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Cambiamenti climatici,
la partita inizia ora
Chiara Tintori
Redazione di Aggiornamenti Sociali
<chiara.tintori@aggiornamentisociali.it>
C
i sono voluti i tempi supplementari per l’accordo sul clima.
Ventiquattr’ore in più, dopo due settimane di negoziati dal
30 novembre all’11 dicembre 2015, per non far fallire la
COP 21 e deludere le grandi speranze riposte nell’incontro di Parigi per un’azione efficace a difesa della stabilità climatica. Tutti i Capi di Stato, come si suol dire, ci hanno messo la faccia, il segretario
generale dell’ONU Ban Ki-moon aveva chiamato a raccolta tutti i
Paesi affinché prendessero «la decisione finale per il bene dell’umanità» (discorso di apertura, 30 novembre), papa Francesco aveva
alzato la posta, tracciando un orizzonte più ampio: «per il bene della
casa comune, di tutti noi e delle future generazioni, a Parigi ogni
sforzo dovrebbe essere rivolto ad attenuare gli impatti dei cambiamenti climatici, e nello stesso tempo, a contrastare la povertà perché
fiorisca la dignità umana» (Angelus, 6 dicembre 2015).
Ora si tratta di capire: ci troviamo di fronte a un patto per il
clima ambizioso, giusto e duraturo? Oppure timido, diplomatico (ovvero cauto) e non risolutivo?
Forse l’unica certezza è quella di avere tra le mani, per la prima
volta, un patto per il clima universale, che coinvolge 195 Stati del
mondo, che entrerà in vigore quando verrà ratificato da un minimo
di 55 Paesi responsabili di almeno il 55% delle emissioni di gas a
effetto serra.
È stata comunque scritta una pagina inedita della storia dei
cambiamenti climatici e se è prematuro valutare se sarà efficace
(per i contenuti del patto cfr il riquadro), suggeriamo qui un paio di
riflessioni sul metodo e sui possibili scenari futuri.
Aggiornamenti Sociali gennaio 2016 (13-16)
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Sul metodo
Bisogna riconoscerlo: l’approccio alla COP 21 è stato diverso dal
passato, perché 185 Paesi sui 195 che ne fanno parte si sono messi
in gioco, presentandosi a Parigi con le proprie assunzioni volontarie
di impegni per ridurre le emissioni, i cosiddetti Intended Nationally
Determined Contribution (INDC), basati su una logica che passa
attraverso la decarbonizzazione e l’incremento dell’efficienza energetica. Diversamente dai precedenti vertici internazionali sul
clima, quindi, non c’è stato qualcosa di calato dall’alto; certo si
è trattato di un insieme di piani piuttosto eterogeneo, spesso poco
ambiziosi e non privi di contraddizioni. Si pensi ad esempio a Cina,
India e Giappone che hanno intenzione di sviluppare molto nucleare, facendolo rientrare nei loro impegni come energia pulita perché
di derivazione non fossile.
La vera grande novità è stata però il metodo con cui sono stati
condotti i negoziati durante la Conferenza: il sistema dell’Indaba,
un processo di consultazione suggerito dal Sudafrica, debitore alla tradizione delle tribù zulu e xhosa, che permette di raggiungere
decisioni condivise in uno stile partecipativo e inclusivo. A Parigi,
contrariamente a quanto avvenuto nella fallimentare conferenza di
Copenaghen del 2009, ciascuna delle parti ha avuto pari opportunità di esprimere le proprie opinioni al fine di lavorare a un
consenso comune. Grazie alla regia di quattordici facilitatori, che
hanno consentito l’alternanza tra parola e ascolto all’interno di sei
I contenuti principali dell’accordo
L’accordo di Parigi – 31 pagine e 29 articoli – non assegna ai singoli Paesi obiettivi
precisi di riduzione delle emissioni di gas a
effetto serra, ma stabilisce che l’aumento
della temperatura media del pianeta debba essere contenuto «ben al di sotto dei 2
ºC rispetto ai livelli preindustriali» (art. 2),
possibilmente limitandolo a 1,5 ºC. Eppure
sommando tutti gli INDC siamo quasi a 3
°C e quindi gli impegni volontari andranno
adattati al nuovo ambizioso obiettivo.
Per contenere l’aumento della temperatura
i Paesi dovranno raggiungere il picco delle emissioni di gas a effetto serra il prima
possibile (senza fornire alcuna indicazione
temporale) e da quel momento ridurle rapidamente (senza specificare quanto) per
arrivare a un equilibrio tra le emissioni da
attività umane e le rimozioni di gas serra
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Chiara Tintori
nella seconda metà di questo secolo (art. 4).
Ciò significa assumere la transizione energetica (nel testo non si ricorre mai al termine
decarbonizzazione), cioè la riconversione di
energia a basso contenuto di carbonio e il
miglioramento dell’efficienza, come la via
maestra nella lotta ai cambiamenti climatici.
I Paesi industrializzati hanno poi accettato
di finanziare il trasferimento delle tecnologie
a basse emissioni di carbonio nei Paesi in
via di sviluppo partendo da una base di 100
miliardi di dollari annui dal 2020. Nel 2014
i finanziamenti pubblici e privati mobilitati
sono stati pari a 62 miliardi di dollari.
