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Stefano Bollani. La millesima bolla blu(e)

Tratto da: V. Farinaccio, M. Sutera, V. Martorella La Sindrome di Bollani, Vanni Editore 2009 STEFANO BOLLANI LA MILLESIMA BOLLA BLU(E) Esercizi di esegesi a gogò o. introduzione Se siete arrivati a questo punto avendo letto tutto quello che c’era da leggere prima, e magari avendo anche ascoltato i dischi di cui parla Bollani nell’intervista, vi starete chiedendo a cosa serve – adesso, in questo spicchio di carta, in questo puntino d’universo stampato – un saggio critico sulla musica del pianista milanese. Addirittura, metterete in dubbio l’idea stessa di saggio critico (che, in effetti, nessuno sa bene cosa sia, scrivente compreso), tantopiùche: Bollani ha già parlato della sua musica (e chi, meglio dello stesso autore/compositore ha più diritto, e più profonda conoscenza della materia, per farlo?); ha già detto che, il più delle volte, i critici della medesima non c’hanno poi capito molto; ha già spiegato quanto sempre la medesima sia interessante, onesta e autentica; quindi mo che c’azzecca un saggio critico? Intendiamoci, in linea del tutto teorica, non avete torto. Almeno, non completamente. L’idea di fondo è che c’è bisogno di mettere in ordine qualche discorso: creare delle coordinate, ma senza prendersi troppo sul serio. E non perché la musica di Bollani non lo meriti, altro che, ma è che a essere sempre seri ci si annoia, come il medesimo Bollani ben sa. In seconda istanza (ho sempre sognato di poter scrivere “in seconda istanza” in un saggio critico), un inquadramento più generale, ostensivo, articolato e stratificato dell’opus bollaniano, al di là della considerazione sullo stesso del Bollani in persona, potrebbe giovare non solo alla comprensione (parola impegnativa, lo ammetto: diciamo all’apprezzamento) di alcuni specifici orizzonti espressivi, al disvelamento di talune cifre stilistiche, all’accoglimento di peculiari tratti formali, all’analisi consapevole di talune sfumature improvvisative, alla comprensione più profonda dei testi scritti dal musicista − i quali, strano che nessuno se ne sia mai accorto, non soltanto sono animati da molti tra i più meravigliosi e positivi sentimenti che l’animo umano possa sentire e provare, ma se letti al contrario danno le formazione della Sambenedettese nel campionato 1971-72 −, ma anche alla precisa collocazione dei dischi del Bollani nella vostra più o meno fornita discoteca. Perché, infatti, continuare a lasciarli sul tavolo basso in salotto, fingendo nonchalance, non sapendo se infilarli accanto a quelli di Ludovico Einaudi e Giovanni Allevi? Perché ammonticchiarli su quei scarsi quattro centimetri quadrati tra l’ampli e lo scaldasonno (se tenete l’impianto stereo sul materasso, come molti) se la contiguità con Johnny Dorelli o Don Backy vi sembra forzata? Perché permutarli con un salvavita beghelli (una nonna ce l’abbiamo tutti, è vero) solo per non voler ammettere che accanto a Bill Evans non ci fanno una gran bella figura? Leggendo il saggio critico saprete, finalmente, con sicurezza dove collocare i dischi del Bollani e sarete talmente fieri che non vi accorgerete di aver saltato la razione quotidiana di biphidus, né che la bestiaccia vi ha mangiato i gerani. Di cosa non parlerà, dunque, questo saggio critico è facile a dirsi. Non parlerà di concetti fumosi e incomprensibili (quelli che normalmente musicologi, critici, perfino direttoruncoli di riviste jazz esibiscono solo per far presa sull’altro sesso, uno qualsiasi), né di ardite ipotesi interpretative. Non vi spiegherà nulla, né tenterà di farlo. Tutt’al più, alla fine, proverà a vendervi ventiquattro bottiglie di vino a 128 euro, ma avrete in omaggio un viaggio in una località a vostra scelta. Più facile dire di cosa parlerà: in maniera rabdomantica della musica di Bollani contenuta nei seguenti album: (1) Mambo Italiano; (2) Abbassa la tua radio; (3) L’Orchestra del Titanic; (4) Les Fleurs Bleues; (5) Il cielo da quaggiù; (6) Småt Småt; (7) Concertone; (8) I Visionari; (9) Piano solo; (10) Gleda, più una rapida e veloce escursione nei dischi in trio per il mercato giapponese, e in BollaniCarioca. (I perché di simile scelta saranno inviati per email a tutti coloro che ne faranno richiesta). Il titolo. Questo saggio critico avrebbe dovuto intitolarsi “Da Bollani a zero”. Cosa avrebbe voluto dire? Indicava un tragitto timbrico, anzi: il tragitto psicostrumentale affrontato dal pianista milanese, che esordisce, di fatto, con un disco in duo per arrivare - quasi dieci anni dopo, e dopo svariate combinazioni di organico - al piano solo. Si sarebbe potuto chiamare anche “Da due a uno”, o “Meglio solo, tutto sommato”. O in mille altri modi. Il millesimo modo è, appunto, “La millesima Bolla blu(e)”. Come in ogni saggio critico che si rispetti, infine, avete a disposizione un ampio apparato di note, grafici, appendici e gli altri consueti arnesi teorici alla bisogna. Come ogni saggio critico che non si rispetti, invece, troverete anche materiale già pubblicato, all’insegna del riciclo e a favore delle fonti non rinnovabili (ovvero: i miei neuroni). 1. bollani compositore Il tratto insicuro A dispetto della sua giovane età, il musicista ha alle spalle un corpus di registrazioni piuttosto ampio: tra dischi a suo nome, collaborazioni (alcune, come visto, abbastanza improbabili) e partecipazioni a opere collettanee, Bollani è presente in circa 120 registrazioni, tra album, singoli, audiolibri, colonne sonore, fiabe illustrate e compilation. Un numero di certo destinato a crescere rapidamente (è uscito a giugno, ancora con L’Espresso, la colonna sonora mancata di Caos Calmo), in grado, però, di nascondere un dato assai significativo: a dispetto di una così operosa presenza in studio di registrazione, per sé o conto terzi, il nostro è compositore molto meno prolifico; anzi, considerando la mole sonora inscritta negli archivi musicali degli ultimi dieci anni, ci si avvicina alla soglia dell’afasia. Un rapporto schiacciante, a occhio e croce (che sono i due strumenti indispensabili quando si scrive un saggio critico). Addirittura, nella sua discografia da leader si notano una serie di incongruenze abbastanza significanti: a) non c’è un solo disco a firma Bollani in cui non sia presente almeno un brano scritto da altri, da cui si deduce non solo che Bollani non ha mai inciso un disco contenente esclusivamente proprie composizioni, ma è facilmente dimostrabile come abbia spesso inciso a suo nome dischi di solo materiale altrui; b) dall’analisi della tabella n. 1 (ho sempre sognato, ecc ecc) si rileva come il massimo sforzo compositivo sia stato realizzato per (3) e (8) che sono, non a caso, opere ascrivibili più a una intrapresa collettiva che a una ditta individuale, come se l’identità musicale del progetto faticasse a riconoscersi in pezzi presi a prestito. Ci si attenderebbe, allora, proprio nel rispetto dell’estetica di gruppo, che le composizioni non a firma di Bollani provenissero dagli altri membri dell’organico, ma così non è, almeno in parte: in (3), dei tre brani altrui sono uno è attribuibile a un componente del gruppo (Natale in casa Cappelli, scritto da Lello Pareti), mentre in (8) troviamo tre brani di tradizione (Che cosa sono le nuvole, di Modugno e Pasolini, Alone Together, un celeberrimo standard, e Mamma mia dammi cento lire, un canto popolare), mentre agli altri Visionari rimane un’intro improvvisata (firmata da Gori, Guerrini e Feldman, il violinista ospite del disco) e una Impro di Ferruccio Spinetti. Paradossalmente, il disco più a dimensione collettiva di Bollani è quello nel quale il pianista ha dato più fondo al suo estro compositivo. Figura SEQ Figura \* ARABIC 1 Quello che le tabelle non dicono Quello che le tabelle non dicono è che, nel novero ristretto dei brani composti da Bollani, alcuni di questi hanno acquisito spazio e posizione dominante, tanto da essere addirittura incisi più volte in dischi diversi (anche perché, nello stesso disco…). Elena e il suo violino e Prima o poi io e te faremo l’amore, tratti da (3), figurano anche, in versione orchestrale, in (6). Un altro brano tratto da (3), Il barbone di Siviglia, ricompare in un album in duo col chitarrista Luigi Tessarollo (“Hommage to Bill Evans and Jim Hall”, Dischi della Quercia, 2002). Il domatore di pulci, poi, tratto da (5), riappare in BollaniCarioca, e non possiamo escludere il ripetersi di simili eventi nella carriera discografica bollaniana (che ci siamo ben guardati dall’approfondire tutta). Il caso più eclatante, però, è quello di Elena e il suo violino, che riceve una terza registrazione nel “Live in Macerata”, uscito con L’Espresso. Con tre occorrenze, questo brano si candida ad essere tra le pagine più importanti scritte dal compositore/pianista, e nel prossimo paragrafo proveremo a capire cosa c’è dentro questo pezzo che lo rende così immediatamente appiccicabile al nome di Bollani. Dopo questa rapida scansione, risulta evidente come per Bollani i dischi con l’Orchestra del Titanic abbiano rappresentato un passo importante, forse definitivo, nella definizione delle soluzioni formali, del setaccio espressivo attraverso il quale il pianista ha crivellato le sue più antiche influenze rendendole più vicine, quando non parte integrante, della sua paletta inventiva e del suo secchiello stilistico. (L’altro lato del Bollani compositore, naturalmente, è il Bollani suonatore di brani altrui: una sorta di Mr. Hide al quale il musicista non prova neanche a sottrarre spazio. Altrettanto interessante è determinare numero e natura degli imprestiti bollaniani, cosa che faremo in una prossima sezione del saggio critico). 1.3 Elena e il suo violino (ovvero: La coperta di Elena, o Il violino di Linus) Secondo brano in ordine di apparizione in (3), il primo è La sagra di Paolòpoli, Elena e il suo violino (d’ora in poi Elena) descrive un (pae)saggio interiore bollaniano che rima con un sentimento di trasognante elegia, di stuporosa eccitazione, sebbene vaga e tranquilla, che l’estroso, e pudico, musicista eleva a protagonista della storia. Basato su un tema deliziosamente sbilenco (diciannove misure, tutto costruito per giustapposizione di frasi che si rispondono, metodica abituale per Bollani, così come per tutti coloro che hanno ascoltato e suonato molte canzoni, e quel sapere, quella perfetta simmetria gli resta nelle mani e nelle orecchie, vedi fig. 2), e su un danzante tempo di ¾, Elena cerca appoggi sul cuore, ed è proprio a una storia d’amore che allude, a un incontro con una bella violinista, a un passo a due elegante, misurato, come si usa tra persone beneducate. Nella prima versione incisa (d’ora in avanti Elena sul Titanic), Bollani non fa neanche l’assolo, limitandosi all’esposizione del tema, e lasciando l’onore e l’onere alla fisarmonica dell’incontenibile Antonello Salis, il quale – con la fisicissima tecnica del solo doppiato dalla voce – conferisce all’idillio l’inevitabile carnalità, quell’ululato della carne che se avete visto Totò travestito da donna in “Totòtruffa 62” sapete di cosa parlo. Spogliatoi! Il coté sensuale, più rude e maschiale, però, si perde nelle altre versioni. Nella seconda (d’ora in avanti Elena al concertone), Bollani affida il tema all’orchestra, e il pezzo sembra trascolorare in una soffusa, debussiana indecisione primaverile, un indovinello amoroso da risolvere con le ciglia aggrottate (gli archi fanno quest’effetto: rendono spuntate le frecce di Cupido). Almeno fino al solo del pianista, che tra appena accennati raddoppi di tempo e articolazioni boppistiche cancella di fatto la dimensione cortese per annunciare una più robusta transizione dominata dai poderosi ottoni; i quali nulla esprimono se non vuota forza, potenza senza controllo. Nella terza versione (d’ora in avanti Elena Laterza) non c’è quasi più idillio, né tensione dei sentimenti; il gioco è tutto accordale, e se in Elena al concertone l’ovattata prima metà del brano tendeva al ricordo, nella seconda il trio spazza ogni residua speranza. Elena e il suo violino è andata via per sempre, cancellata dal tempo e tenuta viva nella memoria dal giro armonico. Sebbene perda di consistenza in progressione, Elena rivela la sagacia del Bollani compositore e la timidezza del Bollani tenero amante (se avete sentito almeno una volta Teorema di Marco Ferradini sapete di cosa parlo). Nella partitura autografa – oltre all’incertezza del segno, alla scomposta grafia musicale e alla rozzezza delle proporzioni – si possono notare le simmetrie, la precisione del tratto melodico, l’adorabile morbidezza del tessuto armonico, e quella leggera zoppia, quell’inciampo sintomatico della diciannovesima battuta: un silenzio scazonte, per riprendere fiato, dopo aver detto l’indicibile. 1.4. Prima o poi l’amore arriva Prima o poi l’amore arriva: quello fisico, quello che ha il suono della fisarmonica di Salis, quello che scarta veloce sulle finte del corteggiamento per puntare dritto all’esplosione dei sensi, al fuoco d’artificio dell’emozione. In molti hanno visto una sequenzialità, una progressione narrativa tra Elena e Prima o poi faremo l’amore, intesi come due momenti della stessa liason, due facce della stessa medaglia. Probabilmente anche Bollani, sebbene l’abbia riconosciuto dopo la terza ora di intervista, e la Convenzione di Ginevra rende purtroppo di valore nullo le confessioni estorte con la minaccia, la vessazione e l’abuso psicologico. Rispetto a Elena, qui il terreno si fa più scivoloso, e merita, da parte del protagonista, la massima attenzione: un piede in fallo, ahem, e la liason si squaglierebbe come fontina al sole. Il tema è il più riflessivo e circospetto il compositore milanese abbia scritto: nella sezione A, tranne che in due punti, ogni misura inizia con una pausa; il motivo ha bisogno di un respiro per procedere, come quando si infila la punta del piede in acqua per vedere se è calda abbastanza; l’avvicinamento procede con cautela e avvedutezza: è tutto un saltellare, un mettere la suola della scarpa (se avete mai visto che razza di scarpe indossa il Bollani, sapete di cosa parlo) sul suolo amico, un tastare la solidità dell’appoggio. Manovre, queste, che si sviluppano tra silenzi e sguardi: molti sguardi, certo, ma molti anche i silenzi: su otto battute, più della metà hanno enormi spazi vuoti, che sarebbe bello poter ascoltare in versione sottotitolata. Quando le cautele sembrano aver abbassato il livello d’ansia, la sezione B celebra l’attracco, ma è una sensazione illusoria (che poi col tempo svanisce, direbbe Elio), perché il movimento marziale, rigido e impettito del motivo viene contraddetto ancora dai silenzi: pause addirittura più lunghe, interminabili, teatri di possibili piacevolezze, o di imminenti catastrofi. Prima o poi. L’atmosfera, indubbiamente, si fa pesante e mentre si dipanano le lente coreografie del corteggiamento, una coda – improvvisa e storta – mette fine al brano. Cos’avrà voluto dire? Se l’idea era quella di creare, e raccontare, una storia attraverso la sequenza dei brani, allora il successivo, Piove di Modugno, riletta