo vero scopo: succedere a Giulio Cesare nel ruolo di padrone assoluto.

In questo passaggio fece il capolavoro: un miracolo d'astuzia, oltre che di spregiudicatezza. Senza darlo a vedere, ingannò le vecchie oligarchie: fece mostra di voler restaurare la repubblica mentre, in realtà, rifondava la dittatura. Fu un ottimo attore. Scelse il titolo di princeps, apparentemente più umile di quello di imperator o di divus, non chiese magistrature straordinarie, anzi trasferì formalmente la res publica dalla propria potestà all'"arbitrio del Senato e del Popolo" (parole sue). Il gesto gli valse, nel 27, l'appellativo di Augusto ("eccelso"). Un'autorità dall'aura sacrale.

Pontefice. Il cerchio si chiuse nel 23, quando il Senato gli conferì la potestà tribunizia perpetua e l'imperio proconsolare, ovvero poteri eccezionali di veto e una potestà territoriale di fatto illimitata sulle province del nascente impero. Ottaviano completò l'en plein nel 12 a.C., assumendo anche la leadership in campo religioso, con la carica di pontefice massimo. Di fatto, era divinizzato come il prozio.

A quel punto compì un ulteriore salto di qualità diventando un amministratore saggio e accorto.

Attuò riforme radicali: dopo quella agraria, quella fiscale, che alleggeriva l'imposizione sulle colonie; passò poi al riassetto urbanistico di Roma e delle province; irrobustì forze dell'ordine ed esercito. Accentrando il potere, debellò molte sacche di corruzione e parassitismo.

Il moralizzatore. Alla restaurazione degli antichi valori repubblicani corrispose una campagna moralizzatrice. Nella quale Augusto si comportò, per i nostri canoni, da maschilista: proibì alle donne di fare politica, mise fuori legge l'adulterio e autorizzò mariti e padri delle fedifraghe a vendicare l'onta uccidendo i loro amanti. Non esitò a spedire in esilio la sua stessa figlia, Giulia, rea di spassarsela con troppi suoi oppositori. Ma si guardò bene dall'applicare la norma a se stesso: in terze nozze impalmò Livia, secondo alcune fonti ancora incinta del precedente coniuge, Tiberio Claudio Nerone, e secondo altre incinta di lui (che quindi ne fu l'amante). Voleva darsi una discendenza e, per risolvere la questione dinastica, creò un incredibile intrico genealogico. Il suo figliastro Tiberio, sposando sua figlia Giulia, divenne suo genero e il patrigno dei figli (suoi nipoti) che Giulia aveva avuto dal precedente marito, Agrippa: Gaio e Lucio. Già, perché, prima di rassegnarsi ad adottare Tiberio, Augusto aveva pensato di designare eredi i rampolli del suo migliore amico. Dopo 44 anni di principato scaltro e assennato Ottaviano rese l'anima agli dèi nell'agro di Nola (19 agosto del 14). E con la sua dipartita calò il sipario su una irripetibile età dell'oro.

MONTANARO

L'imperatore S terminò gli ebrei, ma non si chiamava Adolf Hitler. Tentò di risanare il deficit statale a suon di tasse, tirandosi addosso i mugugni delle categorie colpite, ma non era un ministro delle Finanze. Distribuì a destra e a sinistra un umorismo impietoso (v. riquadro nelle pagine seguenti) con cui irrideva tutti, anche se stesso, però non si chiamava Maurizio Crozza. Infine, fu il vero fondatore dell'Impero romano, eppure non si trattava di Cesare Augusto. Il suo nome completo era Tito Flavio Vespasiano, ma di solito viene citato semplicemente come Vespasiano per evitare confusioni col figlio Tito, suo successore.

Nacque venti secoli fa, il 17 novembre dell'anno 9, a Vicus Phalacrinae, un paesino sperduto sui monti di Rieti. E andò al potere 60 anni dopo, all'età in cui di solito si pensa solo ai nipotini e alla pensione.

Fu il nono imperatore di Roma, il quarto dell'anno 69 e il primo della dinastia Flavia, una delle più importanti: la stessa che legò il suo nome all'Anfiteatro Flavio, alias Colosseo. Ma quella non fu l'unica grande opera "firmata" dai Flavi.

Magnificenza. «Il Colosseo è solo la più famosa», sottolinea Angelo Bottini, per anni soprintendente archeologo di Roma. «Allo stesso periodo risalgono anche il Campidoglio, il Tempio della Pace, uno stadio (oggi piazza Navona) e un'immensa reggia, costruita sul Palatino e perciò detta Palatium, parola poi adottata ovunque quasi immutata (palazzo, palace, palais) come sinonimo di edificio importante». Davanti a un tale "Rinascimento", il poeta Marziale applaudì: "Roma è tornata se stessa".

