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Quaderni del Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – 1 (1995)

Quaderno n. 1 –– Conferenze Primaverili 1995, stampato per conto del Circolo da De Bastiani ed., Vittorio Veneto, settembre 1995 –– Sommario: (1) IMPERIO Loredana, Federico II, tra Mito e Storia pp. 3-20; (2) GUSSO Massimo, Il Quadrato “Magico” pompeiano pp. 21-35; (3) CADEDDU Lorenzo,1945-1975. Da Trieste a Osimo pp. 36-59; (4) RUZZA Vincenzo, Eretici e scismatici, tra Piave e Livenza. In età medioevale e moderna pp. 60-86; (5) POSOCCO Franco, Cartografia e Territorio. Il contributo della documentazione aerofotogrammetrica nella storia del paesaggio veneto pp. 87-96

Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio LOREDANA IMPERIO FEDERICO II, TRA MITO E STORIA “Non aveva alcuna fede in Dio, era astuto, scaltro, sensuale, malvagio e iracondo. Tuttavia, sapeva talvolta essere uomo di bel garbo e, quando voleva dimostrare gentilezza e benignità, sapeva essere amichevole, ridente e cortese. Era operoso, sapeva come leggere, scrivere, cantare e comporre canzoni e musiche. Sebbene fosse piccolo di statura, era avvenente e di aspetto armonioso. Lo vidi e molto mi piacque. Parlava molti linguaggi... e se mai fosse stato un buon cattolico e avesse amato Dio, la Chiesa e la sua stessa anima, pochi imperatori avrebbero potuto stargli a pari”. Questa è la descrizione, abbastanza veritiera, che fra’ Salimbene da Parma dell'Ordine dei Minori francescani ci dà del carattere complesso di Federico II di Svevia. Vediamo ora di comprendere, attraverso la narrazione di alcuni punti salienti della sua vita, quanto fu leggenda e quanto storia e in che maniera gli eventi forgiarono quest'uomo straordinario, più principe del Rinascimento che sovrano medievale. La leggenda germanica, rafforzata alla fine del medioevo da numerose profezie e ripresa nell'800 in chiave romantica, lo affiancava al Barbarossa, nel gruppo di quanti non hanno abbandonato del tutto il mondo mortale e vegliano, chiusi in un luogo inaccessibile, attendendo la Fine dei Tempi per presentarsi a combattere l'ultima battaglia tra il Bene e il Male. Già il giorno della sua nascita, il 26 dicembre 1194, era tale da colpire l'immaginazione popolare, superstiziosa e attenta ai segni augurali. Che l'evento fosse avvenuto il giorno dopo Natale, per molti, rendeva il 3 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio neonato secondo solo a Cristo. Alle predizioni e alle leggende favorevoli si contrapponevano sussurri assai meno nobili sulla dubbia maternità della matura Costanza. Anche alcuni aspetti della vita di questa imperatrice avevano eccitato la fantasia dei contemporanei e creato leggende. Storicamente si sa che nacque nel 1154 poco dopo la morte del padre Ruggero II, il più geniale dei re normanni. La madre Beatrice, terrorizzata da sogni infausti al momento della sua nascita e dal responso degli indovini di corte che affermavano come Costanza sarebbe stata per la sua terra fonte della più profonda rovina, l'avrebbe destinata al chiostro. La giovane visse per anni presso le suore di San Basilio, nel convento del Santissimo Salvatore, nei pressi del palazzo reale di Palermo. Ma fin qui niente di strano, nel XII secolo era abbastanza frequente che dame di alto lignaggio vivessero, per periodi più o meno lunghi, in convento senza aver preso i voti. La principessa, al momento del matrimonio, aveva quasi 32 anni ed Enrico VI, figlio del Barbarossa, solo 19. Che Costanza avesse preso il velo e fosse stata strappata con la forza al convento fu solo una diceria creduta da più parti e suffragata dalla sua costante avversità per i tedeschi, in special modo durante la reggenza. Vi prestò fede anche Dante che nella Divina Commedia le assegnò un posto in Paradiso perché costretta, contro la sua volontà, ad abbandonare la dolce chiostra. Dopo 9 anni di sterile attesa, l'improvviso concepimento: l'imperatrice aveva 40 anni. Per i parametri medievali era già vecchia, considerando che la maggior parte delle donne erano già madri a 14 anni. Al momento in cui fu assalita dai dolori del parto Costanza era in viaggio per raggiungere il marito in Sicilia. Secondo più fonti ella avrebbe fatto erigere un padiglione nella piazza di Jesi e permesso a chi lo volesse, di assistere all'evento. Il giorno prima, Natale del 1194, Enrico VI, allo squillo delle trombe saracene era stato incoronato re di Sicilia, nel duomo di Palermo. La madre scelse per il bimbo il nome di Costantino, ma il padre volle che gli fossero imposti i nomi dei due nonni: Federico Ruggero. Federico venne al mondo a cavallo del secolo, in un periodo di grandi mutamenti: l'era delle crociate stava tramontando, i re consolidavano il loro potere e gettavano le basi delle future nazioni, il campo della cultura, prima esclusivo predominio della chiesa, si apriva ai laici. In Oriente la morte del Saladino, la decadenza dell'impero bizantino e l'avanzata delle tribù della steppa dalla Mongolia verso Occidente, mutavano rapidamente gli equilibri e le potenze del mondo di allora. Per Federico il padre non fu mai una figura di rilievo. Enrico vide il suo erede due sole volte: la prima, subito dopo la nascita, a Foligno e la seconda, più tardi, in occasione del battesimo avvenuto ad Assisi. Per fortuna il bambino non gli 4 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio assomigliava né fisicamente né moralmente. I cronisti dell' epoca dicono di Enrico VI: il suo corpo era magro e debole, pallido il volto e sempre severo, dominato da una fronte spaziosa, la barba rada. Non rideva mai. Aveva il freddo genio dell'uomo di stato, tipico degli Svevi, ma gli mancavano completamente il fascino suadente e l'amabilità del Barbarossa; il suo carattere era cupo e dispotico, da ultimo quasi di pietra; la sua politica, aggressiva al massimo, terribilmente dura ed arida. Egli percorse, fra violenze e rapine, le terre dei normanni, diffondendo quel furor theutonicus che ritornerà a lungo nei sirventesi e nei versi dei poeti provenzali come Bertrand de Born, Peire de la Caravana e Peire Vidal. I trovatori commemorarono le stragi con questi versi: Lomhardi, ricordatevi, quando fu conquistata la Puglia, come le dame e i valenti baroni furono messi alla mercè dei soldatacci... Dio protegga la Lombardia, Bologna e Milano e le città collegate, Brescia e i Mantovani, sì che nessuno di loro diventi schiavo, e i valorosi abitanti della Marca… Alla morte del padre, Federico aveva tre anni e passò sotto la tutela della madre. Il 17 maggio successivo, veniva incoronato re di Sicilia. Sei mesi dopo Costanza moriva affidando al papa Innocenzo III la tutela del figlio e la reggenza dello stato, ma lasciando praticamente il bimbo e il regno in balia di forze avide e ostili. Il re fanciullo era conteso, da un lato dal siniscalco Gualtiero di Pagliara con i suoi normanni forti dell' appoggio papale, dall' altro dai tedeschi e dai musulmani capeggiati da Marcovaldo di Anweiler. I vari capi di queste fazioni si spacciavano tutti come protettori del sovrano, ma in realtà Federico era completamente abbandonato a se stesso, senza appoggi di alcun genere: un ragazzo vagabondo per i vicoli palermitani. Con tutta probabilità la perdita della madre in tenera età, vista da Federico come un abbandono, dovette condizionare negativamente i suoi rapporti con le donne. Forse fu la mancanza di una presenza femminile accanto a lui, durante gli anni della fanciullezza, a determinare la sua diffidenza, la sua gelosia e l'incostanza dei suoi rapporti amorosi. La sua fu un'infanzia triste e solitaria, nella quale il fanciullo sopperí alla mancanza di affetti con lo studio di svariate discipline, l'apprendimento delle lingue (francese, tedesco, volgare, latino, greco e arabo) e delle arti militari (era buon spadaccino ed eccellente arciere) nonché cacciatore espertissimo. L'infanzia e l'adolescenza di Federico trascorsero a Palermo, nella reggia depredata da Enrico VI, dove per la cattiva amministrazione dei suoi appannaggi egli soffrì perfino la fame. Il 26 dicembre 1208 il quattordicenne Federico, per la legge di allora, divenne 5 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio maggiorenne e non fu più rex Siciliae solo nomine. Purtroppo egli si trovò di fronte a un regno economicamente in rovina, dilaniato dalla guerriglia e dalle appropriazioni, alle quali avevano partecipato gli avventurieri germanici, i baroni normanni e i saraceni. Il regno di Ruggero II, della tolleranza e della concordia, ove prosperavano in pace normanni, siciliani, greci e arabi non esisteva più. Quando il nuovo re si accinse a riconquistare le sue terre poteva contare solo sulla fedeltà del popolo e del clero nelle città di Palermo, Messina, Catania, Caltagirone e Nicosia, ma le loro truppe, composte solo da fanti, non riuscivano a sottomettere i rivoltosi. Forse fu questo uno dei motivi per i quali Federico, a 15 anni, sebbene riluttante, accettò di sposare Costanza d' Aragona, unione proposta e caldeggiata da Innocenzo III. La sposa aveva l0 anni più di lui ed era già vedova del re d'Ungheria, ma gli portava in dote 500 cavalieri aragonesi che avrebbero potuto contribuire alla sottomissione del regno. Poco si sa dei rapporti di Federico con la moglie, d'altronde i cronisti contemporanei, così chiacchieroni e gazzettieri su molti aspetti della vita dell'imperatore, sono stranamente poco loquaci sulle sue mogli ed amanti. Di lei sappiamo che fu l'unica ad essere stata incoronata regina ed imperatrice. Fu reggente del regno di Sicilia durante la permanenza di Federico in Germania, dimostrando grande assennatezza nella gestione degli affari di Stato. Nei suoi confronti egli ebbe sempre una sorta di venerazione e forse, a modo suo, dell' affetto tanto da desiderare di riposarle accanto nella cattedrale di Palermo. Le fece erigere un prezioso sarcofago di marmo scolpito e vi fece incidere questo epitaffio “Io, Costanza,fui regina di Sicilia e imperatrice; ora dimoro qui, o Federico, e san tua sposa”. Costanza veniva da una corte raffinata, anch'essa influenzata dalla cultura araba ed ancor più dal retaggio provenzale della sua famiglia. Molti si sono chiesti da dove arrivarono in Sicilia ed alla corte di Federico gli influssi e i trovatori della Provenza. È molto probabile che Costanza nel suo seguito di sposa abbia portato non solo 500 cavalieri, bensì anche musici e trovi eri. Fu indubbiamente lei che fece del giovane; cresciuto in rozze compagnie, l'uomo di corte, elegante e disinvolto. Una maggior sicurezza Federico l'acquisì con la nascita del primogenito Enrico. Secondo la madre, Costanza d' Altavilla, egli avrebbe dovuto regnare sulla Sicilia come un re Normanno, lontano dagli odiati tedeschi ed estraneo alle lotte per l'impero, ma il disegno di papa Innocenza, che aveva scomunicato Ottone IV e caldeggiato l'elezione di Federico imperatore, cambiò il corso della storia. Era il 1212 quando, con pochi fedeli, Federico intraprese il viaggio verso la Germania per esservi incoronato. 6 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio A Roma vide il papa e fu la prima ed unica volta che tutore e pupillo s'incontrarono. Grazie alle galee genovesi Federico raggiunse rapidamente Genova. A quest'epoca sembra risalire l'inizio della sua amicizia con Percivalle Doria, uno dei poeti più dotati della sua corte. Dopo un viaggio avventuroso giunse in Germania. Il suo trionfo in quelle terre ci è proposto da una storiografia tedesca di intonazione romantica, ispirata dai canti dei Minnesanger e dall'immaginazione popolare. Federico non è mai stato in terra tedesca un sovrano carismatico, i potenti feudatari erano avidi e infidi, ed egli dovette pagare il loro appoggio con moneta sonante, fornitagli dal papa, e con la concessione di privilegi e ricchi doni. Fu eletto re dei Romani a Francoforte e 4 giorni dopo incoronato a Magonza. Fu allora che Federico conobbe il poeta Walther von der Vogelweide al quale concesse un feudo a Wiirtzburg che gli consentisse una serena vecchiaia e di non temere più il gelido febbraio e la vampa dell'estate. Quando Federico arrivò in Germania il Minnesang era da tempo entrato nella sua stagione più felice. La lirica tedesca era fiorita intorno alla metà del XIl secolo in canti anonimi o di poeti cavalieri che esaltavano l'amore in figure simboliche. L'influsso solare della poesia di Provenza si era trasformato, in terra germanica, in un canto più mistico e notturno che ascenderà alle vette più alte del sentimento e del misticismo nel Parsifal di Wolfram von Eschenbach. Indubbiamente anche il contatto con questi poeti accrebbe il desiderio dell'imperatore di avere un nucleo di trovatori alla sua corte. Fino alla morte di Innocenzo III nulla lasciava presagire che nel giovane sovrano si nascondesse l'imperatore deciso a rivendicare in pieno il suo potere: era allora il più umile e remissivo dei sovrani d'Europa e si era guadagnato lo sprezzante epiteto di re dei preti. Aveva promesso al pontefice di separare le due corone di Germania e di Sicilia, di guidare una crociata in Terrasanta, ma la partenza veniva sempre rimandata. La cosa più importante per il papa era che non vi fosse mai l'unità delle due corone, che avrebbe stritolato, al centro, i territori della chiesa. Alla morte di Innocenzo venne eletto Onorio III il cui unico pensiero fu sempre la crociata e la riconquista di Gerusalemme. A tale scopo continuò ad incitare Federico alla partenza per la Terrasanta, ma l'imperatore non poteva abbandonare la riorganizzazione del regno di Germania e di quello di Sicilia gravemente danneggiato da vent'anni di malgoverno. I continui rinvii finirono per irritare il pur pacifico Onorio che nel 1225 lo impegnò a partire per la crociata entro due anni, pena la scomunica. Come manifestazione di buone intenzioni Federico, rimasto vedovo, sposò Jolanda, figlia di Giovanni di Brienne, re titolare di Gerusalemme. L'anno successivo l'imperatore, al culmine della sua potenza, incontrò 7 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio l'unica donna veramente amata nella sua vita: Bianca Lancia. Scarse e talvolta confuse sono le notizie che i cronisti ci danno di colei che portò il titolo di concubina imperiale e che gli dette tre figli. Tutti però sono concordi sulla sua straordinaria bellezza e sul grande amore che per lei nutrì l'imperatore. Antonio Astesano, in un distico del Carmen, per descrivere le eccezionali doti fisiche di Bianca afferma che... essa era degna del sommo Giove... e aggiunge che Federico fu... infiammato ed accecato da quella passione. Ancor oggi gli storici discutono sulle origini della nobildonna e nemmeno un convegno a lei dedicato, svoltosi ad Agliano nel 1990, ha risolto definitivamente la questione. Sembra che il nonno fosse Manfredi I marchese di Busca detto Lancia, che diede in sposa la figlia a Bonifacio d'Agliano. Quindi la madre di Bianca sarebbe stata una Lancia e il padre il Signore d'Agliano. Lo zio della bellissima fanciulla sarebbe stato quindi quel Manfredi II Lancia che figura tra i più fedeli dignitari della corte di Federico. Alcuni storici piemontesi vedono in questa relazione dell'imperatore il tentativo di Federico di legare a sé l'aristocrazia pedemontana. Se tale fosse stato l'intento del sovrano egli avrebbe scelto una famiglia allora in auge, come i Monferrato o i Savoia, e non un casato che a causa delle spese assurde e di una politica dissennata, condotta da Manfredi I, era ridotto sul lastrico. Ma vi sono altre prove che indicano come quella relazione nacque dall'amore e non da un disegno politico: l. l'imperatore ebbe molti figli illegittimi, uno da ogni donna diversa, mentre da Bianca Lancia ne ebbe tre; 2. nel corso dei suoi tre matrimoni, ebbe contemporaneamente parecchie amanti, mentre nei sette anni circa della sua relazione con la nobildonna piemontese egli le fu sempre fedele; 3. i figli avuti da Bianca furono i suoi preferiti ed egli combinò per loro ricchi e importanti matrimoni. La primogenita, nata nel 1229, chiamata nientemeno che con il nome della madre Costanza fu sposata a Giovanni Vatatze, imperatore bizantino di Nicea. Manfredi, il figlio prediletto, nato nel 1232 sposò in prime nozze Beatrice di Savoia e, successivamente, Elena principessa d'Epiro. Di Violante che si crede nata nel 1233 o 34, i cronisti dicono che avesse ereditato dalla madre il fascino e lo spirito delle donne di casa Lancia e osservavano con stupore che essa, caso unico, poteva contraddire il suo imperiale padre senza subirne le conseguenze. Federico la sposò ad un suo fedelissimo: Riccardo conte di Caserta; 4. l'importante opera di falconeria “De arte venandi cum avibus” non è dedicata ad uno dei figli principi, natigli dalle tre mogli, bensì al carissimo ed amatissimo Manfredi. “Biondo era, e bello e di gentile aspetto” così ci presenta questo re di Sicilia il sommo Dante nel terzo canto del Purgatorio e, se è vero che egli assomigliava 8 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio moltissimo alla madre, dobbiamo ritenere la frase dantesca come il probabile ritratto di Bianca Lancia. A questa donna è legato in particolar modo il castello di Gioia del Colle. L'imperatore non lo costruì ex novo bensì, al ritorno dalla Crociata, fece ingrandire e potenziare una preesistente struttura normanna. Chi visita oggi questo castello viene condotto a vedere una cella sotterranea dove spiccano, su una pietra del muro, due tondi in rilievo e si sente raccontare questa leggenda: “vuolsi che vi fu messa in prigione e vi morisse Bianca Lancia, madre di Manfredi, e che quivi egli nascesse. Bianca accusata d'infedeltà fu per ordine imperiale qui relegata benché incinta. Si partorì Bianca ed il pargolo era assai simile a Federico per un neo sulla spalla sinistra. Bianca si recise le poppe che unite al bimbo mandò a Federico in un vassoio. In seguito di ciò morì e qui fu tumulata. Ricordano il fatto due poppe sculte a rilievo. Fu rinvenuta una tomba vuota”. Uno scrittore pugliese dopo una visita alla cella sotterranea, aggiungeva: “Ed io ho veduto le mammelle di Bianca, le ho vedute nel ricordo eternato della pietà del popolo, perché i carcerieri della infelicissima adultera amante del re le scolpirono nel mezzo, ad altezza d'uomo per indicare dove l'Imperatrice era morta. Ed il popolo che ha talvolta il concetto sacro dell' amore più di quello della gerarchia, battezzò la morta con il nome di imperatrice già che il grande imperatore l'aveva amata e poi odiata e poi lacrimata”. Schliemann, nello spiegare il suo straordinario ritrovamento della città di Troia: diceva che “Ogni leggenda ha un fondo di verità”, pertanto qual è la parte storica celata nella leggenda popolare di questo castello? Escludiamo il tradimento di Bianca e il sospetto sulla nascita di Manfredi perché mai Federico, geloso e possessivo, avrebbe amato un figlio sospettandolo non suo. Più logica mi sembra possa essere la morte di parto di Bianca e la furia dell'imperatore che punì la levatrice incarcerandola. Tale tesi è confermata dai recenti studi del Decker-Hauff che ha dimostrato come l'amata di Federico morì di parto nel castello di Gioia del Colle e che l'imperatore la sposò sul letto di morte legittimando “per matrimonio subsequens” i figli avuti da lei. Sappiamo che le collere di Federico erano terribili, è quindi logico presumere che egli, nel suo furore, abbia falciato quanti, secondo lui, erano legati alla morte dell'amatissima Bianca. Da qui il ricordo popolare di un evento tremendo avvenuto nel castello di Gioia e legato ad una nascita e ad una morte. Ci sarebbe anche un altro indizio a suffragare quanto sostenuto dallo storico tedesco: dopo la morte di Federico II fu Manfredi ad organizzare l'imponente corteo funebre che dal Castello di Fiorentino doveva portare le spoglie del sovrano a Taranto per l'imbarco sino a Palermo, dove sarebbe stato tumulato. Vi fu un'unica 9 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio sosta: nel Castello di Gioia e la bara di Federico fu sistemata per una notte al centro della sala del trono di quel fortilizio. Il figlio aveva voluto che, per l'ultima volta, la salma del padre sostasse nel luogo dov'era morta la madre. E non è da escludere che la croce in pietra che sovrasta una finestra della cortina di levante del castello stia ad indicare la stanza ove morì l'amata dell'imperatore e non, come ipotizzato da qualcuno, la sala interna adibita a cappella all'epoca di Federico II. Forse la fece apporre il figlio Manfredi divenuto, alla morte del padre, principe di Taranto e quindi signore del Castello di Gioia del Colle. Non è comunque da escludere anche l'ipotesi che la croce sia stata messa dal padre di Bianca, Bonifacio d'Agliano, che troviamo ricordato, in alcuni documenti, come conte di Gioia del Colle. Forse a questo grande sentimento, che lo legò alla nobildonna di casa Lancia, è da attribuirsi una frase curiosa contenuta in una lunga lettera, zeppa di quesiti scientifici, scritta da Federico a Michele Scoto, filosofo e astrologo di corte. Parlando della sopravvivenza dell'anima, Federico chiede: “E come si spieghi che l'anima di un uomo vivente, trapassata ad altra vita, non possa essere indotta a ritornare né dal primo amore, né da odio, come se nulla fosse stato, e non si curi più delle cose lasciate?”