in piano solo (il corsivo è mio), è come una pietra tombale sulla liason. Niente, notte in bianco a suonare il pianoforte e a sentire vecchie canzoni da un gracchiante lonplèn. A volte basta questo. Se invece, come l’Addolorato di eliana memoria, il protagonista ha copulato, allora Bollani ha volutamente omesso alcuni dettagli in maniera scorretta assai. (Ricordatemi di telefonare alla Convenzione di Ginevra, che gliene dico quattro). Omissioni impossibili a parte, Prima o poi faremo l’amore (d’ora in poi Prima o poi faremo l’amore) dimostra non soltanto la precoce padronanza del Bollani nel distribuire (certe volte un po’ a casaccio, ma col tempo migliorerà) gli ingredienti melodici e narrativi di queste canzoni senza parole, quanto la sua capacità di oliare l’ingranaggio con aggiunte di vario tipo. Il primo tipo di aggiunta è il suo assolo, che in questa, come in molte altre occasioni, è di insolita bellezza: tutto in souplesse (si trattiene sul filo del ritmo, con la pronuncia perfetta di chi ha fatto le notti non solo a suonare Modugno in mancanza di meglio, ma a studiare i classici), il pianista rumina idee con la leggerezza con la quale, per dirla con Sergio Caputo, Fred Astaire si sarebbe destreggiato uno sgabello; ogni frase è parte di un discorso più ampio, di un disegno più grande, di un pensiero più profondo, e soltanto alla fine, quando lo spazio è stato già riempito dalla voce fisarmonicata di Salis, ci si rende conto – perché si stanno assommando tutti i pezzi, e all’improvviso l’immagine viene fuori, totale, completa, come quando si intravede la figura senza annerire tutti gli spazi, sulla Settimana Enigmistica – della forza di un assolo sornione e si torna indietro, più volte, chiedendo scusa a Salis, che pure dice la sua con la sagacia di sempre. L’altro tipo di aggiunta è il vezzo rumorista, la moltiplicazione sonora, il carico da undici: gran bordate sui bassi, grappoli di notine sugli acuti, Bollani commenta il brano come se fosse un pianista che sonorizza un film muto. È dentro all’azione, ma riesce a guardarla anche dal di fuori. Certe volte, secondo i più maligni, si stringe la mano allo specchio. O si suona al citofono di casa, e si risponde pure. Ma lo dicono con animo leggero. (Di madrigalismi, peraltro, la sua musica è piena: se avete sentito i basi marcianti di L’histoire qui avance, in apertura di “Les fleurs bleues”, sapete di cosa sto parlando). Un brano così ben congegnato, in cui ogni minimo componente (il ritmo; il timbro complessivo, con quel wood-block degno dei Beach Boys, o il suono friselliano di Riccardo Onori, il quale apre il brano con una bella improvvisazione prima che il tema sia enunciato) si mescola e fonde con gli altri, non sopporta a cuor leggero riletture, manomissioni e alterazioni timbriche; anche in questo caso, la versione orchestrale in “Concertone” è assai più debole dell’originale. Inizia con grumi dissonanti e accumuli cacofonici (miiiiii, che serata!), ogni tenue passaggio è come amplificato da Pastamatic, con la forza sonica di venti braccia (il tema della sezione B, impettito e zompettante, viene suonato fortissimo dai fiati e il contraccolpo emotivo – lo spavento, diciamo – è come quando di notte, sull’autostrada deserta, un camionista vi si piazza alle spalle e, per pura perfidia, dà un colpetto al suo clacson da trentamila watt) e si perdono le tenere nuances, i chiaroscuri, sostituite da fanfare che manco nell’Aida. Quasi a voler mettere, neanche tanto pacatamente né serenamente, l’accento sul poi. 1.5 Di duchi terzinati, iberici clochard e ribaltoni ribaltati: canzoni scanzonate Pur procedendo in una carriera vieppiù densa di cose, nomi, città, incontri, progetti, visioni ed esperimenti, Bollani non ha mai abbandonato l’idea di tornare al suo repertorio, di riutilizzare pagine già scritte, mai però chiuse definitivamente in un cassetto. Allo stesso tempo, le sue modalità compositive hanno mostrato diversi e ulteriori passaggi, paesaggi di pronunciata varietà: dalle canzoni cantabili, come Elena e Prima o poi faremo l’amore – con tutto il loro splendore in un technicolor anni ’50 – a musiche di più definito tratto pianistico, a canzoni scanzonate, ovvero temi che pur alludendo allo stesso milieu (nel senso non tanto di ambiente, quanto di caratteristica profonda), si connotano per una natura più strumentale, un andamento più stortignaccolo e una struttura più scalcagnata (nel senso più alto del termine, e senza alcuna ingiuria), dunque inadatte a canto (e anche al fischiettio sotto la doccia, per via di certi intervalli parecchio scomodi). Di queste, ben cinque il Bollani ha utilizzate più volte: Il barbone di Siviglia, Il domatore di pulci – come abbiamo già visto –, Il Duca, La Sicilia e Il Ribaltone. L’ultimo brano è legato alla collaborazione con Roberto Gatto. Con il batterista romano Bollani ha suonato spesso, sia in gruppo che in duo. La prima registrazione è del 1999, nel disco “Sing Sing Sing”, a nome del Roberto Gatto Quintet (con Benita, Petrella e Girotto a completare la formazione) e pubblicato dalla Via Veneto Jazz. Poco più di un frammento carosoniano: il tema, e le variazioni a rimbalzo, occupano appena un minuto e mezzo di allegria a ritmo di stride. Dal vivo, invece, più che un ribaltone subisce una vera e propria metamorfosi: diventa un altro pezzo, ovvero Will Be Together Again. Almeno, è quanto si rileva dal doppio disco “Gershwin & More… Live!”, pubblicato dalla Philology, che raccoglie estratti da concerti del duo Gatto-Bollani tenuti tra il 2002 e il 2005. Nel secondo cd, la traccia indicata come Il Ribaltone è, in realtà, la celeberrima ballad di cui sopra. Il ribaltone ribaltato? Scherzo ben riuscito? No, solo un refuso di stampa: il brano in questione è l’ultimo del primo cd (erroneamente indicato come Javierito, che a sua volta precede Il Ribaltone; l’esatta track list sarà inviati per email a tutti coloro che ne faranno richiesta). Scanzonata come poche altre, Il Ribaltone è un divertissement (ho sempre sognato, ecc ecc), un passo a due col batterista fatto con il lego: le due linee si incastrano in una struttura bizzosa (la sezione A, su rhythm changes, è di 11 misure, con la seconda metà dell’ottava e la nona vuote per gli inserimenti del batterista, mentre la B è lunga canonicamente 8 misure, ma lascia le ultime due alle incursioni dei tamburi). Assai meno contorta, ma non per questo più cantabile, è Il barbone di Siviglia, la cui prima apparizione, ricorderete, è su “L’Orchestra del Titanic”. Dal titolo ci si aspetta una composizione vagamente spagnoleggiante, ed è quello che effettivamente si riceve: un tema spigliato, in 6/8, la cui forma nasconde, come al solito, un trucchetto, un mirabile inghippo costruttivo: un solo tema, però diviso in due da una modulazione: otto misure in La bemolle, una misura di pausa, otto misure dello stesso tema trasportate in Do, con l’ultima misura che, con una torsione robusta, torna in La bemolle, e ci resta, dondolando pigramente, per altre tre misure. Nella seconda incisione, in duo con Luigi Tessarollo, il brano non cambia né forma, né spirito, anche se la riduzione della cubatura timbrica, l’esecuzione dal vivo, e l’assenza di un Salis in estado de gracia, lo rendono meno incisivo e sciolto. Al contrario, Il domatore di pulci, tratto dal secondo disco dell’Orchestra del Titanic, viene riproposta in “Carioca”, acquistandone in verve e vitalità. Non si fa fatica a capire, almeno questa volta, perché il musicista milanese abbia voluto recuperare questo brano, e non altri, per dividerlo con il gruppo brasiliano: nella struttura, nella melodia tutta a saliscendi, nella morbida forza di un motivo a crome reali, il pezzo contiene una sua, neanche tanto latente, forza paulista, che già manifestandosi nell’originale esplode poi nella rilettura. Anche in questo caso, la scrittura di Bollani non è banale: il tema ha una struttura asimmetrica, spalmato com’è su diciannove misure, che sono la somma di tre frasi di durata 8 + 8 +3; l’ultima non chiude, non propone lo zàn-zàn, e lascia questo sapore sospeso, il dubbio atroce che l’ultima pulce abbia domato il domatore. Assai più curioso il destino de Il Duca. La sua prima apparizione risale al secondo disco dell’Orchestra del Titanic, ma è la seconda incisione, in Les Fleurs Bleues, che lo rende famoso agli appassionati bollaniani. Epperò, il brano, da una incisione all’altra, cambia, seppur impercettibilmente. Nell’originale, infatti, il tempo è in 6/8: il tema, suonato come fossero duine di crome (il concetto non è semplice, se non avete studiato solfeggio ritmico), dà al motivo un andamento quasi claudicante, una tenerissima zoppia, un’indecisione: il duca, evidentemente, o è impazzito oppure ha bevuto (ma la sposa aspetta un figlio? chissà); di sicuro ha una lunga storia da raccontare, visto che il brano ha uno dei temi più estesi mai scritti dal musicista milanese: un primo tema, regolare, la cui struttura interna, di due frasi, disegna un aaba, per un totale di sedici misure; un secondo tema, aa’b, con una frase da sette misure, che una ripetizioncella caudale porta a nove, e poi la ripresa della prima frase del tema A. Molto più semplice a dirsi e a fischiettarsi che a descriversi. Infine, La Sicilia riceve doppia esecuzione in “Mambo Italiano” e, qualche anno dopo, nel doppio cd de I Visionari. Altro tipico brano bollaniano, mette insieme più influenze, riducendole a una forte componente identitaria. Nel trattamento del gruppo, il brano riceve una rilettura eccellente, piena di dinamiche, pienamente sostenuta dal sofficissimo funky di Ferruccio Spinetti e dalle creative esplosioni rumoristiche di Cristiano Calcagnile. Da questa sommaria analisi si evince (ho sempre sognato, ecc ecc) come il nucleo fondante della carriera compositiva bollanica abbiano poco o nulla a che fare con i modelli americani, con le pratiche ereditate dallo studio degli standards. Siamo di fronte a un autore autarchico, che inventa, concepisce, architetta, progetta, elabora, idea (terza persona singolare del verbo ideare) a partire dai materiali della sua infanzia: la canzone italiana, Carosone e Oscar Peterson. Ogni sviluppo successivo si innesta su questa imprescindibile costruzione, su quella che i critici seri chiamerebbero metafora ossessiva, aumentandone l’appeal, in molti casi, o creando strani cortocircuiti. Del Bollani pianista e compositore pianistico ce ne occupiamo tra appena due righe. 2. Bollani pianista di pianoforte 2.1 Tecnica vitalissima (e altri inganni) Tra i pianisti jazz in circolazione, Bollani è uno dei più tonici, dal punto di vista tecnico. Sempre perfettamente in controllo, riesce a mantenere una brillantezza notevolissima pur non trovando spesso il tempo per studiare. La sua facilità di esecuzione lo accomuna ai grandi del pianismo jazz italiano e internazionale, ma è soprattutto il tocco che lo rende immediatamente riconoscibile. Questa peculiarità si acquisisce con l’applicazione, lo studio metodico, la consapevolezza e la si ottiene con la maturità, quando cioè tutti i problemi tecnici sono risolti e il senso musicale si fa carico dei pesi più gravi. Il rapporto tra Bollani e la tecnica pianistica, come si è potuto leggere, ha vissuto momenti di crisi e disinganni, eppure il sistema messo a punto dal celebre (per altri famigerato) Maestro Vitale, sebbene nella sua noiosissima e antimusicale regola d’applicazione, ha contribuito a costruire un pianista completo, in grado, come vedremo, di misurarsi con la stessa facilità con il jazz e la musica colta. Non è l’unico sistema, naturalmente, ma almeno in questo caso ha funzionato Bollani, peraltro, viene percepito dal pubblico come un virtuoso della tastiera, un mago degli ottantotto tasti. Ma non è la tecnica ad accorciare la distanza fra Bollani e il pubblico. Ci sono in circolazione jazzisti dal tasso tecnico maggiore, e da un semplice appassionato non ci si aspetta che capisca il peso di ogni singola nota, l’equilibrio, la sonorità, la dinamica, la pulizia dell’articolazione (altrimenti il fenomeno Giovanni Allevi sarebbe finito ancor prima di iniziare; evidentemente c’è altro, e questo altro arriva prima). Bollani condivide con i grandi dello strumento, e del jazz contemporaneo (da Pieranunzi a Rubalcaba, passando per Jarrett, e molti altri) la capacità di farsi comprendere, di suonare strutture musicali che, come i film di un volta, offrono molteplici chiavi di lettura. Per capirle tutte, in un film, è stato inventato il cineforum. Nel nostro caso, assai più modestamente, basterà ricostruire, con agilità, il suo percorso ispirativo. Il quale, come abbiamo notato poche righe più su, inizia col ragtime, Carosone e Oscar Peterson. Ingredienti che – ancora oggi – non solo rendono l’espressività bollaniana identificabile in virtù di alcune sue prerogative stilistiche (la canzone italiana; il ritmo stride della mano sinistra; certe vorticose esplosioni della mano destra, nelle quali, raramente, il nostro sfiora il virtuosismo di bassa lega, sfavorevole, l’esibizione muscolare senza controllo), ma costituiscono, per il pubblico, un potente sistema di comprensione. Inserito in quella sfera linguistica, cioè, Bollani è in grado di permettere anche a chi non sa nulla di tecnica pianistica e storia del jazz di avere una possibilità di ingresso: è come la trama gialla de “Il nome della rosa”: lo si può leggere come un thriller medievale, e come tale è formidabile. Ma c’è molto, molto di più. Attorno e dentro la musica di Bollani si agita tanta di quella materia da alimentare non uno ma cicli di cineforum; epperò si può anche andare a mangiare il pop corn, lasciando il partner in sala ad annoiarsi, e si è contenti lo stesso. Più si penetra, invece, all’interno del suo universo musicale, più si comprende la sua eccezionale capacità di organizzazione, di costruzione, di chiarezza inventiva; la sua conoscenza del jazz, e della musica colta, ma anche il suo essere un musicista pop – nel senso più pieno e ampio – senza vergogna o ritegno. Tutto questo crea codici di accessibilità decisivi, permettendo al pubblico, il più ampio e generalista, di appropriarsene. Ma l’aspetto forse più interessante della questione è probabilmente il meno osservato: i bis a richiesta. Come avrete letto, o forse visto, nei suoi concerti in solo Bollani inevitabilmente costruisce il bis sulle richieste degli ascoltatori, cui non pare vero poter mettere in difficoltà il musicista indicando canzoncine per bambini, colonne sonore, brani di Giovanni Allevi, di cantautori sgangherati, o celeberrimi standards o arie d’opera. Insomma: di tutto. Bollani scrive su un foglietto alcune richieste (quelle più difficili fa finta di non sentirle: se, come me, vi siete sgolati invano chiedendo i brani più idioti, sapete di cosa parlo), si mette al pianoforte e improvvisa un pezzo – nove su dieci assolutamente formidabile, il decimo è solo bellissimo – nel quale mescola, missa e ibrida, in ordine casuale, i brani che il pubblico ha indicato. Non c’entra nulla col jazz, naturalmente; né saper fare una roba del genere per forza significa essere bravi. È come giocare a scacchi alla cieca: ho visto personalmente buoni giocatori di circolo realizzare piccoli capolavori di strategia senza guardare la scacchiera, e poi non riuscire a superare una modesta prima categoria sociale in una normale partita di torneo. Stefano ha questa capacità: se conosce un brano (e la sua memoria gli consente di conservarne in memoria un numero assai consistente), è in grado di suonarlo, anche se non l’ha mai fatto prima. Sente le note come fossero cavalli e alfieri, ci gioca, li muove senza vederli. Ma è il modo in cui improvvisa sui brani, le soluzioni che trova per mescolarli, i guizzi di ingegno nel costruire tragitti imprevedibili a essere impressionante. E, soprattutto, comprensibile. L’ascoltatore normale, che ha sputato tonsille per urlare il suo brano, conosce perfettamente i pezzi che comporranno la scaletta del bis, e quindi è in grado di capire, pienamente, il gioco di prestigio che Bollani sta compiendo. Ecco il trucco: se non tutti possono capire – ma ne godono comunque, attraverso metodiche di appropriazione che non è questo il luogo per analizzare – una sua improvvisazione su On The Street Where You Live, tutti sono in grado di vedere a che tipo di trasformazioni e permutazioni sottopone, improvvisando, Heidi, Take Five e altri improbabili capolavori. Capace di exploit tecnici assai vistosi, è nelle ballad, paradossalmente, nei brani a tempo lento, che Bollani riesce a esprimere più compiutamente la sua enorme caratura tecnica. Lì, il peso di ogni singola nota, la specificità di ogni suono, la sua capacità di far cantare tutte le linee rendono il suono ricco e asciutto, cristallino. Essenziale, nell’accezione più alta e nobile. 