Tobias Eisermann
LA BALLATA DELLA PRIMAVERA TRA GUIDO E DANTE
Una nuova proposta d’attribuzione di ‘Fresca rosa novella’ [1]
La ballata Fresca rosa novella è stata sempre considerata dagli studiosi di Cavalcanti una composizione ‘arcaica’ rispetto al corpus delle circa cinquanta poesie attribuite al noto contemporaneo di Dante.[2] Già a un primo sguardo la poesia si rivela formalmente e contenutisticamente un ‘caso a parte’ all'interno dell'opera di Cavalcanti:
Fresca rosa novella,
piacente primavera,
per prata e per rivera
gaiamente cantando,
vostro fin presio io mando – a la verdura.
Lo vostro presio fino
in giò si rinovelli
da grandi e da zitelli
per ciascuno camino;
e cantin[n]e gli auselli
ciascuno in suo latino
da sera e da matino
su li verdi arbuscelli.
Tutto lo mondo canti,
po' che lo tempo vène,
si come si convene,
vostr'altezza presiata:
ché siete angelicata – crïatura.
Angelica sembranza
in voi, donna, riposa:
Dio, quanto aventurosa
fue la mia disïanza!
Vostra cera gioiosa,
poi che passa e avanza
natura e costumanza,
ben è mirabil cosa.
Fra lor le donne dea
vi chiaman, come sète;
tanto adorna parete,
ch'eo non saccio contare;
e chi poria pensare – oltra natura?
Oltra natura umana
vostra fina piasenza
fece Dio, per essenza
che voi foste sovrana:
per che vostra parvenza
ver' me non sia luntana;
or non mi sia villana
la dolce provedenza!
E se vi pare oltraggio
ch'ad amarvi sia dato,
non sia da voi blasmato:
ché solo Amor mi sforza,
contra cui non val forza – né misura.[3]
Nell’insieme del corpus poetico dell'autore il testo viene ad occupare una posizione isolata e anomala. In assenza di qualsiasi attribuzione nessun lettore che avesse un po' di dimestichezza con la poesia amorosa del XIII secolo esiterebbe ad assegnare il componimento alla cerchia di autori siculo-toscani precursori dello Stilnovismo. Ciononostante, a partire dalle edizioni critiche dell'ottocento la poesia viene assegnata in modo unanime da tutti gli editori alla penna di Guido Cavalcanti.[4] Da allora la questione sulla correttezza di una tale problematicissima attribuzione non è stata mai neppure accennata nella letteratura critica. Di seguito riassumeremo una serie di ragioni che a nostro avviso impongono di considerare almeno come molto dubbia l’ascrizione di Frn a Cavalcanti. Infine verrà proposta una nuova paternità della poesia, e saranno presentate argomentazioni a sostegno di tale ipotesi.
L’arcaica ballata è conservata in quattro codici, nonché nella stampa rinascimentale degli Eredi di Filippo Giunta comunemente nota come Giuntina, e in una postilla scritta a mano allegata all'esemplare milanese della Giuntina. Significativamente, in tre dei quatto manoscritti e nelle due versioni della Giuntina l'opera è attribuita a "Dante" o a "Dante Alighieri", mentre solamente in un unico codice essa è presente con la didascalia, "Guido a Dante" tra i testi di quest’ultimo. Seguiranno adesso alcune considerazioni sulla tradizione di questo testo, a partire dai documenti meno rilevanti in quest'ottica. La Giuntina rappresenta la prima e più importante edizione a stampa del Rinascimento con testi di poeti medioevali. Edita nel 1527 a Firenze dagli Eredi di Filippo Giunta, comprende in totale dieci sezioni definite "libri". Le prime quattro sezioni contengono esclusivamente poesie attribuite a Dante Alighieri; seguono poi gruppi di testi assegnati a Cino da Pistoia, Guido Cavalcanti, Dante da Maiano. Frn si trova tra i testi attribuiti a Dante Alighieri, esattamente all'inizio della seconda sezione, immediatamente dopo i sonetti della Vita Nuova. D'ora in avanti utilizzeremo per i manoscritti e le stampe le abbreviazioni adottate da Guido Favati nella sua edizione critica delle poesie di Cavalcanti[5]: ad es. Giuntina = Giunt etc. Nel già ricordato esemplare milanese della Giuntina, che si trova oggi nella Biblioteca Trivulziana (da cui la sigla Bt), il testo della ballata appare inoltre, adespoto, nell'allegato redatto a mano da Lorenzo Bartolini. La Giuntina – titolo completo: "Sonetti e Canzoni di Diversi Antichi Autori Toscani" – ha un ruolo rilevante nella tradizione dei testi di questi "antichi" autori toscani, e supera di gran lunga per importanza la maggior parte dei manoscritti rinascimentali e di molti codici anche più antichi. Questa straordinaria rilevanza si fonda sul fatto che Giunt fu redatta sulla base di uno o più codici importanti poi andati perduti. Ciò significa che molti testi sono presenti solamente in Giunt - o in edizioni più tarde che si basano su Giunt - come nel caso di tutti i componimenti di Dante da Maiano, fatto che indusse a formulare la tesi a lungo sostenuta, e oggi ridotta al rango di curiosità, che tale nome fosse stato assunto quale pseudonimo da amanti della poesia antica alla corte dei Medici, per introdurre nell'antologia sotto il nome del "Dante minore" le proprie imitazioni nello stile dell'epoca.
Un altro tassello nella tradizione di Frn è il codice conservato nella Biblioteca dell'università di Bologna sotto la sigla 1289 (Uba), redatto, e almeno in parte anche scritto, da Antonio Giganti circa cinquanta anni dopo Giunt, dietro incarico di Ludovico Beccadelli. Qui Frn è posta dopo numerosi testi di autori siciliani e alcune poesie di Guinizzelli, e prima di testi anonimi o attribuiti a Petrarca, isolata e accompagnata dal titolo "Messer Dante Allighieri" (sic). Quasi contemporaneamente a Giunt apparve invece uno dei più importanti manoscritti con poesia del tardo medioevo italiano, il Codex Vaticanus latinus 3214 della Biblioteca Apostolica Vaticana (Va). Va fu compilato nel 1523 da Giulio Camillo Delmino per Pietro Bembo, il famoso letterato che come è noto si impegnò attivamente per la conservazione, la raccolta e l'edizione di antica poesia italiana. All'inizio del grande codice si trovano alcune poesie di Cavalcanti – XXXV, XIX nonché la poesia "Li occhi di quella...", oggi non più attribuitagli -, ma Frn si trova, dopo testi di Guinizzelli e numerose poesie siculo-toscane, solamente ai fogli 96v-97r, inserita tra poesie di contemporanei più o meno noti di Dante e Cavalcanti, come Cino da Pistoia, Lapo Gianni, Guido Orlandi, Monaldo da Sofena o Nuccio Fiorentino. Il testo è accompagnato solamente dalla generica rubrica "Dante".