. Frase significativa e struggente, riflesso del sentimento disperato di un uomo che piange il perduto amore e che pur essendo il re più potente dell'Occidente Cristiano non è capace di sconfiggere né la morte, né la solitudine del cuore. Dopo la morte di Bianca egli, per ragion di stato si sposerà ancora una volta, con la principessa Isabella d'Inghilterra ma, come per le altre mogli, non l'amerà ed essa sparirà agli occhi del mondo nella morbida prigionia delle imperatrici schiave. Per contro il sovrano amò moltissimo tutti i suoi figli, sia legittimi che illegittimi e curò con particolare scrupolo la loro educazione e prestigio. Gli anni in cui Federico ebbe accanto Bianca Lancia furono indubbiamente i più felici e i più fecondi della sua vita. La scomunica inflittagli da Gregorio IX, a causa dei suoi indugi a partire per la crociata, e la successiva partenza per Gerusalemme nonostante la sanzione ecclesiastica, non ebbero su Federico e sulla sua immagine che un peso relativo. La conduzione tutta diplomatica della Crociata, senza aver sparso il sangue degli Infedeli, mise in tumulto la cristianità. Ma Federico, sebbene valoroso e spesso in guerra, in realtà non amava i campi di battaglia e, come il suo grande avo normanno Ruggero II, appena poteva cercava di risolvere tutto con trattative e accordi. Al ritratto crudele e spietato che del monarca svevo ci hanno tramandato gli scrittori di Terrasanta, si contrappongono le testimonianze degli storici arabi della crociata che lo descrivono come: tollerante, dotto, curioso, miscredente e generoso. È certo che Federico non vedeva i musulmani come nemici: i suoi veri nemici erano in Occidente e, mentre egli in Europa considerava ogni principe a sé inferiore e non si sentiva secondo nemmeno al papa, stimava il Sultano suo pari, come 10 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio potente signore di un'altra parte del mondo. Nel viaggio di Terrasanta, perché si trattò tutto sommato di un viaggio, piuttosto che di un pellegrinaggio armato o Crociata, Federico portò la sua viva curiosità intellettuale, il desiderio di nuovi rapporti e di esperienze ignote, la volontà di stupire, con la propria cultura, il dottissimo mondo orientale. Lo storico arabo Ibn Wasil ha lasciato testimonianza di questo atteggiamento: ... l'imperatore inviò a Malik al-Kamil quesiti su difficili questioni di filosofia, geometria e matematica, per mettere alla prova i valenti uomini della corte... e il sultano sottopose i quesiti matematici allo sceicco Alam ad-din Qaisar, maestro di quest'arte, e il resto ad un gruppo di dotti che dettero a tutto una risposta ... Sebbene Federico si dicesse “sostegno del Pontefice romano, campione della fede cristiana” egli era soprattutto un laico che cercava in Terrasanta un punto di incontro tra Occidente e Oriente, al di fuori dei conflitti fra le opposte fedi, ponendosi di fronte al cristianesimo e all'islamismo col distacco di un filosofo. I musulmani rimasero tuttavia incerti e perplessi sul suo conto avvertendone, con disagio, la miscredenza. L'imperatore non assomigliava per niente ai grandi eroi franchi conosciuti direttamente o a quelli dei quali avevano sentito parlare dai loro padri. Dopo trent'anni era ancora vivo il ricordo quasi leggendario del bellissimo e valoroso Riccardo Cuor di Leone. Per contro Federico, per quanto agile e resistente ai disagi, mancava di prestanza fisica. Feroce è il commento del cronista arabo Al-Giawzi quando scrive: “...1'imperatore era di pel rosso, calvo, miope :fosse stato uno schiavo non sarebbe valso 200 dirham. Ed era evidente dai suoi discorsi che era un materialista, che del Cristianesimo si faceva semplice gioco...” È certo che nel momento in cui si autoincoronò re di Gerusalemme nella basilica del Santo Sepolcro né cristiani, né musulmani lo consideravano tale. La sua partenza dalla Terrasanta, richiamato in patria dai torbidi provocati dal papa nel Regno di Sicilia, fu quasi una fuga e l'imbarco sulla galea nel porto di Acri avvenne mentre i macellai del mercato, sobillati dalla predicazione francescana, lo investivano con lancio di budella e frattaglie. Sebbene conclusasi in maniera così indecorosa, la crociata di Federico II, senza grandi battaglie o vittorie clamorose, fu sul piano politico un successo. Infatti per la prima volta, dopo quarant'anni dalla conquista della città Santa ad opera del Saladino, Gerusalemme aveva in Federico un re vero e non solo di nome. In seguito dopo essere riuscito, tramite il fedele Herman von Salza maestro dei cavalieri teutonici, a far pace con il papa e ad essere assolto dalla scomunica, Federico mise mano alla riorganizzazione del Regno, promulgando le Costituzioni di Melfi, il Liber Augustalis che nel proemio portava il nome dell'Imperatore con tutti i suoi titoli: “Romanorum Caesar semper Augustus, Italicus, Siculus, Hierosolymitanus, Arelatensis”. 11 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio In esso veniva chiaramente affermata l'autonomia dello Stato rispetto all' altra potenza, la Chiesa, che pretendeva dirigere gli uomini. Egli negava la mediazione sacerdotale del potere e alla luce di quanto affermato nel Liber Augustalis aveva un senso il suo gesto di incoronarsi a Gerusalemme senza un intermediario ecclesiastico tra sé e Dio. Le Costituzioni non sono un documento originale, ma una raccolta delle leggi e dei decreti normanni e delle prime leggi federiciane, vi si sentono talvolta gli influssi del diritto canonico, gli apporti della scuola di Bologna e della legislazione romana. La loro grandezza quindi non è nell'originalità, ma nel proposito di riordinare e chiarire. Un grande senso di giustizia pervade il Liber Augustalis e vi si dichiara l'assoluta uguaglianza di tutti di fronte alla legge “siano essi franchi, romani o longobardi”. Le novità più importanti sono: · la punizione del giudice fraudolento; · l'eliminazione del duello e del giudizio di Dio; · l'introduzione di pene per chi rapiva le donne e faceva violenza alle prostitute; · condanne per ruberie e mancata assistenza ai naufraghi; · l'obbligo di solenne resa dei conti per i tutori dei minori; · il divieto di processi contro fanciulli e pazzi omicidi; · l'educazione a spese del fisco dei figli di donne giustiziate; · la proibizione dell'obbligo di acquisto, per i sudditi, dei prodotti del Demanio o di esigere servizi gratuiti a favore del Demanio. Certo la sopravvivenza di alcuni aspetti del diritto barbarico, come il taglio della lingua al bestemmiatore o del naso all' adultera, rispecchiavano la concezione morale dei giorni suoi. Per Federico il diritto era uno strumento di potere esercitato attraverso il tribunale della Magna Curia. Le città che intendevano darsi ordinamenti propri eleggendo consoli, rettori e podestà erano punite con la desolazione perpetua, i ribelli allo stato dati alle fiamme come eretici. Sia gli uni che gli altri erano fautori del disordine e dell'anarchia. Lo stato era una rigida struttura gerarchica con al vertice l' imperatore. Il maestro giustiziere, i giustizieri regionali, i camerari, ecc. facevano parte di un gruppo di abili burocrati dal quale furono esclusi, un po' alla volta, gli ecclesiastici e i nobili, mentre accedevano alla cancelleria imperiale esperti giuristi, spesso di modesta condizione sociale. Primeggiarono tra di essi Pier delle Vigne e Taddeo di Sessa. Nello stesso anno delle Costituzioni di Melfi, il 1231, Federico cominciò a riorganizzare la vita economica del Regno. Istituì il monopolio del sale da vendersi all' ingrosso e al minuto, del ferro, dell' acciaio, della seta e del rame. Il monopolio della seta per la Puglia e la Calabria fu affidato, assieme alle tintorie, agli ebrei di Trani. 12 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio Federico sapeva utilizzare accortamente le risorse del Regno e come suo nonno il normanno Ruggero II, con una politica tollerante sotto la diretta protezione della corona, assecondò negli ebrei l'abilità nel commercio e negli arabi lo spirito guerriero, arruolandoli nell'esercito imperiale. Teniamo sempre presente che in Federico la tolleranza ebbe un limite che coincideva con la salvaguardia dell' ordine dello stato. È pur vero che dopo aver sconfitto i musulmani di Sicilia, tradizionalmente fedeli alla monarchia ma irrequieti e turbolenti, egli ne deportò i superstiti in parte a Lucera, presso Foggia, e gli altri a Nocera, in Campania, che fu detta perciò “dei Pagani”. La colonia di Lucera era particolarmente numerosa e fu lasciata libera di amministrarsi autonomamente, e di costruire moschee e vivere secondo i dettami dell'Islam. Da allora essi dedicarono all'Imperatore e ai suoi discendenti una fedeltà che non venne mai meno. A Lucera i saraceni furono anche esperti coltivatori e valenti artigiani, famosi per la damaschinatura delle armi da taglio quali, spade e pugnali. Dai loro ranghi l'imperatore trasse sempre la sua guardia personale. Dopo i monopoli, Federico riformò i pesi e le misure, ai quali si aggiunse il riordinamento del sistema monetario che si trovava nel caos. Nelle zecche di Brindisi e Messina furono coniati gli augustali d'oro, con l'effigie di Federico sul dritto nel sembiante di un cesare romano incoronato di alloro, cerchiato dalla scritta "IMPERATORE ROMANO CESARE AUGUSTO" e sul verso l'immagine dell'aquila imperiale fra le lettere in tondo del nome FRIDERICUS. Tra l'altro il sovrano si interessò al miglioramento dell' agricoltura, ordinando la lotta ai parassiti, come attesta un editto del 1231 per la distruzione dei bruchi in Puglia. Se inizialmente l'imperatore dette impulso ai commerci, in seguito finì per soffocare la vita economica del Regno con un feroce sistema tributario di stampo musulmano. Il fisco era il vero padrone del regno e controllava ogni attività economica: i banchi di cambio, i trasporti, le macellerie, gli stabilimenti di bagni, i mercati e le fiere. In quegli anni ebbe inizio la costruzione dei castelli svevi e il restauro di quelli normanni e la Puglia e la Sicilia ebbero un nutrito sistema di fortificazioni a difesa del regno meridionale. A differenza dei sovrani normanni che eressero splendide chiese, quali il duomo di Cefalù e quello di Monreale, il nome di Federico non è legato ad alcun edificio religioso, sia esso chiesa, abbazia o convento. L'architettura federiciana è esclusivamente di tipo laico: torri, palazzi e fortezze. E questo non farà che rafforzare la fama di miscredente attribuita all'imperatore. Stranamente e in disaccordo con questa fama, ci sono le sue amicizie e le figure che gli sono accanto: Berardo arcivescovo di Palermo che lo accompagnò nel primo viaggio verso la Germania e che gli somministrò i sacramenti al momento della morte; il fedele fra’ Hermann von Salza che fu per 23 anni il mediatore fra Federico e il papato, il patriarca Bertoldo di Aquileia che intercesse a favore 13 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio dell'imperatore al concilio di Lione suscitando l'ira di Innocenzo IV che lo minacciò di togliergli il patriarcato, e i cistercensi che gli prestarono in molte occasioni i propri frati costruttori e dei quali egli indossò il saio in punto di morte. Se molti denigratori condannarono Federico e gli imputarono molteplici atrocità, altrettanto fecero i suoi estimatori. Dire che la corte di Federico II rivaleggiò in sapere con l'antica scuola di Toledo, non è esatto. Federico ricreò la tradizione e l'apertura culturale presenti alla corte di Palermo, durante il regno del nonno materno, Ruggero II. Questo re normanno attirò e fece stabilire nel capoluogo siciliano molti tra i più ragguardevoli uomini d'ingegno, studiosi, scienziati, dottori e filosofi, geografi e matematici, sia d'Europa sia del mondo arabo. Il grande studioso arabo al-Edrisi ne parla così: “Nel campo della matematica e della politica la vastità del suo scibile è indescrivibile. Non vi è limite alla sua conoscenza delle materie scientifiche da lui studiate approfonditamente e saggiamente in ogni loro particolare. A lui si debbono singolari innovazioni, meravigliose invenzioni, quali nessun altro principe ha mai realizzato”. Una commissione presieduta da al-Edrisi ricevette dal re normanno l'incarico di raccogliere informazioni geografiche da tutte le fonti possibili. Il lavoro durò 15 anni e dette origine a due risultati: 1. un planisfero d'argento purissimo, sul quale erano incisi “la configurazione dei sette climi, i golfi, i mari e i corsi d'acqua, l'ubicazione dei deserti e delle aree coltivate ecc.”; 2. la più insigne opera geografica del medioevo, frutto delle fatiche di alEdrisi che il suo autore intitolò: “Opera di un uomo desideroso di giungere a completa conoscenza dei vari paesi del mondo” più nota come il “Libro di Re Ruggero” e la sua prima pagina è di per sé significativa. Vi si legge: “Il mondo è tondo come una sfera, le acque vi aderiscono e vi si mantengono a mezzo di un naturale equilibrio che non conosce varianti”. Tutto questo avveniva nel 1154, ben 350 anni prima di Cristoforo Colombo. Ruggero è stato accusato di essere un ingegno poco creativo rispetto a suo nipote Federico II, perché non ci ha tramandato nessuna opera letteraria veramente sua. È bene ricordare che il re aveva una spiccata preferenza per le scienze e che ai suoi tempi i poeti noti a Palermo erano tutti arabi. Comunque senza Ruggero II il fenomeno culturale della corte sveva non si sarebbe mai verificato. Fu la tradizione della corte normanna, aperta all'influenza della cultura greco-araba e della filosofia ebraica, ad attirare alla corte di Federico II un personaggio come Michele Scoto. Esperto di dottrine scientifiche, di astrologia e di arte magica, egli tradusse opere di Alpetragio e il De Animalibus di Aristotele, quest'ultima traduzione è dedicata proprio a: “Frederico, Romanorum imperator, domine mundi”. Rappresentante di spicco della cultura islamica fu il maestro Teodoro di Antiochia, medico ed 14 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio astrologo, autore di un compendio di igiene e medicina sul modello dei trattati di medicina veterinaria arabi. Anche il grande matematico Leonardo Fibonacci dedicava all'imperatore il suo “Liber quadratorum”. Sebbene all'epoca di Federico II la scuola Salernitana fosse ormai in decadenza di fronte agli studi di Bologna e Padova, nelle Costituzioni di Melfi era previsto, per l'esercizio della medicina senza il dottorato di Salerno, un anno di carcere con la confisca dei beni. La scuola aveva una lunga tradizione di studi anatomici, basati sulla dissezione dei corpi umani e degli animali. Nel 1234 l'imperatore riformò l'università di Napoli, fondata 10 anni prima e decaduta nel contrasto tra l'Impero e la chiesa, nel quadro della riorganizzazione dello stato poiché in quell 'università si formavano i burocrati del Regno. Federico era noto per la bramosia del sapere e per la versatilità della sua mente. Egli approfondiva le cognizioni di cosmografia, matematica, medicina, filosofia; era più portato per le scienze naturali, alle quali applicava il metodo sperimentale. Pertanto la caccia col falcone per lui non era solo un semplice diletto, ma un'arte metodica, e il trattato di falconeria che egli scrisse De arte venandi cum avibus rivela una prodigiosa preparazione scientifica ed un'acuta esperienza personale, che gli permisero di controllare e spesso correggere le cognizioni contenute nel trattato De animalibus di Aristotele. Egli così scriveva: “Abbiamo seguito Aristotele quando era opportuno, ma in parecchie cose, specialmente in ciò che riguarda la natura di molti uccelli, pare che egli si sia allontanato dalla verità, come abbiamo appreso dalla nostra esperienza”. Il trattato di falconeria di Federico è scritto nello stile semplice e preciso che si addice alla prosa scientifica. Si compone di sei libri e quale prologo ha la dedica al diletto figlio Manfredi. Il primo libro è un vero e proprio trattato di ornitologia nel quale il sovrano classifica gli uccelli delle varie specie, le loro caratteristiche strutturali, il luogo e il modo di vivere. Negli altri libri si parla di caccia, della varietà dei falchi nobili e del loro allevamento. Questi pennuti dovevano essere allevati con cura e addestrati con tecnica. Alla corte federiciana vi era una vera e propria scuola di falconeria con allevamenti nei castelli dell'Incoronata, di Oria e di Gioia del Colle. Anche se non fu vero poeta, sembrano suoi solo 4 componimenti, Federico fu signore e artefice della scuola poetica siciliana. Il notaio Giacomo da Lentini è considerato l'iniziatore, in concreto, della scuola e l'inventore del sonetto e come lui altri rimatori furono funzionari di corte, giudici e notai, da Pier delle Vigne a Jacopo Mostacci e a Guido delle Colonne. Dell'eredità provenzale i rimatori della corte sveva accolsero solamente il tema dell'amore. La vena realistico-burlesca non incontrò il favore nella scuola di Sicilia ed anche il contrasto di Cielo d' Alcamo rappresenta un'eccezione. 15 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio Nella lirica siciliana non si riflettono le vicende del Regno e dell 'Impero: mancano i sirventesi infuocati e sarcastici dei trovatori in lingua d'oc presenti alle corti dell'Italia settentrionale e nella Marca di Treviso. Il breve e controverso repertorio federiciano è considerato dai più una nobile finzione, un esercizio nel quale la vita poetica non corrisponde alla vita reale. Personalmente penso che le due poesie più struggenti, "Poi che ti piace amore" e "Dela mia disianza", siano realmente legate all'amore per Bianca Lancia, l'unica donna che dominò il suo cuore per circa sette anni. Con la ribellione in Germania, del primogenito Enrico, natogli dalla prima moglie Costanza d' Aragona, iniziò per Federico la parabola discendente. Enrico fu destituito da re di Germania e sotto la custodia del marchese Manfredi Lancia condotto in Puglia e rinchiuso in una rocca: otto anni dopo, mentre lo trasferivano ad un altro castello si gettò in un precipizio. Ma l'opposizione dei lombardi non dava pace all'imperatore. Federico li sconfisse clamorosamente a Cortenuova, dove la Lega perse diecimila uomini, ed egli celebrò il trionfo da imperatore romano entrando solennemente a Cremona col podestà di Milano, Pietro Tiepolo figlio di Jacopo doge di Venezia, legato all'asta della bandiera del Carroccio piegata vergognosamente verso terra, mentre un elefante, dono del sultano d'Egitto, passava fra la moltitudine festosa portando sul dorso un castello di legno con i trombettieri, i vessilli vittoriosi e le aquile imperiali. L'imperatore credeva di essere alla fine della guerra, invece era soltanto al principio e avrebbe, suo malgrado, passato il resto della vita combattendo. Per sostenere le spese della guerra e pagare i mercenari, aggravò la pressione fiscale con collette generali che si susseguivano a ritmo serrato e soprattutto con la requisizione dei tesori delle chiese, oro, argento, gemme, vesti e paramenti di seta. Gregorio IX intanto, nel tentativo di distrarre Federico dalla guerra ai Lombardi, faceva appelli per la Terrasanta. L'imperatore non pensava proprio alla Crociata. Aveva fatto sposare Enzo, il maggiore dei suoi figli illegittimi, con Adelasia, signora di Torres e Gallura e lo aveva nominato re di Sardegna. Nel frattempo appoggiava la politica di Ezzelino da Romano contro suo fratello Alberico e favoriva Azzo d'Este e altri nobili della Marca Trevigiana. La Domenica delle palme del 1239 mentre Federico si trovava a Prato della Valle a Padova, seduto di fronte al popolo festante, Gregorio IX in Laterano scagliava, per la seconda volta, la scomunica contro l'imperatore. Iniziò allora uno scambio di lettere feroci nelle quali si accusava il papa di ambizione e avarizia. In questo clima di ritorsioni il pontefice depose fra’ Elia, ministro generale dell'Ordine dei Minori e amico dell'imperatore. Quando le galee veneziane iniziarono le incursioni sulle coste pugliesi e attaccarono e distrussero due navi imperiali di ritorno dalla Terrasanta, Federico 16 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio fece impiccare, per rappresaglia, Pietro Tiepolo che aveva esibito in catene nel trionfo di Cortenuova. Il papa indisse allora un Concilio che non poté aver luogo perché Federico catturò le navi che trasportavano i prelati. Mentre l'esercito imperiale saccheggiava la campagna romana, il 22 agosto 1241 moriva Gregorio IX quasi centenario. Il suo successore, Celestino IV occupò il soglio di Pietro per soli 17 giorni. Dopo quasi due anni, i125 luglio del 1243, fu eletto papa il genovese Sinibaldo Fieschi dei conti di Lavagna che prese il nome di Innocenzo IV. Il nuovo pontefice apparteneva ad una nobile famiglia dell'impero e aveva parenti in campo ghibellino. Federico sembrò soddisfatto dell'elezione e sperò nella pace. Ma l'imperatore era in errore se credeva di trovare un interlocutore arrendevole in quel papa freddo e distaccato, ben diverso dal focoso Gregorio. Innocenzo era fermamente convinto della superiorità del potere ecclesiastico su quello politico ed era ben deciso a riportare il papato ai fasti precedenti. Le trattative si presentarono difficili sin dall'inizio, mentre i legati pontifici sobillavano le città inducendole a ribellarsi all'imperatore. Secondo l'intento del papa, Federico doveva trasformarsi in un penitente, dedito alle elemosine e ai digiuni, alla fondazione e alla dotazione di chiese ed ospedali: umile e devoto avrebbe accettato la scomunica in attesa dell' assoluzione. Il papa avrebbe assolto l'imperatore dopo la ricostituzione dello stato della chiesa, Federico invece chiedeva l'assoluzione immediata e, per ottenerla, teneva in pegno le terre della Chiesa. Innocenzo, a differenza dello svevo voleva la guerra, ma non intendeva combatterla nelle condizioni di Gregorio IX con l'imperatore alle porte di Roma. Fuggì quindi oltralpe, si recò a Lione dove fu indetto un Concilio per giudicare il sovrano che, costringendo il papa ad abbandonare la città Eterna, diventava un persecutore della chiesa. Federico promise di restituire i possessi ecclesiastici, di liberare i prigionieri, di andare crociato oltremare e restarvi 3 anni, sinché il pontefice non lo avesse autorizzato a ritornare. Ma Innocenzo IV, fermo nella sua volontà di annientare il sovrano, respinse ogni offerta. Nel citato concilio, il sovrano fu deposto e i suoi sudditi sciolti dal giuramento di fedeltà. Durante questi anni di lotta acerrima per mantenere intatta la sua sovranità Federico ordinò la costruzione di un monumento che eternasse e mostrasse ai posteri la gloria sveva. Il 28 gennaio 1240, da Gubbio, egli firmò un decreto diretto a Riccardo di Montefuscolo, giustiziere di Capitanata, in cui gli ordinava la costruzione di un castello presso la chiesa (oggi scomparsa) di Santa Maria del Monte, nei pressi di Andria. Nel documento si parla dell'erezione di un castrum. 