2.2 Bollani suonatore di pezzi altrui Non ci sarebbe bisogno di una tabella (basterebbe invertire i dati della precedente, ma se in un saggio critico non ci sono almeno due tabelle pare brutto: perdonatemi) per capire come il rapporto tra composizioni proprie e brani di altri autori presi in prestito, nella discografia bollaniana, sia leggermente sbilanciata verso le seconde, tenendo presente i criteri e i canoni che spingono un autore a farcire i propri dischi di proprie composizioni in risposta sia all’urgenza espressiva che al borderò della SIAE. Qualche paragrafo più su abbiamo provato a interpretare questa distonia inserendola in una lettura a più ampio raggio. Se, invece, ci soffermiamo sulla natura degli imprestiti, a livello epifenomenico (non ho mai sognato di, ecc ecc, ma se capita…) i dati rivelano circostanze parecchio interessanti. La prima è che pur essendo il Bollani uomo del suo tempo, perfettamente calato nelle dinamiche di questo presente a volte fiacco e deludente, e pienamente calato nella musica del suo tempo, che conosce, pratica e segue con grande attenzione, quasi accanimento, la contemporaneità è assente dai suoi tributi: sembra sparita, cancellata da un passato edenico ma ingombrante. Di tutte le cover incise dal pianista, l’unica realmente sincronica, quasi simultanea, e dunque viepiù sorprendente, è Morph the Cat scritta da Donald Fagen, e da questi inserita nel suo più recente album solista omonimo, uscito all’inizio del 2006. Bollani la suona il 24 aprile dello stesso anno, a Macerata, nel concerto poi pubblicato nella collana Jazz Italiano de L’Espresso. Non si era mai verificata questa vicinanza temporale tra un brano e la sua rilettura; evidentemente deve essersi trattato di un colpo di fulmine, di amore a prima vista: la composizione di Fagen, peraltro, contiene elementi facilmente rintracciabili nella paletta espressiva del pianista italiano: un ritmo assai morbido, scandito da un ostinato; sezioni armoniche non troppo mosse, ma pastose; un tema cantilenante, filastrocchesco. Comunque, è una variante nel modus operandi; per capire quanto profonda sia basta considerare che nello stesso disco le altre cover sono La puerta, del messicano Luis Demetrio, scritta a metà degli anni ’50, All The Things You Are, di Hammerstein e Kern, risalente al 1939, Moonlight Serenade, registrata curiosamente nello stesso anno da Glenn Miller, e Puttin’ on the Ritz, scritta e pubblicata dieci anni prima, nel 1929, da Irving Berlin. Sta sull’attualità, il Bolla. Se, dunque, la contemporaneità resta tutta nei microgesti, nella temperatura espressiva e stilistica della sua musica, è alla storia, al passato che il Nostro si rivolge quando deve proporre musiche non da lui composte. (Su cosa spinga un musicista a prendere in prestito brani altrui, Bollani parla diffusamente nel contributo su “Piano solo” che trovate nell’appendice al saggio critico). Una storia la cui rilettura è non solo moderna, ma addirittura modernista, e che, al di là della battuta, non conosce geografie o distinzioni geopolitiche. Che sia lo choro brasiliano o i classici scandinavi, la canzone italiana o la meravigliosa stagione di Tin Pan Alley e Broadway, la storia per Bollani deve far rima con tradizione. Termine, quest’ultimo, da usare con tutte le cautele del caso, ma che – nella fattispecie – potremmo descrivere come un corpus di musiche condivise da una un gruppo di persone: non a caso, Bollani utilizza, nella stragrande maggioranza, brani non semplicemente appartenenti alla storia, ma assai conosciuti, con i quali è possibile, per il gruppo di persone di riferimento, attivare una corrispondenza di affetti. D’altronde, anche questa è una traccia consistente, un solco che il musicista scava da subito, un’altra metafora ossessiva, insomma. Nella musica che gli girava per la testa, e che avrebbe poi dato corpo ai suoi primi tre dischi, è già presente questa deriva: “Abbassa la tua radio”, di cui Bollani è il deus ex machina, benché negletto, è un tributo alla musica italiana degli anni Trenta e Quaranta, all’interno della quale Bollani pesca titoli arcinoti, come Ho un sassolino nella scarpa, Parlami d’amore Mariù, Mille lire al mese, Dove sta Zazà, e altre simili celeberrime canzoni. Anche “Mambo Italiano”, registrato per la Philology in duo con Ares Tavolazzi, ha la forma del canzoniere, e tra i suoi solchi scivolano, suonati con arguzia, la title track (un brano tradizionale, importato in Italia da Carla Boni nel 1956), Buonasera, nel repertorio di Fred Buscaglione, e altre simili gemme popolari. Infine, nel primo disco dell’Orchestra del Titanic appariranno Piove, come abbiamo visto, e Anema e core, dal genio musicale di Manlio e D’Esposito. La prima, piccola frattura avviene solo col secondo disco dell’orchestra titanica, in cui appare un frammento modernista da far quasi accapponare la pelle: Titanic, di De Gregori, pubblicata solo nel 1982, quindi di devastante attualità rispetto alle scelte precedenti. Quasi a voler smorzarne l’effetto, nel disco compaiono anche Un sole caldo caldo, del Molleggiato, e Amore fermati, sgorgata dalla penna di Fred Bongusto, songwriter forse sottovalutato. Sarà poco più tardi “Les fleurs bleues”, ispirato all’opera di Raymond Queneau, a invertire la tendenza. O, per lo meno, a lasciar intravedere la possibilità di un’inversione. Non è l’approccio complessivo che cambia (Se non avessi più te, scritta da Luis Bacalov per un musicarello di Gianni Morandi, o Un giorno dopo l’altro, attribuita correttamente ad André Chaumelle, visto che il testo italiano di Luigi Tenco non viene cantato) ma il gruppo di persone di riferimento: data l’ispirazione transalpina dell’album, Bollani recupera Dans mon ile, un vecchio successo, di Henry Salvador, e Si tu t’imagines, musiche di Kosma su una poesiola, mirabile, di Raymond Queneau. È il primo disco per Label Bleu, il primo deciso passo verso la fama internazionale, e si comprende qual è la logica alla base di simili scelte. A cosa si debba, invece, la cover di Chippie, di Ornette Coleman, non è dato sapere: forse la presenza al suo fianco di una sezione ritmica d’oltreoceano (Scott Colley e Clarence Penn) ha spinto in quella direzione. Il dato, comunque, va sottolineato: assieme a Ugly Beauty, di Thelonious Monk, inserita nell’album successivo, è l’unico standard a nome di un jazzista moderno inciso da Bollani. “Småt Småt”, appunto, è l’album delle svolte. Preso in una creatività caleidoscopica, indomita e curiosissima, il musicista arraffa dove può; addirittura sembra quasi smantellare il suo paradigma infilandosi in stradine mai prima frequentate, deviando dalle strade maestre, da quelle bidelle, in una inesausta ricerca di nessi impossibili tra musiche lontane. Piccolo piccolo, questo significa in danese il titolo scelto per il primo vero piano solo (che piano solo, poi, non sarà: vi rimando al lungo “making of” del disco, in appendice), esplode in una fittissima serie di riferimenti, aggiungendo nuove tracce, e inediti spunti, al ritratto musicale di Bollani, compositore in proprio e rilettore di musiche altrui. L’album si apre con i Beatles di Norwegian Wood, e già precipita l’opera in una dimensione modernista, derivante non solo dal fatto che il pezzo è stato composto nel 1965, ma dal trattamento riservatogli: una cupa riflessione multi traccia, rumorista e dissonante. La seconda cover, due tracce più avanti, proviene dagli stessi anni: è la monkiana Ugly Beauty, da Bollani attentamente de-monkizzata, e trasportata in quattro dall’originale ritmo ternario. Un salto mortale, carpiato, ed ecco Il mare s’è fermato, una canzone modernissima (incisa nel 1998) da Marco Parente, che Bollani interpreta con trasognata partecipazione. El choclo, invece, è un tango antico, la cui musica risale agli inizi del secolo scorso, mentre Trem das Onze/Figlio unico, di Adoniran Barbosa, nato da genitori italiani, risale sempre alla metà degli anni Sessanta (due canzoni cantate dal Bolla nello stesso album: un record). Infine, Let’s Move to Cleveland, composta da Zappa presumibilmente nei primi anni Settanta, ed eseguita a partire dalla metà del decennio con un titolo diverso. Si intuisce, nel percorso sin qui analizzato, come la ricerca da parte di Bollani di materiale da reinterpretare abbia conosciuto, a cavallo del contratto con Label Bleu, un veloce, ma profondo, ripensamento. Come una mezzala di talento, il pianista/cantante costruisce gioco in profondità, e in ampiezza. “Concertone” segna una pausa: oltre a My Funny Valentine, è proprio il repertorio bollaniano ad essere preso nel vortice della rilettura; e gli esiti li abbiamo già commentati. Un giusto compromesso è quello realizzato nel doppio cd de I Visionari; solo tre cover: due di tradizione (Mamma mia dammi cento lire e lo standard Alone Together), e una saporosissima riscoperta: Che cosa sono le nuvole, la straziante canzone il cui testo Pier Paolo Pasolini scrisse su musiche di Modugno e piazzò a commento del suo episodio nel film “Capriccio all’italiana”. Nella versione bollaniana tutto è essiccato, asciugato, e appoggiato sulla figura della mano sinistra, che diventa l’asse portante privilegiato per la melodia del canto. Sembra quasi che sia suonata solo con la sinistra, e infatti, solo con la sinistra, e seduto a terra, senza guardare la tastiera, un Bollani al quale sono state amputate le gambe suona proprio questo brano in “Primo piano”, la piece teatrale dello stesso Bollani e la Banda Osiris, nella quale si racconta la vita del pianista milanese, dall’infanzia alla triste dipartita. “Piano solo”, infine, non rinnega la nuova direzione, e, anzi, la collauda, permettendo alla bilancia di trovare un suo punto di equilibrio assai preciso. Tra le varie riletture (vi rimando al lungo articolo in appendice per saperne di più), anche una pagina di Prokofiev, autore al quale l’intero disco avrebbe dovuto essere dedicato, almeno nel progetto originario. Non è la prima volta che Bollani si misura col repertorio classico: era già successo in “Småt Småt” (ebbene sì, l’ho taciuto: ho dovuto farlo!), con Ginastera e ancora Prokofiev. Ulteriori ragguagli nel paragrafo successivo. Il classico Bollani Uno dei ritornelli che circolano sul Bolla (come amici e conoscenti lo chiamano) è che sa cantare, vero, ma c’è tanta gente che lo fa meglio di lui. Le imitazioni? Bravo, certo, ma è un dilettante. Il cabaret? Sì, fa ridere, ma vuoi mettere Zelig? La musica classica? Per carità, è bravo, però… Ecco, questo paragrafo vuol misurare l’ampiezza di quel però, la profondità dei puntini sospensivi. Perché è vero: pianisti classici più bravi di Bollani ce n’è a bizzeffe. Non è un mestiere che si improvvisa, né basta aver razzolato un diploma al Conservatorio per ottenere la patente. È una questione di studio, applicazione, studio del repertorio, aggiustamento e affinamento della tecnica in quella determinata prospettiva. Bollani, peraltro, non ha mai fatto mistero delle sua curiosità verso un certo repertorio, né però ha mai lasciato intendere di volercisi(viti) dedicare a tempo pieno. Fatto sta che con il classico il Bolla flirta da tempo. Da “Småt Småt”, come dicevamo, in cui suona, correttamente, due impegnative pagine del geniale compositore argentino Alberto Ginastera, e reinterpreta alla sua maniera “Pierino e il lupo” di Prokofiev. Ancora Prokofiev, in “Piano solo”, e poi, soprattutto, Poulenc, del quale ha inciso Les animeaux modèles, il Concerto campestre (sebbene scritto per clavicembalo), Mozart, nello spirito del quale ha composto le musiche per un concerto intitolato “7 Motivi per amare Mozart”, e infine Gershwin, la cui Rapsodia in Blue è diventato quasi un classico del suo repertorio. Proprio la pagina del compositore statunitense permette al pianista di esprimere al meglio la sua visione, tra molte virgolette, accademica, proprio perché è una musica ibrida, assai nera, piena di swing e ritmi afroamericani. Costruisce un ponte tra due mondi espressivi e Bollani quel ponte sa attraversarlo con grande finezza. La sua esecuzione all’Auditorium Parco della Musica del novembre 2007, trasmessa in diretta radiofonica, è stata brillantissima, e di livello ragguardevole, poiché ha saputo restituire idiomaticamente la composizione gershwiniana attraverso il prisma del jazz, e quello dell’improvvisazione, alla quale si è spesso lasciato andare, ma sempre con gusto e misura. Curiosamente, il direttore dell’Orchestra Santa Cecilia era James Conlon, forse ignaro che un brano del pianista si chiamasse Giroconlon (dedicato a Conlon Nancarrow, visionario autore di musiche spesso impossibili da suonare, e di eccellenti partiture per pianola meccanica). Se con Gershwin tutto funziona, col resto si è nella media. Corretto Ginastera, corretto Poulenc: per carità, Bollani è bravo, però… 2.4 Bolla(ni) di accompagnamento A oggi, le statistiche dicono che se dovesse continuare di questo passo, nel 2025 Bollani avrà duettato non soltanto con tutti i jazzisti conosciuti, ma anche con tutti quelli che non sanno nemmeno di esserlo. Non c’è festival, direttore artistico, impresario, agente, bigliettaio, maschera che non proponga al nostro un duetto, una collaborazione estemporanea, un guizzo di pochi minuti, un’apparizione fugace. Richieste alle quali spesso il nostro accondiscende, essendo curioso, e provando ancora a divertirsi facendo questo lavoro. Solo nella parte