Uno dei primi codici giunti fino a noi con poesie antiche italiane è il codice Palatino 418, un tempo conservato a Heidelberg e oggi registrato come B(anco) R(ari) 217 nella Biblioteca Nazionale di Firenze (Pe). Assieme all'altro manoscritto fiorentino Laurenziano-Rediano 9 (Li) del fondo di Francesco Redi, oggi nella Biblioteca Medicea-Laurenziana a Firenze, Pe è l'unico codice contenente poesie attribuite a Cavalcanti che sia stato redatto ancora entro il XIII secolo. Tra numerosi testi di autori siculo-toscani, tra gli altri di Buonagiunta Orbicciani, Monaldo da Sofena, Pace Notaio e un certo Onesto[6], Frn si trova qui sotto la didascalia "Dante dalaghieri da firençe" sul foglio 70r, posta tra due versioni - le cui lievi differenze formali danno vita a due testi contenutisticamente completamente diversi - di quella ballata attribuita a tale "Ser Honesto" che comincia con "La partença ke fo dolorosa e / grauosa...". Frn è nell'intero manoscritto Pe la sola poesia che sia stata successivamente messa in relazione al Dolce stil novo. Tutti gli altri testi ivi contenuti risalgono alla prima ed epigonale poesia toscana, ancora sotto il marcato influsso dei siciliani. Come Li, dove nel foglio 129r si trova, anonima, "Biltà di donna..." (III) di Cavalcanti, Pe risale al periodo prima dell'affermazione degli stilnovisti. In quest'epoca il gusto prevalente dei compilatori si mostrava ancora diffidente di fronte alle innovazioni fiorentine. Le poesie di Cavalcanti e Dante, nonché di tutti gli altri cosidetti stilnovisti, appariranno solamente diversi decenni più tardi.
A questo periodo, circa a metà del XIV secolo, risale l'ultimo codice - e il più importante per l'attribuzione di Frn - che ha un ruolo fondamentale nella storia della tradizione della prima poesia italiana. Si tratta del codice Chigiano L VIII 305 (Ca) dalla collezione del barone Chigi, anch'esso, come il codice redatto per Pietro Bembo (Va), nella Biblioteca Apostolica del Vaticano. Il magnifico volume contiene un corpus ingente di poesia stilnovista, comprendente tra l’altro l'intera Vita Nuova, nonché tre decine circa di precursori, oltre duecento poesie anonime, esclusivamente sonetti, e alla fine alcuni testi di Francesco Petrarca. La rubrica di queste ultime poesie, il cui inserimento nell'antologia testimonia la stima di cui godeva l’autore contemporaneo, presenta l’incerta trascrizione del nome – cosa tuttavia all'epoca molto diffusa – "franciesco petracchi", un dettaglio indicatore della lacunosa cultura del redattore, il quale non conosceva il nome del poeta più significativo del suo tempo. Questo fatto non era però, come abbiamo già accennato, un caso isolato, anzi era addirittura un tratto tipico dell'epoca, come provano anche i numerosi errori presenti nei testi dei manoscritti antichi. Frn si trova ancora all'interno di un gruppo di testi attribuiti a Dante Alighieri, esattamente al termine di questi, e prima di poesie di Cino da Pistoia. A differenza di tutti i codici citati in precedenza, qui Frn porta la rubrica "Guido a Dante”. Appare giustificata la questione sul perché questo codice sia stato considerato decisivo per l'attribuzione di Frn, tanto da annullare tutte le indicazioni e attribuzioni degli altri codici a Dante Alighieri o a un non meglio precisato "Dante" (Va). Ca non è uno dei codici più antichi, come Pe o Li, ma è il primo che presenti un numero consistente di poesie del Cavalcanti, oltre gli usuali uno o due componimenti. I testi di Cavalcanti contenuti in Ca, si suddividono, a parte tre poesie isolate – XXXII (f. 27r), XLll (93v) e appunto Frn (39r) - in due gruppi più consistenti. Il primo comincia nel f. 3r, dopo sei poesie di Guido Guinizzelli, e termina nel f. 6v. Il gruppo contiene già alcuni dei testi più importanti di Cavalcanti: XXX, XIX, XXXI, XXVII, IX, XLVI, XXV, XIV, XXXIV, X, XXXV, XXVI, XI.[7] Alla pastorella di Cavalcanti (XLVI) fa seguito la replica di Lapo degli Uberti "Guido quanto dicesti..."; le due ballate "I vidi donne..." e "Sol per pietà..." sono accompagnate dalla rubrica "Guido Cavalcanti e Iacopo".[8] Segue poi, da 56r a 61r, il secondo gruppo di poesie, ventisei componimenti la cui attribuzione a Cavalcanti non è oggi più messa in dubbio. Ma anche all'interno di questo gruppo ci sono almeno due attribuzioni chiaramente errate. Sia il sonetto di Dante "Amore e Monna Lagia..." (59r) che il sonetto "Morte gentil..." (57r), oggi ascritto a Lippo Pasci de' Bardi,[9] sono qui presentate appunto come poesie di Cavalcanti.
Solamente un unico codice tra i cinque passati in rassegna autorizzerebbe quindi, a prestar fede all'indicazione "Guido a Dante", l'attribuzione di Frn a Cavalcanti. Ciò presupporrebbe il fatto, accettato ormai dalla critica, che si tratti di una poesia inviata da Cavalcanti a Dante. Occorre però ricordare che i nomi Guido e Dante non erano affatto inusuali, alla fine del XIII secolo, a Firenze o in generale nell'Italia centrale. Al contrario, essi erano molto frequenti, come provano i nomi di alcuni poeti dell'epoca: Guido Guinizzelli, Dante da Maiano, Guido Orlandi. Un altro dato da considerare è che la percentuale di errori nelle attribuzioni dei codici conservati è molto alta. Il lettore odierno non viene più posto di fronte a tali questioni attributive. Perfino in un'accurata edizione critica delle poesie del Cavalcanti come quella del Favati non sempre viene ricostruita la storia della tradizione di ogni componimento. Favati non indica, ad esempio, che Frn si trova in Ca tra le poesie di Dante Alighieri, accompagnata dall'indicazione "Guido a Dante". La presenza della poesia in Ca viene documentata solamente attraverso il rinvio, senza ulteriori commenti, alla pagina in cui si trova nel codice, lasciando quindi supporre, seguendo i criteri di Favati, che la poesia sia in questo codice attribuita senza ombra di dubbio a Cavalcanti.[10]
Comunque sia, un'unica indicazione di paternità, tra l'altro assai imprecisa, a un certo “Guido”, non può essere sufficiente a fondare un’attribuzione certa della poesia a Cavalcanti. È quindi necessario trovare altri criteri per provare la correttezza di tale ipotesi, ovvero criteri interni, di natura stilistica. Il fatto di ricorrere solamente ad argomentazioni esterne al testo per provare l'attribuzione di un’opera sembra nel caso di Frn essere accettato dalla critica senza obiezioni. L'argomento principale su cui a partire dalla fine del XIX secolo si è pensato di assegnare il testo a Cavalcanti - al posto dell'attribuzione a Dante fino ad allora dominante – si fonda su un passo della Vita Nuova. Dante descrive nel XXIV capitolo della sua opera giovanile l'incontro con due donne, delle quali una è Beatrice. L'altra donna viene descritta come segue:
(...) una gentile donna, la quale era di famosa bieltade, e fue già molto donna di questo mio primo amico. E lo nome di questa donna era Giovanna, salvo che per la sua bieltade, secondo che altri crede, imposto l'era nome Primavera; e così era chiamata.
