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• Forme Déco. Le mostre di Forlì e Faenza

“la Biblioteca di via Senato”, maggio 2017, pp. 37-41

maggio 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano 37 inSEDICESIMO LE MOSTRE – RIFLESSIONI E INTERPRETAZIONI – LO SCAFFALE DEL BIBLIOFILO LA MOSTRA/1 / FORME DÉCO Le mostre di Forlì e Faenza a cura di luca pietro nicoletti B asta mettere in fila alcuni eventi, scalati in un arco cronologico ristretto, per visualizzare in un unico colpo d’occhio la complessità e la molteplicità di vie su cui si articola la temperie Art Déco, con tutte le difficoltà che pone circoscrivere entro una formula univoca un fenomeno complesso che vuole in realtà abbracciare entro un’etichetta condivisa una costellazione di episodi che riflettono lo spirito di un’epoca. Nel 1921 prende avvio il grande cantiere del Vittoriale di Gabriele D’Annunzio; nel 1922, a Monza nasce l’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche (I.S.I.A.) e contestualmente prende vita la famosa Biennale di Monza, antesignano della futura Triennale di Milano a partire dagli anni Trenta; nel 1925, in una sede cruciale come l’Esposizione Universale del 1925, il giovane architetto Gio Ponti riceve una medaglia d’oro; l’anno successivo va in scena per la prima volta Turandot di Giacomo Puccini con scenografie di Galileo Chini, che era stato a Bangkok fra il 1911 e il 1914, e costumi di Umberto Brunelleschi, con cui riprende vigore la moda dell’Orientalismo, che si combina con gli effetti della scoperta in Egitto, nel 1922, della tomba del faraone Tutankhamen. Frattanto, l’approdo di due figure cruciali di questo rinnovamento nel vivo dell’industria manifatturiera provoca un sommovimento di lunga durata imprescindibile per leggere le sorti dell’Art Déco: nel 1923 un trentenne Francesco Nonni, Corteo Orientale, 1925, collezione privata, maiolica policroma con finiture a terzo fuoco, misure varie la Biblioteca di via Senato Milano – maggio 2017 38 Francesco Nonni, Danzatore con leopardo, 1925, maiolica, collezione privata Gio Ponti diventa direttore artistico, grazie a Guido Semenza, della manifattura ceramica di Augusto Richard, più nota come Richard Ginori (che lascia nel 1930 in favore di Giovanni Gariboldi), di cui segue limitatamente al settore delle “ceramiche d’arte” le manifatture di Doccia, Milano, Mondovì e Vado, divenendo il caso più sintomatico del cambiamento strutturale e concettuale in atto, portando per la prima volta il disegno moderno nell’industria e valorizzando al contempo le tecniche tradizionali, in modo da unire innovazione e identità locale della manifattura. Nello stesso periodo, un altro personaggio centrale di questo momento, Guido Andlovitz, diventa direttore della Società Ceramica Italiana di Laveno (1923). Contemporaneamente, a Venezia, un brillante industriale milanese, Paolo Venini, dava il via a una delle più importanti avventure della storia del vetro muranese, chiamando gli artisti (il pittore Vittorio Zecchin prima e lo scultore Napoleone Martinuzzi poi) a rinnovare nelle forme e nell’estetica una produzione di vetri d’arte che si era arenata nelle secche dell’eclettismo. Il nuovo stile trova persino una tribuna a stampa, dalle pagine di “Emporium” alle nuove riviste come “La Casa Bella” di Guido Marangoni e “Domus” dello stesso Ponti. L’elenco delle possibili congiunture potrebbe essere ancora più lungo, perché nel giro di poco tempo prendono avvio esperienze fra loro diversissime ma tenute insieme dal fatto di essere parte di un unico sistema. È questa la vicenda che cercano di raccontare parallelamente la grande mostra sull’Art Déco. Gli anni ruggenti in Italia 1919-1930 curata da Valerio Terraroli per i Musei di San Domenico a Forlì e, a latere, da Ceramica Déco Ceramics. Il gusto di un’epoca. The Style of an Era, curata da Claudia Casali presso il Museo Internazionale della Ceramica di Faenza (entrambe catalogo Silvana editoriale). Una panoramica ampia, che consente di mettere a fuoco costanti e momenti di discontinuità, eredità di antiche tradizioni formali e