maggio 2017 – la Biblioteca di via Senato Milano
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inSEDICESIMO
LE MOSTRE – RIFLESSIONI E INTERPRETAZIONI – LO SCAFFALE DEL BIBLIOFILO
LA MOSTRA/1
/
FORME DÉCO
Le mostre di Forlì e Faenza
a cura di luca pietro nicoletti
B
asta mettere in fila alcuni
eventi, scalati in un arco
cronologico ristretto, per
visualizzare in un unico colpo d’occhio
la complessità e la molteplicità di vie su
cui si articola la temperie Art Déco, con
tutte le difficoltà che pone circoscrivere
entro una formula univoca un
fenomeno complesso che vuole in
realtà abbracciare entro un’etichetta
condivisa una costellazione di episodi
che riflettono lo spirito di un’epoca. Nel
1921 prende avvio il grande cantiere
del Vittoriale di Gabriele D’Annunzio;
nel 1922, a Monza nasce l’Istituto
Superiore per le Industrie Artistiche
(I.S.I.A.) e contestualmente prende vita
la famosa Biennale di Monza,
antesignano della futura Triennale di
Milano a partire dagli anni Trenta; nel
1925, in una sede cruciale come
l’Esposizione Universale del 1925, il
giovane architetto Gio Ponti riceve una
medaglia d’oro; l’anno successivo va in
scena per la prima volta Turandot di
Giacomo Puccini con scenografie di
Galileo Chini, che era stato a Bangkok
fra il 1911 e il 1914, e costumi di
Umberto Brunelleschi, con cui riprende
vigore la moda dell’Orientalismo, che si
combina con gli effetti della scoperta in
Egitto, nel 1922, della tomba del
faraone Tutankhamen. Frattanto,
l’approdo di due figure cruciali di
questo rinnovamento nel vivo
dell’industria manifatturiera provoca un
sommovimento di lunga durata
imprescindibile per leggere le sorti
dell’Art Déco: nel 1923 un trentenne
Francesco Nonni, Corteo Orientale, 1925, collezione privata, maiolica policroma con finiture a terzo fuoco, misure varie
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Francesco Nonni, Danzatore con leopardo, 1925, maiolica, collezione privata
Gio Ponti diventa direttore artistico,
grazie a Guido Semenza, della
manifattura ceramica di Augusto
Richard, più nota come Richard Ginori
(che lascia nel 1930 in favore di
Giovanni Gariboldi), di cui segue
limitatamente al settore delle
“ceramiche d’arte” le manifatture di
Doccia, Milano, Mondovì e Vado,
divenendo il caso più sintomatico del
cambiamento strutturale e concettuale
in atto, portando per la prima volta il
disegno moderno nell’industria e
valorizzando al contempo le tecniche
tradizionali, in modo da unire
innovazione e identità locale della
manifattura. Nello stesso periodo, un
altro personaggio centrale di questo
momento, Guido Andlovitz, diventa
direttore della Società Ceramica Italiana
di Laveno (1923).
Contemporaneamente, a Venezia, un
brillante industriale milanese, Paolo
Venini, dava il via a una delle più
importanti avventure della storia del
vetro muranese, chiamando gli artisti (il
pittore Vittorio Zecchin prima e lo
scultore Napoleone Martinuzzi poi) a
rinnovare nelle forme e nell’estetica una
produzione di vetri d’arte che si era
arenata nelle secche dell’eclettismo. Il
nuovo stile trova persino una tribuna a
stampa, dalle pagine di “Emporium” alle
nuove riviste come “La Casa Bella” di
Guido Marangoni e “Domus” dello
stesso Ponti. L’elenco delle possibili
congiunture potrebbe essere ancora più
lungo, perché nel giro di poco tempo
prendono avvio esperienze fra loro
diversissime ma tenute insieme dal
fatto di essere parte di un unico
sistema. È questa la vicenda che
cercano di raccontare parallelamente la
grande mostra sull’Art Déco. Gli anni
ruggenti in Italia 1919-1930 curata da
Valerio Terraroli per i Musei di San
Domenico a Forlì e, a latere, da
Ceramica Déco Ceramics. Il gusto di
un’epoca. The Style of an Era, curata da
Claudia Casali presso il Museo
Internazionale della Ceramica di Faenza
(entrambe catalogo Silvana editoriale).