Va detto però che i Flavi ebbero gioco facile, perché prima di loro l'impero era caduto così in basso che le cose potevano solo migliorare. Alla dinastia Giulio-Claudia, estintasi con Nerone, era subentrato un vuoto di potere diventato subito caos: il Senato era ridotto a una finzione, l'erario a una voragine;

PADRE E FIGLIO

Il trionfo di Vespasiano e del figlio Tito dopo la campagna militare in Giudea, in un dipinto del 1537.

LESSING/CONTRASTO

10 quartieri della capitale erano bruciati nel famoso incendio del 64, mentre le varie legioni si erano auto-promosse a partiti armati dei numerosissimi aspiranti al potere. Il fondo si toccò nel 69, quando Roma registrò due record: un disavanzo senza precedenti del bilancio statale (40 miliardi di sesterzi) e un'inflazione di imperatori (quattro in 11 mesi, tutti militari, tutti l'un contro l'altro armati).

Il primo dei quattro, Galba, incoronato dai soldati della Spagna, morì in un agguato a gennaio. Il secondo, Otone, leader dei pretoriani della capitale, si suicidò in aprile. Il terzo, Vitellio, sostenuto dalle legioni della Germania, fu sconfitto a dicembre da quelle della Siria, fedeli al quarto: Vespasiano, appunto, che rifondò l'impero a partire da quel bagno di sangue.

Senza pietà. Lo storico latino Svetonio (I-II secolo), biografo di 12 imperatori, narra che a Vitellio, trovato nascosto in un pertugio, prima "furono legate le mani dietro la schiena", poi "gli fu messa una corda al collo e gli furono strappate le vesti", mentre "alcuni gli gettavano immondizie e lo bersagliavano con lo sterco". Portato seminudo nel foro e dileggiato per i suoi difetti fisici (era obeso e claudicante) lo sconfitto fu infine "scorticato poco a poco e trainato nel Tevere con un gancio".

Dopo quel trattamento, nessuno osò più opporsi al nuovo sovrano.

Vespasiano affrontò in modo altrettanto deciso il problema erario. Svetonio, schierato a difesa dei contribuenti recalcitranti, riassunse tutto così: "Non pago di reclamare le imposte non pagate sotto Galba, di averne aggiunte di nuove e assai gravose, di aver aumentato, e talvolta raddoppiato, i tributi delle province, si diede anche a speculazioni disonorevoli per un semplice cittadino, acquistando merci all'ingrosso al solo scopo di rivenderle poi, più care, al dettaglio". D'altra parte il deficit andava sanato.

«Non sappiamo a quanto ammontasse il Pil dell'Impero romano, quindi non possiamo dire quanto rappresentavano 40 miliardi di sesterzi in rapporto alla ricchezza prodotta», commenta l'archeologo Filippo Coarelli, professore emerito all'Università degli studi di Perugia. «Possiamo però farci un'idea approssimativa del valore della somma in base al suo potere d'acquisto: si può dire che un sesterzio poteva valere circa un paio di euro». Insomma, a Vespasiano servivano entrate straordinarie pari a 80 dei nostri miliardi. Così l'imperatore inventò una tassa su tutt'altra "merce": l'urina (v. riquadro nell'ultima pagina). Per questo trattò con durezza l'antica ARISTOCRAZIA romana Funzionò: il "tesoretto" ricavato sanò i bilanci e bastò per avviare un piano di edilizia pubblica che rimise in moto tutta l'economia.

Plebeo. Ma chi era l'uomo che normalizzò Roma a suon di ganci, cantieri e pipì-tax? Antichi scultori ci hanno lasciato varie statue, che però sono così diverse fra loro da far pensare talvolta ad abbellimenti agiografici. Il busto ritenuto più attendibile è in Danimarca, alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen. Raffigura un Vespasiano lontano dalla ieratica maestà di Augusto e dal fascino torvo di Nerone: ha collo taurino, volto squadrato, testa calva, occhi troppo vicini per apparire intelligenti; più che un imperatore, sembra un omone più bravo a lavorare con le mani che con la testa.

Perché stupirsi, in fondo? A differenza dei predecessori (tutti nobili), l'ideatore del Colosseo non vantava certo un pedigree di sangue blu. Suo padre Flavio Sabino aveva fatto l'esattore in Asia, poi l'usuraio in Svizzera. E suo nonno Tito Flavio Petrone era stato prima centurione di Pompeo (sconfitto da Giulio Cesare) poi cassiere di una casa d'aste e "caporale" di braccianti. Insomma, la gens Flavia era una normale famiglia dell'ordine equestre (il ceto medio dei Romani) "senz'altro oscura e priva di avi di rilievo", secondo il solito Svetonio.