momenti di improvviso rinnovamento, di cui la ceramica si fa protagonista in prima persona, seppur non unico, di una tendenza del gusto che puntava senza mezzi termini a dare un’estetica coerente a tutti gli aspetti della vita quotidiana, trovandosi a dover conciliare le esigenze di semplificazione progettuale richieste dalle prime produzioni in serie con l’urgenza di un repertorio formale che non derogasse sul piano estetico alla massificazione del prodotto. Bastano le parole formulate sull’invito ai partecipanti della Biennale di Monza del 1927, citate dalla Casali in catalogo, per riassumerne lo spirito: agli espositori si chiedeva di presentare «una produzione media, normale e tipica, con campioni maggio 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano di produzione a serie, d’uso corrente e tuttavia nobili e degni». «Il Déco rappresenta», scrive Terraroli in catalogo, «il modo in cui la cultura media e medio-alta, pur avendo respinto i moduli Art Nouveau, ma intendendone salvaguardare i valori Décorativi per tradurli in valori di prestigio e commerciali, tenta l’operazione di aggiornare i repertori anteguerra tenendo conto dell’esperienza delle Avanguardie piegandola alle proprie finalità e quindi prendendone a prestito alcuni elementi espressivi e compositivi, ma rigettandone completamente i valori ideali e rivoluzionari. Il Déco gioca le proprie carte sul terreno dell’identificazione della bellezza con la decorazione, con l’obiettivo di creare atmosfere di lusso ed effetti di eleganza, squisitezza di tono, funambolica ed eclatante invenzione, realizzati attraverso una consolidata sapienza esecutiva e una sempre ricercata preziosità dei materiali (magari camuffando i meno nobili). Si ribadisce così il pregio dell’oggetto in sé come singolo pezzo d’artista o come prodotto specifico dell’artigianato elitario, pur a fronte di un conclamato richiamo alla necessità di allargare il mercato interno e di far crescere la produzione industriale italiana». Fra gli eloquenti cortocircuiti del momento, infatti, non è di poco conto ricordare che alla Biennale di Monza del 1927 Ponti presentava un grande otre decorato con un motivo di funi marinare, mentre Fortunato Depero portava dei grandi arazzi realizzati in tarsia di panno che dichiaravano l’obiettivo di una ricostruzione futurista dell’Universo capace di abbracciare tutti i campi dell’esistenza umana e declinarli secondo un’estetica unitaria, pienamente modernista. Due anni prima, invece, all’Esposizione di Parigi in cui la storiografia ha voluto riconoscere il momento aurorale dell’Art Déco (lo “stile 1925”) anziché il momento apicale se non conclusivo di un percorso pregresso- due faentini, Francesco Nonni e Anselmo Bucci, esponevano un Corteo orientale (19251927) in maiolica da centrotavola: una conturbante e graziosa processione di piccole figure, talvolta semplificate per essere riprodotte in serie, di stile orientaleggiante/africaneggiante che sintetizza bene questa oscillazione fra tendenze opposte: una stilizzazione figlia dei tempi moderni da una parte, che conduce a una sintesi plastica delle immagini non priva di tratti ironici, di 39 cui non è esente nemmeno l’estetica futurista anni Venti; e una vocazione al recupero della tradizione classica, che si nutre degli imput offerti dalla pittura Metafisica offrendone una versione semplificata (le piazze d’Italia approdano sui piatti da portata), e che trova nell’archeologia classica un momento di unità e di identità volto alla ricerca di uno stile nazionale unito al recupero valoriale delle tradizioni artigiane. Le figurette seminude, infatti, avanzano con movenze sensuali, addobbate con pochi ma sofisticati ornamenti. Basta vedere la baiadera che copre l’elefante, vero protagonista del gruppo, decorata a grandi motivi vegetali di valore astratto che si ritroveranno anche a ricoprire alcuni vasi di grandi dimensioni dello stesso periodo: una concessione alla sintesi astratta che fa quasi pensare a certi Domenico Rambelli, Vaso, realizzato da Anselmo Bucci, 1923, maiolica rifinita con terzo fuoco, Faenza, Regia