finale dell’estate appena trascorsa chi scrive l’ha visto duettare – alla fine di doppi concerti sullo stesso palcoscenico – con Caetano Veloso e Bobby McFerrin. Due artisti diversissimi, due prodigiose menti musicali, con i quali il Nostro ha diviso il palco con estrema naturalezza. Nella sua ancora giovane carriera, il pianista si è spesso esibito in duo, una delle formazioni più difficili da gestire, sia quando il repertorio è in qualche modo organizzato, sia quando c’è da improvvisare, da creare estemporaneamente qualcosa sul palco nella speranza che funzioni. In questo, Bollani non ha probabilmente eguali al mondo: nessuno sarebbe, come lui, in grado di conversare con musicisti dalle più disparate provenienze con quella familiarità, quella facilità di adesione, quella capacità di sintonizzazione immediata, il sense of humor, la memoria – e la cultura – musicale, l’ampissimo vocabolario, l’istantanea possibilità di suonare tutto e subito, al volo. Sul palcoscenico de La Fenice, a Venezia, Bobby McFerrin e Bollani hanno dato vita a una gustosissima serie di gags, dimostrando come la qualità e la varietà dell’interazione dipendano dagli schieramenti emotivi; con Veloso (che l’ha presentato sul palcoscenico di Umbria Jazz dicendo: «ecco un pianista che suona come un Dio») la sintonia era tanta: si erano accordati per tre pezzi, e sono andati avanti mezzora a suonare. Suonare in duo, per un pianista, non è difficile, in assoluto: l’integrazione con uno strumento melodico, o una voce, assicura sempre un risultato almeno decente (pensate all’eccellente Rava-Bollani, un concentrato di classe cristallina, humor e poesia). Proprio per questo il Bolla predilige assortimenti assai più scomodi: piano e batteria, ad esempio, con Roberto Gatto (formazione che il batterista romano aveva già lungamente sperimentato con Danilo Rea, altro fuoriclasse della tastiera); due pianoforti, che contrariamente a quanto si può immaginare danno come risultato sonoro un pasticcio insostenibile, a meno che i pianisti non siano Bollani e Martial Solal (o Pieranuzi e Moroni, per citare un bellissimo esempio italiano recente); piano e fisarmonica, col bollaniano, per estro e brillantezza, Stian Carstensen, o con l’irraggiungibile Antonello Salis, abile nel saltare dalla fisarmonica al piano e viceversa; pianoforte e contrabbasso, come in “Mambo Italiano”, forse il duo, tra quelli appena citati, più normale, “naturale”. Non si escludono, in futuro, altri bizzarri esperimenti (pianoforte e glassarmonica pare sia il più probabile). Il ruolo di gregario, invece, è ormai un ricordo del passato. Tranne che nei dischi di Enrico Rava, nei quali il suo apporto è di rilievo assoluto, il Bolla preferisce gestire, coordinare e guidare gli ensemble nei quali suona. Il Bollani leader di gruppi, quindi, attualmente si esaurisce ne I Visionari, la band – formidabile – con cui ha inciso anche un bellissimo doppio album omonimo. Al contrario dell’Orchestra del Titanic, un organismo forse acerbo rispetto alla mole delle ambizioni messe in campo, I Visionari rappresentano l’incontro tra personalità totalmente assimilabili, pur nella loro estrema diversità e peculiarità. Lo stesso Bollani ha parlato di un progetto mingusiano nell’idea; ma è poi l’irresistibile verve dei protagonisti a rendere ogni concerto diverso dal precedente, e il disco meritevole di molteplici ascolti. Un gruppo energico, capace di controllo assoluto come di memorabili abbandoni (mingusianamente, of course) e anche di brutti concerti, dominati da una tensione senza sbocco. Segno però di vitalità, di assunzione di rischio. Allo stesso modo, il doppio disco inciso per la Label Bleu è un disco per molti versi imperfetto, ma assolutamente irresistibile per altri. Nella mescola - che va bene sia sul bagnato che sull’asciutto – i cinque visionari (otto, in realtà, per la presenza di Paolo Fresu, Mark Feldman e Petra Magoni) infilano di tutto: dalla sardità micidiale alla filastrocca folkloristica, a condotte strumentali di livello assoluto. In maniera del tutto diversa, il cosiddetto trio danese, con Jesper Bodilsen e Morten Lund, funziona seguendo invece i canoni classici del trio piano-basso-batteria, nella cui tradizione si inserisce con vivacità dirompente. Quasi a voler confermare un altro dei ritornelli che circolano con maggior insistenza, quello secondo cui Bollani suona meglio nei progetti altrui, o a guida condivisa. Come a dire che l’estro del pianista si manifesta con più agilità quando si trova a reagire in un repertorio a firma di terzi (ma questo, l’abbiamo visto, avviene normalmente nei lavori bollanici), o quando il controllo della situazione non è totalmente nelle sue mani. Sta di fatto che “Gleda”, registrato nel novembre 2004 per l’etichetta danese Stunt, è un disco di duratura bellezza. Su un repertorio di classici scandinavi, i tre accendono una musicalità inesausta, reinventano la triangolazione dei tre strumenti, che cambia in corsa, anche nello stesso brano, dimostrano di quanto swing siano capaci e quanto alta sia la compatibilità reciproca. Prima di registrare musiche a lui completamente sconosciute, Bollani ha chiesto solo di leggere gli spartiti, senza ascoltarne versioni esistenti: per conservare la freschezza dell’approccio, la sorpresa del musicante (concetto nobilissimo: se avete mai sentito Lazzari felici di Pino Daniele, sapete di cosa sto parlando), per tenere un po’ di spazio per l’invenzione. A questo, i due musicisti danesi reagiscono con tale energia da trasformare un trio di fatto estemporaneo in una meravigliosa macchina da musica. Per inciso, ancora un disco in cui non c’è nessun brano originale, ma ci si limita a riproporre le solite Moder, jeg er træt, nu vil jeg sove (è tutto un titolo, non l’intera scaletta dell’album), o Kimer i klokker. Ma insomma. 2.5 Quello che le tabelle non dicono (2) Quello che le tabelle non dicono (2) è che al di là di numeri, cifre e statistiche, le riletture, reinterpretazioni, imprestiti, appropriazioni, leasing e forme più sottili di usucapione, nel vasto repertorio inciso da Bollani, hanno un valore aggiunto; non si tratta di semplici riproposizioni, ma di articolate ri-composizioni, dentro e in fondo alle quali lo spiritus bollanii riluce con chiarezza. Il plusvalore, l’aggiunta stanno nello sguardo eccentrico, laterale, addirittura ancipite (ho sempre sognato, ecc ecc), ma sempre, inevitabilmente, partecipato allo spasimo, sempre al massimo delle possibilità, con cuore, occhi e orecchi dilatati. Le tabelle, peraltro, tacciono un altro dato essenziale: che al di là di riletture, reinterpretazioni, imprestiti, appropriazioni, leasing e forme più sottili di usucapione, nel repertorio bollanico è possibile rintracciare piccoli capolavori per pianoforte, che danno senso e spessore alla sua ricerca strumentale e all’evoluzione del suo linguaggio strumentale. Gemme come L’arca, con uno dei suoi assolo più convincenti, o la sdoppiata Bar Biturico, o la seducente Cidrolin, nel primo dei due dischi “francesi”, segnano la maturazione di una ricerca in cui il musicista cerca, e trova, una strada autonoma tra il senso della tradizione, i madrigalismi (spesso presenti nelle sue pagine) e un’inventiva lancinante, bruciante, anche quando soppesata e resa apparentemente tranquilla. O ancora Buzzillare, da “Piano solo”, il cui titolo è un bellissimo verbo preso in prestito da una fanfola di Fosco Maraini. Se ne potrebbero citare tante altre, ma non è questa la sede (se avete la macchina in terza fila e le doppie frecce non vi funzionano, sapete di cosa sto parlando). 3. La millesima bolla blu(e) 3.1 Il ri-tratto insicuro Di solito, ci si inizia a riciclare intorno ai sessant’anni, quando le idee scarseggiano, lo spirito s’è impigrito e l’ingegno è andato in pensione prima di tutti, salutando e lasciando un conto esorbitante al bar. Nella difficoltà – umana, generalizzata, diffusa – di creare e inventare nuovi mondi e orizzonti lontani, ci si rifugia in quel che si conosce meglio, e in quel che si è già fatto. Che Bollani, però, abbia iniziato sin da giovane a riciclare non vuol certo dire che non abbia più idee, o gli riesca difficile il processo d’invenzione. Al contrario. Il suo è un atteggiamento ben diverso, radicato, più che nella stasi creativa, nella sua peculiarissima visione del lavoro dell’artista. Come Bollani – con la medesima propensione all’esibizione, alla comunicazione col pubblico, con la naturale estroversione al confine con l’esibizionismo puro – ci si nasce: guitti si diventa, artisti a tutto campo, no. Mentre, però, per alcuni è tutto facile, per altri, come il Nostro, non sempre è facile trovare l’esatto equilibrio, l’osmosi necessaria tra dentro e fuori. Stare su un palco, a ridere, suonare, dire scemenze o suonare uno strumento, lascia qualche strascico, soprattutto quando si è bulimici di cose da fare, di nuove esperienze da collezionare, quando si è curiosi e per non perdere tempo (per un musicista di jazz perdere il tempo è peccato mortale) ci si apre totalmente al mondo, col rischio – naturalmente – della dispersione, dell’idea confusa, del passo falso. Bisogna trovare l’esatto esorcismo. E per Stefano è il contatto con le cose che conosce meglio, siano esse le sue vecchie composizioni, o i musicisti con i quali suona da una vita, o quelli con cui riesce a provare (l’idea dell’avere un gruppo, costante nella sua traiettoria). Ha bisogno, per tenere a bada l’ansia, la vertigine, di pietre angolari, di solidi appoggi. Uno di questi è la chiacchiera sul palco. Per molti, ormai l’avrete capito, che Bollani tra un pezzo e l’altro dica cose spiritose (molto spesso sono molto spiritose) è un difetto, un momento di dislessia nella recita rigorosa e alta, un’amnesia addirittura imperdonabile; una volta, il direttore artistico di un festival jazz mi confessò, tutto orgoglioso, che aveva chiesto espressamente a Stefano di stare zitto, e suonare. Poi, accadde che un refolo di vento portò via lo spartito (era un concerto a tema, col pianista impegnato a rileggere colonne sonore), e la gag nacque folgorante, ma muta. Il pubblico ride anche solo vedendolo gesticolare, o fare una faccia. E, in molti tra il pubblico, desiderano anche quello. Certo, a volte Bollani esagera: certi concerti si sono trasformati in un puro e semplice spettacolo di cabaret; in altri, invece, non ha quasi neanche presentato i pezzi. È ansia. Purissima. È la difficoltà di affrontare un concerto stando da soli su un palco, senza neanche un Mirko Guerrini a far da spalla, o un ineffabile Ferruccio Spinetti da usare come punching ball. Soli. Con un pianoforte. Lui ha ancora qualche problema; c’è chi per annullare l’ansia salta sul palcoscenico come un pupazzo e dà pacche e baci al pianoforte, chi dice battute molto divertenti. C’è anche chi sta zitto. Beato lui. Quando, assistendo a un concerto di Bollani, constaterete che parla molto tra un pezzo e l’altro, vuol dire che ne ha bisogno. È una piccolissima valvola di sfogo. Quando, in mezzo a una delle più estese e violente favelas di Rio De Janeiro, Bollani suona Elena, il motivo ormai lo sapete. Costruirsi una rete solida, allora, è stata una delle attività nelle quali Bollani ha più investito decisioni forti. Tra musicisti e canzoni struttura il suo mondo, e invita sempre tutti a entrarci, in un modo o nell’altro. Con rispetto. 3.2 Di cosa resta e cosa se ne va (aka A New York è ancora mattina presto) Alla fine, le domande si affastellano, si accumulano sul tavolo da lavoro, ma l’esercizio di esegesi non è un luogo dove si danno risposte (eh no); troppo facile. Scontato. Molto meglio sollevare problemi, instillare dubbi. Tipo: e ora? Cosa ne sarà del Bollani, di questo personaggio a mille facce? Cosa farà l’ultima bolla, la millesima, blue come la rapsodia, blues come tutte le canzoni cantate o semplicemente inventate? Bella domanda. A New York, dove ha inciso l’ultimo disco di Enrico Rava (“New York Days”, in uscita a gennaio per ECM), ancora strabuzzano gli occhi per la meraviglia. Mai – mai – si era sentito il Bolla suonare con tanta intensità e concentrazione. Lontano dai suoni carioca, dagli studi televisivi, dai riflettori più o meno potenti, il pianista ha lasciato che i nastri catturassero un’esecuzione straordinaria. A New York il Bolla ha suonato come ha detto Caetano Veloso (uno che la sa lunga). Questo non vuol dire, però, che tutto il resto che fa gli nuoccia. Non vorrei mai ripiegare su certi passi falsi della critica italiana (ai quali avevo pensato di dedicare un paragrafo, ma anche no), né accodarmi a quanti gli rimproverano cose. Se non fosse esattamente com’è, e non facesse esattamente le cose che fa, la Bolla blue non potrebbe suonare come ha fatto a New York (e non chiamate adesso: lì è ancora mattina presto). Dice: ma sei sicuro che a New York è mattina presto? Forse che sì. Forse Queneau. APPENDICI 1. Piccolo piccolo Quando Bollani entrò in studio per realizzare il suo primo disco in piano solo (o, perlomeno, quello che avrebbe dovuto esserlo, prima di trasformarsi in una baraonda) decidemmo di creare, per Jazzit, un servizio sulla sua realizzazione: un “making of”, girato in presa diretta, istantanea, e senza tagli. L’articolo, che vi ripropongo integralmente, conteneva anche un’intervista, realizzata a pranzo e nei tempi morti. Per la sua messa in pagina, stimolato dai procedimenti che avevo visto utilizzare da Stefano, pensai di usare diverse tecniche, quasi a voler sovrincidere, sovrapporre due o tre tipi di interviste, e questo spiega anche le differenze tipografiche tra le varie parti del testo. Naturalmente, nel corso di quella giornata non ascoltai il disco come sarebbe stato pubblicato, ma spezzoni, prime takes, prove, esperimenti. Fu più che sufficiente. L’appuntamento è per le 10 di lunedì 19 maggio, a Montevarchi, nello studio di Valter Neri. Il vostro cronista riesce ad arrivare con appena venticinque ore di ritardo (dunque, sincronizziamo gli orologi: sono le 11 di martedì 20 maggio). Il posto, delizioso, nel centro storico di Montevarchi (altrettanto delizioso), è ricavato da una vecchia fabbrica di sementi. Valter («con la V, mi raccomando», non tralascia di precisare), mi precede nella piccola corte interna, dalla quale entriamo nello studio. Qui si registra solo musica classica, in particolare rinascimentale e barocca («è musica che mica si rielabora: si riprende», fa Valter, sempre con la V, «e, per favore, scrivilo che non registriamo jazz: questa è un’eccezione». Obbedisco), e la sala principale sembra, a guardarla distrattamente, una palestra. Note di pianoforte si accavallano e rincorrono. Quante mani ha Stefano?, penso, mentre Valter mi accompagna su per una scala: non dice nulla, fa un cenno, io entro. Un tavolo, una vetrata – da cui si gode una vista panoramica sulla palestra, pardon, sulla sala -, niente mixer, un computer, un divano, due persone. In ordine di apparizione: Pierre Walfisz, l’eminenza grigia della Label Bleu, sul divano; Philippe Tessier Du Cros (bel nome, che invidia…), uno dei fonici più visionari in circolazione (se avete