17 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio Non si sa quando la fortezza fu terminata e se l'imperatore vi soggiornò mai. Sappiamo solo che nel 1246 il castrum sanctae Mariae de Monte figura nell'elenco dei castelli pugliesi affidati ai giustizieri di quella terra. Castel del Monte appare come una splendida opera architettonica della quale ci è tuttora sconosciuta la destinazione finale. Non è una fortezza perché vi mancano le strutture tipiche delle opere militari medievali: il fossato e il ponte levatoio, le postazioni per arcieri e balestrieri, le caditoie per l'olio bollente, mancano inoltre gli ambienti per accogliere una guarnigione. Le scale a chiocciola, all'interno delle torri che portano ai piani superiori, contrariamente alle più elementari regole difensive dell'epoca, girano tutte a sinistra favorendo l'attaccante e non il difensore. A sfavore dell'uso dell'edificio a scopo militare depone anche e soprattutto la raffinatezza e la ricchezza dell'apparato decorativo. Una possibile ipotesi sulla sua destinazione potrebbe essere quella di una residenza imperiale progettata per la caccia col falcone e la suggestiva posizione geografica e la bellezza del luogo, che all' epoca era ricchissimo di verde e di acque, ne avvalorerebbe l'idea. Ma poteva l'amore per la falconeria giustificare la progettazione di una struttura così complessa, basata sulla ripetizione quasi ossessiva dell'ottagono? Forse è più credibile la tesi che vuole il Castello come simbolo: simbolo della corona di Gerusalemme, rappresentata come città ottagonale, simbolo dell' impero celebrato nell' ottagono della cappella palatina di Aquisgrana, simbolo della corona ferrea dei re d'Italia. Dunque un simbolo e nel contempo una sfida: domare papa e comuni per giungere, infine, all'unificazione d'Italia. Altre ipotesi affascinanti sono state formulate su questo castello. Qualcuno lo ritiene un trattato di matematica o un simbolo esoterico. L'edi. ficio costruito in palmi napoletani osserva certe costanti matematiche: le consonanti musicali dei numeri sonori di Severino Boezio, la sequenza dei numeri magici del matematico pisano Fibonacci nella quale ogni numero è pari alla somma dei due precedenti e infine la proporzione aurea di 1,618. Otto è il numero dell'equilibrio cosmico, della rosa dei venti, dei raggi della ruota e la struttura del castello esprimerebbe il valore di mediazione tra quadrato e cerchio. Sul piano esoterico possiamo anche dire che l'ottagono è la figura del fonte battesimale, connessa con la simbologia della resurrezione, poiché vi si immerge il neofita per assicurargli la vita eterna. Guardando il castello dall'alto e dall'interno la struttura dà l'idea di un pozzo. La simbologia legata alla figura del pozzo rappresenta anche i valori della sovranità. Questa immagine, nei racconti medievali, ritorna spesso come simbolo della conoscenza o della verità. 18 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio Se davvero il Castello fu costruito come cenacolo per Federico e i suoi dotti amici è logico presumere che, a causa della situazione politica, esso rimase deserto. Fu ironia della sorte o voluta crudeltà degli angioini che questo castello, sorto perché rammentasse ai posteri la potenza e la gloria degli Svevi, venisse trasformato in prigione e tomba dei figli di Manfredi e di Federico di Antiochia e dei loro ultimi sostenitori? La lotta, ormai, non era più fra la persona del papa e quella dell'imperatore, bensì fra la chiesa e lo stato, fra due principi contrastanti, fra due idee inconciliabili. Ormai il destino dell'ultimo Hohenstaufen si faceva crudele ed acerbo. Seguirono giorni luttuosi: la congiura di alcuni baroni funzionari di corte mentre Federico era a Grosseto, la disfatta di Parma con la distruzione dell'esercito, il tradimento di Pier delle Vigne, logoteta del regno di Sicilia e protonotario della corte, che Dante definisce colui che tenne ambo le chiavi del cor di Federigo e, per ultimo la sconfitta di Fossalta con la prigionia del figlio Enzo a Bologna. Il leone svevo, stretto da ogni parte dall'inasprita ostilità dei Guelfi e amareggiato dall'esitante sfiducia dei Ghibellini, desolato dai lutti familiari, era sempre più solo, insidiato dal sospetto, intristito dalle vicende avverse. Intanto la propaganda di Innocenzo IV e dei suoi sostenitori proseguiva instancabile, usando qualsiasi mezzo: la calunnia, le armi, il denaro, la simonia; per il papa tutto era lecito pur di annientare l'imperatore. Il mito e i libelli di parte guelfa descrivono un Federico epicureo, vizioso, dissoluto. Un enigma sconcertante per i suoi contemporanei. Certo l'ascesa al potere in giovane età e la mancanza, durante l'infanzia e l'adolescenza, di una qualsiasi disciplina se non quella impostasi da solo, spiegano molte delle caratteristiche antipatiche di Federico: la crudeltà, gli improvvisi e incontrollabili accessi d'ira, la sensualità. Pochi sanno però che l'imperatore era astemio, non sopportava gli ubriachi, consumava un solo pasto al giorno. Le sue preferenze in fatto di cibi erano piuttosto semplici. Prediligeva lo scapece preparato dal suo cuoco Berardo, un piatto tipico della Puglia meridionale usato tuttora e composto da pesci e verdure, soprattutto zucchine e melanzane, fritti e poi marinati in una salsa preparata con aceto di vino e zafferano. Pare che il sovrano fosse ghiotto di prosciutto e formaggi. Perché tanto scalpore attorno alla corte di Federico e al suo modo di vivere? L'harem, gli animali esotici, i saraceni e un certo lusso orientale erano sempre esistiti alla corte normanna, tanto da far soprannominare suo nonno, Ruggero II, sultano battezzato. Infatti il Tiraz o opificio reale, dove le donne provvedevano alla manifattura delle vesti e paramenti da cerimonia del sovrano, non era altro che l'harem di corte. Lo stesso discorso vale per il serraglio, presente in tutti i parchi reali di Sicilia. Il diwan normanno, dove si raccoglievano i proventi dei dazi, dei monopoli e dei feudi in Sicilia e sul continente, era composto unicamente da personale 19 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio saraceno. Così nelle regioni dove prevalevano i musulmani venivano scelti dei governatori saraceni chiamati amil. Ma tutto questo era quasi ignorato al di fuori del Regno di Sicilia e un apparato reale così fastoso era sconosciuto alla maggior parte degli europei. Federico invece a causa dei vasti territori a lui soggetti era spesso in viaggio e negli ultimi dieci anni di vita si spostò continuamente sui campi di battaglia del centro e nord Italia con buona parte della corte al seguito. Quando i parmensi conquistarono il campo imperiale vi trovarono: oro, pietre preziose, broccati, vesti di lusso, mobili rari, il trono e le insegne regali, il sigillo imperiale, la corona, la biblioteca e le donne saracene. Ma tutto questo sarebbe stato tollerato se egli si fosse prostrato davanti al papa e avesse governato come suo feudatario, cosa impossibile ed estranea alla concezione del potere assoluto presente in Federico. Egli concepiva uno stato accentrato e burocratico, senza alcun controllo del potere sacerdotale, uno stato che viveva perché così voleva il suo sovrano. Intanto uno dietro all'altro sparivano dalla scena i maggiori personaggi dell'età di Federico, divorati dall'inferno dantesco con i suoi sepolcri infuocati, la selva dei suicidi e la riviera del sangue. Il 1250 vide la riscossa delle armate imperiali un po' dovunque, ma il sovrano da oltre un anno si trovava nella diletta Puglia: non aveva partecipato più a nessuna campagna ed era stato ammalato a più riprese. Fra’ Salimbene, nella sua cronaca, narra della grande tristezza che avvolse l'imperatore nei suoi ultimi tempi. Alla fine di novembre di quell' anno, il sovrano ancora ammalato, si mosse da Foggia verso Lucera e andò a caccia. Ma una grave infiammazione intestinale lo colse. Era veramente un malanno o un nuovo e riuscito tentativo di avvelenarlo? Fu trasportato poco distante al castello di Fiorentino in gravi condizioni e Berardo, arcivescovo di Palermo, convocò i grandi dignitari dello stato, dinanzi ai quali Federico fece testamento. Una cronaca, scritta peraltro dopo la morte dell 'Imperatore, narra che gli astrologi gli avevano predetto la morte subflore, più precisamente che sarebbe morto davanti a mura di ferro non appena fosse giunto in una città dal nome di fiore. Intendendo il nome di Castel Fiorentino e avvedutosi che il suo letto era situato accanto ad una porta murata, che aveva verso l'interno battenti di ferro, pare egli esclamasse: questo è il luogo della fine che mi è stata predetta. Sia fatta la volontà di Dio. Il 13 dicembre peggiorò improvvisamente e il suo più vecchio e fedele amico Berardo gli somministrò i sacramenti. L'unico dei suoi figli presente era il prediletto Manfredi. Moriva così a 56 anni Federico II, la meraviglia del mondo, di quel mondo che non lo aveva compreso. Sul castello vegliavano immobili i fedeli saraceni. 20 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso MASSIMO GUSSO Il QUADRATO “MAGICO” POMPEIANO (appunti per una conversazione) § 1. Premessa Mi occuperò in queste succinte note d'una figura, insieme -per così dire- geometrica e letterale, che per oltre millecinquecento anni, ha attraversato la Storia rimanendo perfettamente intatta, se si fa eccezione per il materiale sul quale volta per volta veniva scritta o incisa. Si tratta di un crittogramma dalla probabile ascendenza cristiana o giudaicocristiana, che, a seconda degli interpreti dai quali è stato studiato, viene descritto come “Quadrato SATOR” o “Quadrato ROTAS”, o ancora “Quadrato magico pompeiano”, in quanto le sue più antiche raffigurazioni sono state rinvenute appunto nel corso degli scavi della cittadina distrutta dall'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.(1). (1) V. più oltre la bibliografia specifica al § 7. Per gli scavi di Pompei cfr. in particolare la Guida Archeologica di Pompei, pubblicata da Mondadori, Milano, 1976 (a cura di E.LA ROCCA, A.DE VOS e F.COARELLI). 21 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso Dai primi incerti graffiti, fino alle più precise raffigurazioni parietali o pavimentali, questa misteriosa figura, espressione di un concetto mistico-religioso e, insieme (forse) simbolo di appartenenza religiosa, si è prestata e si presta a svariate interpretazioni. Mi limiterò, in questa sede, alla sola specifica disamina dei graffiti pompeiani, ed alla loro lettura: essi sono infatti, come già accennato, le più antiche, ma proprio per questo le più “inquietanti” testimonianze del messaggio contenuto nel crittogramma. § 2. La prima diffusione del Cristianesimo Secondo la tradizione la morte di Gesù è fatta risalire al 33 d.C.: in realtà essa dovrebbe essere anticipata di vari anni(2); la prova diretta, nei decenni immediatamente seguenti, della diffusione di messaggi cristiani riconoscibili al di fuori dell'area geografica palestinese, e in particolare in Italia, è inconsistente, ed è comunque trascurabile prima del secondo secolo d.C.(3) La tradizione della condanna e dell'esecuzione degli apostoli Pietro e Paolo -a Roma- nel corso di una ‘persecuzione’, in epoca neroniana, non è supportata da documentazione coeva. La prima fase della predicazione evangelica si caratterizzò - com'è comprensibile - per rudimentalità e modestia di mezzi, come peraltro ci testimoniano gli stessi Atti degli Apostoli. Proprio da essi (28,14) apprendiamo che Paolo, nel suo viaggio verso la capitale, giunse a Pozzuoli, ubi inventis fratribus, rogati sumus manere apud eos..., et sic venimus Romam. Ciò mostra, senz'ombra di dubbio che esisteva una piccola comunità cristiana riconoscibile in area campana, contigua alla zona pompeiana ed (2 ) Comunque non succesivamente al 30 d.C. (cfr. S.MAZZARINO, L'Impero Romano, Roma-Bari, 1973, append. II, p. 884). Se infatti il Vangelo di Luca (2,1-6) pone la nascita di Gesù al 6 d.C., durante il censimento di Quirino, tale data è generalmente giudicata eccessivamente tarda. Sembra si possa ritenere che alla morte di Erode, primavera del 4 a.C., Gesù avesse almeno due anni: conseguentemente se la sua vita terrena durò poco più di un trentennio, si dovrebbe arrivare all'incirca agli anni dal 27 al 29 d.C.: Gesù, secondo alcuni scrittori cristiani, sarebbe morto duobus Geminis consulibus, e cioè mentre erano consoli C.Fufio e L.Rubelio Gemino, nel 29 d.C. Pilato governò la Giudea dal 26 al 36 d.C. e quindi ogni congettura deve alla fine iscriversi in quest'arco di tempo. Tutti i riferimenti neotestamentari presenti in questo lavoro rinviano al Novum Testamentum graece et latine, nell'edizione di A.MERK, Sumptibus Pontificii Instituti Biblici, Roma, 1964. (3) Nel sito archeologico che ha restituito tra l'altro i cosiddetti Manoscritti del Mar Morto è stata scoperta una tomba databile attorno al 42 d.C., con lamentazioni per la crocifissione di Gesù. Sarebbe questa la prima documentazione epigrafica del cristianesimo (cfr. ancora S.MAZZARINO, L'Impero Romano, cit., p. 888). 22 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso ercolanense, verosimilmente composta, almeno in questa fase, da ebrei cristianizzati(4). § 3. La scoperta del Quadrato a Pompei Il 12 novembre 1936 Matteo Della Corte, il più noto studioso dei graffiti pompeiani, lesse ed identificò il quadrato magico inciso sullo stucco di una delle baccellature di una colonna del portico occidentale della Grande Palestra. Il graffito campeggiava in mezzo a molte altre iscrizioni (non meno di diciotto) di mani diverse, fatto molto comune in un luogo come quello, che rappresentava -in tutta evidenza- il tipico punto di incontro dei giovani di ogni ceto sociale(5). È opportuno mostrare qualche esempio di graffiti per dare l'idea della loro forma esteriore e del loro contenuto(6): (4) Cfr. in gen. A.PINCHERLE, Introduzione al Cristianesimo antico, Laterza, Bari, 1971, pp. 39 ss. Guida Archeologica di Pompei, cit., pp. 257 ss. (6) N. 144: Nec Phrygas (sic) | extabant quid | agit apex dexter [verso di ispirazione virgiliana, da Aen. I,468? Allusivo a una competizione sportiva]; N. 147: Mille meae siculis errant (in montibus agnae) [verso di ispirazione virgiliana dalla II ecloga]; N. 158: Nec prius | absistit quam | septe(m) ingentia | victor corpora | funda(t) humi [Aen. I,192-193, riproduzione parziale]. Assai significative risultano in particolare, sempre nell'area della Palestra, le scritte lasciate dai gladiatori, i veri divi sportivi del tempo, che appaiono vanagloriose e leggere, solo in apparente contrasto con la consapevolezza della sorte tragica che aspettava i loro autori. Si vedano il graffito di mano del trace Celadus, che si definisce: suspirium et decus puellarum («struggimento e ammirazione delle ragazze»), e quello del reziario Crescens, che di sé scrive: dominum et medicum puparum nocturnarum («signore e medico delle ‘belle di notte’»); cfr. Guida Archeologica di Pompei, cit., p. 255. (5) Cfr. 23 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso L'usura del tempo e delle intemperie ha ormai definitivamente cancellato il piccolo graffito (l'altrezza delle lettere era di mm. 6): ne fu tratta tuttavia fortunatamente una fotografia e ne fu tracciata una scrupolosa trascrizione. Ci resta nella parte centrale l'enigmatica scritta che così si può ricomporre: Lo scopritore si rese conto di aver già incontrato, sia pure mutilo, lo stesso schema letterale il 5 ottobre 1925 (esemplare pubblicato nel 1929 in Notizie degli Scavi, p. 449, n. 112, fig. 2), su di un frammento d'intonaco dell'ambulacro meridionale della c.d. Casa di Paquio Proculo(7), senza percepirne, allora, il significato(8). Pompei fu sepolta dal Vesuvio nell'agosto del 79 d.C.: la tragedia ha sigillato la città e quel che vi si trova è perciò incontestabilmente datato. Conosciamo cioè, prendendo a prestito un'espressione della filologia, il terminus ante quem di qualsivoglia evento avvenuto in quei luoghi. Niente infatti, che non possa essere antecedentemente datato, può mai esservi avvenuto dopo il 79 d.C.: in certuni casi possiamo determinare, con una buona approssimazione, ad es., che una scritta poté essere apposta anche prima di questa fatale data. Ed è probabilmente proprio il caso del graffito oggetto di questa conversazione. Infatti la colonna interessata all'iscrizione appartiene ad un gruppo di colonne stuccate senz'altro databili a prima del terremoto che funestò Pompei nel 62 d.C. in quanto non danneggiate dallo stesso terremoto, come altre in laterizio, e per altre ragioni conseguenti ai rilievi degli archeologi al momento della messa in luce della zona. Infatti tutta la Grande Palestra era in realtà stata trasformata in un cantiere di lavoro e in quello stato venne poi ricoperta dai lapilli dell'eruzione. Si deve ritenere ch'essa non fosse più stata utilizzata come tale proprio per i lavori in corso e che (7 ) Sulla Casa di Paquius Proculus (detta anche Casa di C.Cuspius Pansa) cfr. Guida Archeologica di Pompei, cit., pp. 208-210. (8) I due distinti graffiti sono scientificamente catalogati come CIL (Corpus Inscriptionum Latinarum) IV,8123 (mutilo, Casa di Paquio Proculo) e IV,8623 (integro, portico occidentale della Grande Palestra, ex Notizie degli Scavi, 15 (1939), pp. 263-266, nr. 139). 