Scuola di Ceramica, MIC Faenza 40 papier collée si Matisse di molto successivi, ma che in fondo non fa che dimostrare, come a lungo si è sostenuto, la discendenza di certa arte astratta dalla temperie Liberty come momento di sintesi lineare delle forme che conduceva per stadi progressivi alla non rappresentazione: qui, tuttavia, è un indizio che muove ancora i primi passi nello statuto di motivo ornamentale, per quanto paia già pronto a staccare un salto in avanti. Un’ironia leggera e sensuale percorre queste opere, anche quando si fanno i conti con la storia, e se ne potrebbe parlare in termini di stylish style, o di “bella maniera”, se non si trattasse in realtà si tratta di un eclettismo metamorfico e canzonatorio. Ne è un bell’esempio il grande orcio a fasce con figure gialle su un fondo blu notturno de La casa degli efebi disegnato e realizzato da Ponti nel 1925: una struttura visionaria fatta di trabeazioni sovrapposte su più livelli su cui ci si arrampicano gli efebi. Una invenzione eccentrica e solenne, come una quinta di teatro da perlustrare un dettaglio alla volta per apprezzare l’arguzia della singola scena e del singolo aneddoto in figura. Non siamo distanti dalla serie dei piatti e delle ciotole de Le mie donne: Domitilla, Emerenziana e le altre, nude e formose, fluttuano appese a delle corde, su un fondo rosso pompeiano che senza difficoltà si carica di connotazioni erotiche, anche se su uno sfondo arcaico e arcaizzante. Non è da trascurare, su un altro piano, il fatto che anche attraverso il decoro si va costruendo l’immagine di una nazione: è dal paesaggio italiano, in particolare la Biblioteca di via Senato Milano – maggio 2017 da quello di rovine archeologiche e da una peculiare presenza del gusto neoclassico, infatti, che secondo Ponti si doveva partire per elaborare il decoro moderno. È un affondo nel passato, caro a Ponti, la produzione di urne e ciste in ceramica di ispirazione etrusca, che si accompagna allo stesso tempo ai monumentali centrotavola a più figure, eredi di una tradizione neoclassica di eccesso ornamentale di cui era già un esempio il corteo di Nonni, ma di cui lo stesso Ponti offre una versione non trascurabile. La combinazione delle fonti e il prelievo da repertori formali e stilistici distanti fra loro non porta a una confusione delle lingue, perché ogni elemento morfologicamente autonomo viene ricondotto a una sintesi formale, a una vera e propria Dante Baldelli, Ceramiche Rometti, Cista degli arcieri, 1930 ca., h cm 45 x diam. 27, ceramica, Collezione Marco e Pietro Visconti stilizzazione: in questo conta non poco il contributo del razionalismo o del secondo futurismo, come nel caso della manifattura Rometti di Umbertide, il cui profilo tracciato da Lorenzo Fiorucci, dopo una esposizione monografica della fine del 2016, è uno dei contributi significativi della mostra faentina. Come scrive Terraroli, in cerca di un comun denominatore utile alla definizione circoscritta di un’estetica, si verifica qui una «interscambialità valoriale del concetto di decorazione evidenziata dalla linea netta, tagliente, dai colori antinaturalistici, dalla sovrapposizione tra realtà e sogno, tra realismo e astrazione simbolica, dal recupero di elementi classici, ma resi secchi, algidi e con un obiettivo dichiaratamente ornamentale». A lungo si è pensato che lo stile Déco fosse questione riguardante le sole arti applicate, come non avesse avuto ricadute nelle cosiddette arti “maggiori”; questa visione, tuttavia, risultava riduttiva di fronte alla portata e alla pervasività del fenomeno, che dagli oggetti d’uso si allargava all’architettura e da lì permeava anche pittura e scultura, andando a coinvolgere nella sua interezza ogni aspetto della vita delle forme. È su questo piano, infatti, che si misurano meglio continuità e radici del Déco nella Secessione, che coinvolgono artisti di varia origine, con un ruolo nel rinnovamento della scultura, da Libero Andreotti ad Adolfo Wildt e Domenico Rambelli. Anche Felice Casorati scultore, con le sue piccole teste in terracotta, non ne è