V.N. XXIV, 3[11]
Successivamente Amore si rivolge al narratore:
(...) e parve che Amore mi parlasse nel cuore e dicesse: "Quella prima è nominata Primavera solo per questa venuta oggi ché io mossi lo imponitore del nome a chiamarla così Primavera (...)
Questo passo è stato portato a confronto – cosa a prima vista logica e naturale – con l'inizio di Frn, in cui l'autore canta la donna in questione con il nome di "primavera":
Fresca rosa novella
piacente primavera
(...)
Cavalcanti avrebbe quindi usato per la donna da lui cantata, Giovanna, il senhal "Primavera". La ballata sarebbe quindi stata inviata, come proverebbe l'indicazione nel codice Ca, da "Guido a Dante" il quale si sarebbe riferito a sua volta a questa circostanza nella Vita Nuova. Ad una osservazione più attenta questa deduzione a prima vista logica appare però piuttosto problematica. La funzione di senhal del termine 'primavera' nel senso descritto da Dante non è presente – come giustamente affermato da Rachel Jacoff nel 1977[12] - in Frn. Rivolgersi alla donna cantandola come 'primavera' è tipico, in un testo così arcaico, come l'appellativo di "rosa" nel primo verso. L'uso dell’iniziale maiuscola, inserita da Favati nella sua edizione critica, non è perciò giustificabile. Dante utilizza il termine 'primavera' nel passo della Vita Nuova per l'ingresso in scena di entrambe le donne, e chiarisce che il senhal per 'donna Giovanna' ha un preciso senso in relazione al suo ruolo di 'precorritrice' rispetto a Beatrice:
(...) Primavera, cioè prima verrà lo die che Beatrice si mostrerà dopo la imaginazione del suo fedele (...)
V. N. XXIV, 4
Anche il 'vero' nome della donna di Guido, Giovanna, viene interpretato da Dante in questa prospettiva:
E se anche vogli considerare lo primo nome suo, tanto è quanto dire 'prima verrà', però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce, dicendo: Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini.
Dante utilizza quindi il nome della donna di Guido esattamente come fa con il suo senhal in un'ottica puramente funzionale, per sottolineare ulteriormente, tramite il loro valore metaforico, il ruolo di illuminazione divina di Beatrice, proprio nel suo accostamento a Cristo.[13] "Primavera" (‘prima verrà’) precede Beatrice come Giovanni Battista precedette Gesù Cristo.
È quindi Dante a fare del termine "Primavera" un senhal. Frn è invece assolutamente comprensibile anche senza considerare una ipotetica funzione di senhal del termine 'primavera' contenuto nel secondo verso, o almeno non è dato riconoscere un'intenzione dell'autore in questa direzione. L'immagine della donna come 'primavera' ha la stessa valenza di quella della donna come 'rosa' (verso 1), è ovvero da leggersi nell’ambito tradizionale delle metafore del topos primaverile. Pur ammettendo che Cavalcanti abbia usato il senhal 'primavera' per la sua donna, questo resterebbe comunque l'unico esempio nel corpus della sua produzione. Gli altri testi che avrebbero utilizzato tale appellativo sarebbero quindi andati perduti, a meno che Cavalcanti non abbia chiamato così Giovanna solamente in questo unico testo giovanile. Gianfranco Contini ha proposto una tesi leggermente diversa, secondo la quale non si tratterebbe di un vero senhal. Contini afferma che Dante nel passo citato nella Vita Nuova intenda fare un riferimento a Frn, attribuendo da parte sua al termine 'primavera' un altro significato. "Ma non si tratta di vero senhal (...). Dante allude semplicemente alla seguente ballata, e per conto suo cava un significato affatto nuovo da Primavera ('prima verrà').[14] Ma anche questa interpretazione appare ad un esame accurato del contesto e della forma testuale non convincente. Al contrario, vengono alla luce fatti che mettono fortemente in dubbio l'attribuzione di Frn a Cavalcanti.
Già la catalogazione di Frn come componimento di corrispondenza inviato da Cavalcanti a Dante solleva forti dubbi. Sul ruolo da attribuire alla 'autobiograficità' della Vita Nuova sono già state scritte importanti analisi come, ad esempio, quella di Domenico De Robertis.[15] Nella raccolta delle sue poesie giovanili, e nell'inserimento di queste all'interno del testo in prosa, Dante ha agito con grande libertà per concentrare l'eterogeneo materiale attorno alla figura di Beatrice. D'Arco Silvio Avalle annota ironicamente a proposito dei dettagli biografici della Vita Nuova che essi “soffrono senza dubbio del confronto con l'unica verità vera, quella della fantasia e del sogno."[16] La Vita Nuova contiene comunque informazioni, soprattutto di ordine cronologico, la cui concordanza con alcune date della gioventù di Dante non è mai stata messa in dubbio. Nel nostro caso non esiste neanche motivo di farlo. Dante racconta nella Vita Nuova (III), come cominciò a farsi un nome all'interno della cerchia dei poeti fiorentini e toscani, inviando ad essi il sonetto "A ciascun' alma presa...":
Pensando io a ciò che m'era apparuto, pruoposi di farlo sentire a molti li quali erano famosi trovatori in quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l'arte del dire parole per rima, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d'Amore (...)
V. N. III, 9
La data viene oggi concordemente posta all'inizio degli anni '80, più esattamente attorno al 1283/84. Delle molte risposte ricevute se ne conservano oggi solamente tre. Una di esse è attribuita oggi a Dante da Maiano, un'altra, della quale per anni era stato erroneamente ritenuto autore Cino da Pistoia, è probabilmente da attribuire al poco conosciuto Terino da Castelfiorentino. Della terza poesia, infine, è autore Guido Cavalcanti, ed è anche l'unica di cui Dante citi l'incipit nella Vita Nuova. Secondo le parole di Dante questo scambio di sonetti rappresenta l'inizio del suo rapporto di amicizia con Cavalcanti:
A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie; tra li quali fue risponditore quelli cui io chiamo primo de li miei amici, e disse allora uno sonetto, lo quale comincia: Vedeste, al mio parere, onne valore. E questo fue quasi lo principio de l'amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li aveva ciò mandato.