24 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso quindi non ci fosse ragione perché qualcuno andasse a tracciarvi graffiti o a lasciarvi messaggi(9). § 4. Possibili interpretazioni del crittogramma In ogni caso il nostro quadrato magico, sia che lo si voglia datare al 62 d.C., ovvero, all'estremo, al 79 d.C., resta una scoperta interessantissima, specie se, come vedremo di seguito, constatiamo di trovarci davanti ad un esplicito ‘messaggio’ cristiano. F.GROSSER, nel 1926, aveva decifrato l'enigmatica scritta sulla base degli esemplari che, databili a partire dal III sec. d.C., si incontrano con una certa frequenza in diverse province dell'impero romano, dalla Britannia(10) alle rive dell'Eufrate. Le lettere sono venticinque, con la seguente ricorrenza: lettera frequenza A 4 E 4 N 1 O 4 P 2 R 4 S 2 T 4 Le parole sono, necessariamente, cinque: ROTAS e il suo rovescio SATOR; OPERA e il suo rovescio AREPO, oltre a TENET, leggibile da ogni verso e incrociata su se stessa. Si tratta di un versus ricurrens, di un palindromo, di una frase, cioè, leggibile in orizzontale (da sinistra a destra e viceversa) ed in verticale (dall'alto in basso e dal basso in alto)(11). (9 ) A meno di supporre in via del tutto ipotetica che l'autore della scritta fosse uno degli addetti al cantiere edile impiantato nella Palestra. (10) Si rinvia per tutti alla formella di stucco inciso con le lettere del quadrato-ROTAS scoperta nel 1868 a Cirenchester. Per il quadrato scoperto nei pressi di Budapest v. qui, infra, nota 17. (11) Molte iscrizioni magiche antiche sembrano (e forse sono) senza significato. Il loro potere era immaginato come residente nelle parole stesse. I palindromi erano considerati particolarmente potenti ed efficaci: Α ΒΛΑ ΝΑΘ ΑΝΑΛΒΑ è uno dei più comuni, forse versione deformata di parole ebraiche (cfr. infra, bibliografia § 7, 1970J.FERGUSON, p. 154). 25 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso Al di là della interpretazione del testo così come si legge, è possibile operare una combinazione delle lettere che lo compongono tale da ottenere due volte la parola PATERNOSTER intersecante a croce sulla N, con -in aggiunta- le lettere di inizio e fine A e O, che sono state felicemente interpretate come le lettere greche A (alfa) e Ω (omèga), simbolo mistico dell'inizio e della fine delle cose, riferibile al Nazareno, secondo l'infrascritto schema: È noto che nell'Apocalisse di Giovanni (1,8) si legge: Ego A et Ω, principium et finis, dicit Dominus Deus, qui est et qui erat et qui venturus est, omnipotens(12). Si è voluto sostenere che un testo così recente, come quello del quadrato (databile addirittura allo stesso periodo della visita paolina ai cristiani di Pozzuoli), non potrebbe aver anticipato spunti presenti per la prima volta nel libro dell'Apocalisse. In realtà, a parte gli echi stoici o mithraici, che qualquno vi ha voluto vedere, ma che sono difficilmente dimostrabili, dentro al nostro quadrato magico si riflette probabilmente il complesso mondo dell'esoterismo giudaico fuso intraprendentemente nel nascente cristianesimo. Una presenza giudaica in Pompei è peraltro attestata con sicurezza da alcuni graffiti specifici(13), e non è poi detto - in ogni caso - che debba esser stato l'autore Il testo greco recita: Ἐγώ εἰμι τὸ ἄλφα καὶ τὸ ὦ, λέγει Κύριος ὁ Θεός, ὢν καὶ ὁ ὴν ὁ ἐχόμενος, ὁ παντοκρἁτορ. Cfr. ancora Apoc. 21,6: Ego sum Α et Ω, initium et finis. Sul (12) significato dei passi cfr. A.LÄPPLE, Die Apokalypse nach Johannes, Don Bosco Verlag, München (tr.it. L'Apocalisse, Edizioni Paoline, Roma, 1980, pp. 70 e 220). Non si può non ricordare che anche in ambiente non cristiano si fa uso della metafora alfabetica: in un epigramma di Marziale (IX,95) troviamo infatti un gioco di parole su di un personaggio che comincia ad essere Alfius per finire Olfius, con esplicito rinvio ad A e Ω. Cfr. più oltre la bibliografia specifica al § 7: 1953F.DORNSEIFF. (13) Cfr. il celebre CIL IV,4976 (SODOMA GOMORA). 26 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso dell'Apocalisse l'inventore dell'efficacissima formula dell'A e dell'Ω. Ricordo che alla base del quadrato pompeiano erano state graffite (dalla stessa mano) tre lettere, che sembrerebbero rappresentarne una sorta di sintesi: si tratta infatti della combinazione di A, O (=Ω), estremi dello svolgimento del crittogramma, e di N, centro dello stesso. La N, in particolare, rappresenterebbe la sigla del Salvatore: N(azarenus). Le tre lettere, insieme, significherebbero quindi: Principio (A) e fine (Ω) di ogni cosa è il Nazareno (N). Questa sigla sintetizzerebbe peraltro il misterioso motto aramaico che si trova in chiusura della prima lettera di Paolo ai Corinzi (16,22), Maran atha (gr. Μαρὰν ἀθά), che starebbe a significare appunto: Nostro Signore è principio e fine (di ogni cosa). Più difficile è dire se le lettere S e Δ (delta), che precedono invece il quadrato (della stessa mano?) siano o meno simboli cristiani: secondo alcuni S starebbe per Salvatore (gr.: sotèr = σωτέρ), e il Δ raffigurerebbe un simbolo trinitario. Tuttavia in questo caso, ciò pare davvero assai dubbio, data l'epoca. La S peraltro figura al centro di un immaginario cerchio componibile potenzialmente da ventiquattro delle venticinque lettere del quadrato. Questa scritta è leggibile all'infinito sia procedendo da destra che da sinistra, ed ha un aspetto ed una costruzione che sembra d'origine gnostica (il serpente che si morde la coda: anche la S, che resta al centro della figura, potrebbe richiamare il serpente e dar quindi accesso ad un universo parallelo di interpretazioni). Ma torniamo al graffito ed al suo aspetto esteriore. La croce che si staglia nel disegno del PATERNOSTER è altresì direttamente ravvisabile all'interno del quadrato, comunque si orientino le parole, all'incrocio dei due TENET legati sulla unica N mistica(14): (14) È noto che la preghiera del Pater Noster è recitata da Gesù nel corso del celeberrimo Discorso della Montagna, stante l'evengelista Matteo (6,9-13), in un testo riferibile al massimo al 50-55 d.C.; il Pater Noster riferito da Luca (11,1-4), assai più breve, risale invece ad una tradizione diversa e comunque deriva da un testo composto non prima del 61-64 d.C. (cfr. G.RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo (1941), Mondadori, Milano, 1974, pp. 346 ss.; 359-361; 481-483). 27 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso Ciò si verifica anche per il testo greco(15). Ma il quadrato, tra le sue tante sorprese cela al suo interno due tipi di croce: quella immissa, o capitata, cioè la tipica croce latina: e quella a tau (c.d. commissata o patibulata): Per quest'ultimo tipo di croce, le lettere che non contribuiscono a comporre il disegno del tau: consentirebbero (se ricomposte) di leggere la seguente brevissima frase: cioè: il Padre Salvatore è l'inizio e la fine di tutto. Infinito è stato e sarebbe ancora il dibattito sulla forma della croce cristiana. Personalmente ritengo tuttavia che, al di là dell'interesse archeologico (o per la storia dei simboli dell'arte sacra), la disposizione dei due assi della croce dipendesse purtroppo dall'estro dei carnefici, dal numero delle esecuzioni che dovevano eseguire e quindi -se mi si consente- dai loro problemi tecnici, per quanto orribili, ma non da altro. Normalmente il palo verticale doveva trovarsi infisso stabilmente, soprattutto se il luogo delle esecuzioni era a ciò specificamente deputato (come nel caso del Calvario). Non è necessario specificare i vantaggi che derivavano a chi eseguiva le condanne. Il suppliziando era inchiodato all'asse orizzontale, al quale, verosimilmente veniva anche legato: quest'asse veniva poi issato con corde al palo infisso (15) Il palindromo σατωρ αρεπω τενετ ωπερα ρωτασ è peraltro rinvenibile in diversi papiri magici della tradizione alessandrina e copta (cfr. bibliografia, infra § 7: 1949 K.PREISENDANZ, s.v. «Palindrom»). 28 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso in terra e, a questo punto il condannato veniva inchiodato sui calcagni e ulteriormente legato all'altezza dei piedi, con le ginocchia piegate di lato. L'incrocio tra i due assi poteva formare una croce a tau, o anche una croce come quella più tradizionalmente conosciuta, con una porzione visibile del palo verticale al di sopra della testa del condannato(16). (16) A quanto pare il Vangelo di Matteo (15,26) potrebbe lasciar intendere che la croce di Gesù fosse costruita in questo modo. V. però il celebre crocifisso blasfemo rinvenuto sul Palatino nel 1856 (risalente probabilmente alla prima metà del III secolo: v. riproduzione, pag. 12), ove un uomo con la testa d'asino è raffigurato crocifisso ad una croce a TAU; cfr. D.VORREUX, Un symbole franciscain. Le Tau. Histoire, Théologie et Iconographie, Éditions Franciscaines, Paris, 1977, p. 83. Tuttavia la insospettabile testimonianza di Seneca (Dial. 6,20,3) e anche alcuni ritrovamenti archeologici di resti di corpi di condannati alla crocifissione, fanno pensare che ci fosse una notevole varietà di applicazioni del supplizio. Sulla forma della croce cfr. ancora G.RICCIOTTI, Vita di Gesù Cristo, cit., pp. 676 e 679). 29 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso Fatto sta che per un periodo non breve la raffigurazione della croce come un tau è una costante e lo stesso culto reso al simbolo del tau costituisce uno dei più vitali esempi della simbologia cristiana(17), assieme all'agnello, ed al pesce, il cui termine greco è un acrostico di Gesù. Ma veniamo alle interpretazioni letterali. Qualcuno sostiene che la scritta leggibile nel quadrato significhi che Dio (SATOR), cioè il Seminatore (=il Creatore), regola le opere (OPERA) degli uomini, ed il movimento degli astri (ROTAS). La parola AREPO, così, resterebbe tuttavia incomprensibile. Se invece si legge la prima parola da destra a sinistra e poi, la seconda, da sinistra a destra, e poi di seguito come per la prima, con il raddoppio della parola centrale, ad imitazione del movimento che il bue compie sul campo quando ara (c.d. lettura bustrofedica), si leggerebbe: SATOR OPERA TENET - TENET OPERA SATOR (il creatore governa le opere [degli uomini] - governa le opere [degli uomini] il creatore). Ma il senso non è comunque soddisfacente, anche eliminando in questo modo lo scoglio rappresentato da AREPO. Quest'ultima parola è il rovescio di OPERA, ma è altresì l'acrostico di: A Rerum Extremarum Principio Omni L'intera frase potrebbe cioè significare: Dio governa le opere [degli uomini] e nelle sue mani sta il principio e la fine di tutto. Non può poi essere trascurato un passo enigmatico di Ezechiele (1,15-21), cui sembra alludere l'altrettanto enigmatico incrocio di parole del quadrato(18). (17) Il TAU si incontra su di una tegola del III secolo, trovata nei pressi dell'attuale Budapest, accompagnato da un quadrato magico. All'interno del quadrato le lettere P ed R sono barrate come per incorporare un TAU nella loro grafia. il TAU, infine, ed il quadrato, campeggiano sui due lati di una croce di Sant'Andrea, barrata a sua volta da una linea verticale. Il chi (Χ) e lo iota (Ι) così ottenuti rendono le iniziali greche di Cristo Gesù. Il TAU è simbolo molto antico (v. ad esempio tra i richiami biblici Ezechiele 9,4): è l'ultima lettera dell'alfabeto ebraico, scritta x o +, ed aveva frequenti richiami numerologici anche per i greci, ove rappresentava il numero 300. Sembra vi alludesse oscuramente anche Gesù (Matteo 5,18), giocando verbalmente sulla lettera iota e su un trattino orizzontale che la farebbe diventar TAU: il passo è stato interpretato come un preannuncio della croce. Se inizialmente il TAU non ha richiami patibolari, questi emergono nella tarda grecità ellenistica (cfr. Luciano di Samosata, iudic.voc., 12), e permangono ovviamente in tutta la successiva tradizione cristiana antica e medievale; cfr. D.VORREUX, Un symbole franciscain. Le Tau, cit. pp. 33 ss. (18) Il Profeta, riferendo la sua visione del cocchio divino, dice: ...Io guardavo quegli esseri ed ecco 30 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso Esiste infine persino una curiosa proposta interpretativa che si rifà alla tradizione copta abissina ove esiste una catalogazione dei cinque (?) chiodi della croce di Cristo, ciascuno dei quali avrebbe un suo proprio nome. Alcuni di questi nomi ricordano in modo impressionante le parole del quadrato magico, e sono cinque come le parole del graffito pompeiano: SÂDOR, ARÂDOR, DANÂT, ADÉRÂ e RODÂS. Tornando al ritrovamento pompeiano, è doveroso ricordare che uno studioso del calibro di J.CARCOPINO(19) ha tuttavia sostenuto a più riprese che la iscrizione pompeiana sarebbe stata opera di violatori della città di Pompei addirittura del secondo secolo d.C. i quali, penetrati tra le rovine, avrebbero inciso l'ultimo messaggio cristiano in voga al loro tempo, di provenienza dall'area lionese (di ispirazione del vescovo Ireneo, dopo la persecuzione del 177 d.C.). In questo modo l'illustre storico spiegherebbe il mistero del termine AREPO, per il quale è rivendicata un'origine celtica (significherebbe ‘aratro’). Che case ed edifici di Pompei siano stati esplorati subito dopo l'eruzione è dato di fatto da tutti ammesso. Ciò non significa tuttavia estendere l'esplorazione in modo indiscriminato. Ma se entrando in una stanza (di un piano superiore), dall'alto e trovandola libera da detriti, come peraltro sarà senz'altro accaduto, poteva anche passare nella testa dell'audace violatore di lasciare un segno tangibile del proprio passaggio, scrivendo magari sul muro: casa violata! (cfr. CIL IV,2311), ciò non può assolutamente essere accaduto per la zona della Palestra sia perchè le sommità visibili delle colonne segnalavano esplicitamente che di sotto non v'era più nulla da prelevare, sia perché le fotografie scattate durante lo sterro dell'area mostrano chiaramente intatti i diversi strati di lapilli vulcanici. Non volendo escludere nulla, nulla sembra tuttavia davvero essere convincente: probabilmente tutti i significati proposti hanno qualche possibilità di contenere parte della verità del misterioso contenuto del quadrato, soprattutto se considerati in composita mescolanza tra di loro. sul terreno una ruota al loro fianco, di tutti e quattro. | Le ruote avevano l'aspetto e la struttura come di topazio e tutt'e quattro la medesima forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in mezzo a un'altra ruota. | Potevano muoversi in quattro direzioni, senza aver bisogno di voltare nel muoversi. | La loro circonferenza era assai grande e i cerchi di tutt'e quattro erano pieni di occhi tutt'intorno. | Quando quegli esseri viventi si muovevano, anche le ruote si muovevano accanto a loro e, quando gli esseri si alzavano da terra, anche le ruote si alzavano. | Dovunque lo spirito le avesse spinte, le ruote andavano e ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell'essere vivente era nelle ruote. | Quando essi si muovevano esse si muovevano; quando essi si fermavano, esse si fermavano e, quando essi si alzavano da terra, anche le ruote ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell'essere vivente era nelle ruote (il testo italiano è quello della Sacra Bibbia, Edizioni Paoline, Roma 1980, p. 842). (19) Cfr. più oltre la bibliografia specifica al § 7: 1948J.CARCOPINO. 31 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso Ritengo comunque che l'uso di comporre il quadrato fosse un segno di riconoscimento, un modo di annunciarsi esplicito nello stesso tempo coperto e riservato, un modo di presentarsi ad altri che conoscessero il suo significato, per incontrarsi. Il graffito pompeiano è addirittura firmato da tal SAVTRANVS (o è a lui dedicato): ciò significa che chi aveva visto il messaggio poteva chiedere di lui, mentre per tutti gli altri si trattava solo di un rozzo insieme di lettere, del tutto incomprensibile, ma anche del tutto innocuo. Bisogna considerare infatti -e invece il fatto sembra sfuggire ai più- che il culto cristiano doveva sembrare poco meno di una follìa agli abitanti dell'impero, se non altro per la tremenda provocazione di porre ad oggetto di culto il patibolo più esecrabile, il summum supplicium per eccellenza, ma anche il servile supplicium, la pena di morte destinata agli schiavi ed agli humiliores(20). La provocazione era rivoluzionaria e sconvolgente e, almeno per i primi tempi, agli adepti, in genere ex ebrei, già per questo non particolarmente ben visti, non dovette esser facile comunicare tra di loro. Ecco allora la necessità di segnali distintivi, di messaggi segreti i quali son tipicamente destinati -in ogni epoca- a tener alto il morale e a conservare la disciplina e la coesione del gruppo. § 5. Interpretazioni numeriche del quadrato magico Restando nell'ambiente culturale che aveva prodotto i temi e i testi apocalittici, pervasi di singolare attenzione per i numeri, si può esaminare il quadrato magico sul piano, appunto, numerico. Sul presupposto della corrispondenza che può essere attribuita reciprocamente, in greco, ai numeri ed alle lettere, ad es.:  A I R 2 B K S 3 G L T 4 5 DE MN UF 6 7 q Z XO CY 8 9 H U P V Ϡ s'ottiene un quadrato di numeri contenente una croce latina centrale formata dal numero cinque, cioè la cosiddetta ‘croce delle quintessenze’: (20) Sullo ‘scandalo’ della croce cfr. ad es. S.G.F.BRANDON, The Trial of Jesus of Nazareth, Batsford, London, 1968 (tr.it. Il Processo a Gesù, Edizioni di Comunità, Milano, 1974, spec. pp. 147 ss.); M.HENGEL, Crocifissione ed espiazione, ed. it. Paideia, Brescia, 1988, spec. pp. 68 ss. e F.RUGGIERO, La follia dei cristiani, Il Saggiatore, Milano, 1992, pp. 22 ss. 32 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso E non solo: sommando tutte le lettere del quadrato si ottiene il numero 97. 9+7 fa 16 e 1+6 fa 7, numero apocalittico per eccellenza. § 6. Quadrati magici in matematica e nell'arte Quadrati magici numerici sono conosciuti in Cina e in India, e dall'India, pare, giungessero in Europa. Furono considerati amuleti contro il malocchio, e come tali portati addosso, dati ai malati ecc. Mi ci soffermerò assai succintamente, in quanto questo esula esplicitamente dal tema della conversazione, pur se merita qualche cenno. Il più semplice di questo tipo di quadrati è costituito da combinazioni di numeri da 1 a 9 con risultato 15. Esempio tipico il seguente: I più complessi si costruiscono sulla base della somma costante: n (n2 + 1) 2 ovvero hanno a che fare con la teoria dei numeri primi e la loro spiegazione o la semplice illustrazione va al di là delle mie forze. Nel XVI secolo l'alchimista e mago tedesco Enrico Cornelio Agrippa ideò diversi quadrati magici, dotati di svariate caratteristiche matematiche, i quali, a suo dire rappresentavano Saturno, Giove, Marte, il Sole, Venere, Mercurio e la Luna. Uno di questi quadrati campeggia in una celeberrima incisione di A.DÜRER, 33 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso Melencolia I, ed ha il compito di difendere la figura rappresentata dalla maligna influenza di Saturno(21). Si suggerisce di seguito un modestissimo, e senz'altro incompleto elenco artistico-turistico, dei luoghi ove può essere visto ancora il quadrato magico. Su di una parete del corridoio di ronda dello Schloss Maretsch (Castel Mareccio) di Bolzano si trova un quadrato orientato con SATOR, anziché con ROTAS. Il simbolo dovette essere in qualche modo fatto proprio come simbolo mistico dai Cavalieri Templari: infatti diversi luoghi templari recano il Quadrato-SATOR, come il castello di Jarnac, in Francia, o San Giacomo di Compostela. In Italia si segnalano quadrati magici a Pieve Terzagni, in provincia di Cremona, (pavimento musivo del presbiterio della chiesa); nel convento di Santa Maria Maddalena a Verona, e sulla facciata della chiesa di San Pietro ad Oratorium nei dintorni di Capestrano, in provincia dell'Aquila.. Ma per parlare compiutamente di tutto questo si deve necessariamente esplorare un'altra storia che spetta a persone più competenti di me raccontare. (21) Cfr., per i dettagli, A.WARBURG, Gesammelte Schriften, G.B.Teubner, Leipzig-Berlin, 1932 (tr.it. La Rinascita del Paganesimo Antico, La Nuova Italia, Firenze, 1966, spec. pp. 354-360). 34 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso § 7. Cenni per un orientamento bibliografico (in stretto ordine cronologico e senza pretesa di esaustività) 1926 F.GROSSER, «Ein neuer Versuch zur Deutung der Sator-Formel», Archiv. f. Rel.-.Wiss., 24 (1926), pp. 165-169; 1937 M.DELLA CORTE, «Il crittogramma del Pater Noster», Rend. R.Accad. Nap., 17 (1937), pp. 80-99; 1939 M.DELLA CORTE, «Pompei. Le iscrizioni della Grande Palestra ad occidente dell'Anfiteatro», Notizie degli Scavi, 15 (1939), pp. 239-327, part. pp. 261-266; 1939 M.DELLA CORTE, «I Cristiani a Pompei», Rend.R.Accad.Nap., 19 (1939), pp. 5-32; 1939 A.MAIURI, «La Croce di Ercolano», Rend.Pontif.Accad. di Archeol., 15 (1939), pp. 193218; 1940 A.MAIURI, «La scoperta della Croce ad Ercolano», Le Arti, 2/3 (1940), pp. 187-192 (= Saggi di Varia Antichità, cit., pp. 379-390); 1941 C.WENDEL, «Das Rotas-Quadrat in Pompeji», Zeitschrift für d.neutest. Wissenschaft, 40 (1941), pp. 138-151; 1941 A.MAIURI, «Dissensi e consensi intorno alla Croce d'Ercolano», Roma. Rivista di studi e vita romana, 19/10 (1941), pp. 399-413 (= Saggi di Varia Antichità, cit., pp. 391-408); 1945 I.SUNDWALL, «l'enigmatica iscrizione “Rotas” in Pompei», Acta Acad. Aboensis, Humaniora, 15,5 (1945), pp. 1-17; 1948 J.CARCOPINO, «Le christianisme secret du carré magique», Museum Helveticum, 5 (1948), pp. 16 ss. (= Études d'Histoire Chrétienne, Paris, 1953, pp. 11-91); 1949 K.PREISENDANZ, s.v. «Palindrom», Real Enz., 18/3 (1949), cc. 133-139; 1951 H.FUCHS, «Die Herkunft der Satorformel», Schweizer Archiv für Volkskunde, 47 (1951), pp. 28-54; 1952 H.HOMMEL, «Die Satorformel und ihr Ursprung. Studien zum Problem Christentum und Antike», Berlin, 1952 (= Theologia Viatorum, 4 (1952), pp. 108-180); 1953 F.DORNSEIFF, «Martialis IX 95 und Rotas-Opera-Quadrat», Rheinisches Museum, 96 (1953), pp. 373-378; 1953 A.MAIURI, «Sul Quadrato Magico o criptogramma cristiano», Rend.Accad. Arch. Lett. e B.A.Nap., 28 (1953), pp. 101-111 (= Saggi di Varia Antichità, Neri Pozza ed., Venezia, 1954, pp. 303-316); 1957 E.CORTI, Untergang und Auferstehung von Pompeji und Herculaneum, F.Bruckman, München (= tr.it. Ercolano e Pompei, Einaudi, Torino [1957], 1977, spec. pp. 230-232); 1966 R.