esente. Tutto questo cadeva in un momento di slanci e di contraddizioni: maggio 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano è in clima di modernismo, infatti, che si discute in sede teorica sul contrasto fra una “bellezza elitaria”, e una “bellezza per tutti”, aprendo un confronto serrato fra industria ed artigianato, in concomitanza con tempi di rinnovamento per l’iter di formazione artistica. Una vera e propria geografia artistica, in tal senso, focalizza i centri di principale slancio propulsivo. Il territorio faentino, gravitante intorno al Museo Internazionale della Ceramica e alla Regia Scuola Ceramica, fondati di Ballardini, si mostra per esempio di particolare vitalità, specie grazie al Cenacolo baccariniano: vengono da lì molti dei nomi che si ritrovano alle biennali, da Francesco Nonni, attivo nel campo della ceramica e in quello della xilografia, ma anche Domenico Rambelli e Anselmo Bucci, fra cui si realizza un importante sodalizio dopo la nomina dei due alla Regia Scuola, a Pietro Melandri, legato alla Focaccia-Melandri dal 1922 al 1931. Non di poco conto la breve parentesi futurista in Romagna, di cui si fa portatore per qualche anno Riccardo Gatti, che porterà un’importante ventata di avanguardia. Ma soprattutto è Monza, nel cuore pulsante dell’industrializzazione del paese, il caso emblematico di questa vicenda per la combinazione congiunta di una grande scuola di formazione per le nuove leve dell’artigianato artistico (l’I.S.I.A.) e per la concomitanza con una delle rassegne più autorevoli per l’aggiornamento e il riconoscimento di un fatto di stile in una pubblica manifestazione. L’Italia stava giungendo sul crinale di convivenza fra piccole realtà Gio Ponti, La casa degli Efebi,i 1924-1925, Richard-Ginori, otre in maiolica dipinta a mano in marrone, ocra, nero e blu. Sesto Fiorentino, Museo Richard-Ginori della Manifattura di Doccia artigianali e produzione industriale, accendendo un dibattito importante: ci si domanda, prima di tutto, se le cose economiche, prodotte in serie, possano anche essere belle, o se il ricorso alle macchine non portasse con sé la minaccia di un dominio del mezzo meccanico sull’uomo. E sempre seguendo questa via, ci si interroga sul ART DÉCO. GLI ANNI RUGGENTI IN ITALIA 1919-1930 A cura di Valerio Terraroli FORLÌ, MUSEI DI SAN DOMENICO 11 febbraio - 18 giugno 2017 CERAMICA DÉCO CERAMICS. IL GUSTO DI UN’EPOCA. THE STYLE OF AN ERA A cura di Claudia Casali FAENZA, MUSEO INTERNAZIONALE DELLA CERAMICA 18 febbraio - 1 ottobre 2017 41 futuro delle scuole e della formazione dell’artigiano moderno: era arrivata la eco delle esperienze d’avanguardia d’oltralpe, che andava però ad innestarsi su un diverso punto di stile, per cui pensare, incanalare il lavoro creativo in forme utili alla pratica era tutt’altro che ovvio, specialmente per il fatto che la modernizzazione dei mezzi di produzione non andava di pari passo con un rinnovamento formale, e non mancavano casi di forme di foggia anticheggiante realizzati con i procedimenti più avanzati di messa in serie. Bisognava conquistare una larga fascia di pubblico a uno stile moderno e connotato come alternativa all’oggetto in stile, ma oscillando continuamente fra unicità dell’oggetto e allargamento alla sfera industriale. Alessandro Mazzucotelli, fra i primi docenti dell’ I.S.I.A., affermava infatti che bisognava «iniziare a svolgere un’azione larga, insistente e intelligente perché la gente si abitui a comprare soltanto le cose belle». Per questo alcuni sostenevano a gran voce la necessità degli artisti al servizio dell’industria, affinché con la propria competenza potessero portare un incremento di valore estetico. Ponti e Andlovitz, in questo, presentano presto una progettualità già pienamente industriale. Ma il nodo fra ornamento e semplificazione rimaneva insoluto. Come scrive sempre Terraroli, infatti, «la decorazione prevale sull’elemento plastico, l’ornamento volutamente astrattizzante condiziona la percezione del’oggetto, la scultura diventa soprammobile, il busto all’antica si metamorfizza nella donna moderna». [lpn]