V. N. III, 14
Se la dedica "Guido a Dante" riferita a Frn fosse vera, la ballata dovrebbe quindi collocarsi cronologicamente dopo questo scambio di poesie. Un confronto linguistico e stilistico con il sonetto chiaramente più maturo "Vedeste, al mio parere..." sembra però escludere questa possibilità. Sia da un punto di vista lessicale che stilistico Frn non può essere accostata né a "Vedeste, al mio parere..." (XXXVII), né alle altre poesie oggi attribuite a Cavalcanti. Già la forma di questa ballata rappresenta una eccezione, che non è altrove documentabile tra gli stilnovisti. Essa si compone di una stanza introduttiva con lo schema ABBCcD, e di tre ulteriori strofe, la cui fronte è formata da due piedi secondo lo schema ABBA BAAB, mentre la sirma corrisponde esattamente alla strofa introduttiva, compresa la rima interna nel quinto verso. Tutti i passaggi da una strofa all'altra sono contrassegnati dalla ripresa di un sintagma pressoché identico della strofa precedente: "fin pregio" / "pregio fino" (vv. 5-6), "angelicata crïatura" / "Angelica sembianza" (vv. 18-19), "oltra natura" / "Oltra natura (umana)" (vv. 31-32). Tale procedimento molto diffuso tra i trovatori e tra i loro successori siculo-toscani viene definito con l'espressione provenzale coblas capfinidas (strofe collegate, intrecciate).[17]
Le altre ballate di Cavalcanti sono contrassegnate da una diversa tipologia di collegamento tra le strofe - assente in Frn - chiamato concatenatio, in cui la sirma di ogni stanza è collegata alla fronte attraverso la ripresa della rima dell’ultimo verso. Frn sarebbe quindi l'unica ballata di Cavalcanti che non presenta una concatenatio tra le strofe. Anche il numero di versi della fronte di Frn è piuttosto singolare rispetto alle altre ballate di Cavalcanti, dove la fronte è composta normalmente da non più di quattro versi, in quasi tutti i casi endecasillabi. Solamente la cosidetta Ballata dell'esilio "Perch'i' no spero..." (XXXV)[18] presenta una fronte composta da sei endecasillabi. La fronte di Frn ha invece otto settenari con lo schema abba baab, dove l'ultima rima (b) non compare nella sirma: cdde(e)F. In tutte le altre dieci ballate di Cavalcanti, senza eccezione, la rima dell'ultimo verso della fronte ritorna nel primo verso della sirma. Significativamente questa soluzione, presente in tutte le sue ballate, è però assente in Frn.[19] La rimalmezzo dell'endecasillabo alla fine di ogni stanza di Frn compare a dire il vero anche nelle altre ballate di Cavalcanti, ma solamente nella strofa iniziale, con la sola eccezione di "In un boschetto..." (XXXLI). È degno di nota il fatto che solamente in questa pastorella dalle forme arcaiche la rimalmezzo sia ripetuta anche nella sirma di ogni strofa. Anche la forma della ripresa, con i suoi cinque settenari e l'endecasillabo finale, è particolarmente inusuale in Cavalcanti. Poiché nelle ballate italiane di questo periodo la sirma delle singole strofe corrisponde in genere alla ripresa – sia nella lunghezza e partizione dei versi, sia talvolta nello schema rimico – le strofe in Frn vengono ad avere in totale tredici versi. Anche questa lunghezza è anomala in Cavalcanti: le strofe delle altre ballate presentano di regola sette versi (quattro più tre o tre più quattro), otto (quattro più quattro) o al massimo, in un solo caso (XXXV), dieci (quattro più sei).
Non è quindi possibile avvicinare Frn alle altre ballate di Cavalcanti, né ai sonetti di corrispondenza con Dante, e ciò sia nell'ottica stilistica della poesia dell'epoca, sia, contenutisticamente, per la concezione amorosa ivi presente. Al momento dello scambio di sonetti della Vita Nuova a cui abbiamo accennato, all'inizio quindi dell'amicizia tra Dante e Cavalcanti, quest'ultimo era già considerato il caposcuola della cerchia dei poeti fiorentini, con un suo stile già formato, a cui non è possibile avvicinare un testo così arcaico. L'ipotesi che si possa trattare di una poesia giovanile di Cavalcanti, e che solo molto più tardi egli avrebbe inviato al giovane Dante, non sembra plausibile. I due sonetti oggi ritenuti concordemente opere giovanili, "Avete 'n vo'..." (II) e "Biltà di donna..." (III) lasciano certo intravedere una relativa dipendenza dell'autore dal suo ambiente letterario (la poesia siculo-toscana di impronta guittoniana), nonché dal suo diretto predecessore, Guido Guinizzelli, ma entrambe le poesie mostrano già, nella suggestiva plasticità delle similitudini e nell'eleganza del ductus, i tipici contrassegni della poesia di Cavalcanti, riscontrabili anche negli altri suoi componimenti più vecchi (i sonetti III, IV e V).[20]
Non ci sembra, però, che tale valutazione possa essere applicata a Frn. Quei tratti della ballata definiti "stilnovistici" dalla letteratura critica, come ad esempio la stilizzazione della donna come figura angelica, non sono affatto estranei, come è stato dimostato, alla poesia prestilnovista. Come già Aurelio Roncaglia ebbe a scrivere nel 1967: "Di donne angeliche formicola già la poesia italiana anteriore allo Stil Novo. 'Angelica figura' ha la donna del Notaro, 'angeliche bellezze' quella di Mazzeo di Ricco, 'angelico viso' quella di Monte Andrea, 'angelica sembianza' ancora quella di Guittone, addirittura 'sovrangelica sembianza' quella di Pucciandone Martelli".[21]
La concezione stilnovistica della ‘donna-angelo’ non è quindi ragione sufficiente per catologare Frn all'interno del Dolce stil novo. Ma ancor più interessante è il fatto che proprio questa figura sia per Cavalcanti - rispetto agli altri poeti stilnovisti - piuttosto anomala. L'immagine della donna angelica dispensatrice di salvezza viene sviluppata in un primo momento da Guinizzelli e successivamente da Dante. Cavalcanti non partecipa evidentemente a questa forma di adorazione della donna, non essendo presente tale figura in tutto il resto del corpus testuale dell'autore.[22]
La "angelica criatura" (v. 18) e l'"Angelica sembianza" (v. 19), nonché il contesto in cui tali espressioni sono inserite, non hanno corrispondenti nella restante opera del Cavalcanti. Al contrario è possibile trovare in un autore prestilnovista come il già citato Dante da Maiano, il cosiddetto "Dante minore", diverse formulazioni del genere. Tra le sue poesie[23] si trova ad esempio il seguente passo dal sonetto VI:
E sprendiente siete come 'l sole
angelica figura e dilicata,
ch'a tutte l'altre togliete valore.
(vv. 9-11)
All'inizio dello stesso sonetto si trova, in una particolare coincidenza con Frn, la metafora floreale nella domanda rivolta alla donna:
[O] rosa e giglio e flore aloroso,
perché ancidete lo vostro servente?
(vv. 1-2)
L'uso del motivo floreale è caratteristico degli incipit del "Dante minore", quale particolare variante del topos della primavera[24], In un altro caso l'immagine appare ancora più evidente:
Cera amorosa di nobilitate,
voi m'assembrate de le donne el flore;
(XI, 1-2)
Una evidente concordanza con Frn in posizione iniziale presenta anche il seguente sonetto:
O fresca rosa, a voi chiero mercede,
che la mia vita deggiate allegrare,
(V, 1-2)
dove la presenza del sintagma "fresca rosa" richiama immediatamente l’attacco quasi identico di Frn.
L'inizio di un altro sonetto di Dante da Maiano ripropone l'immagine di una 'figura angelica':
Angelica figura, umile e piana,
cortese e saggia,
veggio addovenire inver' me ...