Una panoramica ampia, che consente
di mettere a fuoco costanti e momenti
di discontinuità, eredità di antiche
tradizioni formali e momenti di
improvviso rinnovamento, di cui la
ceramica si fa protagonista in prima
persona, seppur non unico, di una
tendenza del gusto che puntava senza
mezzi termini a dare un’estetica
coerente a tutti gli aspetti della vita
quotidiana, trovandosi a dover
conciliare le esigenze di semplificazione
progettuale richieste dalle prime
produzioni in serie con l’urgenza di un
repertorio formale che non derogasse
sul piano estetico alla massificazione
del prodotto. Bastano le parole
formulate sull’invito ai partecipanti
della Biennale di Monza del 1927, citate
dalla Casali in catalogo, per
riassumerne lo spirito: agli espositori si
chiedeva di presentare «una produzione
media, normale e tipica, con campioni
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di produzione a serie, d’uso corrente e
tuttavia nobili e degni». «Il Déco
rappresenta», scrive Terraroli in
catalogo, «il modo in cui la cultura
media e medio-alta, pur avendo
respinto i moduli Art Nouveau, ma
intendendone salvaguardare i valori
Décorativi per tradurli in valori di
prestigio e commerciali, tenta
l’operazione di aggiornare i repertori
anteguerra tenendo conto
dell’esperienza delle Avanguardie
piegandola alle proprie finalità e quindi
prendendone a prestito alcuni elementi
espressivi e compositivi, ma
rigettandone completamente i valori
ideali e rivoluzionari. Il Déco gioca le
proprie carte sul terreno
dell’identificazione della bellezza con la
decorazione, con l’obiettivo di creare
atmosfere di lusso ed effetti di
eleganza, squisitezza di tono,
funambolica ed eclatante invenzione,
realizzati attraverso una consolidata
sapienza esecutiva e una sempre
ricercata preziosità dei materiali
(magari camuffando i meno nobili). Si
ribadisce così il pregio dell’oggetto in sé
come singolo pezzo d’artista o come
prodotto specifico dell’artigianato
elitario, pur a fronte di un conclamato
richiamo alla necessità di allargare il
mercato interno e di far crescere la
produzione industriale italiana». Fra gli
eloquenti cortocircuiti del momento,
infatti, non è di poco conto ricordare
che alla Biennale di Monza del 1927
Ponti presentava un grande otre
decorato con un motivo di funi
marinare, mentre Fortunato Depero
portava dei grandi arazzi realizzati in
tarsia di panno che dichiaravano
l’obiettivo di una ricostruzione futurista
dell’Universo capace di abbracciare tutti
i campi dell’esistenza umana e
declinarli secondo un’estetica unitaria,
pienamente modernista. Due anni
prima, invece, all’Esposizione di Parigi in cui la storiografia ha voluto
riconoscere il momento aurorale
dell’Art Déco (lo “stile 1925”) anziché il
momento apicale se non conclusivo di
un percorso pregresso- due faentini,
Francesco Nonni e Anselmo Bucci,
esponevano un Corteo orientale (19251927) in maiolica da centrotavola: una
conturbante e graziosa processione di
piccole figure, talvolta semplificate per
essere riprodotte in serie, di stile
orientaleggiante/africaneggiante che
sintetizza bene questa oscillazione fra
tendenze opposte: una stilizzazione
figlia dei tempi moderni da una parte,
che conduce a una sintesi plastica delle
immagini non priva di tratti ironici, di
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cui non è esente nemmeno l’estetica
futurista anni Venti; e una vocazione al
recupero della tradizione classica, che si
nutre degli imput offerti dalla pittura
Metafisica offrendone una versione
semplificata (le piazze d’Italia
approdano sui piatti da portata), e che
trova nell’archeologia classica un
momento di unità e di identità volto
alla ricerca di uno stile nazionale unito
al recupero valoriale delle tradizioni
artigiane. Le figurette seminude, infatti,
avanzano con movenze sensuali,
addobbate con pochi ma sofisticati
ornamenti. Basta vedere la baiadera
che copre l’elefante, vero protagonista
del gruppo, decorata a grandi motivi
vegetali di valore astratto che si
ritroveranno anche a ricoprire alcuni
vasi di grandi dimensioni dello stesso
periodo: una concessione alla sintesi
astratta che fa quasi pensare a certi
Domenico Rambelli, Vaso, realizzato da Anselmo Bucci, 1923, maiolica rifinita con terzo fuoco,
Faenza, Regia Scuola di Ceramica, MIC Faenza
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papier collée si Matisse di molto
successivi, ma che in fondo non fa che
dimostrare, come a lungo si è
sostenuto, la discendenza di certa arte
astratta dalla temperie Liberty come
momento di sintesi lineare delle forme
che conduceva per stadi progressivi alla
non rappresentazione: qui, tuttavia, è
un indizio che muove ancora i primi
passi nello statuto di motivo
ornamentale, per quanto paia già
pronto a staccare un salto in avanti.