ascoltato, chessoio, “String’s Spirit” di Henri Texier sapete cosa voglio dire), al computer. Dalla sala proviene un fiume di note. Faccio mente locale. Mi hanno detto: «vai a Montevarchi che Stefano incide il suo nuovo disco di piano solo per Label Bleu». Piano solo? Le tracce di piano sono almeno due: mentre scivola con eleganza una base in nove, stortissima come le danze dei Peanuts, Stefano improvvisa, con micidiale padronanza. L’ostinato di base lascia il posto a un blues sbilenco, armonicamente instabile, e le B di questo brano, mi sembra, cambiano di chorus in chorus. Mi affaccio, allora, e vedo Stefano che balla e si dimena. Sta riascoltando l’ultimo tentativo, e ride. Ride in continuazione, e balla, in continuazione. Dunque: bisogna ricapitolare, subito. Un disco di piano solo? Neanche per idea. «È un disco in solo, questo sì. Un solo recording, come si dice in gergo, che però non esclude delle sovraincisioni. Non so da dove sia nata quest’idea. Non dal fatto che con un piano solo potrei sentirmi nudo, per cui la paura mi spinge ad aggiungere altre sorgenti sonore. Semplicemente la musica cui ho pensato per questa registrazione aveva bisogno per forza di due pianoforti, oppure di una percussione, oppure della voce o del suono della fisarmonica. Essendo da solo, perché è un solo recording, mi sono detto: va be’, li registro io». E infatti manca la base ritmica. Si guarda intorno, percuote oggetti, sbatte dappertutto. È un suono grave che cerca, come di un surdo, e lo trova prendendo a cazzotti uno dei pannelli acustici. Philippe sistema i microfoni, e raccoglie il suono. Parte la base. Stefano inizia a colpire. Ha bisogno di contrappunti mobili, di strati consistenti. Ma, allora, il piano solo? «In realtà, “Les Fleurs Bleues” per buona metà era un piano solo vero e proprio. Questo disco avrebbe potuto esserlo se non fosse che fin dall’inizio ho pensato che avrei voluto cantare, e quindi l’idea è andata a farsi friggere. Poi, ultimamente, mi è capitato di fare in studio cose non a nome mio, in cui mi sono trovato a sovra incidere due pianoforti: mi sono divertito, e ho intravisto la possibilità di aprire nuove prospettive». Dopo aver percosso il pannello (che resta ammaccato proprio al centro), Stefano sale e riascolta. Progetta altre sovra incisioni, mentre balla e si dimena. «Posso stare fermo ascoltando la musica di qualcun altro, ma non la mia; probabilmente per nervosismo, ma in studio non sono capace di mettermi a sedere sul divano e ad ascoltare. Al di là della tensione, tanta, c’è anche la voglia di accompagnare quello che sento e quello che ho appena suonato con qualcos’altro, con delle immagini ancor più che con dei movimenti, perché non so nulla di danza e balletto. Adoro muovermi». Musica per immagini, allora. Scrivere colonne sonore. «Mi piacerebbe moltisimo, perché spesso, alla fine, riascoltandola, non scrivendola né suonandola, dalla mia musica mi arrivano immagini che poi cerco di tradurre in qualcos’altro attraverso questi balletti. Ho un buon rapporto con la mia musica quando la riascolto: mi comunica immagini cui non avevo pensato mentre la scrivevo, perché mentre suono sono molto dentro la musica». Si prosegue. Questa volta, almeno all’apparenza, è davvero piano solo. Stefano attacca un brano: riconosco Ginastera, il gigantesco, e purtroppo da noi sconosciuto, compositore argentino. Perché Ginastera? E poi un tango, El Choclo? Quanta Argentina… - È casuale. Non ho voglia di fare un disco a tema. Semplicemente, ho scoperto Ginastera, trovato questi due brani e deciso di suonarli perché li sento adatti a me. Il tango, invece, è musica che ascolto da sempre, anche al di là del monumento Piazzolla. C’è un pianista argentino, Horatio Salgan, che fa cose che sono tra le mie preferite in assoluto, o, naturalmente, Gardel o certe orchestre di tango che sono una meraviglia. Non le ho mai suonate, e lo faccio ora. Ora mi rappresentano, ora sento di poterle affrontare con la consapevolezza di inventare qualcosa di particolare e interessante, senza giocare con quel repertorio, come se niente fosse… sento di volerle suonare… [Il punto, alla fine. Arriva all’improvviso, come molte cose nella musica di Bollani. Intanto, il rispetto. Come un grande chef tratta le materie prime (con la stessa cura, l’attenzione, la dedizione quasi maniacale), il pianista milanese elabora il suo discorso a partire (sembra una differenza da poco, ma il gioco è tutto lì) dalla materia, non arrivandoci. Questo senso di profondissima, assoluta, suprema fedeltà costituisce, poi, proprio lo spunto per l’invenzione più febbrile, per la rielaborazione più spericolata, per l’idea – l’ultima, quella che arriva sempre all’ultimo momento – in grado di cambiare tutto: tutto il tracciato, tutto il senso. Anche Ginastera non sfugge al processo. Due i bozzetti per pianoforte, risalenti alla metà degli anni Trenta: Danza del gaucho matrero e Danza de la noza donosa. Brani estremamente impegnativi, scintillanti e poderosi nella perizia tecnica che richiedono. La difficoltà sembra essere uno dei gangli attorno ai quali Bollani costruisce il suo personale approccio al pezzo: ovvero, la sensualissima e swingante pronuncia di un musicista poliglotta per necessità che fluttua nelle crome rigorose e sbilenche del compositore argentino senza che nessuna di esse perda un briciolo della propria gaucha violenza, o senza che lo struggimento solare, sonoro lasci il posto a qualcos’altro. E, allora, arriva puntuale lo scarto, l’alzata di ingegno. Il fiuto, il tocco di Stefano Eta Beta, capace di estrarre dal suo marsupio l’impossibile: sovraincidere, in un breve passaggio, tre voci in armonia sulle quali piazzare un assolo. Intrigante, come idea]. L’idea [appunto] lascia tutti perplessi (tranne il vostro cronista, che si diverte come un pazzo, e al quale piace assai). Mentre riascolta la terza take – bella, pulita, intensa, a differenza della seconda, troppo zuccherina (con poco Ravel, insomma) – Stefano canta di tutto: dà voce alle ansie della musica vocalizzando un improbabile gramolo in tedesco quando l’incedere è possente, mentre asseconda i pendii più introversi con un canto ormai entrato nella pelle dei presenti: lo straziante “La muerte del cabron”, affrontato con un pathos degno di un gaucho devastato dal metanolo. Dopo una ventina di minuti Bollani chiede a Walfisz: «Ti piace la muerte del cabron?». E lui, afferrando un cellulare: «Sì, certo, tantissimo. Sto chiamando Danilo Rea…». Avanti così fino a pranzo. FINE PRIMO TEMPO Col procedere della registrazione si precisano, anche se non si può mai dire, quali possono essere gli orizzonti stilistici ai quali Bollani si è ispirato nella scelta del materiale per questo disco. «Eppure non c’è un criterio. Sono tutte che ho scoperto, fra virgolette, oppure composto recentemente. Niente, o molto poco, di questo materiale l’ho già proposto dal vivo. Per quel che riguarda le mie composizioni, molte sono quelle che stanno nel cassetto da un po’, aspettando l’occasione giusta, perché non le ho ritenute adatte per nessuno dei gruppi con cui suono (Titanic, né il trio, né Rava). Questa è l’occasione buona, anche perché se non le suono io, che le ho scritte, chi le deve suonare?». Non fa una piega, ma quanto è rappresentativa di Stefano Bollani la musica di questo primo disco in solo? «Penso che vada a finire per rappresentare Bollani il giorno 17 maggio, nel senso che non pretendo né che sia esaustivo, né vorrei che fosse semplicemente una parte del Bollani musicista. Semplicemente, rappresenta quello che ho voglia di fare in questo momento e che, probabilmente, fra un mese farei in modo del tutto diverso. È la fotografia di un momento: il prossimo anno non passerà di moda, forse per me un po’ sì. Un acquirente, fra dieci anni, comprerà questo disco e spero possa piacergli, io gli do massimo tre anni. Ma poi, se incido e registro questo materiale è perché mi piace, non ho altro motivo. Mi piace oggi, e magari tra dieci anni non mi rappresenterà più, come le poesie che scrivi a sedici anni: ti fanno sorridere, perché la tecnica, magari, è quella giusta, ma i sentimenti sono tutti diversi». È già qualcosa, per capire. Eppure: la musica che rappresenta Bollani il 20 maggio (abbiamo sincronizzato gli orologi, ma lui non lo sa) ha dentro un tale quantità di cose da lasciare esterrefatti. Piuttosto che togliere (uno dei dogmi classici) Stefano aggiunge, assomma, addiziona, moltiplica, stratifica: paura del vuoto? «Questa è una domanda cui non so rispondere. La paura del vuoto è il problema di qualsiasi musicista al mondo, in particolare di un pianista che ha ottantotto tasti e spesso rischia di suonarli tutti contemporaneamente. Sono pochi i pianisti a non avere la paura del vuoto; alcuni suonano così poco da farti pensare che la paura del vuoto ce l’hanno, eccome, e la esorcizzano con il vuoto stesso, Ahmad Jamal, fine anni ’50: ti dà chiaramente l’impressione di uno che si sta sforzando di non fare neanche i temi, ed è una cosa innaturale, ma senti lo sforzo; quelli sono, in assoluto, i miei dischi preferiti di jazz, hanno questo grande vuoto, micidiali. Quando senti Ahmad Jamal hai veramente l’impressione che sia paura del vuoto quella che lo guida, ma ben venga se contribuisce alla creazione di quella musica meravigliosa». Sì, ma Bollani ce l’ha la paura del vuoto? «Sì, ce l’ho, e sto imparando a conviverci. In questo caso particolare, però, spero che sia soltanto il gusto a guidare le mie scelte». Un pizzico (in realtà: vagonate) di imprevedibilità fa comunque parte della tua musica, da sempre. «Assolutamente. Sono il primo a non volersi annoiare ai miei concerti o quando ascolto i miei dischi. Il giorno in cui mi annoierò non ci sarà più alcun motivo per continuare a suonare: meglio fare un qualsiasi altro mestiere. Se si fa musica non ci può essere noia, altrimenti...». Nel jazz di oggi quanta imprevedibilità, o noia, ci senti? Nel jazz, in particolare, c’è molta noia, molta ripetitività. Ecco perché si finisce con il cercare stimoli e ispirazione in musiche vicine... o lontane... ...utilizzando il linguaggio del jazz, che resta quello che voglio parlare, che mi piace parlare. Detto ciò, credo che il genere musicale “jazz”, se ancora esiste, fatica a tirare avanti perché rischia l’accademia, e i musicisti che lottano contro l’accademia corrono il rischio della poca musica, della brutta musica, perché l’accademia la si combatte con l’imprevedibilità. appunto... e invece spesso quella che si produce è solo musica bruttina, o magari ancora più prevedibile perché... stagionata esatto, come l’improvvisazione radicale. [La bruttina stagionata, per parafrasare il titolo di un adorabile romanzo di Carmen Covito, non abita qui, in questa giornata di caldo torrido a Montevarchi. Perché Stefano Bollani prende il caprone per le corna, dopo averne cantato la morte ancora a lungo, e lo stordisce a forza di idee. Ecco: le idee, le intuizioni di questo giovane pianista sono merce rara, oggi, nel mondo. I guizzi da saltimbanco, gli equilibrismi, i funambolismi rappresentano il grado zero per cercare di capire la sua musica. Che, sicuramente, fa molto per farsi comprendere, per arrivare, per scoprirsi, ma al tempo stesso conserva una pudicizia, una ritrosia di stampo antico. Nell’esuberanza bollaniana sopravvive il tratto elegante e schivo del narratore di campagna, dell’esteta da bar dello sport (che è quello che ti spezza il fiato rivelando le cose fondamentali della vita senza che tu te ne accorga); nella sua incontenibile leggiadria implica processi complessi, come l’umorismo, la complicità. Mica facile far ridere, con la musica. Anzi: per niente. La comicità può essere fisica, visiva o di linguaggio: in tutti i casi investe un medium linguistico diverso da quello musicale. Stefano è persona spiritosissima, anche la sua musica lo è, in senso più lato. Allora? «Non lo faccio apposta. È una cosa molto naturale, che nasce da un gioco sul linguaggio e, a meno che non si tratti di un’idea stupida, tutto quello che puoi fare con la musica è alto. Giocare con la musica a più livelli è interessante; ad esempio: tutti danno per scontato che un violinista classico sia più ingessato di un musicista rock: se quel violinista fa un passo da break dance fa ridere più di un batterista che fa la stessa cosa, o di uno come me coi dreadlocks. Nel jazz si gioca molto con le citazioni (l’hanno fatto tutti i grandi), ma si rischia di far ridere solo tre persone, quelle cioè, che riconoscono la citazione colta, mentre se citi Tico Tico ha già un altro senso»]. Eppure musica e ironia appartengono alla stessa razza, non trovi? L’ironia è fondamentale, anche nelle piccole cose. Prendi Pierino e il Lupo, di Prokofiev. Titto parte da quest’arpeggio di do maggiore. È inutile che io spieghi a mia nonna cos’è un do maggiore, cosa vuol dire avere una tonalità d’impianto, ma mia nonna comunque capisce che quell’arpeggio, quella sonorità hanno un che di piano, di regolare, di tranquillo, di allegro, di un terreno sicuro: nessuna dissonanza, il massimo della placidità. Quando Pierino va nei prati, ta ta parà pa pà, parà pa pa parà ta ta ta, Prokofiev ha già creato un mondo, che io ascoltatore colgo nella sua spensieratezza... poi, però, arriva quel mi bemolle che porta tutto da un’altra parte, come un avvertimento, come se l’autore dicesse: “state attenti, perché sto scherzando: do maggiore un cazzo, siamo nel 1920 e non tira una bella aria...”