(IX, 1-3)
Questi tratti comuni possono naturalmente essere letti come casuali somiglianze, ma una comparazione più approfondita tra l'opera di Dante da Maiano e Frn induce a considerare il "Dante minore" quale possibile autore della Ballata della Primavera.
In questo contesto ci sembra interessante citare la caratterizzazione di Dante da Maiano da parte di Gianfranco Contini: "Il nostro appare, insomma, un ritardatario del postguittonismo fiorentino, già in anni segnati dallo Stil Nuovo, o più esattamente si dica dall'intervento del Cavalcanti".[25] Ancora più drasticamente e ironicamente si esprime Rosanna Bettarini: "Certo, Dante da Maiano è una contraffazione, è un falso dell'epoca, un pastiche didattico formulato verso la fine del secolo XIII per congelare una cultura che andava scomparendo. (...) Insomma Dante da Maiano riesumava delicatamente quanto il Cavalcanti aveva delicatamente affossato".[26]
In questa sede interessa soprattutto il fatto che alcuni vocaboli di Frn inusuali per Cavalcanti e per lo stilnovismo quali "parvenza" (v. 36) o "costumanza" (v. 25) siano presenti in un autore prestilnovista come Dante da Maiano.[27] Lo stesso dicasi anche per concetti come "oltraggio" (Frn 40), che nel canone dello Stil Nuovo compare solamente in un altro caso, in Cino da Pistoia (CLXVII), o "mirabil" (Frn 22), testimoniato altrimenti solamente in Cino (XLIX) e in Lapo Gianni (VI).[28] Una parola come "disianza" (Frn 22), che ricorre solamente tre volte nelle opere degli stilnovisti (Guinizzelli, IV; Lapo, IX; Cino, LXXXIII), può essere considerata tipica per Dante da Maiano: IV, 12; XVII, 14; XXVII, 3; XLV, 4.
Ma con queste considerazioni ci troviamo solamente all'inizio di una comparazione stilistica e lessicale tra Frn e l'opera di Dante da Maiano. A questo proposito è di aiuto il fatto che nel caso di Dante da Maiano abbiamo a che fare con un autore dalle frequenti ripetizioni. Nei suoi testi centrati sulla lode alla donna o sul lamento d'amore egli utilizza continuamente immagini ed espressioni simili se non identiche. Cercheremo quindi di individuare passi dell'opera del 'Dante minore' che hanno un'impressionante corrispondenza con Frn, e su questa base di rafforzare la tesi di una sua paternità della ballata.
Come osservato in precedenza, Frn si distingue rispetto alle poesie di Cavalcanti per la forma arcaica di collegamento tra le strofe, forma molto diffusa tra i trovatori e i siculo-toscani (coblas capfinidas). Questo metodo assolutamente inusuale per gli stilnovisti è invece spesso presente in Dante da Maiano.[29] Inoltre, egli ricorre sovente alla ripetizione della rimalmezzo, caratteristica di Frn.[30]
Ma nel nostro caso è interessante soprattutto il fatto, a cui accennavamo in precedenza, di una ripetizione, nell'opera di Dante da Maiano, di formule stereotipe. Così commenta Bettarini questa circostanza nella sua introduzione: "L'unità del canzoniere si è quasi dimostrata da sola: fa cemento il modo iperbolico di cumulare le citazioni e l'abilità di produrre una tinta neutra di contorno. Alla rapinosa rete di rimembranze non fa difetto l'autocitazione al di là della manutenzione di alcune formule che per il solo fatto di essere ripetute assumono parvenza di stilema interno, come ad esempio il modulo menzionato (...)"[31].
Queste frequenti autocitazioni fanno della serialità una delle caratteristiche principali della poesia del "Dante minore".[32]
Si osservi adesso la sirma dell'ultima strofa di Frn:
E se vi pare oltraggio
ch'ad amarvi sia dato,
non sia da voi blasmato:
ché solo Amor mi sforza,
contra cui non val forza – né misura.
(vv. 40-41)[33]
Tra le poesie di Dante da Maiano se ne trovano due che mostrano grandi somiglianze con il passo citato. Se si osserva la conclusione del sonetto I è possibile registrare anche qui una formula che presenta il condizionale "se" assieme al termine "oltraggio", e inoltre, alla fine, segue il richiamo ad un amore possente, anche in questo caso con la doppia presenza del sostantivo "forza" e di una forma del verbo "forzare" o "sforzare":
S'io chero oltraggio, donna di valore,
chero perdon con grande umilitate,
ch'eo son forzato da forza d'amore.
(I, 12-14)
La formula finale di Frn – contro l'amore non può né un mezzo né l'altro – ritorna in modo ancor più chiaro nel sonetto LI, 10 di Dante da Maiano:
che 'nverso amor non val forza ned arte.
Una ulteriore affinità la possiamo cogliere tra l'inizio della seconda strofa di Frn e un passo della ballata "Tanto amorosamente mi distringe" (XLI) di Dante da Maiano. Il passo della Ballata della Primavera recita infatti:
Dio quanto aventurosa
fue la mia disianza
(Frn, 21-22)
dove il "Dante minore" scrive:
Deo quanto mi fu bene avventurosa
l'ora che la meo core
di voi più fin amar prese arditaggio!
(XLI, 28-30)
Contenutisticamente quasi identici, anche se diversamente formulati, sono inoltre i due seguenti esempi di lode della straordinaria bellezza della donna. In Frn abbiamo:
Oltra natura umana
vostra fina piagenza
fece Dio...
(vv. 32-34)
E in Dante da Maiano:
(I)dio oltreplagente t'ha formata
ed innalzata; ...
La coincidenza si estende alle tre coppie di vocaboli "Dio"/"(I)dio", "Oltra"/"oltre-" e "piagenza"/"-plagente". In entrambi i casi l'accento cade sull’origine divina dell'apparizione sovrannaturale della donna. È possibile inoltre trovare in Frn sintagmi assolutamente inusuali in Cavalcanti, che sono però tipici di Dante da Maiano.[34]
Un'altra caratteristica che sembra avvicinare Frn alle poesie di Dante da Maiano è la presenza ricorrente di allitterazioni. La musicale vicinanza di consonanti identiche appare già all'inizio di Frn:
piacente primavera,
per prata e per rivera
(vv. 2-3)
e, all'interno della stessa poesia, ai versi 29-40:
tanto adorna parete,
ch'eo non saccio contare;
e chi poria pensare – oltra natura?
Oltra natura umana
vostra fina piasenza
fece Dio, per essenza
che voi foste sovrana:
per che vostra parvenza
ver' me non sia luntana;
or non mi sia villana
la dolce provedenza!
E se vi pare oltraggio
(...)
Di Dante da Maiano, nella cui opera Bettarini constata l'allitterazione quale segno stilistico predominante[35] è possibile citare esemplificamente la ballata "Gaia donna piacente e dilettosa" (XL):
(...)
pungente pena ed angosciosa e dura;
prendo pavento del meo innamorare,
e temo di perire
si mi sovvien di voi, bella figura.
Piagente crïatura – a cui son dato,
del meo gravoso stato
a voi prenda pietate,
in caritate, - flor di canoscenza.