ÉTIENNE, La vie quotidienne à Pompéi, Lib.Hachette, Paris, 1966 (= tr.it. La vita quotidiana a Pompei, Il Saggiatore, Milano, 1973, spec. pp. 257-261); 1970 J.FERGUSON, The Religions of the Roman Empire, Thames & Hudson, London, 1970 (tr.it., Le Religioni nell'Impero Romano, Laterza, Roma-Bari, 1974, spec. pp. 153-156) 35 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu LORENZO CADEDDU 1945 - 1975 DA TRIESTE A OSIMO PREMESSA Ringrazio la professoressa Imperio per le belle parole di presentazione ed un grazie particolarmente sentito a quanti mi onorano con la loro presenza. Premetto di non essere un conferenziere, ma solo un modesto cultore di storia e per questo sento il dovere di scusarmi anticipatamente per le carenze e la frammentarietà di cui potrà risentire l'esposizione. Il tema che mi accingo a trattare ancorché riferito ad avvenimenti trascorsi da circa cinquant'anni è drammaticamente attuale e coinvolge emotivamente quanti, direttamente o indirettamente, hanno vissuto una tra le pagine più buie della storia d'Italia. Svilupperò l'argomento limitatamente a quell'osservatorio che oggi potremmo definire "privilegiato" che era Trieste anche se, me ne rendo ben conto, molto limitato rispetto alle tragedie che si sono consumate in Istria, in Dalmazia e su buona parte delle province di Trieste e Gorizia. Chiedo, dunque, scusa se non darò risalto a taluni avvenimenti che, nell' animo di chi li ha vissuti e sofferti, assumono particolare rilevanza. GENERALITÀ Prima di trattare il tema che mi sono proposto, è bene delineare quale era la situazione generale nel contesto della quale gli avvenimenti si svolsero. 36 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu Tutto può essere fatto risalire all'8 settembre 1943 quando a Cassibile il Generale Castellano sottoscrive per l'Italia l'armistizio breve. A Brindisi, dove si è trasferito il Re con la Real casa, il Generale Badoglio, d'intesa con gli alleati, cerca di dare efficacia e legittimità al governo monarchico. Fuori dal territorio nazionale e limitatamente alla Slovenia, Croazia e Dalmazia 8 divisioni italiane si dissolvono per mancanza di ordini. Molti interrogano la propria coscienza chiedendosi cosa bisognasse fare o cosa si potesse fare. Ci sono coloro che si dirigono verso casa, chi si dà alla macchia per opporsi ai tedeschi e chi, come nella Venezia Giulia, viene "arruolato" nelle brigate partigiane che fanno capo al Maresciallo Tito, segretario generale del Partito Comunista Jugoslavo. È bene precisare che in Istria il movimento partigiano ebbe connotazioni diverse da brigata a brigata. Esistevano, infatti, moltissime formazioni sia italiane che slave non sempre collegate tra loro, anzi spesso in contrasto. Per semplicità di trattazione quando parleremo di brigate partigiane sottintenderemo quelle slave del Maresciallo Tito che ebbero tristemente parte nelle vicende di cui stiamo trattando. Al nord Mussolini, rientrato in Italia, dà vita a Salò alla Repubblica Sociale Italiana che combatte a fianco dell'alleato germanico. E la guerra continua. Sempre a nord-est le forze armate tedesche assumono il controllo dei territori abbandonati dalle unità italiane e "litorale adriatico" è la nuova denominazione della costa che da Trieste, attraverso l'lstria giunge in Dalmazia. Alle forze della neo costituita Repubblica Sociale Italiana spetta il compito di presidiare la Venezia Giulia. Ciò avviene con elementi della Guardia Nazionale Repubblicana e con reparti della X MAS. Non sembra, però, che tedeschi ed italiani siano in grado di opporsi per molto tempo alla continua pressione dei partigiani slavi. Soprattutto in Istria ed in parte delle province di Gorizia e Trieste la nuova situazione consente alle brigate titine di operare una sorta di pulizia etnica, sia a danno di cittadini del ceppo italiano, sia di cittadini slavi apertamente contrari ad un futuro governo Comunista. Migliaia di persone vengono prelevate a forza e gettate, ancora vive, in quelle profonde voragini carsiche tristemente note come foibe. In Istria la caccia all'italiano ha inizio immediatamente dopo 1'8 settembre 1943 e si protrarrà sino al maggio del 1945 quando giunsero gli alleati, mentre in Dalmazia gli episodi più efferati ebbero a verificarsi nel 1945 contestualmente alla caduta del fronte tedesco. 37 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu In Dalmazia gli infoibamenti avevano una tragica variante: gli annegamenti. In poche parole, le persone di cui ci si voleva sbarazzare venivano imbarcate, portate allargo e quindi, mani e piedi legati, venivano gettate in mare. Non sono solo i fascisti ad essere colpiti, anche noti antifascisti finiscono nelle foibe e questo rispondeva al progetto del Maresciallo Tito di colpire gli esponenti della vita economica, sociale e politica della penisola istriana. Una volta sconvolto il sistema sociale si sarebbe fatto strada il terrore, cosa che puntualmente si verificò costringendo centinaia di migliaia di esuli ad interminabili marce pur di allontanarsi da un territorio che stava trasformandosi in un immenso cimitero. Secondo l'Albo d'Oro pubblicato dall'U nione degli Istriani sono oltre 16.500 i cittadini vittime delle foibe. Questa sera, però, non rievocheremo questi avvenimenti sui quali tanto si è detto e tanto si è scritto e di cui ora, grazie all'iniziativa del prof. Sinagra -libero docente di diritto internazionale all'università di Roma- grazie al prof. Sinagra, dicevo, la procura della Repubblica ha aperto un' inchiesta su cui sta indagando il sostituto Martelli. Stasera non parleremo di foibe ma di quello che secondo gli anglo-americani doveva divenire il Territorio Libero di Trieste e che, invece, non venne mai costituito. Consentitemi, prima di entrare nel vivo del problema, di pormi e porvi una domanda: le foibe potevano essere evitate? Ebbene, pare proprio di sì. Paolo Simoncelli sull'Avvenire del 27 ottobre scorso, rivela che l'ammiraglio De Courten - ministro della marina del regno del sud avrebbe concordato con il Comandante della X MAS, Junio Valerio Borghese un piano per sostenere uno sbarco del reggimento "SAN MARCO" sulle coste istrianodalmate contestualmente al ritiro dei tedeschi e comunque prima dell'arrivo dei partigiani slavi mentre i reparti della X MAS avrebbero costituito teste di ponte nei tratti di costa in prossimità di Trieste, Fiume, Pola e Zara. Sempre secondo il Simoncelli il Borghese non solo si sarebbe impegnato a porre i suoi uomini agli ordini del governo del sud, ma addirittura si sarebbe offerto di metterli a disposizione della brigata partigiana "OSOPPO", se solo questa si fosse mostrata interessata alla difesa delle province italiane. Riferisce ancora Simoncelli che inglesi e americani non autorizzarono quest'azione che avrebbe potuto salvare migliaia di vite, ma diffidarono il governo Badoglio dall'interessarsi al confine orientale. Pare comunque che gli alleati vedessero, nel tentativo di opporsi a Tito, 38 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu l'amalgama che avrebbe potuto far superare il dualismo fascismo/antifascismo. Questo lascerebbe intendere come già fosse stata decisa la sorte dei territori ad est di Trieste. Paolo Simoncelli non è certo uno storico a caccia di facili scoop e dunque, anche se la notizia merita taluni approfondimenti, possiamo in generale dargli credito. SITUAZIONE Fatta questa breve ma necessaria introduzione, veniamo ora al nostro tema che svilupperemo in termini cronologici, esprimendo alcune valutazioni su argomenti generalmente acquisiti e mantenendoci su una narrazione rigorosamente cronologica per quegli avvenimenti che, troppo recenti, risultano tuttora coperti dal segreto di stato. Seguirò, nell'esposizione, questa traccia: 1. occupazione titina di Trieste; 2. occupazione alleata; 3. il Territorio Libero; 4. il ritorno all'Italia di Trieste e della "zona A"; 5. il trattato di Osimo. Tornando alle vicende della guerra, già nei primi mesi del 1945 queste potevano dirsi definitivamente orientate a favore degli alleati e nessuno, ormai, credeva più all'arma segreta tedesca. Nell'Europa centrale i sovietici del Generale Zukov stavano per dare il colpo di grazia a Berlino, capitale del REICH mentre l'Italia, veniva ripercorsa dagli alleati da sud a nord. Nella Venezia Giulia sempre più spesso i reparti della Repubblica Sociale si opponevano, con le armi, alle violenze tedesche a danno di italiani e fatte eseguire, per lo più, dai fedeli ustascia croati di Ante Pavelic. In questo quadro si consumò l'agonia dell'lstria, della Dalmazia e delle loro province: Pola, Fiume e Zara e parte delle province di Trieste e Gorizia. Il 25 di aprile del 1945, da "radio libertà" che trasmette da Milano, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia lancia ai CNL locali l'ordine per l'insurrezione armata. A Trieste l'appello è raccolto dalle brigate partigiane "Venezia Giulia", "Frausin", "Pisoni", "San Sergio" e "Garibaldi" che attaccano decisamente i 39 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu tedeschi ottenendo un successo insperato. I tedeschi, costretti ad abbandonare il presidio dei capisaldi, si asserragliano nel castello sul colle di San Giusto, nell' edificio del Palazzo di Giustizia e al porto dove sono ancora efficienti alcune batterie montate su motozattere. Il loro intendimento è quello di arrendersi agli alleati/che ormai hanno raggiunto Monfalcone. Senza più ostacoli davanti a loro i partigiani del IX Corpus entrano in città al grido di "TRST JE NAS" che vuoI dire "Trieste è nostra". È l'alba dello maggio 1945. Da Belgrado, la sera stessa, Tito può annunciare al mondo che "....il grande emporio di Trieste è congiunto alla Jugoslavia....". L'ingresso in città era stato preceduto da nuclei di attivisti il cui compito era quello di organizzare una manifestazione di popolo inneggiante a Tito e ai liberatori slavi. E mentre i partigiani italiani costringevano i tedeschi alla difensiva, questi attivisti tappezzavano le strade di Montebello (è un quartiere di Trieste) con manifesti, uno dei quali recava lo stralcio di una lettera che un'esponente politico italiano aveva inviato al quotidiano slavo clandestino "Osvobodilna Fronta", cioè " il nostro avvenire" (si tratta di Palmiro Togliatti n.d.a.). Diceva, il manifesto: "Lavoratori di Trieste! Il vostro dovere è di accogliere le truppe di Tito come liberatrici e di collaborare con esse nel modo più stretto". La data è, stranamente, quella del 30 aprile. Si pensi ora che dei due Corpus che entrano a Trieste all'alba di quel l° maggio - il VII ed il IX - il primo, in tre giorni di marce continue e senza soste, dalle alture attorno a Fiume puntò su Trieste, mentre il secondo era entrato in città provenendo da Gorizia. A nessuno interessarono Zagabria e Belgrado che verranno liberate soltanto il 7 maggio. Questo lascia intendere quanto ci tenesse Tito ad entrare a Trieste prima degli alleati. Sentite cosa aveva scritto il 30 aprile Mons. Santin, eroico vescovo di Trieste: "Qui sull'altare della mia cappella, davanti al Santissimo Sacramento, oggi, 30 aprile 1945, festa di S.Caterina da Siena, patrona d'Italia, e apertura del mese di Maria, alle ore 19:45, in un momento che è forse il più tragico della storia di Trieste, mentre tutte le umane speranze per la salvezza della città sembrano fallire, come vescovo indegnissimo di Trieste mi rivolgo alla Vergine Santa per implorare pietà e salvezza. Faccio un voto privato e un voto che riguarda la città. Questo voto è il seguente: se con la protezione della Madonna Trieste sarà salva, farò ogni sforzo perch6 sia eretta una chiesa in suo onore". Mons. Santin, che tanto si era adoperato per convincere i tedeschi a non difendere la città per non coinvolgere la cittadinanza inerme, mons. Santin, dunque, considerava l'occupazione slava come "il momento più tragico della storia di 40 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu Trieste" . Per coloro che non lo sanno dirò che mons. Santin era istriano, di Rovigno e come vescovo la sua diocesi comprendeva, oltre Trieste, anche Capodistria e dunque gli erano ben noti gli eccessi consumati dagli slavi. Per completezza di trattazione dirò che il voto di mons. Santin è scritto di suo pugno dietro ad un'immagine sacra della Madonna ed il voto pubblico fu sciolto con l'edificazione del noto Santuario di Monte Grisa. Gli alleati, e nella fatti specie i neozelandesi della 2A divisione del Generale Freyberg, entrarono in città il successivo giorno 2, quando cioè il Municipio, la Prefettura e tutti gli edifici pubblici erano stati già occupati e la città aveva già un Governatore slavo nel Generale Dusan Kveder ed un Vice Governatore nel triestino Giorgio Jaksetich. Tra i primi atti compiuti dal nuovo Governatore vi fu l'immediato disarmo di tutte le formazioni partigiane, lo scioglimento del Comitato di Liberazione Nazionale e l'emanazione di un'ordinanza in sei punti che doveva regolare la vita della città. Figuratevi che il coprifuoco venne drasticamente fissato dalle ore 15.00 alle ore 10.00 del giorno successivo. Ma ciò che più preoccupò i triestini, fu l'adozione dell'ora di Lubiana che entrò in vigore alle ore 01:00 del 4 maggio. Questa norma, per l'esattezza la numero 5, fece comprendere ai triestini che la città ormai era considerata parte integrante della nuova Repubblica jugoslava. Era questo uno dei tanti tentativi di slavizzare la città e tra questi il più eclatante, fu quello di registrare come residenti i partigiani entrati in città il l0 maggio. In questo modo Tito avrebbe potuto dimostrare al mondo che Trieste era una città etnicamente slava. Tra i primi provvedimenti adottati dal Commissario del IX Corpus, vi fu la requisizione della redazione e della tipografia del quotidiano "IL PICCOLO" per pubblicarvi l'edizione in lingua italiana del quotidiano sloveno "OSVOBODILNA FRONTA" e cioè il già noto "NOSTRO AVVENIRE" stampato sino ad allora clandestinamente. Il 5 maggio una dimostrazione di italianità venne dispersa a colpi d'arma da fuoco. Tutto cominciò in Piazza Unità mentre si svolgeva una delle tante preordinate manifestazioni slovene che dovevano dimostrare agli alleati che Trieste era città slava. Una donna rimasta sconosciuta, con le lacrime agli occhi estrasse dal seno un fazzoletto tricolore che sventolò davanti ad un soldato neozelandese. Questi prese il fazzoletto, lo sventolò e poi se lo legò al collo. La scena non passò inosservata. Da ogni parte della piazza i triestini conversero verso quel 41 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu tricolore e la moltitudine divenne sempre più folla. Si formò un corteo di 50.000 persone diretto al sacrario di Oberdan che cantava e sventolava bandiere italiane uscite fuori non si sa come. Il corteo giunse in largo poldoni e qui incontrò una pattuglia slava che intimò l'alt. Le prime file cercarono di arrestarsi ma vennero sospinte avanti dalle file di dietro che non si erano accorte di ciò che stava accadendo. Gli slavi aprirono il fuoco ad altezza d'uomo e non appena la folla si fu dissolta, si poterono contare per terra cinque morti ed una trentina di feriti. I neozelandesi non mossero un dito. Il "Nostro avvenire" nello stigmatizzare la dimostrazione italiana, ammonì i triestini con queste parole: "bisogna liquidare per sempre tutti i resti del fascismo e tutti gli agenti della Gestapo tedesca...". Nessuno, però, riusciva a comprendere chi erano gli agenti della Gestapo dato che i tedeschi si erano arresi o dove fossero i resti del fascismo ormai dissolto nella definitiva sconfitta della guerra. Fu necessario arrivare al 1954 per sentir dire ad alcuni parlamentari italiani che "...bisognava comprendere e giustificare, almeno in sede storica, anche i pur deplorevoli eccessi...". Poco importava, però, se tra i deplorevoli eccessi non vi era solo qualche manifestazione dispersa a colpi d'arma da fuoco ma migliaia di italiani scomparsi nelle profondità carsiche di cui è disseminata l'Istria. Nonostante queste cose fossero sotto gli occhi di tutti e degli alleati in particolare, il problema di Trieste, e più in generale della Venezia Giulia, continuava ad essere sottovalutato. Si pensi che l'annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia era l'unico punto su cui Re Pietro, sovrano jugoslavo in esilio, e Tito, astro nascente del comunismo internazionale, avevano una perfetta identità di vedute. Tito d'altro canto, non si preoccupò mai di tener nascosti i suoi obiettivi contando sull'appoggio sovietico. Il piano di questi ultimi era chiaro: sottrarre all'influenza occidentale la Jugoslavia, la Grecia e l'Albania per acquisire porti nel mediterraneo. Tito stava giocando bene le sue carte: nel 1944 si era assunto l'onere di gestire direttamente la guerra partigiana, in Carnia e nella Venezia Giulia e dunque, al tavolo della pace, avrebbe potuto rivendicare quel pezzo d'Italia. Gli obiettivi del Maresciallo, però, non collimavano con quelli degli anglo americani che intendevano porre sotto amministrazione alleata le province di Trieste, Gorizia, Udine, Trento e Bolzano allo scopo di controllare meglio le vie di comunicazione verso la Germania che sarebbe stata occupata per intero e nel modo in cui tutti sappiamo. 