Un’ironia leggera e sensuale
percorre queste opere, anche quando si
fanno i conti con la storia, e se ne
potrebbe parlare in termini di stylish
style, o di “bella maniera”, se non si
trattasse in realtà si tratta di un
eclettismo metamorfico e canzonatorio.
Ne è un bell’esempio il grande orcio a
fasce con figure gialle su un fondo blu
notturno de La casa degli efebi
disegnato e realizzato da Ponti nel
1925: una struttura visionaria fatta di
trabeazioni sovrapposte su più livelli su
cui ci si arrampicano gli efebi. Una
invenzione eccentrica e solenne, come
una quinta di teatro da perlustrare un
dettaglio alla volta per apprezzare
l’arguzia della singola scena e del
singolo aneddoto in figura. Non siamo
distanti dalla serie dei piatti e delle
ciotole de Le mie donne: Domitilla,
Emerenziana e le altre, nude e formose,
fluttuano appese a delle corde, su un
fondo rosso pompeiano che senza
difficoltà si carica di connotazioni
erotiche, anche se su uno sfondo
arcaico e arcaizzante. Non è da
trascurare, su un altro piano, il fatto
che anche attraverso il decoro si va
costruendo l’immagine di una nazione:
è dal paesaggio italiano, in particolare
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da quello di rovine archeologiche e da
una peculiare presenza del gusto
neoclassico, infatti, che secondo Ponti
si doveva partire per elaborare il decoro
moderno. È un affondo nel passato,
caro a Ponti, la produzione di urne e
ciste in ceramica di ispirazione etrusca,
che si accompagna allo stesso tempo ai
monumentali centrotavola a più figure,
eredi di una tradizione neoclassica di
eccesso ornamentale di cui era già un
esempio il corteo di Nonni, ma di cui lo
stesso Ponti offre una versione non
trascurabile. La combinazione delle
fonti e il prelievo da repertori formali e
stilistici distanti fra loro non porta a
una confusione delle lingue, perché
ogni elemento morfologicamente
autonomo viene ricondotto a una
sintesi formale, a una vera e propria
Dante Baldelli, Ceramiche Rometti, Cista
degli arcieri, 1930 ca., h cm 45 x diam. 27,
ceramica, Collezione Marco e Pietro Visconti
stilizzazione: in questo conta non poco
il contributo del razionalismo o del
secondo futurismo, come nel caso della
manifattura Rometti di Umbertide, il
cui profilo tracciato da Lorenzo
Fiorucci, dopo una esposizione
monografica della fine del 2016, è uno
dei contributi significativi della mostra
faentina. Come scrive Terraroli, in cerca
di un comun denominatore utile alla
definizione circoscritta di un’estetica, si
verifica qui una «interscambialità
valoriale del concetto di decorazione
evidenziata dalla linea netta, tagliente,
dai colori antinaturalistici, dalla
sovrapposizione tra realtà e sogno, tra
realismo e astrazione simbolica, dal
recupero di elementi classici, ma resi
secchi, algidi e con un obiettivo
dichiaratamente ornamentale».
A lungo si è pensato che lo stile
Déco fosse questione riguardante le
sole arti applicate, come non avesse
avuto ricadute nelle cosiddette arti
“maggiori”; questa visione, tuttavia,
risultava riduttiva di fronte alla portata
e alla pervasività del fenomeno, che
dagli oggetti d’uso si allargava
all’architettura e da lì permeava anche
pittura e scultura, andando a
coinvolgere nella sua interezza ogni
aspetto della vita delle forme. È su
questo piano, infatti, che si misurano
meglio continuità e radici del Déco
nella Secessione, che coinvolgono
artisti di varia origine, con un ruolo nel
rinnovamento della scultura, da Libero
Andreotti ad Adolfo Wildt e Domenico
Rambelli. Anche Felice Casorati
scultore, con le sue piccole teste in
terracotta, non ne è esente.