L'albero genealogico non cambiava granché sul fronte materno: Vespasia Polla, mamma del futuro imperatore, discendeva da una stimata ma provincialissima famiglia umbra (i Vespasii, appunto), il cui massimo vanto era aver dato il nome a una collina fuori mano tra Norcia e Spoleto. Con queste premesse, nessuno avrebbe scommesso un sesterzio sul futuro del giovane Vespasiano. Che infatti, prima di diventare militare, per campare si adattò a fare un po' di tutto: dal mercante di bestiame (lo chiamavano "Mulattiere") all'estorsore di tangenti. D'altra parte, Vicus Phalacrinae non offriva molte opportunità di carriera.

Oggi il paese di Vespasiano si chiama Cittareale ed è un centro sciistico a 20 km da Amatrice, patria dei bucatini all'amatriciana. Ma allora di sci, di bucatini e di turismo non si parlava e se qualcuno citava Phalacrinae lo faceva per tutt'altri motivi: le sorgenti del Velino, che sgorgavano fuori porta; i lupi, che d'inverno calavano fin tra le case; infine un tempio a una dea montanara (Vacurea), che contava molti devoti nella valle ma nessuno altrove.

Negato. Nemo propheta in patria ("Nessuno è profeta in patria") dicevano i Latini. Ma Vespasiano non fu "profeta" neanche in trasferta, almeno da giovane. Prima traslocò a Cosa (oggi Ansedonia di Orbetello, Gr) e ad Aventicum (oggi Avenches, in Svizzera), incollato alle gonne di una zia e alla tu-PACIFICATI Sopra, ricostruzione del Tempio della Pace, a Roma, inaugurato da Vespasiano nel 75 e ampliato e modificato in epoche successive. (2) LESSING/CONTRASTO nica del papà usuraio. Poi esordì nella vita pubblica a Roma; ma a un concorso per un posto di edile (una sorta di magistrato) arrivò sesto, cioè ultimo. E se poi ricoprì altri incarichi (pretore, console, proconsole d'Africa) fu grazie all'appoggio del fratello Sabino, più rampante di lui.

R. MENEGHINI/INKLINK

Quel montanaro inurbato non sembrava davvero nato per l'arte sottile della politica. Nel 51, alla fine del mandato in Africa (che Svetonio giudicò "corretto" e Tacito invece "screditato e malvisto"), fu preso a rape in faccia dalla folla in tumulto ad Adrumento (Tunisia). Poco più tardi, introdotto alla corte dei Giulio-Claudi, collezionò una gaffe dopo l'altra: mentre Nerone declamava i suoi noiosissimi versi davanti a una claque compiacente, Vespasiano dormiva senza ritegno. "Perciò cadde totalmente in disgrazia", riferisce Svetonio.

In armi. Molto più che come politico, il parvenu di Phalacrinae ebbe fortuna come militare. Ai tempi dell'imperatore Claudio (41-54) combatté in Ger-mania e poi in Britannia, dove il 33enne Vespasiano conquistò 20 città più Vectis, l'attuale Wight, nel canale della Manica: la stessa isola che 19 secoli dopo, all'epoca degli hippies, divenne la sede di leggendari raduni rock.

Nell'immediato il futuro imperatore non ricavò granché dai suoi successi: l'onore del trionfo sui Britanni andò a Claudio, giunto in zona a operazioni quasi concluse. La fama di buon soldato guadagnata oltre Manica gli tornò però utile un quarto di secolo dopo, quando regnava Nerone e Roma era invischiata in una grana: il Vicino Oriente, infiammato dalla setta ebraica degli Zeloti, era in rivolta.

Nel caso di Vespasiano, la vita cominciò davvero a 60 anni: "Nerone", narra Giuseppe Flavio, storico ebreo romanizzato, "lo invitò ad assumere il comando delle forze in Siria dopo molti complimenti e attestazioni di stima, dettati dalla necessità di quel momento critico".

In Giudea. Nerone prendeva due piccioni con una fava: liberava la corte da un corpo estraneo LESSING imbarazzante e affidava il Vicino Oriente a un castigamatti di provata capacità. L'incarico era invece ad alto rischio per chi lo riceveva: i rivoltosi avevano già massacrato la guarnigione di Gerusalemme, risparmiandone il comandante solo a patto che si facesse circoncidere.