(vv. 27-34)
Questa particolare insistenza sul fonema "p" (con l'accompagnamento costante della "r") è già accennata nella prima strofa della stessa poesia:
(...)
non vi deggia piacer ch'eo mora amando;
vostre adornezze e 'l gaio portamento,
mercé, non mi confonda,
gentil mia donna per cui vo penando;
ch'eo non fino pensando, - do[l]ze amore,
(...)
(vv. 7-11)
Un passo simile è offerto anche dalla canzone "La dilettosa cera" (XLV):
e non pensai primera
che lo piacente viso
m'avesse sì conquiso
che lo meo cor
prendesse in amar loco;
(vv. 5-8)
In questa poesia più lunga Dante da Maiano elabora in modo esemplare la ripetizione, già accennata nel verso 2, della consonante "p" (in combinazione con la "r"). Dopo il legamento tra le due strofe con "pensamento"/"Pensamento" (vv. 12-13), e il "più" del verso 14, il procedimento allitterante continua nella parte centrale della seconda strofa (vv. 18-21) e con l'isolato "poi" (v. 26), concentrandosi al centro e alla fine della terza strofa (vv. 29-36), e arrivando fino alla fine del testo (vv. 45-52).
Similmente, in Frn l'allitterazione della "p" e della "r" comincia già all'inizio della poesia (vv. 2-3) per continuare ai versi 5-6, 9, 15, 17 e 24, nonché 29-31, fino ad arrivare alla sirma dell'ultima strofa, testimoniando così una forte somiglianza con passi delle poesie di Dante da Maiano.
Anche Cavalcanti ha fatto spesso uso di allitterazioni, ma a differenza delle insistenti e talvolta monotone ripetizioni di Dante da Maiano, esse, oltre ad essere estremamente elaborate e raffinate, rappresentano casi isolati funzionali a sottolineare passi particolarmente significativi delle poesie.
Se si osserva ad esempio l'inizio della singola stanza del Cavalcanti "Poi che di doglia cor conven ch'i' porti" (XII) essa presenta a prima vista una concentrazione irregolare di "p", "c" e "d". Ad un'analisi più attenta vediamo che la disposizione delle parole corrisponde – tenendo conto della distinzione esclusivamente grafica di /c/ e /ch/ - ad un ordine fortemente simmetrico, sintetizzabile nel seguente schema: /p/-/ch/-/d/-/d/-/c/-/c/-/ch/-/p/. I fonemi p- e ch- formano in posizione speculare le ali esterne, mentre al centro si trovano i due gruppi di ripetizione di d- e c-. Questo raffinatissimo procedimento si differenzia visibilmente dall'accumulazione monotona che contraddistingue sia Frn che i componimenti di Dante da Maiano.
Sul piano stilistico e contenutistico è poi possibile rilevare ulteriori coincidenze tra Frn e le poesie del “Dante minore”. Un'arcaica endiadi come "passa e avanza" (Frn 34) è ad esempio inusuale in Cavalcanti. Solamente nella pastorella "In un boschetto..." (XLVI) si trova un "basciar/ ed abbracciar" (vv. 19-20), già presente in questa forma nella poesia trobadorica quale parafrasi dell'atto sessuale. Ma è fuori di dubbio che in questo caso abbiamo a che fare con una esplicita e divertita citazione di forme standardizzate. In Dante da Maiano il raddoppiamento di termini semanticamente affini è invece un tratto assolutamente caratteristico.[36]
Appare interessante in questo contesto anche un'analisi delle note poesie di corrispondenza di Dante da Maiano a Dante Alighieri, la cui paternità è ormai stata definitivamente accertata. Si tratta dei cinque cosiddetti "sonetti della tenzone del Duol d'Amore" (XLVII, XLVIII, XLIX, L, LI). Come è possibile arguire dalle due poesie di risposta di Dante Alighieri, questi non conosceva l'autore dei sonetti che gli erano stati inviati.[37] Nelle poesie inviate da Dante da Maiano al suo più giovane omonimo è pure possibile evidenziare alcune caratteristiche affini a Frn. Il sonetto XLIX comincia ad esempio con una formula ("Lo vostro fermo dir fino ed orrato") paragonabile all'inizio della prima strofa di Frn ("Lo vostro pregio fino"). Nella seconda quartina dello stesso sonetto è presente il topos dell'ineffabilità della bellezza e del valore della donna che appare anche in Frn:
ché 'l vostro pregio in tal loco è poggiato
che propriamente om non poria contarla:
però qual vera lode al vostro stato
crede parlando dar, dico disparla.
(vv. 5-8)
E si noti anche, tra l'altro, oltre alla corrispondenza semantica con il seguente passo di Frn, la corrispondenza musicale data dall'allitterazione - già osservata in precedenza - dei suoni "p" e "r":
tanto adorna parete,
ch'eo non saccio contare:
e chi poria pensare – oltra natura?
(vv. 29-31)
Una tale coincidenza deve comunque essere valutata con cautela, in quanto il motivo dell’ineffabilità rappresenta un luogo comune della poesia dell’epoca, fatto che impedisce di formulare attribuzioni certe sulla base della sua presenza in una o nell'altra poesia. Anche Cavalcanti utilizza ad esempio un tale motivo nel sonetto "Chi è questa..." (IV).
Nel confronto tra Frn e le poesie di Dante da Maiano resta infine da affrontare il piano lessicale. Il vocabolario arcaico di Frn ("gio'", "altezza", "fin pregio", "sembianza", "disianza", "piagenza", "parvenza", "costumanza"), piuttosto atipico nel contesto dell'opera di Cavalcanti, appare invece familiare all’interno dei testi di Dante da Maiano.[38]
Se, sulla scorta di quanto detto finora, torniamo a osservare le diverse attribuzioni di Frn a "Dante", "Dante d'Alighieri di Firenze" o "Guido a Dante", la questione sembra apparire in una nuova luce. Per quanto riguarda l’ascrizione di Frn a Cavalcanti ci sembra di aver presentato ragioni sufficienti a dimostrare la sua improbabilità. L’invio di una ballata non è altrove testimoniato tra i poeti coevi, ed è quindi da considerare fortemente dubbio. Anche una dedica ‘post factum’ rappresenterebbe l’unico caso del genere. Occorre tenere presente il fatto che all’interno della dantistica viene accolta con interesse la confutazione di un’attribuzione di un testo debole all’autore della Divina Commedia mentre difficoltà maggiori incontra il caso opposto, ovvero l’assegnazione a Dante di uno o più testi minori. La resistenza opposta a Gianfranco Contini nel suo tentativo di attribuire il ciclo del Fiore a Dante ne è una prova evidente.[39] È quindi ovvio che la critica non abbia avuto difficoltà ad accettare velocemente - e senza sollevare obiezioni - l’attribuzione di Frn ad un altro autore. Per una tale operazione la dedica nel codice Ca assieme all’episodio della “Primavera” nella Vita Nuova sembravano offrire il pretesto adatto. Se negli altri codici la poesia veniva poi attribuita a Dante, ciò doveva essere ricondotto - così si è argomentato - allo scambio non infrequente tra mittente e destinatario. Cavalcanti avrebbe inviato la poesia a Dante e così il componimento sarebbe in seguito stato considerato opera di Dante stesso. Ragioni più fondate che parlano contro una tale attribuzione sarebbero state quindi assolutamente ignorate.