. In realtà, poi, non succede nulla di così grave nell’opera, resta un meraviglioso esempio di musica per bambini, però comunque il messaggio che arriva è quello: attenzione, vi faccio giocare su un bel prato, però da un momento all’altro posso togliervelo e trasportarvi da un’altra parte. ecco, questo è un grandissimo gioco sul linguaggio. A me, piuttosto, capita di fare, in maniera inconscia, un altro tipo di operazione: mentre suono una cosa entro improvvisamente in un’altra, e questo fa ridere, perché è un procedimento un po’ grossolano. Ma tutto ha a che fare, in qualche modo, con un linguaggio. Mi viene in mente una versione live di Cara ti amo, di Elio e le Storie Tese. Il pezzo sembra non finire mai, perché la cadenza V-I viene evitata e ritardata all’infinito. fa ridere, ma quanto sanno cos’è una cadenza perfetta? Infatti credo che non sia neanche utile spiegarlo. Come nei pezzi di Satie che non finiscono mai: zan dran dan dan; tutti sanno che alla fine c’è za dan pa pa, e lui insiste: zan dran. [Parole sante...] FINE SECONDO TEMPO Il pomeriggio prosegue con Stefano alle prese con brani di diversa natura. Dapprima suona e canta Figlio Unico, ma prima di incidere la take definitiva (o, per lo meno, quella più soddisfacente), canta il brano alla maniera di Carla Bruni, Gato Barbieri, Enrico Rava, (Walfitz è piegato in due, noi tutti in tre, ma lui è pur sempre il capo...), per finire con un classico di Johnny Dorelli. Più tardi, quasi a fine giornata, inscenerà un duello entusiasmante tra Billy Joel, uno dei suoi autori preferiti, ed Elton John, che detesta, ma piace a Philippe. Ma c’è ancora tempo per buttare giù idee e schizzi d’arrangiamento, basi da usare o da buttare, overdubbings vari ed eventuali. Tutte le parti vocali ri-registrate, e ancora pezzi nuovi, come Carolina. Molto Brasile, nella musica del milanese Bollani. «Per il Brasile ho un amore enorme, soprattutto per i cantanti: Jobim, Caetano, molti altri...» Spezzerei una bilancia per Ivan Lins... Non mi fa impazzire, se ne nomino dieci, lui è undicesimo. Undicesimo? Ivan Lins... Dovrei parlare a lungo della musica brasiliana per arrivare a Lins. Ci arriverei, certo, ma prima - oltre ai due riferimenti assoluti, Egberto Gismonti ed Hermeto Pascola - c’è la triade di riferimento: Jobim, Caetano, Chico... Edu Lobo? Nei dieci... Meno male... [Procedendo verso la sera, che arriva subito, senza avvertire, dal lucernaio della stanza, tutto diventa più familiare e lieve. Anche la musica di Bollani, che rivela paesaggi inaspettati. Un brano su tutti, bellissimo: Il mare si è fermato, scritto da un cantautore, Marco Parente, un suo amico, che si muove nell’aera del rock innovativo italiano. Stefano lo interpreta, davvero, e sembra che di quell’immobilità voglia farsi carico; scava a fondo nel senso di un testo teso e lucido, con quella voce un po’ così di uno che da grande non ha ancora abbandonato la speranza di diventare un cantante. E allora gli chiedo: sei un pianista, per certi versi anche un percussionista; sei senz’altro un cantantista; sei forse anche un centrocampista? Dove ti piace giocare? Nella parte di campo dove bisogna avere le idee o dove c’è bisogno di forza, di potenza e si fanno tanti goal? Quando sono in uno studio di registrazione gioco in mezzo al campo: devo ponderare, studiare; quando suonerò gli stessi pezzi dal vivo saranno totalmente diversi, nel bene e nel male, perché entra in campo il fattore emotivo, e l’attitudine diventa quella del realizzatore, dell’attaccante, di chi ha una motivazione diversa. Suonare davanti a un pubblico dunque ti condiziona, ti migliora, ti cambia... Mi condiziona moltissimo, tanto che una qualsiasi registrazione di un mio concerto dal vivo non somiglierà mai, neanche lontanamente, al disco che sta registrando. In ogni situazione, studio/live, ci sono cose che perdo e che guadagno. In studio sto più attento al suono, posso evitare quel minuto in più, eviti di farti trascinare. Il che vuol dire che dal vivo hai l’esatta percezione che stai dicendo troppo? Rispetto a quello che vorrei dire, sì. Però tutto viene temperato dal fatto che dal vivo c’è molta più passione, e passionalità. Dunque, live e studio mi piacciono allo stesso modo. Piuttosto, quando mi riascolto, in tutt’e due le situazioni, ma anche quando sto suonando, mi viene sempre di pensare a quella paura del vuoto di cui tu parli. È una cosa cui penso da tempo immemore, forse da quando ho iniziato a suonare il jazz... A proposito di jazz; il fatto di mescolare, nella tua musica, una serie di elementi così eterogenei, non pensi possa alienarti il favore dell’appassionato di jazz, quello “vero”, un po’ rigido e risentito, per dirla con Adorno... È probabile, anzi probabilissimo. Ma, in generale, non credo che il pubblico dei miei concerti sia definibile un pubblico di appassionati di jazz. Tempo fa ho fatto un piano solo a Perugia: c’erano molti ragazzi giovani, sui vent’anni, che non credo sapessero chi era Dizzy Gillespie, ma che probabilmente ascolto Metheny, Björk, Radiohead, e poi, non so per quale motivo, decidono di venire a sentire me. Non sono interessato ad avere un pubblico formato solo da jazzofili, che mi fanno le pulci e mi dicono a quale pianista faccio riferimento o a quale disco mi ispiro. Preferisco uno che mi dica: mi è piaciuto, ho pianto, ho riso, gente che la pensa come me. È per questo pubblico che mi piace suonare]. Chissà a quale pubblico piacerà Il mare si è fermato. Di sicuro piace a Walfitz. Quando Bollani viene ad ascoltare la traccia appena incisa, il boss dice: “I almost cried”. E Stefano: “Did you cry as a man or as a producer?” In questo strano miscuglio di inglese (lingua ufficiale della giornata), francese (Pierre, Philippe e l’altro fonico, Lorenzo Tommasini), italiano (tutti gli altri, che però si “scrupoliscono” e parlano sempre inglese affinché gli altri capiscano); in questa babele linguistica, ciò che passa e resta attaccato alla pelle come l’afa che quasi si condensa nell’ex cementificio è l’emozione forte, formidabile, intensissima, di alcune cose incise quel giorno, o il giorno prima. Mi fanno un regalo: il computer sputa fiori, ovvero una versione ugly beauty (enormemente bella) di Ugly Beauty, piccolo omaggio a Monk. Altri omaggi sono stati resi (a Zappa, Let’s Go To Cleveland, ai Beatles, Norvegian Wood), ma non li ascolto. Non c’è tempo. Bisogna sistemare qualche piccolo taglio e preparare il piano lavoro per la giornata successiva. Allora, affrontiamo le ultime questioni, che hanno a che fare col linguaggio, con la letteratura. Bollani, si sa, nutre un grande interesse per la narrativa e il suo album precedente è dedicato a Raymond Queneau. Cosa dà, e in che modo il linguaggio assorbito dalla letteratura ritorna nella musica è un buon punto di partenza. «Leggo molto, è vero, ma nella mia musica ci ritrovo sempre Queneau, Calvino, gli scrittori argentini, Achille Campanile: insomma, tutti quelli che, come noi, giocano con le parole, coi linguaggi». Cortázar. «Certo, questi scrittori - e cito pure Cervantes, ma anche Bontempelli, Buzzati e tanti altri, i sudamericani - giocano con la magia della realtà, fingono di scrivere romanzi reali, realistici, e poi lasciano spazio alla fantasia». Allora, il senso del paradosso tipico degli scrittori che abbiamo nominato può essere l’elemento che spiega l’imprevedibilità della tua musica, e i suoi paradossi? «Penso di sì. Se io scrivessi - e sul computer ho un piccolo appunto dal quale potrei far scaturire qualcosa - affronterei questo tipo di visione del mondo: una realtà all’interno della quale si agitano piccole lucine che ti costringono a pensare che forse...» Alla fine ci siamo arrivati, e un cerchio si è chiuso. Quello che racchiude l’imprevedibile, il paradosso, la paura del vuoto, Pierino e il Lupo, il jazz, l’umorismo, la letteratura, i libri. A proposito. Hai sempre letto molto? Ho iniziato a otto anni e ho letto la biografia di Charlie Chaplin. Davvero? Io come secondo libro! Giura... Giuro... Quando il disco uscì, il primo a esserne sorpreso fu il sottoscritto. Lì, compiuto, c’era il lavoro che avevo visto crearsi mano a mano, precipitato in una forma cristallizzata di rapinosa bellezza. “Smat Smat” è tra le cose migliori mai incise da Bollani, perché ne rappresenta fedelmente un preciso momento esistenziale, tecnico, musicale e umano. È l’album col quale supera in un sol colpo l’indecisione e l’incertezza (cosa farò da grande? bah) con la moltiplicazione del plausibile e della possibilità. Pieno di cose – memoria, storie, giochi di prestigio, bizze, fantasie, lingue, stili – è il ripostiglio dal quale, come sempre ha fatto, il pianista milanese avrebbe, volendo, tirato fuori idee, o luoghi impossibili, o canzoni da cantare. Per molto altro tempo ancora. 2. Il cielo sopra Bollani In occasione dell’uscita di “Piano solo”, nel 2006, decidemmo di dare al Bolla la copertina di Jazzit. E “Il cielo sopra Bollani” fu il titolo che inventammo per la cover story. Era talmente convincente da indurre in errore un giornalista del Corriere della Sera, secondo il quale il nuovo disco di Bollani si intitolava come la nostra copertina, e non “Piano solo”. Succede. Nel lungo servizio, che vi ripropongo, partivamo da un assunto semplice, dalla frase cioè di George Martin, il produttore dei Beatles, secondo cui l’unico limite per i quattro ragazzi di Liverpool fosse rappresentato dal cielo. Bollani, in quel momento di grande notorietà, ci sembrava avesse lo stesso tipo di limite: la sua creatività era talmente accesa da permettergli, senza alcuna difficoltà, di apparire in tv, di fare le imitazioni dei cantautori (che restano tra le sue performances più avvincenti), di avere un tondino sulla copertina di Topolino, e di incidere un disco formidabile come “Piano solo” Il pezzo è diviso in tre parti. La prima, firmata da me e da Paolo Corciulo, è un’intervista che realizzammo nella sala ascolto della redazione di Suono, la nota e prestigiosa rivista di alta fedeltà, ascoltando in anteprima il disco. La seconda parte è la continuazione della chiacchierata, condotta al telefono; infine, la recensione del disco, insolitamente lunga, secondo i canoni, ma necessaria per la ricchezza e la bellezza del disco. LATO A Intervistatori: Paolo Corciulo e Vincenzo Martorella Intervistato: Stefano Bollani Registrato presso la sala d’ascolto della redazione di «Suono», mensile di alta fedeltà, nel cuore di Roma, il 7.06.2006, tra le 18 e le 20. Audio da sogno. Terreno in buone condizioni. Mastering: Paolo Gresta Una provocazione: sentendo le prime note del primo brano di “Piano Solo”, sinceramente non avrei detto: “questo è Stefano Bollani”. Quanto ha pesato sulla tua musica l’influenza di Manfred Eicher e la circostanza di incidere per la ECM? C’è stata sicuramente l’influenza di Eicher. Questo non è il disco di un duo, perché alla fine lui non è intervenuto così tanto come fece, ad esempio, nel disco in trio con Rava e Paul Motian, che secondo me alla fine è il disco di un quartetto, in cui il quarto è proprio Manfred Eicher. La sua “presenza” c’è stata, in maniera molto morbida. Mi ha lasciato completamente libero, ma in ogni caso la sua presenza in studio si sente moltissimo. È uno di quei produttori che con tre parole, una volta terminato il pezzo, ti suggerisce una nuova direzione da seguire. Questa era la terza volta che entravo in studio con lui, ed è sempre stata un’esperienza idilliaca. La cosa bella è avere finalmente un produttore che fa il produttore, e che capisce di musica. Certo che ti condiziona, però è anche vero che ci si è scelti! Lui è uno che, in studio, ferma il gruppo e dice: «la terza corda del contrabbasso è calante», quando neanche il bassista se n’è accorto. Davanti a una persona del genere, quindi, tanto di cappello. Il disco suona in maniera diversa rispetto a quelli precedenti, e non solo per il suono, sebbene l’intervento dei famosi riverberi non sia così evidente. È la scaletta, piuttosto, che fa un po’ di ECM: la scaletta che ha deciso Manfred e che io ho approvato. I brani, cioè, anziché procedere in contrapposizione tra loro, procedono come per raccontare una storia, e quindi partono e arrivano pian piano da qualche parte, per poi tornare indietro. Manfred ha rintracciato, nei brani che ha inserito in scaletta, dei punti di raccordo, tali per cui la fine di una canzone poteva essere legata all’inizio del pezzo successivo e così via, creando appunto una storia che io mai avrei pensato ci fosse. Gli feci notare (ingenuo) come l’ultimo accordo dell’ultima canzone del disco fosse lo stesso con il quale il disco si apriva, La bemolle minore maggiore settima. «Yes, of course!», mi rispose. Lo aveva fatto apposta, aveva rintracciato quel collegamento e disposto di conseguenza i brani. Questa storia che racconti nel disco la racconteresti anche dal vivo? Forse no. Dal vivo tendo ancora a ragionare per contrapposizioni: un pezzo svelto, uno lento, alla maniera dei musicisti di liscio. Nel disco questa scaletta ha una logica, dal vivo forse non l’avrebbe. ?) Tu sei uno che osserva, che studia, attento alla fenomenologia. In cosa sei cambiato, dopo l’incontro con Manfred Eicher? !) Come se uno mi chiedesse “questa donna cosa ha cambiato, in te?” Accidenti... Indubbiamente, il fatto di sapere che ad ascoltarti in regia c’è un tipo che è il produttore di Jarrett e Gismonti, due artisti che io amo molto, è ovvio che mi faccia suonare con un’altra concentrazione. Come se ti dicessero: stasera in sala c’è Miles Davis. A parte lo spavento perché è morto da un po’... Ma poi è ovvio che suoni diversamente. Magari, anche peggio! So anche che gli piacciono di più le cose intense e non quelle veloci; e ti dirò, mi sono fatto furbo (te la dico tutta...): prima di tutto, abbiamo registrato in un giorno e mezzo e nelle prime tre ore ho suonato tutti pezzi lenti. A un certo punto, mi sono detto: “gli sta piacendo. Andiamo”. Cioè, mi sono imposto di partire dalle cose che abbiamo in comune. E le ballad piacciono a tutti e due. Poi, pian piano cerchi di far accettare i tuoi difetti o le cose che all’inizio non collimano e quindi vai con Maple Leaf Rag o Cheek To Cheek e vedi che passa. Mi faccio un complimento: credo di essere stato furbo. Sono convinto che se fossi partito da Maple Leaf Rag, l’atmosfera in studio sarebbe stata diversa. In effetti non conosco un disco ECM dove c’è ragtime. Tra l’altro, la storia del disco è stata questa: quando io gli ho proposto un omaggio a Prokofiev, lui ha risposto entusiasta. Ero entrato in studio già sudato al pensiero di quello che dovevo fare e mi ero preparato alcuni suoi brani, con qualche idea aggiunta da me. Abbiamo iniziato a registrare e ne abbiam fatti due o tre. Uno è finito sul disco e tutto il resto no, perché ci siamo resi conto che i Capuleti e i Montecchi non dicevano nulla... Così mi sono detto: ma perché mi devo mettere in gabbia da solo? E ho cominciato a suonare tutt’altre cose che non avevo preparato, tra cui Beach Boys e Zambrini, con la testa rivolta a Prokofiev, però, visto che fino a quel momento, non avevo ascoltato altro! In certi passaggi più complicati, infatti, so che sono stato ispirato da lui e quindi considero il disco, comunque, un omaggio a Prokofiev. Però nessuno se lo può immaginare! Diciamo che invece di essere un omaggio, è un mezzo omaggio. Un “omà”. ?) Normalmente, nella carriera di un pianista, un disco in piano solo dovrebbe essere “un punto” (di partenza o di arrivo dipende dai gusti). Il fatto che tu lo abbia realizzato con la ECM ha un che di simbolico? Ti senti consacrato oppure è solo un passaggio? !) No, non mi sento consacrato perché io seguo Erasmo da Rotterdam: faccio il possibile per non sentirmi troppo compreso nel ruolo che ho, altrimenti poi come fai a fare uno spettacolo con la Banda Osiris dopo che hai inciso per la ECM di Keith Jarrett? Faccio quello che posso per non mettermi sul piedistallo da solo, insomma. Chiunque, se dovesse svegliarsi ogni mattina pensando “ho inciso per la ECM, sono arrivato” non suonerebbe più, perché gli verrebbe il panico e sarebbe bloccato. ?) E vale secondo te, quello che dice Uto Ughi rispetto a un solo violino, che stare da soli su un palco con un solo strumento è come dire la sintesi di tutto e non puoi cercare scuse? Cioè, se sbagli, l’errore è lì davanti a tutti, evidente e non puoi prendertela con nessuno? !) Non solo. Aggiungo anche che non c’è nessuno a lanciarti un’idea o un’ispirazione. Se quella sera non ti viene in mente niente, non c’è nulla da fare. Per cui il merito è tuo e la colpa è tua. ?) La musica di Bollani è più eclettica o insoddisfatta? Nel senso che è alla ricerca di qualcosa che non è ancora arrivato? Il cosiddetto “Punto G” (anzi, “Punto M”) della