Tutto questo cadeva in un
momento di slanci e di contraddizioni:
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è in clima di modernismo, infatti, che si
discute in sede teorica sul contrasto fra
una “bellezza elitaria”, e una “bellezza
per tutti”, aprendo un confronto
serrato fra industria ed artigianato, in
concomitanza con tempi di
rinnovamento per l’iter di formazione
artistica. Una vera e propria geografia
artistica, in tal senso, focalizza i centri
di principale slancio propulsivo.
Il territorio faentino, gravitante
intorno al Museo Internazionale della
Ceramica e alla Regia Scuola Ceramica,
fondati di Ballardini, si mostra per
esempio di particolare vitalità, specie
grazie al Cenacolo baccariniano:
vengono da lì molti dei nomi che si
ritrovano alle biennali, da Francesco
Nonni, attivo nel campo della ceramica
e in quello della xilografia, ma anche
Domenico Rambelli e Anselmo Bucci,
fra cui si realizza un importante
sodalizio dopo la nomina dei due alla
Regia Scuola, a Pietro Melandri, legato
alla Focaccia-Melandri dal 1922 al
1931. Non di poco conto la breve
parentesi futurista in Romagna, di cui
si fa portatore per qualche anno
Riccardo Gatti, che porterà
un’importante ventata di avanguardia.
Ma soprattutto è Monza, nel cuore
pulsante dell’industrializzazione del
paese, il caso emblematico di questa
vicenda per la combinazione congiunta
di una grande scuola di formazione per
le nuove leve dell’artigianato artistico
(l’I.S.I.A.) e per la concomitanza con una
delle rassegne più autorevoli per
l’aggiornamento e il riconoscimento di
un fatto di stile in una pubblica
manifestazione.
L’Italia stava giungendo sul crinale
di convivenza fra piccole realtà
Gio Ponti, La casa degli Efebi,i 1924-1925,
Richard-Ginori, otre in maiolica dipinta
a mano in marrone, ocra, nero e blu.
Sesto Fiorentino, Museo Richard-Ginori
della Manifattura di Doccia
artigianali e produzione industriale,
accendendo un dibattito importante: ci
si domanda, prima di tutto, se le cose
economiche, prodotte in serie, possano
anche essere belle, o se il ricorso alle
macchine non portasse con sé la
minaccia di un dominio del mezzo
meccanico sull’uomo. E sempre
seguendo questa via, ci si interroga sul
ART DÉCO. GLI ANNI RUGGENTI
IN ITALIA 1919-1930
A cura di Valerio Terraroli
FORLÌ, MUSEI DI SAN DOMENICO
11 febbraio - 18 giugno 2017
CERAMICA DÉCO CERAMICS.
IL GUSTO DI UN’EPOCA.
THE STYLE OF AN ERA
A cura di Claudia Casali
FAENZA, MUSEO INTERNAZIONALE
DELLA CERAMICA
18 febbraio - 1 ottobre 2017
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futuro delle scuole e della formazione
dell’artigiano moderno: era arrivata la
eco delle esperienze d’avanguardia
d’oltralpe, che andava però ad
innestarsi su un diverso punto di stile,
per cui pensare, incanalare il lavoro
creativo in forme utili alla pratica era
tutt’altro che ovvio, specialmente per il
fatto che la modernizzazione dei mezzi
di produzione non andava di pari passo
con un rinnovamento formale, e non
mancavano casi di forme di foggia
anticheggiante realizzati con i
procedimenti più avanzati di messa in
serie. Bisognava conquistare una larga
fascia di pubblico a uno stile moderno
e connotato come alternativa
all’oggetto in stile, ma oscillando
continuamente fra unicità dell’oggetto
e allargamento alla sfera industriale.
Alessandro Mazzucotelli, fra i primi
docenti dell’ I.S.I.A., affermava infatti
che bisognava «iniziare a svolgere
un’azione larga, insistente e intelligente
perché la gente si abitui a comprare
soltanto le cose belle». Per questo
alcuni sostenevano a gran voce la
necessità degli artisti al servizio
dell’industria, affinché con la propria
competenza potessero portare un
incremento di valore estetico. Ponti e
Andlovitz, in questo, presentano
presto una progettualità già
pienamente industriale. Ma il nodo fra
ornamento e semplificazione rimaneva
insoluto. Come scrive sempre Terraroli,
infatti, «la decorazione prevale
sull’elemento plastico, l’ornamento
volutamente astrattizzante condiziona
la percezione del’oggetto, la scultura
diventa soprammobile, il busto
all’antica si metamorfizza nella donna
moderna». [lpn]