Vespasiano, giunto alla fine della carriera militare, non aveva molto da perdere: così partì con suo figlio Tito, 5 legioni e una miriade di muli del natìo Appennino; invase Galilea e Giudea e prese varie città, ricambiando con l'interesse la ferocia degli Zeloti, senza fare troppi distinguo fra ribelli e civili. Un paio di anni dopo Gerusalemme era accerchiata.

La tradizione ebraica ricorda quella spedizione come un incubo, superato solo dalle stragi dei crociati e dei nazisti. Proverbiale è rimasta la conquista di Giaffa, di cui Giuseppe Flavio parla così: "Caduti i combattenti, tutti gli altri furono trucidati all'aperto o nelle case, giovani e vecchi senza distinzione; nessun maschio fu risparmiato salvo i bambini, ridotti in schiavitù con le madri". Fu allora che gli ebrei superstiti cominciarono a migrare dalla Palestina, disperdendosi nel mondo e dando vita alla cosiddetta diaspora.

Riscatto.

A fine campagna (70 d.C.) Gerusalemme cadde, il Tempio di Salomone fu distrutto e il suo mitico tesoro finì a Roma per essere poi esposto nel sedicente Tempio della Pace. Ma quell'epilogo ebbe come protagonista solo Tito, perché già dall'anno prima Vespasiano era tornato in Italia a riscuotere il trionfo: morto Nerone, infatti, le sue truppe l'avevano acclamato imperatore, in antitesi a Vitellio. Inizialmente restìo, aveva accettato dopo aver saputo che il rivale aveva ucciso suo fratello. Iniziò così l'ultimo decennio di quell'"imperatore per caso", che nella terza età riscattò con grande senso dello Stato gli anni precedenti, intrisi di rudezza provinciale e crimini di guerra.

Monarchia. Oltre a realizzare opere pubbliche e risanare l'erario, il primo dei Flavi fu mecenate di artisti, poeti e insegnanti (ai quali assegnò una pensione). Ma più di tutto, a caratterizzare il suo regno fu una legge detta De Imperio Vespasiani: una sorta di Costituzione, incisa su due tavole di bronzo collocate in Campidoglio. Cosa c'era scritto? «In dettaglio non si sa», risponde Filippo Coarelli. «O meglio, si sa solo a metà, perché una tavola si è salvata ma l'altra no. Possiamo comunque dire che il De Imperio fissava i poteri dei vari organi dello Stato». Durante la precedente dinastia Giulio-Claudia, Roma si era basata sulla finzione che la repubblica fosse ancora viva e che l'imperatore fosse solo un magistrato straordinario, il "principe" di un Senato che restava formalmente detentore del potere. Da Vespasiano in poi non fu più così. Infatti, messa da parte ogni ipocrisia, col De Imperio Roma diventò ufficialmente una monarchia ereditaria.

"A me succederanno i miei figli, o nessuno", amava ripetere Vespasiano. E fu così: dopo di lui andò al potere Tito, poi l'altro figlio Domiziano. Non era solo un mutamento dinastico: «L'avvento al potere dei Flavi comportò la sostituzione dell'aristocrazia senatoria con esponenti di élites italiche esterne a Roma», osserva Bottini. Soltanto con il nono imperatore, dunque, era nato davvero l'impero. • Per capire tanti onori postumi, e forse anche per spiegare la fine di Antinoo, bisogna rileggere la storia di un altro personaggio, ben più potente del giovane "turco". Cioè quella del quattordicesimo imperatore romano, nato in Baetica (Andalusia) da coloni di Atri (Te), rimasto orfano a 9 anni e allevato, anche se non adottato, da un parente, un militare destinato a grandi onori. Il nostro aveva 4 nomi (Publio Elio Traiano Adriano) ma è noto come Adriano e basta. Il parente, che ne aveva altrettanti, è ricordato come Traiano.

Successione sospetta. Il racconto può partire dalla fine del primo secolo, quando Adriano aveva vent'anni o poco più. Erano tempi particolari, quelli: l'impero era quasi al culmine della sua espansione, in Oriente Parti ed Ebrei davano filo da torcere alle legioni e a Roma non regnava una vera dinastia, come quelle dei decenni precedenti (la Giulio-Claudia e la Flavia). Infatti, estinti da poco i Flavi, iniziava l'era dei cosiddetti Antonini, coi quali il trono non fu più trasmesso dagli imperatori in carica ai figli, bensì a "eredi morali", scelti per adozione.