Ogni 5 anni, dal 2023, vi sarà la revisione
degli obiettivi, dei progressi e della rivalutazione degli INDC, che dovranno mostrare un
progresso rispetto agli impegni precedenti
e ambizioni più elevate possibili (art. 14).
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gruppi tematici di negoziatori, è stato possibile limare i dissensi dialogando senza eccessive tensioni. In questo modo, le bozze dell’accordo sono migliorate col procedere della COP 21: da 200 opzioni
a poco più di un centinaio, da 1.400 termini tra parentesi quadre
(cioè ancora oggetto di trattativa) a 750. Fino alla riunione finale,
«l’Indaba delle soluzioni», orientata unicamente a come sciogliere
le parentesi quadre. Infine la bozza è stata approvata per consensus,
senza votazione formale. La riuscita di questi negoziati può essere un buon precedente perché l’odierno stile delle relazioni
internazionali, paralizzato su altre annose questioni, faccia un
salto di qualità?
Un’altra novità sul metodo, meno positiva della precedente, è stata l’impossibilità di svolgere le due grandi manifestazioni pubbliche
previste per il 29 novembre e il 12 dicembre a causa del divieto imposto dal Governo francese per motivi di sicurezza dopo gli attentati
del 13 novembre a Parigi. Una decisione simbolica (soprattutto alla
luce del fatto che partite di calcio e mercatini di Natale hanno avuto
il via libera) che ha rappresentato un’occasione persa, visto che gli
eventi paralleli della società civile non sono appendici dei negoziati
ufficiali, ma parte integrante della Conferenza stessa.
Sul futuro
L’affermazione contenuta nel preambolo che l’accordo «mira a
rafforzare la risposta globale alla minaccia dei cambiamenti climatici, in un contesto di sviluppo sostenibile e di sforzi per sradicare la
povertà», lascia ben sperare: senza questo orizzonte integrato, ogni
sforzo sarebbe vano.
Restano tuttavia delle inevitabili domande aperte. Questo accordo vincolante su base volontaria – per evitare il veto di alcuni
Stati – come potrà essere lo strumento adatto perché i mutamenti climatici, la dignità umana, la pace e lo sviluppo economico
siano i volti dell’ecologia integrale (cfr in questo numero l’intervista a Grammenos Mastrojeni, alle pp. 40-49)? In quali azioni efficaci si concretizzerà l’accordo, vigilando che i fondi vengano
realmente stanziati e su come saranno spesi? Come dotarsi di strumenti politici ed economici per raggiungere realmente l’ambizioso
obiettivo di limitare l’aumento della temperatura media globale?
Senza cedere a facili illusioni, una domanda si pone su tutte: come
potremo realisticamente allontanarci dai combustibili fossili, con il
prezzo del petrolio da mesi ormai sotto i 50 dollari al barile?
Inoltre, il patto riconosce la responsabilità comune di ciascun Paese ma differenziata secondo le rispettive capacità e condizioni (non
sono previsti vincoli né sanzioni per chi non rispettasse gli impegni).
Cambiamenti climatici, la partita inizia ora
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Certo, le responsabilità sono differenti e chiamano in causa livelli
nazionali e locali, pubblici e privati. Ma come articolare livelli così
diversi di responsabilità?
A Parigi poi più di mille città hanno preso impegni seri sul versante della transizione energetica e diversi filantropi privati hanno
scelto di investire nello sviluppo di tecnologie pulite. Ma soprattutto è essenziale che la società civile, vale a dire ciascuno di noi,
faccia la sua parte, tenendo il fiato sul collo ai decisori politici,
orientando con i propri consumi le scelte economiche, senza
dimenticare che clima e povertà vanno a braccetto.
Su queste pagine avevamo preso posizione sulla necessità che a
Parigi venisse raggiunto un accordo (cfr «Cambiamento climatico:
la sfida etica e politica. La voce della Rete Nazionale dei Centri per
l’Etica Ambientale», in Aggiornamenti Sociali 10 [2015] 668-673),
con un chiaro orientamento etico per la difesa della dignità umana, soprattutto dei più fragili, perché i popoli più vulnerabili agli
impatti dei mutamenti climatici sono anche i più poveri. Ci pare di
poter affermare che questo accordo mostra segni di assunzione di
una tale responsabilità, se non altro perché è stato capace di superare gli egoismi nazionali, riconoscendo il clima, la sua vivibilità e
stabilità come uno di quei beni comuni appartenenti a tutti e a tutti
destinati, che solo un’azione sinergica contro il degrado può tutelare.
D’altro canto le fragilità del patto stanno proprio nel suo essere
espressione di 195 Paesi, perché raggiungere un accordo globale
significa aver percorso l’inevitabile strada del compromesso politico. La comunità internazionale ha mostrato responsabile unità,
come raramente accade, ma questo accordo è il migliore possibile,
cioè veramente raggiungibile, per il bene dell’umanità, a fronte delle
condizioni presenti e storiche di ciascun Paese e del mondo intero?
«Ai posteri l’ardua sentenza».
La speranza è che la strada imboccata sia a senso unico e che
dalla COP 21 di Parigi non si possa più tornare indietro.
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