42 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu Di questi intendimenti ebbe notizia anche il governo Badoglio per mezzo di una lettera che l'ammiraglio Stone scrisse al ministro degli esteri italiano conte Visconti Venosta. La lettera è dell'11 settembre 1944. E le intenzioni degli alleati dovevano essere note anche al Maresciallo Tito che, meno di un mese prima, si era incontrato a Napoli con il premier inglese Churchill e a Bolsena con il Generale Alexander. Churchill, prevedendo che Tito avrebbe fatto valere i suoi diritti sui confini che aveva raggiunto, inviò subito un telegramma al presidente americano Truman nel quale ribadÌ la necessità che truppe alleate occupassero Trieste prima di Tito e concludeva sostenendo che "il possesso costituisce i nove decimi del diritto". Tito era giunto a questa conclusione almeno due anni prima. E così finì che mentre Churchill, Truman ed Alexander continuavano a scambiarsi messaggi, Tito occupava militarmente Trieste. Intanto a Trieste si giunse ad un angoscioso 8 maggio. Tito, che in un primo momento parlava di annessione della città alla neo costituita repubblica slovena, proclamò invece Trieste settima repubblica jugoslava autonoma. Gli alleati e soprattutto i britannici, preoccupati, dell'atteggiamento deciso di Tito, il 12 maggio inviarono a Belgrado il Generale Alexander con il compito di ricondurre all'ordine il Maresciallo che rimase, invece, sulle sue posizioni. Lo sviluppo degli avvenimenti varcò cosi i limiti del semplice problema militare per approdare al tavolo dei politici. Vediamo ora: - perchè ed in che modo gli slavi abbandonarono Trieste dopo 43 giorni; - perchè, dopo l'occupazione slava della città e dopo il suo abbandono, dovettero trascorrere ben nove anni prima che fosse ricongiunta all'Italia. Il nocciolo del problema può essere ricondotto alla già delineata contrapposizione tra alleati da una parte ed Unione Sovietica dall'altra. I primi, in nome di un consolidato principio di democrazia, caldeggiavano una soluzione negoziata, mentre i secondi sostenevano che i nuovi confini dovevano coincidere con le linee raggiunte dalle truppe al momento dell'entrata in vigore degli armistizi. Per sostenere la validità di questo asserto, Stalin appoggiò fermamente Tito ed un atteggiamento così deciso convinse gli Stati Uniti ad affrontare l'argomento con la cautela richiesta da una situazione esplosiva. Eisenhower, Churchill, Eden e Stalin per nove anni seguirono, giorno e notte, le vicende di questa città. Di lei sapevano tutto, come se vi fossero nati e vissuti e sapevano anche cosa 43 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu si sarebbe dovuto fare di lei, anche se, ovviamente, le opinioni erano totalmente diverse... I rapporti tra Tito e gli Alleati, dunque, si tesero sino a rischiare la rottura. Il sottosegretario britannico agli Esteri Low dichiarò alla Camera dei Comuni che i tedeschi a Trieste si erano arresi ai neozelandesi del Generale Freyberg e pertanto la città non poteva essere considerata "territorio jugoslavo liberato" come tentava, invece, di far credere il Maresciallo Tito. Alle parole gli alleati fecero seguire i fatti: una forte squadra navale britannica, scortata da caccia americani, attraccò nel golfo di Trieste mentre in Carinzia i partigiani vennero costretti ad abbandonare in buon ordine la regione davanti alla costituzione di un governo militare alleato. Si aprì, dunque, un contenzioso insanabile tra, alleati da una parte e Unione Sovietica e Jugoslavia dall'altra. Ben presto il contenzioso divenne vera e propria guerra fredda che assunse i toni più aspri il 19 maggio. Il Generale Alexander, per accusare Tito davanti all'opinione pubblica mondiale utilizzò uno strumento inusuale: un ordine del giorno alle truppe del Mediterraneo nel quale delineò la posizione alleata nei confronti del problema di Trieste e dell' Istria. Disse testualmente Alexander: "...la zona intorno a Trieste, Gorizia e ad est dell'Isonzo fa parte dell' Italia e si chiama Venezia Giulia. I suddetti territori sono ora rivendicati dal Maresciallo Tito che vuole incorporarli alla Jugoslavia... Queste pretese verranno esaminate e giudicate secondo giustizia e con spirito di imparzialità alla conferenza di pace... Sembra che il Maresciallo Tito abbia l'intenzione di effettuare le sue rivendicazioni con la forza delle armi e con l'occupazione militare. Un'azione di questo genere rammenta troppo Hitler, Mussolini e il Giappone. Noi abbiamo combattuto questa guerra per impedire che tali azioni si ripetano. Noi non possiamo adesso mancare al principio vitale per il quale abbiamo combattuto...". Come si vede il Generale Alexander, pur confermando nel modo più chiaro ed inequivocabile gli intendimenti degli alleati, si mostrò anche possibilista nei confronti delle pretese slave purché avallate in sede di conferenza di pace. Al Generale Alexander rispose lo stesso Tito con un discorso nel quale sostenne cinque principi: l°. ciò che è stato raggiunto è stato raggiunto per sempre e non v'è potenza al mondo che possa toglierlo; 44 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu 2°. la storia non ci perdonerebbe mai se lasciassimo i nostri fratelli slavi sotto il giogo fascista; 3°. io non posso che esprimere tutta la mia meraviglia e il mio risentimento per l'improponibile confronto che la stampa occidentale fa tra la presenza di truppe jugoslave a Trieste, in Istria e nel litorale con le occupazioni operate dai NaziFascisti; 4°. l'esercito jugoslavo ha cacciato i Nazi-Fascisti con la potenza delle armi, li ha ricacciati oltre l'ISONZO e dunque non può essere giudicata come arbitraria l'occupazione di questi territori; 5°. la Jugoslavia è pronta a collaborare con le forze alleate ma nello stesso tempo non può permettersi di essere umiliata o privata dei propri interessi. La risposta di Tito fu dura o, come scrisse la stampa americana, fu "un vero e proprio pugno nello stomaco". Nuove truppe anglo-americane vennero fatte affluire in Friuli dove furono tenute in stato di allarme e a Tito non rimase altro da fare che abbassare il tono della polemica. Propose allora di lasciare truppe slave in città ponendole agli ordini del Generale Alexander ma la proposta non venne neanche presa in considerazione. La reazione alleata colpÌ anche Stalin nonostante continuasse - ma con minore convinzione - a sostenere il Maresciallo Tito. Il Generale Morgan, Capo di Stato Maggiore del Generale Alexander, venne inviato a Belgrado in un ultimo tentativo di ricondurre all'ordine il premier Jugoslavo. Tito, compreso che gli alleati non avrebbero mai riconosciuto la sovranità slava su Trieste, sottoscrisse con lui un accordo -detto appunto di Belgrado- che prevedeva l' arretramento delle brigate slave ad oriente di una linea che correva ad est di Trieste. Il trattato, sottoscritto il 9 giugno, sanzionò una specie di linea di confine più nota come "LINEA MORGAN". Di fatto si costituirono due zone indicate come "A" e "B". La prima che comprendeva Trieste venne posta sotto amministrazione alleata mentre la seconda fu assegnata provvisoriamente alla Jugoslavia. Lo sgombero di Trieste avvenne il 12 giugno. Con il ritiro dei partigiani slavi dietro la LINEA MORGAN, gli alleati misero a capo del Governo Militare alleato provvisorio il Colonnello americano Alfred Bowman, non tenero nei confronti degli italiani e apertamente schierato dalla parte degli slavi. Si è sempre vociferato che ciò fosse dovuto all'influenza che esercitava su di lui l'interprete jugoslava Miroslava Strukelj che divenne, si dice, la sua amante. In questa situazione si giunse ai lavori preliminari del trattato di pace che 45 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu ebbero inizio a Londra il 18 gennaio 1946. In quel periodo si sparse la voce secondo la quale gli slavi stavano preparando un colpo di mano su Trieste nel caso la conferenza di pace non avesse accolto le richieste per la costituzione di una repubblica federativa. A queste voci risposero i Generali Lee e Morgan che non esclusero l'uso delle armi nel caso gli slavi avessero attuato quanto era solo oggetto di voci. Quale base delle discussioni venne preso l'asserto, generalmente riconosciuto, di fissare l'andamento delle frontiere secondo la linea etnica e a tal proposito venne nominata una commissione quadri partita formata dai rappresentanti di Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Unione Sovietica. L'indagine fu effettuata tra il 9 marzo ed il 5 aprile del 1946 ma non servÌ a chiarire le singole posizioni. È comunque accertato che durante le ricognizioni effettuate dalla commissione nei territori occupati dagli slavi, i residenti di origine italiana vennero tenuti nascosti in chiese o grotte o trasferiti in altri comuni. Per contro, migliaia di slavi e croati delle regioni dell'interno vennero fatti affluire nei centri del litorale in modo tale che risultasse facile dimostrare come i centri visitati dalla commissione fossero abitati esclusivamente da una popolazione appartenente al gruppo etnico slavo. Tra il 25 aprile ed il 26 maggio si svolse a Parigi una conferenza durante la quale Molotov - Ministro degli Interni sovietico - continuò ad insistere perch6 Trieste venisse assegnata alla Jugoslavia mentre Byrnes responsabile del dipartimento di stato del Governo degli Stati Uniti, sostenne la necessità di indire un plebiscito, ma entrambe le proposte vennero respinte. Tra due sezioni dei lavori venne avanzata dai francesi l'ipotesi di internazionalizzare la città giuliana, ma il Ministro degli Esteri jugoslavo - Edvar Cardelj - fece sapere che non si sarebbe opposto alI 'internazionalizzare del porto ma non avrebbe neanche preso in considerazione quella della città. L'idea comunque cominciò a prendere sempre più corpo. In Italia i lavori erano seguiti con particolare interesse e l'idea di internazionalizzare Trieste non poteva soddisfare gli italiani ma tutto sommato poteva essere l'unica possibile per bloccare, almeno temporaneamente, le richieste russo-jugoslave. Tra discussioni, emendamenti, proposte e controproposte si giunse al 3 luglio 1946 che è considerata la data ufficiale della nascita del Territorio Libero di Trieste. Oltre ai francesi che l'avevano proposta la soluzione non soddisfece nessuno. Alla conferenza di pace, che si aprÌ a Parigi il 28 settembre, la costituzione del Territorio Libero venne approvata dalla commissione politica e territoriale per l'Italia con 12 voti favorevoli, 5 contrari e 3 astenuti. 46 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu In un clima di tensione, si giunse al 10 febbraio 1947 allorche a Parigi venne sottoscritto il definitivo trattato di pace. L'Italia fu costretta a cedere alla Jugoslavia un territorio di 8.258 chilometri quadrati, abitato da oltre 580 mila abitanti. Si trattava delle intere province di Pola, Fiume e Zara e di porzioni prevalenti di quelle di Gorizia e Trieste, oltre a corrispondere danni di guerra per 125 milioni di dollari. Il trattato di pace sarebbe entrato in vigore il 15 settembre dello stesso anno e per tale data il Territorio Libero di Trieste avrebbe dovuto essere costituito. Ma non fu così. Ha scritto Diego De Castro: "gli slavi quel giorno volevano entrare a Trieste, furono gettate bombe al termine di una manifestazione italiana; morÌ uno studente e ci furono più di ottanta feriti. Lubiana, durante una spettacolosa dimostrazione, giurò al Maresciallo Tito di non rinunciare a Trieste. A Roma, il Capo Provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, ricevette i rappresentanti dei partiti italiani di Trieste e De Gasperi pronunciò accorate parole alla radio promettendo che l'Italia non avrebbe mai abbandonato i suoi figli...". Gorizia, anch' essa sotto amministrazione alleata, fu più fortunata. Il 14 settembre una colonna del 114° reggimento di fanteria entrò in città sanzionando cosÌ il definitivo ricongiungimento all'Italia. Ma un nuovo episodio doveva raggelare il sangue dei goriziani: si era saputo di un accordo per cedere Gorizia alla Jugoslavia in cambio della piena sovranità italiana su Trieste. È inutile che vi dica come Gorizia insorse alla notizia e il 9 novembre rispose imbandierando tutta la città. Tornando a Trieste v'è da dire che il previsto Territorio Libero di Trieste non venne mai costituito a causa dell' atteggiamento ostruzionistico della Jugoslavia che bocciava tutte le proposte di nomina di un Governatore. A fine settembre i governi di Stati Uniti e Gran Bretagna nominarono Comandante delle Truppe di occupazione il britannico Generale Airey che rimase nell'incarico sino al 15 marzo 1951. Durante tutto il periodo adempì al suo dovere con scrupolo e, soprattutto, con imparziale coscienza. Fu certamente un amico dei triestini e i triestini seppero ripagare questo affetto non provocando, nel periodo in cui era a capo della città, alcun incidente. Il 20 marzo 1948 con una dichiarazione tripartita anglo-franco-americana i governi alleati, constatata l'impossibilità di realizzare il previsto Territorio Libero, auspicarono che il territorio del contendere fosse restituito all'Italia quale stato 47 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu titolare della sovranità sia sulla "zona A" che sulla "zona B". La reazione di Belgrado fu piuttosto violenta, ma tutto sommato non accadde nulla. Negli anni successivi gli scenari internazionali fecero passare in secondo piano i problemi connessi con le zone "A" e "B". Vediamo, in un velocissimo excursus, i fatti più significativi che, in qualche modo, ebbero riflessi sugli avvenimenti che stiamo esaminando: -1949: il 4 aprile a Washington venne firmato il Patto Atlantico che darà vita all'attuale NATO; -1950: il16 aprile ebbero luogo nella "zona B" le elezioni nelle quali il Partito Comunista Jugoslavo ottenne l'89,3% dei voti. Queste elezioni meritano due brevi ma significativi approfondimenti: a. Mons. Santin, vescovo di Trieste e Capodistria, denunciò le violenze messe in atto dagli slavi per impedire al gruppo etnico italiano di partecipare alle elezioni; b. Ai giornalisti italiani, regolarmente accreditati nella zona "B" per assistere alle elezioni, venne impedito di svolgere il loro lavoro ed anzi furono brutalmente percossi. Tra i 14 giornalisti che presentarono una vibrata protesta alla missione jugoslava di Trieste vi erano anche i due inviati speciali dell'unità: Gianni Rodari e Ferruccio Pandulo. In Italia, alla Camera dei deputati, venne formalizzata la richiesta di cessione di Gorizia alla Jugoslavia in cambio di Trieste (relatore il Segretario generale del PCI on. Palmiro Togliatti N.d.A.). La proposta venne respinta; -1951: Nonostante la collettivizzazione delle terre, in J ugqslavia le attività produttive, in forte crisi, raggiunsero minimi storici. Il 15 marzo il Comandante delle truppe d'occupazione Generale Airey venne richiamato in Gran Bretagna ed al suo posto il governo di Sua Maestà designò quale governatore il più che scorbutico generale Winterton. -1952: è forse l'anno in cui maggiori furono gli avvenimenti: a. era il 20 marzo quando una manifestazione venne organizzata per sollecitare gli anglo-americani alla materiale applicazione di quanto previsto dalla dichiarazione tripartita del 1948; b. nota di protesta di Belgrado per la decisione del Governo Militare alleato di indire le elezioni amministrative contestualmente a quelle politiche indette in Italia; c. al Governo Militare alleato viene affiancato un consigliere politico italiano nella persona di Diego De Castro. Note di protesta di Belgrado del 20 maggio e del 14 settembre e di Mosca il 24 giugno; d. nuove elezioni in "zona B" e "plebiscito" a favore del Partito Comunista Jugoslavo che ottiene il 96% dei voti. 48 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu Il 1953 fu anch'esso particolarmente importante per Trieste. Il 29 agosto essendo circolata la voce su una possibile invasione slava della città, il Presidente del Consiglio On. Pella ammassò truppe al confine mentre la flotta prese il largo ancorandosi, al limite delle acque internazionali, davanti alla costa istriana. Ovviamente questo provocò una nota di protesta di Belgrado che però fu respinta. E cosÌ Tito, che nel corso di un comizio a Nova Gorica, aveva chiesto la smilitarizzazione della frontiera, richiamò alle armi alcune classi. Il 4 ed il 6 novembre per Trieste furono giorni drammatici. La città pianse 6 morti e 77 feriti, vittime dei proiettili del Maggiore Williams. Vediamo perché il Maggiore Williams fece sparare sulla folla. Ricorreva, il 4 novembre e come di consueto il sindaco chiese ai funzionari del Governo Militare alleato, di poter issare il tricolore sulla sede municipale. Stranamente, quell'anno, l'autorizzazione non venne concessa e la città intera manifestò in Piazza dell 'Unità il suo disappunto. I primi incidenti scoppiarono davanti alla prefettura e proseguirono in Ponte Rosso. Neanche i gradini della chiesa di S.Antonio Nuovo impedirono alla polizia di sparare ad altezza d'uomo. In Italia la notizia di quei morti provocò sdegno e soprattutto timore che la situazione potesse ulteriormente deteriorarsi. Il Presidente del Consiglio, On. Pella, chiese di poter partecipare ai funerali delle vittime, ma il Governatore britannico non lo autorizzò. Improvvisamente, le acque parvero calmarsi. L'Italia accettò l'ipotesi di una conferenza a cinque per cercare una soluzione al problema di Trieste mentre la Jugoslavia subordinò la sua partecipazione alla rinuncia, da parte degli anglo-americani, al trapasso dei poteri alle autorità italiane. Non basta. Il 5 dicembre Pella si incontrò a Roma con il plenipotenziario Pavic Gregoric con il quale concordò il simultaneo ritiro delle truppe ammassate al confine. Tra alti e bassi si giunse alla tanto attesa firma del "memorandum d'intesa" sottoscritto a Londra il 5 ottobre 1954. Per una fastidiosa forma influenzale del Ministro degli Esteri britannico - Sir. Anthony Eden - la firma del documento ebbe luogo nella sua abitazione al numero 1 di Carlton Haus Garden e non, come sarebbe stato più corretto, al Foreign Office. Sul tavolo erano allineate quattro copie del protocollo, scritte in lingua inglese su carta celestina, legata da un nastro azzurro sul quale faceva spicco il sigillo rosso 49 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu di ceralacca del Ministero degli Esteri. Una carta geografica, su cui erano state riportate alcune modifiche alla linea di demarcazione tra la "zona A" e "zona B", era spiegata davanti alle copie del protocollo. All'epoca, Ambasciatore italiano a Londra era Manlio Brosio, futuro Presidente della NATO, mentre l'Ambasciatore jugoslavo era tale Vladimir Velebit. I due plenipotenziari si strinsero cortesemente la mano sotto gli sguardi compiaciuti dei funzionari britannici e statunitensi, ma non si scambiarono ne un' occhiata ne una parola. Secondo il protocollo diplomatico dell'epoca, in materia di precedenza veniva seguito l'ordine alfabetico degli Ambasciatori per cui il primo a firmare fu Manlio Brosio, poi il Sottosegretario britannico Harrison, quindi il Commissario statunitense a Vienna -Thompson- ed infine l'ambasciatore Velebit. Trieste, come accolse la notizia dell'accordo? Per la prima volta i triestini mostrarono di crederci e ciò per via di alcuni piccoli indizi che, indirettamente, confermarono la notizia dell'avvenuto accordo. Il primo elemento probatorio i triestini lo individuarono proprio in città: la sera prima della prevista firma dell'accordo - dunque il 4 ottobre - il pro-sindaco di Trieste e sei assessori partirono per Roma dove, dopo essere stati ricevuti dal Presidente del Consiglio - On. Scelba - avrebbero presenziato nel pomeriggio al Senato all'annuncio dell'avvenuta firma. Altro elemento probatorio era costituito dai colloqui ad alto livello tra il Generale Winterton ed il Capo di Stato Maggiore britannico da una parte ed i consiglieri politici dall'altra. Tema dei colloqui: il passaggio dei poteri e lo sgombero delle truppe alleate dalla "zona A". Infine, in materia di mantenimento dell'ordine pubblico si era tenuta una riunione tra il prefetto Vitelli ed i rappresentanti dei partiti politici per evitare manifestazioni di qualunque genere prima dell'arrivo delle truppe italiane. Lasciamo per un attimo il prefetto di Trieste a colloquio con i rappresentanti dei partiti politici e facciamo un piccolo passo indietro per cercare di capire come si arrivò alla firma del "memorandum di intesa" e, soprattutto, come fu possibile convincere il Premier jugoslavo Tito ad accettarlo. Torniamo al dicembre del '52. Alla "Lancaster House" di Londra è in pieno svolgimento una riunione dei Ministri degli Esteri occidentali per discutere il riarmo della Germania e l'inserimento delle forze armate tedesche nel sistema difensivo dell' Alleanza Atlantica. Trieste non è, dunque, nell' agenda dei lavori, tuttavia se ne parla. 