Il primo degli Antonini, nominato dal Senato nel 96 d.C., fu Nerva, da cui il potere passò poi a Traiano (98). Il quale (forse) indicò come erede Adriano, adottandolo sul letto di morte (117). Ma il "forse" è d'obbligo perché uno storico del III secolo, Elio Sparziano, tramanda un'altra versione: "Si mormorava che l'adozione fosse dovuta a una manovra di Plotina (l'imperatrice uscente, ndr), che quando Traiano era già morto avrebbe fatto parlare con falsa voce da morente un altro al posto dell'imperatore". Il lugubre aneddoto è confermato da un altro storico antico, Dione Cassio, che precisa: "La morte di Traiano fu nascosta per alcuni giorni, perché si diffondesse prima la notizia dell'adozione". Ma la truffa fu presto dimenticata, anche perché il neo-imperatore cercò subito di ingraziarsi tutti: l'esercito, cui raddoppiò una tantum la paga; il Senato, cui inviò una lettera di ossequi; il popolino, cui diminuì le tasse; persino il fantasma di Traiano, cui tributò un trionfo postumo, mettendo sul carro un ritratto del caro estinto.

PAZZO PER LUI

Arte e pace. Eppure, nonostante questi metodi clientelar-scaramantici, Adriano si caratterizzò presto per almeno tre dati positivi: in politica interna "diede prova di grande tolleranza", all'estero promosse "una politica di pace universale fondata su antiche tradizioni", infine in campo culturale tentò di convincere il mondo che "l'arte ha smesso di essere un lusso, è diventata una risorsa". Le prime due frasi virgolettate sono del già citato Sparziano, la terza di una biografa moderna del sovrano, la belga Marguerite Yourcenar.

In realtà la tolleranza sul fronte interno fu tale solo per i tempi, cioè relativa. Anzitutto, infatti, Adriano dispose una maxi-purga dell'apparato statale, per allontanare certi funzionari che erano più fedeli all'imperatore defunto che a quello in carica. Quindi fece giustiziare quattro patrizi, colpevoli di aver ordito una congiura contro di lui. E più tardi, nel 135, in Medio Oriente, dopo un'ennesima rivolta ebraica fece addirittura radere al suolo Gerusalemme (v. riquadro qui sotto). Ma allora la fama di tollerante da dove arriva? Soprattutto dalla politica garan- tista usata verso gli schiavi e i cristiani. Sul fronte schiavi furono varate leggi "progressiste": una vietava di vendere donne ai bordelli "senza motivo", un'altra proibiva di uccidere uno schiavo in assenza dell'ok di un giudice. Quanto ai cristiani, poi, eloquente è una lettera del 122 a Caio Minucio Fundano, proconsole d'Asia, lettera che conosciamo perché fu poi inclusa in un testo di Eusebio di Cesarea, padre della Chiesa (265-340). Ecco il passo che interessa:"Se i cittadini della provincia sono in grado di sostenere apertamente l'accusa contro i cristiani, in modo da poter reggere un contraddittorio in tribunale, ricorrano a tale procedura e non a voci e congetture. Se infatti qualcuno vuole formalizzare un'imputazione, è opportuno istruire un processo. Insomma, se c'è chi li accusa e dimostra che essi stanno agendo contro legge, decidi secondo la gravità del reato. Ma, per Ercole, se qualcuno denuncia solo per calunniare, valuta la gravità dei fatti e puniscilo". Rafforzare i confini. La lettera a Fundano era una doppia rivoluzione, perché forse per la prima volta si stabilivano due principi giuridici "illuministici". Il primo: l'onere della prova spetta a chi accusa. Il secondo: non vanno punite le opinioni (vedi l'essere cristiani), bensì i fatti. Ma la rivoluzione più grossa avvenne in politica estera, dove Adriano, imperatore pacifista, interruppe il plurisecolare espansionismo di Roma, stabilì confini sicuri e pur di ottenerli ridusse volontariamente la superficie dell'impero, evitando conflitti inutili.

Per capire la portata della svolta, occorre fare un passo indietro. Nei primi anni del II secolo Traiano aveva annesso l'Armenia (allora più vasta di oggi), la Dacia (Romania), la Mesopotamia (Iraq) e il regno dei Nabatei (Giordania e parte dell'Arabia), portando l'impero a dimensioni record: 5,5 milioni di chilometri quadrati, come un'Unione Europea moltiplicata per 1,3. Ma, salvo la Dacia, erano tutte conquiste fragili: per mantenerle bisognava prepa- Q uasi sempre mite con gli uomini, Adriano non lo fu con gli animali. Infatti il suo hobby preferito era la caccia, meglio se a carnivori di grossa taglia. A cavallo. Secondo i suoi antichi biografi uccise di sua mano diversi leoni, ma non si sa dove (più probabilmente in Medio Oriente che in Africa). Invece in Europa praticava la caccia al cinghiale: una volta, riferisce Dione Cassio, ne abbatté uno con un solo colpo di lancia.