musica… !) Bella domanda. Io credo di essere soddisfatto, in generale, di poter mettere in pratica la mia curiosità. Non è da tutti. Bisogna avere la fortuna di poterlo fare e di avere un pubblico che lo capisce e quindi sopporta il fatto di non ascoltare al concerto i pezzi che ha sentito sul disco. Semmai, non sono mai contento! Nel senso che io non esco mai da un mio concerto dicendo “che meraviglia!”, anche se poi si impara a sopportare se stessi. Penso sempre di poter fare qualcos’altro, non necessariamente di meglio, ma di diverso. ?) Onestamente: quelle “concessioni” al commerciale (parliamo delle apparizioni in tv) sono utili e ti sono servite? !) Finché non sputtanano il tuo lavoro, sì. Credo, per un discorso mio, di non aver ancora passato la linea, mentre per molta gente l’ho passata da un pezzo. Secondo me, mi sono servite perché fanno una piccola fotografia del mio lavoro e dovrebbero far venir voglia di aprire la porta e dire: “vediamo questo che combina nei suoi concerti e nei suoi dischi”. In pratica, è pubblicità. Non è certo una forma d’arte quello che posso fare da Arbore o dalla Dandini e da Fiorello, dove per lo più mi intervistano o al massimo suono due o tre cose. Ma non pretendo di fare lì la mia musica, anche perché io sono un diesel: i primi cinque - dieci minuti di un mio concerto non mi piacciono mai, figurati un’apparizione televisiva di due minuti. Mi fa schifo. Però si va lì e se si può, ci si diverte. E nei loro programmi, per fortuna, si sta bene. Da quando ho fatto il programma di Arbore e la tournée teatrale con la Banda Osiris, in due anni di concerti (in Italia, perché all’estero magari non conoscono ancora bene questo lato) mi è successo una sola volta che un signore sia venuto da me alla fine dello spettacolo e mi abbia detto che si aspettava quello che aveva visto in tv. Una persona in due anni. Posso dire quindi che le aspettative degli altri sono consone a quello che faccio e va bene così. Poi, se si aspettano cose nuove a me va bene, perché sono io il primo a non volersi sentire ingabbiato in un personaggio preciso o in un musicista preciso. ?) Hai tratteggiato un mondo (l’artista, il pubblico, il disco nei negozi) che scricchiola e neanche poco. In questo si inserisce Internet come un fattore, per alcuni, destabilizzante, per altri addirittura propositivo. La tua posizione in merito qual è? !) Che dovranno decidersi a regolamentarlo. Punto. Personalmente, io non mi sento per nulla danneggiato. Non sono un grande navigatore, ma sono contento quando mi dicono che su E-Mule sono scaricabili i miei dischi e i miei concerti. Questi ultimi sono tra l’altro la mia attività principale, visto che dai dischi non guadagno moltissimo. Servono più che altro a farmi conoscere e a portare poi le persone agli spettacoli. Non vedo un danno, da Internet. Detto ciò, invece, capisco che ci sia un danno per molta altra gente. Trovo anche che, per i cantanti pop, sia un bello stimolo per confezionare prodotti migliori a livello sonoro e di booklet, a fare meglio. Così imparano. Per anni, hanno agito facendo il singolo da classifica e poi il resto del disco di contorno: adesso si meritano che la ragazzina si scarichi il singolo e se ne freghi del resto. Dovranno dare finalmente un po’ di importanza al concerto dal vivo, dovranno inventarsi qualcosa. Può darsi che non gli faccia male, ecco. Detto ciò, la discografia è in crisi, ma era in crisi già prima: si fanno troppi dischi ed è inconcepibile che in un paese accada. Sarebbe come pretendere che in Italia, tremila musicisti vivessero di concerti jazz, quando invece sono tra i cinquanta e i cento a farcela. Sempre a proposito di qualità, una cosa sorprendente comune a molti tuoi colleghi è che, una volta effettuato l’atto creativo, c’è un intenso disinteresse per come questo poi viene capitalizzato nel resto della catena. Anche in termini di qualità: cioè, mi chiedo come mai i Rolling Stones facciano dischi inascoltabili a livello sonoro o perché ci siano certi artisti che accettano di suonare in sale dove il loro lavoro viene vanificato e recepito dal pubblico come una cattiva performance, solo per colpa dell’acustica. A te interessa questo aspetto e tendi a curarlo? !) Parlando proprio di suono, ti dico una cosa: gli artisti di solito si disinteressano di tutto perché altrimenti non sarebbero “artisti”, con la testa fra le nuvole. E sarebbe meglio che in effetti lo facessero e delegassero questi compiti a qualcuno. Io penso di essere stato il primo ad aver avuto un ufficio stampa personale e tutt’ora, l’unico ad averlo. E sono uno dei primi ad avere avuto il proprio fonico (da pochi mesi). Quindi, ovunque io suoni da solo, o meglio ancora col quintetto o l’Orchestra Sinfonica, mi porto dietro il fonico. Ma ti assicuro che io sono l’unico. Lo stesso Rava non ce l’ha (stavolta la tirata d’orecchi gliela do io). È assurdo farsi tre ore di sound check dopo che magari te ne sei fatte sette di macchina per poi sentire comunque i fischi degli strumenti durante i concerti. ?) Hai pubblicato tre dischi in cinque mesi (“I Visionari” che è un doppio, il Trio con l’Espresso e il piano solo). Non ti sembra di avere esagerato un tantino? !) Visto che tanto i dischi si vendono poco, non cambia poi tanto. Chi vuole i dischi di Bollani li compra tutti, chi non mi conosce non ne compra nessuno e tutti vivono felici e contenti. ?) Qual è l’ultimo disco brutto che hai comprato? !) Quelli li compra Petra... [Magoni, sua moglie, ndr] LATO B Intervistatore telefonico: Vincenzo Martorella, redazione di Jazzit Intervistato telefonico: Stefano Bollani, albergo di Taranto. La linea è libera. Non si escludono intercettazioni. Vorrei cominciare dalle tue riletture, alle quali ho affiancato un passo significativo di Manganelli per introdurle. Lui diceva “noi non diciamo, ma aggiungiamo”. Che cosa ti spinge, quindi, a suonare un certo standard o un certo pezzo? Sei tu che scegli lui o lui che sceglie te? E nel momento in cui lo suoni, la tua rilettura è un’aggiunta, un commento oppure una somma delle due? È sicuramente una somma delle due. Nel senso che, in alcuni casi, i brani che scelgo di suonare non mi fanno impazzire e quindi comincio ad aggiungere cose. In altri casi, mi trovo tra le mani dei capolavori della storia della musica e ugualmente, però, visto che mi ispirano molte sensazioni, umilmente mi impegno a scavare e a cercare di tirar fuori qualcosa di diverso. Questa è l’attitudine generale. Di solito, a ispirarmi non sono le canzoni degli autori che amo di più, perché come ascoltatore ragiono in maniera diversa: essendo un fan di Beatles, Steely Dan, Billy Joel o Stevie Wonder, per citarne alcuni, che oltre a essere artisti sono dei veri personaggi, non troverai traccia di loro cover sui miei dischi, perché magari non mi viene in mente niente da aggiungere, niente che sia mio. E allora finisce che mi metto al lavoro su cose che sono molto lontane da me (ad esempio, “Pet Sounds” dei Beach Boys). Che cos’è allora che fa scattare il desiderio di provare qualcosa di diverso? Il testo, un ragionamento più o meno poetico sull’insieme di testo, musica, melodia, accordi... Cosa? Quando devo cantare, è sicuramente questo. Quando suono, come in Don’t Talk dei Beach Boys, è semplicemente il fatto che ci sia qualcosa di interessante: in quel pezzo, le soluzioni armoniche sono talmente stravaganti che io alla fine non modifico quasi nulla. In altri casi, invece, può essere un’idea ritmica: in Let’s Move To Cleveland, ad esempio, è quel tema bizzarro suonato con la chitarra che sa un po’ di Bonanza... Ogni volta, comunque, è una cosa diversa: Norwegian Wood dei Beatles di per sé non mi avrebbe mai interessato, se una volta a un sound check non avessi cominciato per caso a suonare un pezzo con le mani, una in tonalità minore e l’altra in maggiore, per scoprire che stava uscendo fuori proprio il tema di quel brano! Solitamente, infatti, uso Giù la Testa di Morricone durante i concerti. L’idea è quasi la stessa, cioè quella della bitonalità (mano destra in Do, mano sinistra che rimane in Mi Bemolle), che resta comunque un’idea vecchia come il Novecento. Si ha la sensazione che tu riesca a entrare dentro la psicologia del brano, provando a raccontare quello che il brano stesso racconta. Keith Jarrett, Dexter Gordon e Lester Young sostenevano che non si può suonare uno standard senza conoscere il testo. Tu che ne pensi? Non sono d’accordo. E te lo dice uno che generalmente i testi li conosce. Nel senso che For All We Know potrei cantarla, Don’t Talk no. Così come potrei cantare la maggior parte degli standard americani. Sono un appassionato di testi di canzoni italiane e quindi ne so molti a memoria. Ciò non toglie che credo non sia importante conoscerli bene, perché nella maggior parte dei casi i testi non sono un granché. Ora, For All We Know è anche un testo carino e quindi è un esempio che va contro quello che sto dicendo, così come quello di Everytime We Say Goodbye. Però, tendenzialmente, specie se li traduciamo in italiano e quindi privandoli del suono, i testi delle canzoni americane non sono mai stati a livello della musica. Anche per ovvi motivi, visto che devono stare dentro un film, una commedia musicale o sotto un balletto, per cui sono spesso canzoni d’amore sdolcinate in cui la musica è quasi sempre al di sopra delle liriche. Ci sono altri brani a cui manca il classico guizzo e trovo inoltre che, non a caso, rimanga impressa nella mente degli ascoltatori più la musica delle parole e non perché noi italiani non conosciamo bene l’inglese. Credo ci sia proprio una disparità di fondo, a prescindere dalla lingua. Questo è interessante. Il che vuol dire che potrebbe esserci una differenza “culturale” tra uno standard riletto da uno statunitense e lo stesso standard riletto invece da un europeo? C’è una differenza enorme, infatti. Perché è molto più probabile che lo statunitense (e anche il pubblico) si ricordi l’originale. La fruizione è molto diversa. Ad esempio, Jarrett se lo ricorda perché da bambino l’ha visto in un film (che magari da noi non è mai arrivato). Un film come “Gay Divorcee” chi se lo ricorda? Io personalmente Night And Day non la ricordo cantata in un film, ma fatta da Frank Sinatra con la sua orchestra, ed è già un passaggio diverso. Alla fine, guarda caso, il mio criterio estetico che sembra tanto serio ed “etico”, in realtà si basa sui ricordi personali. Ci sono canzoni che io ho visto per la prima volta già inserite in un contesto narrativo, immagini forti come quella di Fred Astaire per cui a quel punto sì, il testo diventa importante. Ma ci sono altri brani, come All The Things You Are, che non ho mai sentito cantare nei musical di Brodaway. Non ricordo affatto la versione originale, cosi come quella di My Funny Valantine. Non sono mie esperienze, mentre Aggiungi un posto a tavola lo è, comunque. Di quella sì che conosco l’originale (anche perché nessuno si sognerebbe di farci una cover...). Però è vero che il pubblico americano e il musicista americano hanno tutto un altro rapporto con quelle canzoni. Anche perché il pubblico americano di quelle canzoni probabilmente conosce il testo. Su My Funny Valentine, tu dici: ‘il problema è che l’originale di certi standard noi non lo conosciamo affatto’. Quindi per noi questa canzone è la versione di Miles Davis, una rilettura seconda: non ci basiamo più sull’originale, ma su qualcosa che è stato già fatto e che di suo è riletto e reinterpretato. In realtà, per noi sono pochissimi gli standard legati a un’immagine televisiva o cinematografica. Tant’è vero che sul Real Book su cui noi in Italia siamo cresciuti, le versioni che danno come riferimento e da cui hanno trascritto quel giro armonico sono quelle di Miles e Bill Evans, in quasi tutti gli standard. Riprendendo Manganelli, Ginevra Bompiani dice che la sua lingua deriva dalla somma di molte altre. Ho la stessa sensazione che questo discorso si possa fare anche con la tua musica, che è una somma di tante musiche. Ci hai mai ragionato su questa cosa? Non a tavolino. Ma se io potessi e trovassi il tempo, ne studierei parecchie, di lingue. Mi attira molto l’idea di prendere i suoni più belli (o più brutti) di tutte le lingue e metterli insieme, come - seppure in maniera bizzarra - faceva il personaggio di Salvatore del “Nome della Rosa”. Scoprire che da noi ci sono parole che suonano in maniera dura e che altrove invece sono dolcissime, o viceversa. L’idea che si possa trarre ispirazione dai linguaggi e dalle lingue a me piace molto, quindi figurati musicalmente. Il problema è tenere la barra a dritta. Non è semplice perché si rischia di pendere da una parte o dall’altra, dando l’impressione di cercare di parlare una lingua non tua. Invece la cosa interessante è prendere semplicemente l’ispirazione. Come può essere l’idea di chiamare un disco “Smat Smat”! In quel caso, non volevo dimostrare di sapere il danese, perché non lo conosco e sarebbe comunque stupido. Ma solo dire che quel suono era interessante e si adatta a quel disco. Come mai questo interesse per gli stili pianistici della storia del jazz, ovvero il ragtime, lo stride? Perché io ho iniziato cosi. I dischi che mi hanno avvicinato al jazz, prima della collana Fabbri Editore (per il secondo volume, quello su Charlie Parker, sono impazzito!), sono stati quelli pianistici e in particolare, dei dischi che un collega di mio padre regalò alla nostra famiglia. Come a dire: Stefano, mettiti a studiare il piano. E cosi questo collega tedesco ci portò una raccolta di piano dal titolo “History Of Jazz Piano” in tre volumi, in cui c’era veramente di tutto, fino agli anni ’60. Questo è il mio primo ricordo e ovviamente è un ricordo importante: Meade Lux Lewis, James P. Johnson, Jimmy Yancey li ho ascoltati qui per la prima volta. E anche Oscar Peterson, che addirittura all’inizio pensavo fosse un duo, perché le note di copertina erano scritte in tedesco e io non le capivo! E poi un disco di ragtime dove suonava Joshua Rifkin, un esperto del genere che però suonava molto lentamente, in maniera classica. Ma io facevo l’errore di metterlo a 45 giri! Per cui, per me Maple Leaf Rag, The Entertainer erano dei brani velocissimi con un suono strano, ma io non ci facevo neanche caso… Per me, il ragtime era quello ed era davvero molto affascinante. Poi, quando mio padre se n’è accorto e l’ha riportato a 33 giri, io per un anno non l’ho ascoltato più, perché era diventato noiosissimo e pensai che così erano buoni tutti, a farlo. Anche io, che all’epoca avevo nove anni. Ovviamente, non era vero. Ma il concetto era che il mio interesse era diminuito, perché ciò che mi affascinava era ed è tutt’ora la velocità. Oggi credo che, pianisticamente parlando, si siano perse molte cose: intanto la famosa mano sinistra dei pianisti, da quando Winton Kelly ha cominciato a usarla per accompagnare e fare gli accordi, è diventata molto debole. Lo stesso Jarrett, che pure è un grandissimo pianista, quando suona in trio non la usa e canta solamente. E in generale, la mano sinistra ha acquisito un ruolo molto codificato, di accompagnamento: non “suona” il basso, non ha bisogno di cantare, quindi può starsene a metà tastiera; è un peccato perché a sentire i pianisti fino a Teddy Wilson o Earl Hines, la sinistra non solo accompagna, canta e tutta una serie di soluzioni armoniche che poi sono state sviluppare in seguito perlopiù dalle mani destre. Penso che fino a Bill Evans, ci sia tutta una serie di cose che vanno studiate. E che da lui in poi, non sia più necessario. Nel senso che secondo me (forse è un’idea bizzarra), fino a un certo punto è il linguaggio del jazz, che quindi andrebbe conosciuto; dopo di che, ognuno da lì in poi ha sviluppato un suo stile personale, per cui studiare Cecil Taylor o McCoy Tyner, Jarrett o Corea porta solo alla creazione di piccoli, e nel caso degli ultimi due, dei veri e propri “mostri”, dei Jarrettini o Coreini sparsi in giro per il mondo. Mentre fino a quel punto lì, è proprio una questione di linguaggio, che poi sviluppi in maniera moderna. Capitolo improvvisazioni. Nel disco ne metti quattro, due si configurano come tali, altre due invece, a mio modo di vedere, sono più o meno strutturate. Quando per te comincia un’improvvisazione e soprattutto, quando e come finisce? Jarrett, per citarne uno a caso, può andare avanti per ore, tu ti limiti a spicchi di tempo, in confronto. La prendo larga. Un anno, a un festival, ho incontrato Misha Mengelberg. Io avevo appena fatto un concetto in piano solo, lui si apprestava a farlo. Ci siamo salutati, e poi lui mi fa, semplicemente: «Quanto hai suonato?». Gli rispondo: un’ora e venti. E lui: «Troppo! Perché se vuoi fare un concerto creativo, e improvvisare, il massimo è tra i venticinque e i quaranta minuti - (non ricordo esattamente cosa disse) - dopo di che cadi nei clichées; quello che suoni non è interessante, e dovresti smettere». L’idea è intrigante: quanto tempo, cioè, puoi essere concentrato e creativo senza cadere nei tuoi clichées? E poi: chi decide che sei caduto nei clichées? Uno che ti conosce bene? Te stesso? Quando suoni può succedere di credere di essere molto creativo, però quando ti riascolti ti accorgi di aver usato spesso la stessa frase. Di certo, so che non ho un tempo molto largo come quello di Jarrett: a un certo punto sento che sta svanendo la concentrazione, l’ispirazione, e preferisco chiudere. Preferisco fare un passo indietro, e smettere un attimo prima di stancarmi io stesso, da ascoltatore. In più, credo di avere un’idea di forma-canzone più “pesante” di quella che può avere Jarrett. È talmente presente quell’idea, nelle cose che faccio, che poi finisce che le mie improvvisazioni durino tre minuti e mezzo. Questo disco, il tuo vero primo piano solo, l’hai inciso un anno fa. Un anno non passa invano, soprattutto per uno come te, sempre proteso in avanti. E dunque: quanto ti rappresenta? I dischi tendo a prenderli come fotografie. È ovvio che oggi farei altro, ma è altrettanto ovvio che li sopporto con facilità, perché la fotografia è riuscita. Per questo, proprio perché sono istantanee di certi miei periodi, ho un buon rapporto con i miei dischi. Certo, se domani dovessimo mandare la classica sonda su Marte con un disco di Bollani, avrei difficoltà a scegliere. Di sicuro, non farei una compilation, perché alcune cose, messe le une accanto alle altre, non hanno senso. Finiamo. Se ti proponessero un tour mondiale strapagato, e tu dovessi scegliere tra quintetto e piano solo? Sceglierei il quintetto, perché potrei sempre ritagliarmi una finestra di piano solo all’interno del concerto! Mi piacerebbe, cioè, che si potesse cogliere sia l’aspetto del Bollani pianista che del Bollani compositore e leader di un gruppo compatto e coeso. Allo stesso modo, riferendoci ancora alla famosa sonda per Marte, l’importante è che la musica possa contenere il maggior numero di informazioni. --------------------------------------- Qualche giorno dopo aver realizzato l’intervista abbiamo ricevuto, via email, un’agenzia proveniente da Marte, che volentieri pubblichiamo. (ANZXA) Ieri, alle 42:50 del tardo giorno marziano, l’ennesima sonda proveniente da qualche miserevole pianetucolo della Via Lattea si è schiantata al suolo, nella regione di XYDRZAT38, in provincia di TRXADTZ. Prima di disintegrarla a martellate gli abitanti del luogo hanno proceduto alla solita, divertente analisi del contenuto della medesima, con particolare attenzione alla musica. Sebbene in quella regione al comando della hit parade ci sia ancora il celeberrimo duo marziano Oscar e Peterson, o proprio per questo, l’ascolto ha prodotto effetti di ilarità diffusa, al grido di: “makikazzè ‘sto Bollani?”. Interesse ha destato, invece, l’ascolto di altra musica presente sulla sonda: quella di un duo terrestre chiamato Ludovico e Inaudi (o forse è un gruppo: Ludovico e i Naudi). -------------------------------------- Quella che state per leggere non è una vera e propria recensione. Quanto, piuttosto, una serie di riflessioni innescate dall’ascolto del disco. Potremmo considerarlo il cartone preparatorio dell’intervista e della recensione finale, il lavorio mentale di un critico che si appresta a. Più modestamente, è il tentativo di spiegare e spiegarsi (un po’ alla Marzullo, naturalmente) meccanismi e cortocircuiti; percorsi e tragitti di un ascolto inquieto (nel senso buono: come quando si guarda un grande film, o una donna bellissima: gli occhi non stanno mai fermi). Sarà perché ho accompagnato l'ascolto dell’album con la lettura - rabdomantica - di una raccolta di saggi su Manganelli; si intitola "Le foglie messaggere" (Scritti in onore di Giorgio Manganelli, a cura di Viola Papetti, Editori Riuniti). Non è recente, risale al 2000, e l'ho trovato su una bancarella, a Napoli. In quella città di tante meraviglie, una sono le bancarelle di libri lungo via Luca Giordano: hanno volumi, nuovi di zecca, a pochi euro, e incellofanati da mano amorevole. Uno dei saggi - ma non è un saggio, quanto un ricordo, altrettanto amorevole e incellofanato, di una frequentazione singhiozzante - l'ha scritto Ginevra Bompiani; si intitola Scrivere è una cosa ignobile, l'importante è scribacchiare (una frase geniale di Manganelli) e dice cose talmente belle che ti viene subito voglia di averle scritte te, o di rubarle. Che, in fondo, è un po' la stessa cosa. Dice, ad esempio, che la lingua di Manganelli (grassa, pastosa, morbida, barocca, arcaica e formidabilmente divertente) è il punto d'incontro di molte altre. Facile, allora, citare Mallarmé: «La langue, imparfaite en cela que plusieurs, manque la suprème». E prosegue Ginevra: «Sembra sempre, nei suoi libri, che la cosa di cui si parla, la cosa di cui parla la lingua, sia stata omessa. E non perché sia indicibile o segreta o implicita, ma perché non c'è. La lingua non ha nulla alle spalle; semmai qualcosa le sta di fronte, alla foce. La scrittura, disse una sera a certi amici che aveva finito per sopportare con entusiasmo, è glossa, commento. Noi non diciamo, ma aggiungiamo. Parlare è una forma di sovrabbondanza disperata, una specie di India». Mi sono venute in mente, quelle parole, ascoltando le riletture che Bollani ha inserito nel disco. E, pensando al problema più in generale, mi sembrava che l'orizzonte ginevrino e manganelliano potesse - magari con una qualche leggera forzatura - adattarsi al problema: cosa, cioè, spinge a suonare un certo standard, un certo pezzo? La sottile arte della cover è un insieme assai precario di aggiunte e sottrazioni, epperò ogni artista-rilettore usa dosi di queste e quelle diverse. Perché poi, ascoltando il suo modo di interpretare cose d'altri, mi sorprende - sempre - il tipo di approccio; che in questo caso vuol dire, e indicare, la materia stessa di cui si nutre l'ispirazione. For All We Kknow, ad esempio, la trovo fortemente compromessa, come la situazione che racconta. Forse è un caso, o forse no, che Chet Baker, nell'ultimo anno di vita, avesse preso a suonare temi che Billie Holiday aveva inciso nei suoi ultimi giorni (facciamo nell'ultimo paio d'anni, va: da "Lady In Satin" in poi). Sarà perché quei due, in fondo, non me l'hanno mai raccontata giusta; sarà perché, come dice Deleuze, l'alcolizzato (o, per estensione, il drogato) sa quando i suoi giorni stanno per finire. Lo sente. E dunque non dice: smetto di bere. Ma: smetto di bere oggi, per ricominciare domani. Mi sembra che Chet e Billie sapessero di non aver troppo tempo davanti per aggrapparsi a canzoni ottimistiche. Avevano bisogno d'altro, di una cortina fumogena dentro la quale nascondersi, o nascondere la propria sconfitta. Ecco perché credo - almeno, così mi sembra che loro mi dicano - che quel brano alluda non tanto al possibile quanto all'impossibile. E, se confronto (mentalmente) la versione di Bollani con quella di Mehldau, trovo questa formidabile differenza: nella sua - e in lui - c'è il compiacimento di chi guarda dall'esterno, sorta di entomologo dei sentimenti; in quella del pianista milanese, invece, sto iniziando a trovare una delirante (in senso buono, buonissimo) tensione, un'insopportabile (e dunque sanguinante e bellissima) incredulità. E quella irreparabile incrinatura che, come nei racconti di Cortázar, finisce coll'espandersi a ragnatela, cambiando volto e colore alle cose. E prospettiva. Saranno quei bassi ussari? O certe lamentose dissonanze, molto ben nascoste nel voicing (mi ricordano Gesualdo da Venosa, o Luca Marenzio)? Allo stesso modo (o forse in modo totalmente diverso), Maple Leaf Rag è sorprendente. Trovo geniale, davvero, il sottotesto ritmico-metrico, tanto che - per provare a capire - mi sono messo, come un ragazzino al primo anno di solfeggio, a contare: prima in due, poi in quattro, per provare a cogliere quella meraviglia di overimpositions che Bollani suona come fosse la cosa più semplice del mondo. E forse per lui lo è. Pensando a cosa possa muovere alla rilettura di un classico (altri direbbero: un fossile) del jazz (jazz, poi, è pure una parola grossa), mi ha sorpreso l'attitudine futuristica. Mi ha ricordato J.P. Johnson: you got to be modernistic, diceva sornione, tanto lui faceva cose che gli altri potevano solo sognare. Bollani conserva lo schema formale tipico (AABBA CC DD, con gli ultimi due temi meno complessi, almeno dal punto di vista ritmico), lavora nei confini di un virtuosismo enorme ma controllato, quasi imploso. Estremamente complesso, eppure comprensibile. È questo, a volte, che fa la differenza. Credo di intuire che ci sia un discorso ritmico molto forte nelle sue pagine più pianistiche (nel senso di cui sopra): forse questo spiega la sua visione tanghèra e brasil-stil-novistica. In fondo, si tratta di prendere il 3-3-2 tipico e ribaltarlo, indicando - volente o nolente, e dunque consapevolmente o no - che quel sostrato ritmico è la materia con cui è fatta molta di questa musica che chiamiamo jazz (detta così, pare una roba facile facile, ma, of course, non lo è). Il ragtime di Bollani sembra suonato dalla mano sinistra di Gottschalk e la sinistra di Ernesto Nazareth. E i suoi tanghi, o quella roba lì, insomma - ché dare un nome alle cose è sempre esercizio difficile, e dunque fallibilissimo - sembrano suonati da Earl Hines negli anni Quaranta (quando lui suonava come un padreterno, peccato che nessuno lo sapesse: era ormai considerato un ferrovecchio). E, in tema di eciemmizzazione, e dunque della scaletta organizzata (me ne sono accorto, ora) con profondissima competenza e sensibilità da Manfred Eicher, non mi sorprende che dopo il ragtime abbia inserito Sarcasmi che, absit iniuria verbis (anzi), mi sembra ispirato, e dunque un omaggio, all'Egberto Gismonti pianista (quello che più mi piace; allo stesso modo, preferisco Ralph Towner alla tastiera e non alle sei corde); dunque, la matrice ritmica diventa griglia, indirizzo espressivo. Mi accorgo di aver lasciato il terreno delle riletture, e di aver tracimato (dato il mio peso specifico) in quello delle composizioni originali. Nel disco ci sono quattro improvvisazioni. Un aspetto (più o meno) nuovo, nella produzione, perlomeno discografica di Stefano. Ora, se la I e la II si configurano come tali (nel senso della ricerca della struttura, del tracciato armonico-melodico, intesa, genericamente, à la Jarrett), e la III, mentre gioca anche col timbro si abbandona voluttuosamente a un tango sbilenco (strepitoso: sembra di sentire il tocco di Pablo Ziegler), la IV, che gioca con il blues, almeno all'inizio, in sottofondo, appare tanto strutturata quanto, per dire, Buzzillare. Beach Boys. Ho sempre pensato che "Pet Sounds" sia non soltanto un capolavoro eterno, estremo, ma che, in un qualche trasversale ed eventuale modo, abbia propagato idee e modelli anche in musiche altre dal pop/rock (o come si chiama adesso). Non è un mistero che dal punto di vista armonico quella ricchezza abbacinante abbia interessato molti musicisti (penso a Zawinul, anche se non gliel'ho mai chiesto). L'austriaco, però, di certo deve aver apprezzato l'idea madrigalistica della "pulsazione a orologeria" del piatto ride in Don't Talk (tanto da averla ripresa, pari pari, in Dream Clock, e altrove). Ma c'è un'altra cosa che mi appassiona nella realizzazione di "Pet Sounds". L'idea, cioè, della genialità, un tantinello disperata ed eccessiva, di Brian Wilson. Ha a disposizione i migliori sessionmen di Los Angeles (tra questi, Barney Kessel), inventa dal nulla suoni meravigliosi (l'ho scritto: dovrebbe essere considerato al pari di Ellington, per questo); epperò, pur pagando Hal Blaine - batterista di lusso che all'epoca aveva inciso i dischi più famosi - non si fa nessuno scrupolo nel chiedergli di fare ciò che qualunque batterista avrebbe potuto fare: suonare le semiminime sul piatto, e null'altro. La trovo un'idea di produzione davvero futuribile. Restando in tema di madrigalismi, il basso che imita il battito cardiaco sulle parole "listen to my heartbeat" pure non è male. E, a pensarci bene, ha dato, tra i tanti esiti, l'altrettanto geniale basso iniziale di Cuore matto. Ora: nella rilettura bollaniana ci sento cose formidabili: l'alienazione del genio borderline, la sofferenza. Ce le sento per via di quelle dissonanze così chiare, scampananti, terribili. Mi ricordano il fatto che i grandi musicisti, categoria alla quale Stefano appartiene di diritto (a mio modesterrimo parere), hanno bisogno di poco per tratteggiare un panorama interiore. E mi ricordano una cosina bellissima che fa Ennio Morricone (mica capperi) quando, nella colonna sonora di "La leggenda del pianista sull'Oceano" riesce a descrivere il momento in cui si incrina, definitivamente, l'equilibrio mentale di Danny TD Lemon Novecento semplicemente con un temino ripetuto (ossessivamente: ce l'aveva già detto Rossini che pazzo è colui che ripete sempre lo stesso gesto) che contiene una dolcissima dissonanza, una seconda minore serena e terrificante. Ecco. Tutto questo – e molto, molto altro – c’è nel piano solo di Stefano Bollani. Ora: o io c’ho sentito queste cose per via di un’alimentazione sbagliata, o c’è davvero. Oppure, ma lo scopriremo, ha suonato tutto Manfred Eicher mentre Bollani era in giro per Lugano a strimpellare nei naitclèb.