50 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu Alla conferenza partecipano: Allen Dulles per gli Stati Uniti, Anthony Eden per la Gran Bretagna, Mendes France per la Francia, Adenauer per la Germania, Pearson per il Canada, Spaak per il Belgio, Baien per l'Olanda, Bech per il Lussemburgo ed il Prof. Gaetano Martino per l'Italia. Martino era divenuto Ministro degli Esteri soltanto il giorno prima, avendo sostituito l'on. Attilio Piccioni dimissionario in quanto il proprio figliolo - Giampiero - era stato indiziato per l'uccisione di tale Wilma Montesi. Martino, dunque, alla "Lancaster House" caldeggiò la definitiva soluzione del problema triestino in senso favorevole all'Italia. Ma l'avvenimento che fece pendere definitivamente la bilancia a favore dell'Italia accadde nell'estate del 1953 allorche l'Ambasciatore statunitense a Roma Clara Boothe Luce - inviò un rapporto riservato a Washington nel quale valutava la situazione italiana passibile di profonde modifiche che avrebbero avuto riflessi negativi anche sulla politica estera americana. Il diplomatico attribuiva al problema di Trieste e del suo entroterra la possibilità di indebolire la posizione del Presidente del Consiglio e del partito che rappresentava, alle imminenti elezioni politiche. Un eventuale successo elettorale dell'opposizione avrebbe certamente posto in essere l'acquisizione di basi NATO sulla penisola ed avrebbe influenzato l'atteggiamento italiano in seno all'ONU. Una mano al Presidente americano per una decisione favorevole all'Italia, gliela diede il Presidente del Consiglio On. Pella che minacciò pubblicamente gli alleati di non sottoscrivere la conferenza europea sul disarmo e di uscire dalla NATO. Come abbiamo visto Pella mobilitò le Forze Armate e Tito, per dimostrare che la Jugoslavia non accettava passivamente la risoluzione italiana, mobilitò alcune classi di riservisti che vennero ammassate ai confini. Ma Pella andò oltre. Dalle memorie del Generale Eisenhower apprendiamo che il Presidente del Consiglio si rivolse al Generale Gruenter affinche si facesse portavoce ed ottenesse l'avvallo del Presidente Truman per una eventuale occupazione militare italiana della "zona A". L'atteggiamento deciso di Pella ottenne un duplice scopo: a. quello di forzare la mano agli Stati Uniti; b. quello di far comprendere al Maresciallo Tito che Trieste non sarebbe mai stata una città slava. Da alcune parti si è avanzata l'ipotesi che gli Alleati "comprarono" l'adesione di Tito al memorandum di Londra con consistenti carichi di grano oltre ad un 51 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu compenso monetario e che con questi Tito armò i porti di Fiume e Capodistria con i quali la Jugoslavia fece concorrenza ai porti italiani dell'alto Adriatico. A Roma, intanto, appena avuta notizia della firma del "memorandum", il Consiglio dei Ministri - riunito sotto la presidenza dell'On. Scelba - designò il prefetto Giovanni Palamara quale commissario civile per la "zona A" ed il Generale Edmondo De Renzi - Comandante del 5° Corpo d' Armata - quale Comandante delle forze d'occupazione. Alle ore 14:00 del 6 ottobre 1953 da Radio Trieste il Generale Winterton Governatore Militare della città - confermava ai triestini l'avvenuta firma del Trattato che avrebbe riconsegnato la città all'Italia. Memore di quanto accaduto un anno prima egli stesso autorizzò l'esposizione del tricolore sul palazzo della Prefettura e su tutti gli edifici comunali. Lo stesso giorno il Generale De Renzi, dalla sua sede di Vittorio Veneto si recò al castello di Duino dove discusse, con lo Stato Maggiore del Governo Militare alleato, le modalità esecutive per il trapasso dei poteri. Trieste in quel tempo ebbe un buon Sindaco. Si chiamava Giovanni Bartoli, "Gianni Lagrima" per i suoi concittadini, per quel suo commuoversi ogni qual volta vedeva sventolare un tricolore o parlava semplicemente di Patria. Bartoli era istriano, di Rovigno d'lstria, come Mons. Santin. Laureato in ingegneria al Politecnico di Torino, durante la guerra di liberazione rappresentò la Democrazia Cristiana in seno al Comitato di liberazione nazionale. Rischiò più volte di essere "eliminato" sia dai partigiani slavi sia da quelli italiani delle brigate filo-slave. Nessuno più di Giovanni Bartoli, in quel momento, meritava di assumere e recitare a Trieste la parte del protagonista. Il 23 ottobre del 1954, a soli tre giorni dal ricongiungimento di Trieste all'Italia, una delle istituzioni fondamentali del governo militare alleato cessava la propria attività. Si trattava della Corte di Giustizia. In nove anni di attività aveva dibattuto circa 5000 cause tra processi penali e civili. Il più clamoroso di tutti fu certamente il processo ad una giovane insegnante polesana, tale Maria Pasquinelli, rea di aver ucciso a Pola il Generale inglese De Winton colpevole, secondo la Pasquinelli, di rappresentare una delle potenze vincitrici responsabili della cessione dell'Istria alla Jugoslavia. La Pasquinelli, considerata da molti nativa di Pola, era in realtà una bergamasca che insegnava a Pola. Il processo venne seguito con interesse in tutto il mondo e ciò preoccupava non poco i responsabili dell'ordine pubblico in quanto, un atteggiamento troppo 52 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu favorevole all'imputata poteva scatenare il mondo slavo che avrebbe accusato gli alleati di guardare con troppa benevolenza all 'Italia mentre, un atteggiamento troppo severo, avrebbe avuto ripercussioni negative nei nazionalisti italiani e triestini in particolare. Maria Pasquinelli era difesa dall' avvocato Enzo Molgera che, richiamato dal presidente della corte ad attenersi alle procedure legali britanniche, rispose che "...era un italiano che difendeva un 'italiana...". Questa frase scatenò il delirio di quanti assistevano al processo e il presidente fu costretto, per la prima volta, a sospendere la seduta. Maria Pasquinelli venne condannata a morte, commutata poi all'ergastolo e fu quindi rimessa in libertà. La donna, molto dignitosamente, non chiese mai la grazia, ne sconti di pena, neanche quando, in occasione dell'incoronazione a Londra della Regina Elisabetta, la cosa poteva essere possibilissima. Chiese però perdono alla moglie del Generale De Winton, chiarendo che il suo gesto non aveva nulla di personale. Scontò la carcerazione prima a Trieste, poi a Venezia ed infine a Firenze. Oggi, ancorché anziana, vive in pace a Bergamo sua terra natale. Attorno alla "zona A", in attesa del 26 ottobre, cominciavano ad attestarsi i reparti militari che avrebbero dovuto sostituire le unità britanniche e statunitensi nell' occupazione della città. Da Venezia la 2A Divisione navale avrebbe riconsegnato all'Italia le acque territoriali del golfo giuliano, mentre dall'aeroporto di Istrana erano pronti al decollo i velivoli del 2° stormo. Si giunse cosÌ al tanto atteso 26 ottobre. Quel giorno il quotidiano triestino "Il Piccolo" uscì in un' edizione inconsueta di 40 pagine. Da quel lontano 2 maggio 1945 era la prima volta che "Il Piccolo" tornava nelle edicole. Nel periodo del governo militare alleato l'unico quotidiano in lingua italiana era "Il Giornale di Trieste", poco amato dai triestini perchè filo-slavo. Dunque, "Il Piccolo", quel giorno si presentò ai lettori in un'edizione di 40 pagme. In quelle centrali erano stati pubblicati i saluti di tutti i direttori dei quotidiani italiani e fra i tanti indirizzi di saluto ve ne erano due particolarmente significativi. Il primo era del Vescovo Mons. Santin ed il secondo del Sindaco Giovanni Bartoli. Diceva tra l'altro quello di Mons. Santin: "...ritorna l'Italia. Dopo vicende ed avvenimenti tragici che raramente si incontrano nella storia. Abbiamo tutti tanto sofferto...molti non sono con noi. Per questo la gioia...ci sembra quasi peccato. Ma non può essere un peccato salutare con fervida letizia i fratelli che vengono...Dio benedirà l'Italia che ritorna...". Vale la pena ricordare anche quanto ebbe a dire il primo cittadino che esordì 53 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu con queste parole: "Benvenuti, soldati d'Italia" e proseguiva rivivendo taluni avvenimenti legati alla sua origine istriana. Ricorda un bersagliere di stoffa portato da fanciullo a Wagna in Istria dove la sua famiglia venne internata il 24 maggio 1915 all' entrata in guerra dell' Italia; torna alla mente di Bartoli un tricolore che sempre a Wagna spuntò tra gli internati all 'annuncio che il 3 novembre del 1918 i bersaglieri erano sbarcati a Trieste ed infine, l'odierno ritorno dei soldati italiani nella città di San Giusto. Com'era facilmente intuibile le unità italiane, che avrebbero dovuto compiere alcuni atti di cerimoniale unitamente ai reparti britannici, giunsero nel cuore della città a piazza dell'Unità con oltre un'ora di ritardo, a causa della folla che aveva costituito un vero e proprio muro umano. Saltò il cerimoniale; il Generale Winterton che si doveva incontrare con il Generale De Renzi non ebbe la pazienza di attendere. Preferì imbarcarsi sulla portaerei "Centaur" facendo rotta verso Malta. Ad un atto i triestini non assistettero, atto che tutto sommato era di rilevante importanza. Certamente il più importante di quella giornata: alle 05:20, sotto una pioggia battente, un'aliquota dell'82° Reggimento motorizzato "Torino" attraverso la rotabile dell'altopiano, iniziò a dispiegarsi lungo i valichi confinari con la Repubblica Jugoslava: Precenicco, Fernetti, Pese, Caresana, Rabuiese e Lazzaretto. La gioia per il ritorno di Trieste all'Italia fu solo adombrata dalla notizia di un violento nubifragio, che abbattuto si sul salernitano, provocò oltre duecento morti e migliaia di feriti e senza tetto. Il 4 novembre successivo giunse a Trieste il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, salutato dalle salve delle artiglierie prodiere delle unità della 2A e 8A divisione navale. Prima della solenne parata militare, il Presidente Einaudi decorò di Medaglia d'oro al Valor Militare il gonfalone per l'italianità dimostrata dai suoi cittadini dal 1848 al 1947. Cento anni di italianità! Qui terminerebbe la storia della passione di Trieste se il 197 5 non avesse avuto una strana appendice. Dico strana perchè per la prima volta nella storia della diplomazia mondiale, un paese legittimo rinunciò unilateralmente ad una porzione di territorio a favore di un altro stato. È il caso della "zona B" del mai costituito Territorio Libero di Trieste che il Governo italiano riconobbe come legittimamente sottoposto alla Repubblica Jugoslava. Vediamo come si giunse a questa, per alcuni versi incomprensibile, soluzione del problema istriano giacché il Governo aveva garantito la provvisorietà della 54 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu "zona B". Tutto ebbe inizio allorchè ai valichi di confine tra "zona A" e "zona B" comparvero, sul versante slavo, tabelle metalliche che facevano riferimento alla sovranità della Repubblica Federativa di Jugoslavia sulla striscia di confine. Per il Governo italiano era evidente che la Jugoslavia non considerava i valichi di confine come transiti su una linea di demarcazione negoziabile e comunque provvisoria, ma considerava i valichi come punti di transito su un confine di stato non negoziabile. L'Italia, come era logico, inviò a Belgrado una nota di protesta con richiesta di chiarimenti che Belgrado non concesse, anzi rispedÌ la nota al mittente. Nuova presentazione della nota da parte italiana con la riaffermazione circa la provvisorietà del confine tra "zona A" e "zona B". Belgrado non fece attendere la risposta basata sull'errata convinzione che il "memorandum" di Londra aveva definitivamente chiuso il contenzioso tra Jugoslavia e Italia. La Farnesina confutò le affermazioni di Belgrado e il 21 marzo 1974 il Presidente del Consiglio dei Ministri incaricato, l'On. Mariano Rumor, nel presentarsi per il voto di fiducia alla camera espresse "...stupore e rammarico..." per l'atteggiamento jugoslavo. Belgrado rispose alle dichiarazioni di Rumor sostenendo che se l'Italia avesse rimesso in discussione la sovranità jugoslava sulla "zona B", la Jugoslavia avrebbe rimesso in discussione l'italianità di Trieste e di tutta la "zona A". L'Italia respinse le affermazioni di Belgrado ma Tito, in un forte discorso tenuto a Nova Gorica, affermò che ormai la "zona B" non esisteva più. Esisteva solo la Repubblica Federativa di Jugoslavia. Bisognerà attendere il 10 agosto per udire le prime parole concilianti e sono quelle del Ministro degli Esteri italiano, Aldo Moro, che auspicava il ripristino di buoni rapporti tra Italia e Jugoslavia Rispose all'onorevole Moro il Segretario della Lega dei Comunisti Stane Dolanc che, in un acceso discorso, accusò l'Italia di rincorrere "suggestioni fasciste" parlò di "suggestioni fasciste" anche Tito quattro giorni dopo a Jesenice. E di suggestioni fasciste parlerà ancora, a Pola, il Presidente del Consiglio Federale Dremal Bijedic. Questo è quanto successe solo pochi mesi prima di Osimo. Il 10 ottobre 1975, si venne a conoscenza che accordi tra Italia e Jugoslavia, avevano azzerato il contenzioso tra i due paesi. L'annuncio è contemporaneo: al Parlamento italiano per bocca di Mariano Rumor e all'assemblea jugoslava da Milos Minic. Soltanto 12 giorni dopo la firma di Osimo, gli sloveni organizzano a Trieste una manifestazione dedicata alla storia degli avvenimenti del 1945 ed avanzano nuove richieste. 55 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu Venendo, per un momento, ai giorni nostri, non possiamo non constatare come il Ministro degli Esteri del precedente governo, Antonio Martino, avesse fatto qualche tentativo per riaprire il contenzioso tra Italia e Slovenia anche se solo in termini di riacquisizione di beni abbandonati. L'attuale Ministro Susanna Agnelli, sottoscrivendo la domanda di ingresso nella Comunità Europea avanzata dal Governo di Lubiana, ha completamente azzerato le già scarse probabilità di ridiscussione del Trattato di Osimo. È come se l'lstria fosse stata pugnalata una terza volta! 56 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu 57 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu 58 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu 59 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza VINCENZO RUZZA ERETICI E SCISMATICI, TRA PIAVE E LIVENZA. IN ETÀ MEDIOEVALE E MODERNA INTRODUZIONE L'argomento che intendo proporre alla vostra attenzione questa sera è certamente di notevole interesse, ma nel contempo insolito e difficile da trattare. Non nascondo che, dopo averlo scelto un po' frettolosamente e fatto includere nel calendario dei colloqui mensili programmato dal Circolo Vittoriese di Ricerche storiche, mi sono, in un certo senso, pentito d'averlo fatto. Sia perché la trattazione avrebbe richiesto una preparazione teologica ch'io non possiedo, sia per la difficoltà di reperire notizie certe, per la parte relativa al periodo più antico, e più ampie per il periodo più recente. Inoltre sarebbe stato assai utile poter eseguire nuove indagini negli Archivi di Stato sui numerosi processi celebrati a Venezia e nelle altre città del dominio veneto di terraferma, processi che non ho avuto la possibilità di vedere, soprattutto a causa delle norme restrittive recentemente imposte a chi vuoI accedere agli archivi pubblici. Norme medioevali nella concezione, discriminatorie nella pratica e defatiganti per il ricercatore, che viene in ogni modo dissuaso dall'accedervi. Un ulteriore motivo sta nella problematica di valutare l'effettivo pensiero delle persone implicate nei processi. Cioè di capire se l'adesione alle proposizioni ereticali ad esse imputate sia stata solo formale oppure sostanziale. Conoscere cosa essi effettivamente avessero fatto o pensato è assai difficile da stabilire in quanto - a prescindere dalla veridicità delle loro affermazioni, ovviamente intese ad alleggerire la posizione processuale - ci è dato conoscere solo 60 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza quello ch'essi hanno dichiarato nel corso dell'interrogatorio. Anzi, più precisamente, quello che i cancellieri hanno ritenuto di verbalizzare per motivare la sentenza. Allora, mi direte voi, perchè hai scelto questo argomento? Per due semplici motivi: 1) perchè l'argomento ha un suo fascino, un quid di mistero che desta curiosità ed interesse. 2) per invogliare qualcuno, giovane laureando o studioso ricercatore, ad approfondirlo ulteriormente. Questo secondo motivo trova il suo fondamento nel fatto che altri argomenti da me proposti in passato in modo sommario - lanciati come il classico sasso in piccionaia - sono stati raccolti, sviluppati e portati avanti da altri. Cito due esempi. Le notizie a suo tempo da me fornite in questa sede intorno all'attività dello stampatore Marco Claseri sono state poi accresciute e sviluppate nella tesi di laurea da Maria Rita Sonego. Anche le mie due relazioni sul comportamento del clero cenedese nel periodo risorgimentale hanno avuto un seguito e fornito lo spunto a Ido Da Ros che ne ha tratto il volume "Il clero della diocesi cenedese nel Risorgimento", edito nel 1990. Sarei oltremodo lieto se anche dalla relazione di questa sera altri prenderanno spunto per farne un lavoro di maggior completezza e respiro. Fatta questa digressione, cercherò di trattare l'argomento come meglio mi sarà possibile. Ovviamente nei limiti e con i condizionamenti che ho in precedenza enumerati. PREMESSA Prima d'entrare in argomento ritengo utile fornire alcuni chiarimenti e precisazioni sulla portata dei due termini: eresia e scisma. Sfogliando "Le Dictionnaire de Thèologie Catholique" di A. Vacant et E. Manginot e comparando le definizioni con quelle di altri dizionari, pur nelle diverse sfumature usate, si può concludere che per ERESIA si deve intendere ogni dottrina contraria alla vera fede e cioè che si oppone o diverge in modo immediato, diretto o in contraddittorio alla verità rivelata e proposta come tale dalla Chiesa alla credenza dei fedeli. SCISMA invece vuol significare la separazione voluta dall'unità e dalla comunione ecclesiale. Indubbiamente l'eresia è molto più grave dello scisma perchè presuppone un dissenso dottrinale, mentre nello scisma prevale un dissenso formale o semplicemente disciplinare. Ne consegue che gli eretici vengono esclusi dalla comunione cristiana, mentre 61 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza gli scismatici non vengono espulsi - ma sono essi che si autoescludono. Gli scismatici dichiarati tali fanno ancora parte della chiesa e - qualora vi rientrino - viene loro conservato l'eventuale stato di sacerdote o di vescovo, precedentemente rivestito. Tutto sembrerebbe chiaro e ben definito. Nella pratica invece la discriminazione tra scisma ed eresia non appare sempre così netta e sicura. Nei secoli lontani, e cioè nei primi secoli di vita della Chiesa, spesso è difficile distinguere e classificare perchè sovente gli eretici non sono stati espulsi formalmente dalla chiesa e, al contrario, molti scismatici non hanno minimamente inteso di uscire dall'ambito ecclesiale. Nei primi secoli, mentre i Padri della chiesa si sforzavano di formulare le proposizioni teologiche - frutto di dibattiti a volte anche molto accesi e cavillosi sulle verità poi codificate nei vari Concilii Ecumenici, le discussioni avvenivano in piena buona fede e i sostenitori di proposizioni, successivamente giudicate eterodosse, credettero, quasi sempre, di esser nell' ambito della retta interpretazione delle Sacre Scritture. Il sorgere di tante divergenze teologiche non deve destare in noi meraviglia. Esse si sono verificate in tutti i tempi e in tutte le religioni e quasi sempre derivano dallo scontro tra la speculazione teologica e quella filosofica. E dalla chiave di lettura dei testi. Si tratta di un fenomeno comune a tutte le credenze. E trova nel Cristianesimo il suo fondamento principale nel fatto che, Gesù Cristo, come anche la maggior parte degli altri fondatori di religioni, non ha lasciato nulla di scritto ma ha fatto solamente esposizioni verbali. I suoi dettami sono stati poi trascritti dai discepoli in modo non sempre univoco, donde il sorgere di dubbi e di differenti interpretazioni. Circa il proliferare delle fazioni o sette in altre religioni, vediamo ad esempio cosa successe nell'Islam. Cito l'Islam perchè è un'altra grande religione monoteista. Maometto aveva già preannunciato il sorgere di ben 73 fazioni o sette "di cui - disse - una sola si salverà". La profezia si è puntualmente ed abbondantemente avverata almeno per quanto riguarda il numero1. 