SUGGESTIONI D'ORIENTE

Nelle sue battute venatorie l'imperatore usava sempre lo stesso cavallo, Boristene. E quando questi morì, gli fece costruire una tomba ad Apta Julia (Gallia Narbonense) con una colonna votiva e un'epigrafe, che si A caccia, senza pietà RIFORMÒ la pubblica amministrazione, rendendola più efficiente. rarsi a nuove guerre. Per giunta altri confini barcollavano, dalla Britannia a nord alla Mauritania a sud.

Ebbene: in Mauritania Adriano usò il pugno di ferro, ma sulle altre frontiere cercò soluzioni diverse. In Britannia costruì una "grande muraglia" (il famoso Vallo di Adriano), opera solo difensiva, che sanciva la rinuncia a invadere la Caledonia (Scozia). E in Oriente abbandonò gran parte delle conquiste di Traiano: restituì l'indipendenza all'Armenia, si ritirò dalla Mesopotamia, inaugurò relazioni coi Parti, nemici storici. Poi prese a viaggiare per tutto l'impero, per conoscere e farsi conoscere.

Così finì per macinare migliaia di chilometri, più in stile da saccopelista che da sovrano. Narra Dione Cassio: "Si spostava sempre a piedi o a cavallo, non saliva mai su un carro". Che piovesse o picchiasse il sole, non si copriva mai il capo. E una volta in Grecia seminò la scorta e sparì tra la folla. Uno stile così informale gli guadagnò simpatie: Sparziano scrive che anche "i re della Battriana (oggi Afghanistan, ndr) gli inviarono un'ambasciata chiedendo di stabilire buone relazioni". Sposato, ma... Oltre a quelle simpatie afghane, i viaggi fruttarono ad Adriano almeno altre tre cose: una cultura sterminata, ignota ai predecessori, che spesso erano stati solo grezzi soldatacci; una sintonia profonda con il modo di vivere e di sentire del mondo ellenizzato; infine una grande storia d'amore. Che però aveva un dettaglio anomalo: l'oggetto del desiderio non era una donna, ma un altro maschio, un bellissimo ragazzo conosciuto in Cilicia. Cioè quell'Antinoo del busto esposto al Prado.

Flash-back per chi ama il gossip: in gioventù Adriano aveva sposato una bis-nipote del suo tutore Traiano, tale Vibia Sabina; ma il matrimonio, celebrato per ragioni politiche, non era stato dei più felici, probabilmente anche perché il futuro imperatore non aveva mai nascosto la sua tendenza gay, o almeno bisex. Elio Sparziano parla maliziosamente di "giovanet-SCALA ti tanto cari all'imperatore", di "fanciulli sedotti a corte", di "rapporti con uomini adulti" e -dulcis in fundo -anche di "adultèri commessi con donne sposate".

Le molte corna bipartisan di cui Vibia fu gratificata, devastanti per la coppia, ebbero però effetti positivi sulla Storia dell'arte, perché Adriano, come ogni marito che deve farsi perdonare qualcosa, usò verso la moglie una generosità esagerata. Infatti le donò uno dei monumenti più sontuosi dell'impero, la Villa Adriana di Tivoli, che dal 1999 l'Unesco tutela come "patrimonio dell'umanità", giudicandola "un capolavoro che riunisce in maniera unica le forme più alte di espressione delle culture materiali dell'antico mondo mediterraneo".

Il mondo in una villa. Il giudizio non è eccessivo. A Tivoli, cioè a 28 km dalla capitale, Adriano creò uno specchio della sua cultura eclettica, copiando tutto ciò che lo aveva colpito di più durante i suoi viaggi: dalle cariatidi dell'Eretteo di Atene al Canopo, un porto vicino ad Alessandria; dalle Amazzoni del Tempio di Efeso a un coccodrillo di marmo cipollino, clone del dio egizio Sobek. Quel pot-pourri, dove la lupa di Romolo e Remo conviveva con una sfinge egizia e con statue simil-greche, doveva essere choccante per un romano medio. Ma l'imperatore che aveva ideato la villa ci teneva a lasciare tracce di sé più nella Storia dell'arte che in quella militare; quindi il pot-pourri di Tivoli diventò un paradigma trendy, perché era davvero a misura di Adriano. Il quale, curioso per indole e sprovincializzato per scelta, era attratto da tutto ciò che profumava di esotico. E soprattutto dalla cultura greca, tanto che fu tra i pochi romani iniziati ai misteri eleusini, i riti esoterici legati al culto di Demetra, dea delle messi, che si tenevano due volte l'anno a Eleusi, presso Atene.