Al codice Ca viene normalmente riconosciuta una autorevolezza che ci sembra il caso, in questa sede, di dover almeno in parte ridimensionare. Ca non è, come ad esempio Pe o Li, uno dei manoscritti più antichi, ma è il primo codice con un cospicuo numero di testi di Cavalcanti. Per quanto riguarda la correttezza testuale si concede a ragione la precedenza a Ca, in quanto in effetti si è dimostrato, anche rispetto a Va e Uba o Pe e Giunt, più affidabile. Ma per quanto concerne le attribuzioni non è affatto esente da errori. Vengono ad esempio attribuiti a Cavalcanti anche i sonetti “Morte gentil...” (57r) e “Amore e monna...” (59r), ormai considerati senza ombra di dubbio non di sua mano. Forse non è un caso se in Ca si trova anche, immediatamente prima del gruppo dei testi attribuiti a Dante (tra i quali anche Frn), una copia dell’intera Vita Nuova. Ciò farebbe supporre che il copista abbia aggiunto la didascalia “Guido a Dante” di propria iniziativa dietro l’influsso della lettura e trascrizione del testo dantesco, nonostante tale didascalia non fosse presente nel proprio modello. Il significativo episodio di Monna Vanna e Monna Bice può averlo indotto a considerare la Ballata della Primavera come una poesia inviata e/o dedicata da Guido a Dante. In questo senso il nome di “Primavera” assegnato a Monna Vanna non deriverebbe da Frn ma, al contrario, sarebbe l’invenzione dantesca ad aver fondato l’attribuzione della ballata a Cavalcanti. Naturalmente tale ipotesi presuppone il fatto che il copista di Ca sia intervenuto di propria mano nella questione dell’attribuzione. Ma un tale caso non rappresenterebbe certo un episodio isolato. Nel codice Va le poesie di Cavalcanti “Voi che per li occhi...” (XIII) e “Veder poteste...” (XXII) sono accompagnate dalla rubrica: “Guido caualcanti. eguido orlandi dicea laxempro ma elli lo fece Dante Allighieri” (sic). Al posto delle attribuzioni del proprio modello il copista attribuisce autonomamente alle due poesie una terza paternità, che successivamente verrà smentita.
Attribuzioni errate sono comuni in tutti i codici dell’epoca. Come ha spiegato Gianfranco Contini, l'arbitrarietà delle attribuzioni, e dunque l'impossibilità di una presa di posizione certa in mancanza di dati documentari, deriva da eventuali analogie di contenuti e posizioni teoriche.[40] Nel nostro caso sembra tuttavia possibile affermare che l’attribuzione di Frn a Cavalcanti è estremamente improbabile, mentre l’assegnazione del testo a Dante da Maiano appare come molto plausibile. Se una delle attribuzioni dei codici fosse corretta, questa potrebbe essere quella di Va, dove Frn viene assegnata a un non meglio precisato “Dante”. Che qui si tratti in realtà del “Dante minore”, e non, come supposto dai copisti degli altri codici, del suo più noto omonimo, ci sembra certo. Del resto la confusione tra i due autori era piuttosto usuale. Per quanto riguarda ad esempio il loro reciproco scambio di sonetti, si sono avuti dubbi per molto tempo su chi fosse veramente l’autore di questo o di quel componimento. Per citare ancora un’ultima volta Gianfranco Contini: “Per alcune rime sicilianeggianti ascritte a Dante da tradizione tarda è stato pertanto sollevato il dubbio se si tratti dell’Alighieri o di quello da Maiano”.[41]
[1] Il presente saggio è nato nel contesto di uno studio complessivo sull'opera di Cavalcanti. Cfr. T. Eisermann, Cavalcanti oder die Poetik der Negativität, Tübingen 1992.
[2] Gianfranco Contini definisce Frn, come da ora in avanti indicheremo per semplicità la Ballata della Primavera, una "ballata di schemi e linguaggio arcaici"; cfr. G. Contini (a cura di), Poeti del Duecento, Milano-Napoli 1960, vol. II, p. 491. Mario Marti parla di una "preziosa arcaicità"; cfr. M. Marti (a cura di), Poeti del Dolce stil nuovo, Firenze 1969, p. 125. Anche Corrado Calenda ricorre all'espressione "linguaggio arcaicizzante"; cfr. C. Calenda, Per altezza d'ingegno. Saggio su Guido Cavalcanti, Napoli 1976, p. 130.
[3] Si cita da Domenico De Robertis, Guido Cavalcanti. Rime. Con le Rime di Iacopo Cavalcanti, Torino 1986, p. 58. Cfr. anche le edizioni precedentemente citate di Marti e Contini, nonché Marcello Ciccuto (a cura di), Guido Cavalcanti. Rime, Milano 1978, pp. 67-70; tutte queste edizioni, compresa quella di De Robertis, si basano sulla edizione critica di Guido Favati, Guido Cavalcanti. Rime, Milano-Napoli 1957.
[4] Cfr. Nicola Arnone (a cura di), Le rime di Guido Cavalcanti, Firenze 1881, pp. CXIII-XCIV, LXXVIII e 38-41; Pietro Ercole (a cura di), Guido Cavalcanti e le sue rime, Livorno 1885, p. 364 e segg.; Ercole Rivalta (a cura di), Le Rime di Guido Cavalcanti, Bologna 1902, p. 16, 110-111. Il primo critico che propose l'attribuzione di Frn a Guido Cavalcanti fu Giammaria Barbieri, Origine della Poesia rimata, Modena 1790, p. 77; cfr. Vincenzo Nannucci, Manuale del primo secolo della letteratura italiana, Firenze 1847, e Pietro Fraticelli, Il Canzoniere di Dante Alighieri, Firenze 31873.
[5] Favati 1957 (cfr. n. 3), pp. 3-9.
[6] Con grande probabilità non si tratta qui di Onesto da Bologna; su questo importante autore bolognese cfr. Eisermannn 1992 (cfr. n. 1), p. 73 e segg.
[7] Per il valore poetologico di questi testi si rimanda ancora a Eisermann 1992 (cfr. n. 1).
[8] Gli editori e commentatori leggono qui una prova della collaborazione tra i due fratelli, ma è più probabile che si tratti del successivo completamento di un frammento, anche in considerazione del fatto che una tale collaborazione sarebbe stata per l’epoca piuttosto strana. Tali 'poesie vestite' sono testimoniate anche altrove; cfr. D'Arco Silvio Avalle, Ai luoghi di delizia pieni, Milano-Napoli 1977, p. 105; G. Contini 1960 (cfr. n. 2), vol. II, p. 606; M. Marti, Poeti giocosi del tempo di Dante, Milano 1956, p. 68.
[9] Cfr. Guglielmo Gorni, Il nodo della lingua e il Verbo d'Amore. Studi su Dante e altri duecentisti, Firenze 1981, pp. 71-98.
[10] Cfr. Favati 1957 (cfr. n. 3), p. 12.