Nello sterminato complesso di Tivoli, che copriva un'area di 120 ettari, fra le cose che avevano colpito di più Adriano, ovviamente non poteva mancare Antinoo: anche perché in fondo quella love story conserva tuttora. Invece in Bitinia, per ricordare una sua caccia a un'orsa, fondò addirittura una città (Adrianotera) dove l'animale era stato ucciso. Strage di felini. La bramosia di sangue animale che Adriano nutriva non si limitò all'attività venatoria: negli spettacoli circensi vennero organizzate massicce stragi di felini (venivano uccisi anche cento capi a "spettacolo").

PROSPERITÀ

Un'altra immagine di Adriano, questa volta di profilo. Il suo impero fu caratterizzato da pace, efficienza e fioritura di arti e cultura. E VIAGGIÒ, instancabile, in ogni angolo dell' IMPERO

A. DE LUCA

Si innamorò di un giovane, ANTINOO, che morì in circostanze MISTERIOSE. Disperato, lo divinizzò era coerentissima con gli usi e la cultura greca, dove la componente omosex aveva radici profonde. Così l'imperatore, con una faccia di bronzo da manuale, piazzò nella villa donata alla moglie un busto del suo boyfriend: proprio quello del Prado di Madrid.

Quanto durò la storia d'amore fra Adriano e Antinoo? Circa sei anni: iniziò forse nel 124 e finì nel 130, con la tragedia sul Nilo. E poiché Antinoo affogò quando era ventenne, matematica vuole che avesse iniziato la sua relazione con l'imperatore a 13-14 anni. Se accadesse una cosa simile oggi, Adriano avrebbe seri guai con il codice penale, ma all'epoca nessuno ci badava. E il sovrano itinerante, che per quel ragazzo della Bitinia aveva un trasporto non ortodosso ma sincero, lo portò con sé in molti suoi viaggi.

Morte misteriosa. L'aveva con sé anche sul Nilo, nei pressi dell'attuale El-Minya. Era il 30 di ottobre, giorno sacro al dio egizio Osiride. Qualcuno udì il tonfo di un corpo caduto nel fiume. Quando lo ripescarono, Antinoo era ormai cadavere. Cos'era successo? Una caduta accidentale? Un suicidio causa depressione? Un omicidio a sfondo passionale, magari per gelosia? Forse nulla di tutto ciò, ma qualcosa di più inquietante: un suicidio rituale, maturato in quell'area grigia che sta a metà strada tra magia, culti orientali e follia pura.

Questa ipotesi, formulata già da Dione Cassio, fu poi rilanciata con più dettagli da Aurelio Vittore, un autore africano del IV secolo. In sintesi: Adriano aveva interrogato dei magi sul suo futuro. E quelli gli avevano risposto che sarebbe morto due anni dopo salvo che qualcuno si fosse ucciso al posto suo. Il povero Antinoo diventò così una vittima volontaria per allungare la vita del sovrano. Vero o no? Nessuno lo sa. Certo che l'imperatore fu sconvolto dalla morte del giovane: "Lo pianse come una donnetta", dice Sparziano. Da quel momento Adriano non fu più lo stesso e precipitò in una spirale ossessiva, vicina al delirio. Prima fece deificare il ragazzo perduto; poi riempì di sue statue l'impero, tanto che Antinoo diventò l'uomo più effigiato della storia romana dopo Augusto; quindi gli dedicò una città in Egitto e disse di aver visto una nuova stella, che era lo spirito del defunto amante asceso in cielo; infine massacrò gli Ebrei e prese a maltrattare l'incolpevole Vibia Sabina. Tanto che la donna, narra Aurelio Vittore, "fu spinta a morte volontaria".

IL TEMPIO DI TUTTI GLI DÈI

Disperazione e poesia. Poi l'ora del destino scoccò anche per Adriano. Che negli ultimi tempi, afflitto da un male invalidante, tentò tre volte il suicidio, ma invano. E dopo aver scritto un'autobiografia, purtroppo andata perduta, prese a comporre malinconiche poesie in stile ellenizzante, una delle quali iniziava così: "Animula vagula blandula / hospes comesque corporis / quae nunc abibis in loca / pallidula rigida nudula..." ("Animella smarrita e leggera, / ospite e compagna del corpo, / che ora partirai verso luoghi / sbiaditi, gelidi e spogli…").

L'animula di Adriano se ne andò il 10 luglio 138. Il corpo di cui era stata compagna per 62 anni fu sepolto in riva al Tevere, in un mausoleo colossale che fu poi trasformato in una fortezza: l'attuale Castel Sant'Angelo. • cano di origine siriana Mustapha Akkad con attori di prim'ordine, fra cui Anthony Quinn e Oliver Reed.

In una scena di quel film, Oliver Reed nei panni di Rodolfo Graziani (lo spietato predecessore-successore di Balbo) mostra un antico sesterzio a un capo ribelle prigioniero (Omar Al-Mukhtar, interpretato da Anthony Quinn): "Vedi questa moneta?", dice. "È stata trovata in Libia e dimostra che i miei avi vivevano qui prima dei tuoi". L'episodio non è inventato: Graziani ne parla nelle sue memorie. Gli scavi di Leptis rispondevano alla stessa logica della moneta, anche se Balbo, più diplomatico del collega, non lo esplicitò.

Inganni. Se oggi Graziani potesse visitare la città di Settimio Severo, dovrebbe rimangiarsi la sua aggressiva baldanza, perché a ben vedere le rovine di Leptis evocano l'Italia solo in apparenza. Anzitutto, la pianta della città non ha lo schema geometrico ti-pico dei centri romani, ma si adatta al terreno, con tipica duttilità maghrebina. Inoltre presso il mercato c'è un tempio di Serapide, dio supremo di Alessandria d'Egitto. Infine, ovunque si incontrano lapidi con nomi tutt'altro che latini: Iddibal, Suphunibal, Annobal e addirittura Hannibal, come il nemico giurato di Roma. E non è finita. La scoperta più inattesa è che a Leptis Magna tutte le scritte pubbliche erano doppie, come oggi in Alto Adige: accanto alla versione in latino (lingua ufficiale) ce n'era una in punico (l'idioma di Cartagine, lingua corrente).

Vendetta punica. Il dettaglio è illuminante: la patria di Settimio Severo, nata 700 anni prima di lui come porto fenicio e diventata poi cartaginese, era sopravvissuta alla distruzione di Cartagine (146 a.C.) e si era sottomessa a Roma; ma dopo oltre 3 secoli parlava ancora il punico e chiamava i suoi figli Hannibal. Ciò vale anche per la famiglia di Settimio: una sua sorella, immigrata a Roma, era così digiuna di latino che lui se ne vergognò e la rispedì subito a casa. E qui si torna al nostro quesito: Settimio Severo era un vero africano? Senz'altro sì: quand'anche avesse avuto avi in Italia, la sua cultura, la sua lingua, i suoi usi erano punici. Se invece che in Libia fosse nato in Algeria 18 secoli dopo, forse l'avrebbero definito pied noir, come i parigini chiamavano i coloni francesi del Maghreb, ormai avvezzi più al cous-cous che alle baguettes.

Dunque Leptis Magna, con buona pace di Balbo & C., invece di provare presunti diritti romani sulla Libia rivela una realtà assai diversa: 339 anni dopo la fine delle guerre puniche e la distruzione di Cartagine, un neocartaginese conquistò Roma, umiliando la sua classe dirigente e usando le risorse dell'impero per fare di Lpqy, sperduto porticciolo di provin-S ettimio Severo non fu un breve "temporale" passeggero. Infatti la dinastia da lui fondata (detta dei Severi) regnò su Roma per 40 anni quasi ininterrotti, con cinque imperatori: il capostipite, i suoi figli Caracalla e Geta, il pronipote di sua moglie Eliogabalo e il cugino di questi Severo Alessandro. Ma il "fattore S" influenzò quasi tutto il III secolo, an-che al di là dei discendenti diretti. Immigrati. Dopo Settimio l'incoronazione di imperatori non italiani si ripeté: nel 217 toccò a un altro africano (Macrino, originario della Mauritania), nel 235 a un trace (Massimino), nel 244 a un arabo (Filippo). Un altro effetto del "fattore S" fu l'uso dei golpe militari, che iniziò col raìs di Leptis Ma-gna e nel III secolo divenne la norma: dei circa 30 imperatori (o co-imperatori) che si succedettero dalla morte di Settimio (211) all'avvento di Diocleziano (284), almeno due terzi furono scelti dai rispettivi soldati e poi assassinati da militari avversari, o a volte addirittura dai propri. Non a caso questo periodo è detto "dell'anarchia militare".

I turbolenti anni dei Severi

Insieme a OEA (oggi Tripoli) e SABRATHA, nel III secolo LEPTIS MAGNA costituiva la TRIPOLITANIA RIMOSSO Settimio, la moglie e i figli nel "Tondo severiano": Geta fu cancellato dopo la sua morte.