[11] Qui e in seguito si cita da Domenico De Robertis (a cura di), Dante Alighieri. Vita Nuova, Milano-Napoli 1980.
[12] Cfr. Rachel Jacoff, The Poetry of Guido Cavalcanti, New Haven 1977, pp. 131-32.
[13] Su Beatrice come "figura Christi" cfr. Giorgio Barberi Squarotti, Introduzione, in: Opere Minori di Dante Alighieri, vol. I, Vita Nuova, Torino 1983, pp. 27, 39, 49; v. inoltre Eisermann 1992 (cfr. n. 1), pp. 92 e segg.
[14] G. Contini 1960 (cfr. n. 2), vol. II, p. 491.
[15] V. D. De Robertis, Il Libro della "Vita Nuova", Firenze 21970; cfr. anche Winfried Wehle, Dichtung über Dichtung. Dantes Vita Nuova: die Aufhebung des Minnesangs im Epos, München 1986.
[16] D'A. S. Avalle 1977 (cfr. n. 8), p. 103.
[17] Cavalcanti ricorre solamente in due casi a questa soluzione (XXX, XXXII), e in una variante piuttosto indebolita, o meglio, più raffinata.
[18] Per un'approfondita analisi di questa poesia v. C. Calenda 1976 (cfr. n. 2), pp. 33-53.
[19] V. anche C. Calenda 1976 (cfr. n. 2), pp. 129-30.
[20] Cfr. Eisermann 1992 (cfr. n. 1), p. 45 e segg.
[21] A. Roncaglia, Precedenti e significato dello "stil nuovo" dantesco, in: Dante e Bologna ai tempi di Dante, Bologna 1967, pp. 20-21.
[22] La scoperta di questa circostanza non è affatto nuova. Già Carlo Salinari la registra: "la idealizzazione della donna non è comune a tutti gli stilnovisti, anzi è respinta polemicamente dal Cavalcanti"; cfr. C. Salinari (a cura di), La poesia lirica del Duecento, Torino 1951, p. 28. Cfr. anche il cap. III in Eisermann 1992 (cfr. n. 1), pp. 65 segg.
[23] Si cita dalla eccellente edizione critica di Rosanna Bettarini; cfr. R. Bettarini (a cura di), Dante da Maiano. Rime, Firenze 1969.
[24] Cfr. Dimitri Scheludko, Zur Geschichte des Natureingangs bei den Trobadors, in: "Zeitschrift für französische Sprache und Literatur" 60 (1937), pp. 257-334, e Werner Ross, Über den sogenannten Natureingang bei den Trobadors, in: "Romanische Forschungen" 65 (1954), pp. 49-68.
[25] G. Contini 1960 (cfr. n. 2), vol. I, p.477.
[26] R. Bettarini 1969 (cfr. n. 23), p. XXII.
[27] Si veda ad esempio rispettivamente I, 2 e XLVI, 37.
[28] Per Dante da Maiano cfr. rispettivamente I, 12 e VII, 1. Per le concordanze del corpus testuale degli stilnovisti cfr. W. J. Centuori, A Concordance to the Poets of the Dolce stil novo, 5 voll., Lincoln (Nebraska) 1977.
[29] In numerosi sonetti unisce così la seconda quartina alla prima terzina; ad esempio nel IV con "sprendïente"/"sprendïente", nel XIV con "poria"/"porria", e nel XXI con "novo cantare"/"novo canto". Con ancora più evidenza spicca questa vicinanza nella ballata "Gaia donna piacente..." (XL), nella quale, come in Frn, tutte le strofe con una sola eccezione sono collegate attraverso il metodo delle coblas capfinadas: "e 'n gioi cangiate – mia grave doglienza"/"In gioi cangiate meo grave tormento" (vv. 4-5), "ed aggradire -..."/"Più m'aggradisce..." (vv. 14-15); cfr. anche XLIV 22-23.
[30] Cfr. ancora l'esempio della ballata XL: "rallegrate"/"cangiate" (vv. 3-4), "penando"/"penando" (vv. 10-11), "servire"/"aggradire" (vv. 13-14), "leanza"/"malleanza" (vv. 20-21), "pena"/"alena" (vv. 23-24) nonché "figura"/"crïatura" (vv. 30-31).
[31] R. Bettarini 1969 (cfr. n. 23), pp. XXV-XXVI.
[32] Si vedano ad esempio le seguenti coppie di passi quasi identici: "Amore prese e dè in vostro podere" – "C'Amor mi prese e dè in vostro disire" (I, 5 / XXXIII, 9); "de la gioiosa che m'ave en tenere" – "e la spietata che m'avea 'n tenere" (I, 4 / XXVII, 12); "ché qual si dona in signoria d'amare" – "e do lo core in signoria d'amare" (XVIII, 7 / XXII, 6); "ben aggia Amor e sua dolze liama" – "e più mi stringe Amore e sua liama" (XXI, 12 / XXVI, 8); "e l'adornezze e la gente statura" – "e l'adornezze – e lo gioioso stato" (XVII, 3 / XLV, 11); "mai che gradir la vostra benevoglienza" – "ed aggradire – vostra benevoglienza" (XXXII, 8 / XL, 14).
[33] Qui e in seguito corsivo nostro.
[34] Si pensi ad esempio a "fin pregio" (Frn, 5) in IV, 2 o, come già accennato, a "fresca rosa" (Frn, 1) in V, 1.
[35] Bettarini 1969 (cfr. n. 23), p. 27.
[36] Cfr. ad esempio "crudele e villana" (IX, 3), "pregio e valore" (LXV, 21) o "ama e disia" (LII, 14).
[37] Invii anonimi di sonetti non erano inusuali all'epoca. Il noto sonetto "Una figura della donna mia" (XLVIII) fu pure inviato anonimo da Cavalcanti a Guido Orlandi; cfr. G. Contini 1960 (cfr. n. 2), vol. II, p. 558.
[38] Oltre ai termini già citati in precedenza, nelle poesie del ‘Dante minore’ si possono rintracciare, tra le altre, le seguenti espressioni: "cera" (III, 1), "altezza" (XLIII, 38), "villana" (IX, 3), "piagenza" o "plagenza" (XXVII, 8; XXXV, 4; XLII, 23; XLV, 36 ecc.); cfr. inoltre tra le attribuzioni dubbie a Dante da Maiano "biasmare" (D. II, 3) – "blasmato" in Frn (v. 42) – nonché la canzone "Tutto ch'eo poco vaglia" (D. I).
[39] Cfr. ad esempio la recensione di Leonella Coglievina in R. Baum/W. Hirdt (a cura di), Dante Alighieri 1985. In memoriam Herrmann Gmelin, Tübingen 1985, pp. 229-42, e, da una opposta posizione, Peter Wunderli, “Mortus redivivus”: Die Fiore-Frage, in “Deutsches-Dante-Jahrbuch 61 (1986), pp. 35-50.
[40] Cfr. G. Contini, Introduzione alle Rime di Dante, in G. C. (a cura di), Dante Alighieri. Rime, Torino 1970, p. XIII.
[41] G. Contini 1960 (cfr. n. 2), vol. I, p. 477.