1 Altre sette che si differenziano più o meno dalle primitive norme coraniche: Dai Sunniti derivarono i Kharigiti e gli Abaditi (fautori della guerra santa contro gli infedeli). Molte di più sorsero tra gli Sciti e cioè gli Alidi, gli Ismailiti o Settimani, i Safarditi, gli Zaiditi (Yemen), gli Imaniti o Duodecimali (Persia e India). Altre ancora furono i Nosairi, i Càrmati, i Orusi, gli Hasasin (noti come i seguaci del Vecchio della Montagna). I Mutaziliti o Separatisti diedero luogo ai Metuali e ai Giafariti; gli Hanafiti; gli Ibaditi, i Wahabiti (Mandismo), i Sufisti, i Babisti (Persia), i Bahaisti (diffusi anche negli USA), gli Alawiti (Curdi), i 62 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza Infatti oltre ai due principali gruppi religiosi in cui l'Islam si è diviso e cioè i Sunniti e gli Sciti, le sette eretiche sono enormemente proliferate, superando la previsione. Ma torniamo alla nostra religione cristiana. Nei primi secoli i teologi che hanno formulato teorie eterodosse sono stati spesso, per non dire quasi sempre, in buona fede. I loro seguaci diedero vita a sette, alcune delle quali rientrarono poi nell' ortodossia a seguito dei pronunciamenti conciliari. Altre invece non ne accettarono le decisioni uscendo di fatto o facendosi espellere esplicitamente dalla chiesa. Tra le sette più note ricordo gli Ariani, i Donatisti, gli Gnostici, i Manichei, i Monofisiti, i Nestoriani, i Pelagiani e i Semipelagiani2. Tutto questo accadde nel periodo in cui la teologia della religione cristiana si andava formando e i vari concilii cercavano di definire le proposizioni di fede da valere, uniche, per tutti i fedeli. Ciò venne raggiunto solo dopo lunghe discussioni imperniate soprattutto sulla Trinità, sulla immanenza o trascendenza di Dio, sulla Provvidenza, sulla predestinazione e sul libero arbitrio, sulla natura di Cristo, sul potere salvifico della Grazia, sulla sopravvivenza dell' anima oltre la morte, ecc. Nel VI sec. si verificò lo Scisma dei Tre Capitoli che coinvolse dapprima tutta l'Italia settentrionale. Si restrinse poi alla sola Regione "Venetia et Histria", più Milano e Como. Tale scisma durò fino all'anno 700 circa. Più tardi i Pauliciani (VII-X sec.), diffusi si specie in Armenia, ritennero di doversi adeguare all'insegnamento paolino dandogli preminenza su quello dei Vangeli. Inoltre ripudiarono ogni forma di culto esterno. Altro motivo di dispute teologighe fu l'Iconoclastia, che divise il mondo occidentale da quello orientale. Nazaryya (Khogia e Mawala in India e Africa Orientale. che hanno loro capo L'Agha Khan). Alcune di queste sette assorbirono elementi eterogenei mutuandoli da antiche credenze o da precedenti religioni. Così ad esempio i Nosairiti attuarono un vero e proprio sincretismo religioso, assumendo molte feste e riti propri dei cristiani come, ad es., la celebrazione del Natale di Cristo, dell 'Epifania, la benedizione del pane e del vino, ecc. Ancor oggi in Egitto i musulmani osservano alcune festività cristiane mediate dai riti religiosi dei Copti. Altre sette ch'ebbero un certo seguito: Adozionisti, Basilidi, Chielasti, Carpocraziani, Circoncellioni, Corinti, Diteisti, Doceti, Eutichesi, Eoni, Mandeisti, Marcioniti, Meleziani (363-415), Modalisti, Montanisti, Novaziani (254), Offisti, Privatisti, Priscilliani, Sabelliani, Teodotisti, Valentiniani 2 63 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza In seguito si verificò lo scisma greco che, iniziato da Fozio nel IX sec., si prolungò con Michele Cerulario e con Andronico Paleologo fino al XIII sec. Basato sostanzialmente su motivi di preminenza tra la chiesa romana e quella grecobizantina, imperniò il dissenso teologico sul termine "filioque" inserito nel "Credo". In parole povere, per gli uni lo Spirito Santo procede solo dal Padre, per gli altri dal Padre e dal Figlio. Nel con tempo in occidente sorsero diversi movimenti scismatici. I Bogomili o Babuni, capeggiati da Pre’ Geremia, si diffusero tra le popolazioni slave abitanti nei balcani tra il X e il XII sec. Da essi derivarono poi i Càtari, i nuovi Manichei, i Patarini, gli Albigesi. Questi ultimi, derivati dai Manichei Bulgari, si diffusero specie ad Albi in Provenza (donde il nome). Sorsero inoltre i fraticelli spirituali, gli Umiliati, i Valdesi (1180) detti anche i Poveri di Lione, ecc.3 Si arriva così allo scisma d'Occidente (1378-1417) che portò la scissione in seno alla chiesa cattolica con la creazione simultanea di due ed anche di tre Papi. O, più esattamente, alla simultanea creazione di un Papa e di uno o due Antipapi. Nel sec. XVI si diffusero il Luteranesimo e il Calvinismo, alimentati da moti separatisti precedenti. Essi, a loro volta, ne fecero sorgere di nuovi. Ricordo gli Hussiti o Utraquisti di Boemia, capeggiati da Giovanni Huss e Giovanni Wycliff; gli Anabattisti, i Mennoniti, i Sociniani nonchè l'Anglicanesimo (Enrico VIII, 1530). Nel '700 infine si verificarono il movimento dei Giansenisti di Utrecht (1723) e lo scisma Greco-Russo, promosso e sostenuto, per motivi nazionalistici - da Pietro il Grande. Non tutti questi movimenti ereticali e scismatici ebbero degli adepti nella zona tra Piave e Livenza. Anzi solo ben pochi. O perlomeno sono pochi quelli di cui ci è pervenuta memoria o documentazione. Le notizie che ho potuto raccogliere e sulle quali mi soffermerò questa sera si riferiscono solo: - alle eresie di Pelagio e di Ario, - allo scisma cosiddetto dei Tre Capitoli, - alla Riforma protestante che vide alcune infiltrazioni nei nostri paesi di Altri eretici assai noti furono Amaldo da Brescia († 1154) e Gioachino da Fiore (Cosenza 11301201). Più tardi fra Girolamo Savonarola (Ferrara 1452-Firenze 1498) venne accusato di eresia. Ma in realtà è da considerarsi, più che altro, uno scismatico. I suoi seguaci furono detti i "Piagnoni". 3 64 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza Luteranesimo, di Calvinismo, ma anche delle dottrine sostenute dagli Anabattisti e dai Sociniani. - Infine ricorderò alcune adesioni alle teorie giansenistiche verificate si fra noi nella seconda metà del XVIII sec. Può darsi che qualche altra eresia tra quelle sorte nei primi quattro secoli abbia avuto qualche seguace tra i fedeli già esistenti nell'alto cenedese. Ma se vi furono, non ne è rimasta traccia, ad eccezione dell' eresia Pelagiana e di quella Ariana. Quest'ultima, poi, non fu patrimonio della popolazione autoctona ma venne importata dai Goti e dai Longobardi e sopravvisse durante il periodo della loro dominazione in Italia. PELAGIANESIMO - Pelagio fu un monaco e teologo britannico, vissuto tra il 360 e il 420 dell'E.V. Non era sacerdote ma persona di puri ed austeri costumi, di notevole ingegno ma di scarsa cultura. Recatosi a Roma, espresse il suo dissenso circa l'interpretazione dei sacri testi e trovò autorevoli e numerosi seguaci tra cui anche alcuni vescovi. In sostanza negava il peccato originale e propugnava un naturalismo ed un razionalismo cristiano, radicale e coerente nel negare il soprannaturale. Per lui la salvezza è conseguibile indipendentemente dai meriti e dalle virtù redentrici di Cristo. Il peccato di Adamo è solo un esempio di come l'uomo si sia allontanato da Dio, ma non pregiudicò la possibilità di salvarsi per i suoi successori. L'invasione dei Goti, guidati da Alarico, lo indusse a trasferirsi a Cartagine (410-411), ove lasciò il suo maggior discepolo Celestio, il quale sostenne una vivace polemica teologica con S.Agostino. Pelagio invece si trasferÌ in Palestina da dove le sue teorie si diffusero nel mondo orientale ed ellenistico. Il Sinodo di Diospoli nel 415 non ritenne di condannarlo mentre il Concilio di Cartagine (417) lo dichiarò eretico. Il Papa Zosimo, ne1418, scomunicò Pelagio e Celestio. Tuttavia molti vescovi suffraganei della Chiesa Aquileiese presero posizione a favore di Pelagio (418). Combattuto specialmente da S.Girolamo, il pelagianesimo vide scemare le sue fortune dopo le condanne pronunciate dal Concilio di Antiochia (424) e da quello di Efeso (431). Orbene, tra i sostenitori di Pelagio viene ricordato il diacono ANIANO Buon conoscitore delle lingue greca e latina, scrittore elegante e forbito per i suoi tempi, Aniano continuò anche dopo le condanne sinodali a sostenere le idee eretiche pelagiane in opposizione a S. Girolamo e a S. Agostino. Egli fece la versione dal greco al latino di diverse omelie di S. Girolamo e gli vengono attribuite anche varie traduzioni dagli scritti di S. Crisostomo, alcune delle quali furono recepite nell' antico breviario romano. 65 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza Per contro S.Girolamo dichiarò di non degnarsi nemmeno di confutare lo pseudo-diacono della chiesa "Celedese". Ossia di Ceneda (come interpretò il Baronio, seguito dal Mondini e dal Lotti) mentre A. Vacant e E. Mangenot, nel citato "Dictionnaire de Thèologie Catholique" opinarono trattarsi non di Ceneda bensì di Celenna, cittadina campana esistente in epoca imperiale, che si ritiene sorgesse nella valle del Volturno, non molto lontano da Capua4. L'incertezza permane e difficilmente potrà venir risolta. Coloro che non accettano la lezione "Celedese=cenedese" lo fanno in base al presupposto - invero molto discutibile - che non possa farsi risalire l'esistenza di una chiesa vescovile a Ceneda ai primi decenni del V sec.5 Ma nel V sec. Celenna quasi certamente non esisteva più. Inoltre nemmeno Celenna risulta esser mai stata sede episcopale. Non la cita tra le antiche sedi vescovi li italiane nemmeno mons. Louis Marie Duchesne, insigne storico dell'organizzazione della Chiesa nei primi secoli dell'era volgare. Milita inoltre a favore di Ceneda il fatto che molti vescovi suffraganei della chiesa Aquileiese, che fu sempre in stretto contatto con il mondo greco-orientale, avevano in quel tempo (418) accettato le idee di Pelagio. ARIANESIMO - Ario, prete di Alessandria d'Egitto, nacque verso l'anno 280. Le sue speculazioni lo portarono ad affermare che Dio creò il Verbo dal nulla, prima del tempo. Pertanto il Figlio non è propriamente Dio, benché la sua natura sia molto superiore a quella umana. Ne consegue che non c'è identità di sostanza tra il Padre e il Figlio. Sostenne tali teorie al Concilio di Nicea, avvenuto nel 325, ma le sue proposizione vennero condannate quali eretiche. Tuttavia esse guadagnarono terreno specie nelle diocesi orientali e, sotto l'imperatore Costanzo, si diffusero anche in occidente. Ario, dapprima esiliato, riebbe in seguito il favore dell'imperatore Costantino. Morì nell'anno 338. VACANT A. e MANGENOT E. "Dictionnaire de Thèologie Catholique" Paris, 1909. MORICCA U. "Storia della letteratura latina" TO, 1932. Luis Marie DUCHESNE, Histoire ancienne de l'Eglise (traduzione di G.Barni in "I Longobardi in Italia" NO, De Agostini, 1975). 4 A Julia Concordia la presenza di nuclei di cristiani è documentata già alla fine del II sec. mentre la locale Cattedrale risulta costruita tra il 381 e il 386. Sembra poco probabile che due secoli dopo non vi fossero ancora nuclei di fedeli nella zona pedemontana tra Piave e Livenza e che nel V sec. non vi esistesse già un'organizzazione ecclesiale ben definita. Nel V sec. anche Belluno risulta già sede episcopale. È difficile concepire che l'evangelizzazione sia da Aquileia arrivata a Belluno senza passare nè lasciar segno a Ceneda! 5 66 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza Dopo la sua morte l'arianesimo continuò a dilagare in Oriente fino all' avvento dell'imperatore Teodosio che impose ovunque l'ortodossia. In occidente praticamente scomparve mentre si affermò nuovamente tra i Goti che a loro volta lo diffusero tra le popolazioni barbariche installate ai confini dell'impero. Allorché i Goti invasero l'Italia, l'appartenenza all'arianesimo acquisì una connotazione politica e razziale, differenziando le popolazioni romane da quelle barbariche. Ariani furono poi i Longobardi che si convertirono al cattolicesimo solo nella seconda metà del VII sec. L'arianesimo fu quindi nei nostri paesi fenomeno d'importazione. Ludovico Antonio Muratori, nei suoi Annali d'Italia, afferma che durante il primo secolo di dominazione longobarda in ogni città vi furono contemporaneamente due vescovi, uno ariano ed uno cattolico. Il primo nelle Fare, il secondo nelle Pievi. In questo periodo i Longobardi perseguitarono il clero cattolico, in seguito poi, a periodi alterni, esso fu più o meno tollerato. Infine i Longobardi si convertirono anch'essi al cattolicesimo negli ultimi decenni del VII secolo. A Ceneda, capoluogo di Ducato, vi fu quindi quasi certamente un vescovo ariano. Ma personalmente ritengo che vi fosse già, almeno nel VI sec. anche un vescovo cattolico6. Ancora sulla dibattuta questione degli inizi della nostra diocesi. Nei primi anni dell'VIII sec, a Ceneda c'era il vescovo Valentiniano. Nel Placito di Liutprando - qualora lo si riconosca veritiero almeno nella sostanza - emerge chiaramente ch'egli aveva esercitato le funzioni episcopali precedentemente alla sua ordinazione canonica. Infatti gli viene rinfacciato dal Patriarca Callisto che il vescovo di Oderzo era ancor vivo "quando tu presalutus honorem sumpsisti". Cioè quando tu sei entrato in carica "non ancora salutato dal popolo" (il che avveniva di regola subito dopo l'elezione e prima della consacrazione). Il vescovo Valentiniano doveva quindi esser da poco rientrato nell'ortodossia. Ed è per tale motivo che il Patriarca dice ch'egli "nostram presentiam adiit, humiliter nos obsecrans, ut ei confirmare... dignaremur". Valentiniano voleva quindi ottenere la consacrazione canonica. Oltre, beninteso, ottenere la reintegrazione nel possesso del territorio già facente parte della diocesi opitergina. Poco prima, sempre il testo del Placito reca anche la frase: "verum etiam a sacerdotali ordine merito est deponendum", avrebbe cioè meritato di venir deposto per aver egli esercitato le funzioni episcopali prima di esser canonicamente riconosciuto dal Patriarca. Valentiniano, poi, si fece una nuova tomba in Cattedrale, come viene riferito dal Lotti, e ciò perchè, dopo esser rientrato nell'ortodossia, non voleva venir sepolto nella tomba dei precedenti vescovi, ariani o scismatici che fossero stati, e venir confuso con essi. 6 67 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza Non è pensabile infatti che la chiesa locale sia rimasta acefala per due secoli, senza collegamento con la sede di Oderzo, rimasta invece sotto il dominio dei Bizantini, quasi sempre in lotta con i Longobardi, tanto che per ben due volte questi la distrussero. A suffragare questa mia affermazione ricordo il caso di Padova. Presa e distrutta la città ad opera di Agilulfo, il suo vescovo preferì abbandonare la sede e trasferirsi esule nelle lagune. Ebbene, subito la diocesi di Padova passò alle dipendenze del vescovo di Treviso, non essendo concepibile per i Longobardi che un episcopato potesse venir amministrato da un vescovo divenuto suddito di Bisanzio e quindi da considerare un nemico. SCISMA DEI TRE CAPITOLI Causa dello scisma furono gli scritti di Teodoro, vescovo di Mopsuestia, e quelli di Teodoreto di Ciro. Inoltre una lettera del vescovo di Hibla di Edessa. Il Concilio di Calcedonia, svoltosi nel 451, li riconobbe come ortodossi sebbene, in realtà, mostrassero affinità con l'eresia nestoriana, condannata invece dal predetto Concilio. I tre scritti (detti anche "I tre capitoli") in sostanza sostenevano che in Cristo v' erano due nature e due persone. Ciò in contrasto con la dottrina già codificata, che insegna esservi in Cristo sì due nature (la divina e l'umana) ma una sola persona. L'imperatore Giustiniano nell'anno 544 condannò gli scritti anzidetti come eretici. Mal sopportando la sua intromissione negli affari ecclesiastici, la chiesa occidentale in un primo tempo non volle riconoscere la condanna fatta unilateralmente su iniziativa dell'imperatore. Dopo reiterate pressioni Papa Vigilio nel 548 acconsentì ad accettare la tesi imperiale. La condanna venne poi confermata dal V Concilio Ecumenico tenuto a Costantinopoli nel 553, su convocazione imperiale. La maggior parte dei vescovi dell'occidente accettarono le decisioni papali e rientrarono nell'ortodossia. Invece il Patriarca di Aquileia, e con lui tutti i suoi vescovi suffraganei, rimasero fermi nel riconoscere valide le decisioni del Concilio di Calcedonia e non quelle adottate nel V Concilio di Costantinopoli. Ad alimentare lo scisma concorsero certamente i Longobardi che nella divisione della chiesa italiana vedevano diminuito il potere del Papato, loro antagonista e non certo benevolo nei loro confronti. Lo scisma durò fin verso gli ultimi anni del 700. Il clima di tensione verificato si nel Veneto a seguito dello scisma è dimostrato dalle disavventure occorse a Marciano, vescovo di Oderzo. Eletto nel 549 alla sede opitergina, in sintonia col Patriarca di Aquileia 68 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza anch'egli aderì allo scisma dei Tre Capitoli, mentre il popolo di Oderzo, allora suddito di Bisanzio, aderì senza riserve alle risoluzioni imperiali. Non avendo egli accettato nemmeno le decisioni del Sinodo Costantinopolitano (553), fu costretto dal popolo a lasciare Oderzo e a trovare temporaneo rifugio presso il Patriarca, ad Aquileia. Marciano fu presente al Sinodo di Grado (579) nei cui atti si sottoscrisse quale vescovo di Oderzo. Morì esule a Grado nel 593 e venne sepolto nella Basilica di Santa Eufemia, nella quale fu ritrovata, non molti decenni fa, la sua tomba. Se il Cenedese avesse fatto parte della diocesi di Oderzo il vescovo Marciano non avrebbe avuto necessità di rifugiarsi presso il Patriarca in quanto avrebbe avuto fedele a lui oltre metà della diocesi e la possibilità di trasferire la sede episcopale a Ceneda, allora posseduta dai Franchi e poi, nel 569, divenuta dominio dei Longobardi. Ciò gli sarebbe stato possibile qualora Ceneda avesse fatto parte della diocesi di Oderzo. Mentre non fu possibile perchè a Ceneda c'era evidentemente un altro vescovo. Questo è un ulteriore motivo che mi fa personalmente ritenere che a Ceneda esistesse già un episcopato, sorto fin da quando i Franchi avevano invaso l'Alto Veneto, durante la guerra gotica, separando nettamente il territorio cenedese da quello opitergino. I Longobardi si convertirono a poco a poco al cattolicesimo ma nella Venetia et Histria continuò lo scisma dei Tre Capitoli fino agli ultimi anni del VII secolo. Dopo un salto di ben sette secoli senza notizie, incontriamo tracce della Riforma Protestante e quindi di Luteranesimo e di Calvinismo, ma anche degli Anabattisti, degli Antitrinitaristi e dei Sociniani. LA RIFORMA Con tale termine s'intende un insieme di moti di rivolta contro la chiesa romana avvenuti attorno al XVI secolo. Motivi principali: la corruzione del clero romano; la vendita delle indulgenze e l'abuso delle reliquie dei santi; il cumulo dei benefici ecclesiastici in una sola persona; la pretesa della chiesa romana di esser l'unica in grado di dettare l'esatta interpretazione dei testi sacri; l'organizzazione verticistica ed assolutistica della Chiesa di Roma. Non ultimo movente l'astio del mondo germanico nei confronti di quello latino. La riforma promossa da Lutero sostenne sostanzialmente che: la Giustificazione è dono gratuito che l'uomo non può conseguire con le sole opere buone ma viene esclusivamente dai meriti del Cristo e quindi dalla Fede in Lui. Viene contestata la preminenza e quindi l'infallibilità del Papa. 69 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza È ammessa la critica di tutte le decisioni conciliari, dei dogmi e dei dettami codificati nei secoli dalla chiesa. Viene ribadita la necessità di riformare la chiesa romana secondo le Scritture, per salvarla dalla corruzione vigente. È contestato il valore della Messa quale sacrificio espiatorio e la Comunione dei Santi. Riconosciuto il valore solo di alcuni sacramenti. Assioma di fede: L'uomo è peccatore ma è reso giusto dai meriti di Cristo, purché abbia fiducia e fede in lui. Queste, grosso modo, le divergenze dottrinali principali nei confronti del cattolicesimo, divergenze che andarono ampliandosi nel tempo. Infatti in un primo periodo la frattura con la chiesa romana non apparve insanabile essendo sostanzialmente più scismatica che eretica. Varie persone in questa prima fase tentarono di trovare una possibile mediazione. Invece la frattura andò vieppiù allargandosi a causa di reciproche incomprensioni. Nel 1530 il teologo Filippo Melantone7, alla Conferenza di Augusta, cercò di smussare le divergenze redigendo la "Confessione Augustana", quale base di discussione per un possibile accordo. Ma il testo redatto non venne accettato né da Roma né da Lutero anche perchè lasciava insolute troppe questioni fondamentali quali, ad es., l'esistenza del Purgatorio, il valore delle indulgenze, il significato della Messa, il problema della Transustanziazione, l'organizzazione del sacerdozio. Tuttavia la Confessione Augustana finì con il consolidare ancor più il movimento protestante e segnò la pratica fine del Sacro Romano Impero. Calvino poi non accettò il libero arbitrio e sostenne l'assoluta predestinazione degli eletti; negò che i sacramenti conferiscano la Grazia; l'Eucarestia ha solo un valore simbolico. Mise al bando le immagini sacre e le cerimonie liturgiche sostituendole con la Parola, cioè con la predicazione. Ulteriori variazioni teologiche vennero apportate dagli Anabattisti e dalle altre sette protestanti sorte a fianco delle principali. IL LUTERANESIMO Martin Lutero, nato nel 1488, si fece frate agostiniano. Dopo un viaggio fatto a Roma, decise di insorgere contro il lusso paganeggiante Filippo Melantone (Philipp Melancthon - 1497-1560) fu docente alle università di Tubinga e Wittemberg, ove conobbe e seguì Lutero nei cui confronti agì quale elemento moderatore al fine di evitare la scissione con la Chiesa Cattolica. Fu scrittore, grammatico e teologo illustre. 7 70 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza e la corruzione che dominavano nella corte romana. Si dedicò allo studio ed alla interpretazione dei testi sacri. Il 31 ottobre del 1517 affisse alle porte della Cattedrale di Wittemberg 95 tesi solo in parte dissenzienti dall'ortodossia ufficiale. Scomunicato da Leone X, bruciò in piazza la bolla pontificia dando origine allo scisma. Trovò subito sostegno nei principi-elettori tedeschi che lo difesero contro l'imperatore Carlo V. Lo scisma scivolò nell'eresia e assunse poi valenza anche politica. Lutero fu a lungo ospite dell 'Elettore di Sassonia nel castello di Wartburg ove morì nel 1546. Egli elaborò nel tempo varie proposizioni teologiche sempre più dissenzienti. Molte sono state in precedenza già enunziate. Alcune ulteriori variazioni furono sostenute da Ulrich Zwingli, più radicali di quelle luterane, variazioni ch'ebbero largo seguito specie in Svizzera. IL CALVINISMO La chiesa protestante calvinista venne fondata da Giovanni Calvino, nato a Noyon nel 1509, figlio di un notaio apostolico. A soli 12 anni godeva già di un beneficio ecclesiastico. Ma ben presto rinunciò alla carriera ecclesiastica e si dedicò allo studio del diritto e della teologia. Nel 1532, a Parigi, cominciò a manifestare la sua simpatia per la Riforma. Fu perciò perseguitato ed indotto ad emigrare in varie città. Nel 1535, trovandosi a Basilea, pubblicò le "Istituzioni della Religione Cristiana", base di una sua riforma della Riforma. Nei suoi viaggi non mancò di venire in Italia, e fu ospite a Ferrara di Renata di Francia, sposa di Ercole II d'Este, e gran sostenitrice del movimento protestante in Italia. A Ginevra venne nominato professore di teologia ed acquistò in breve un notevole potere, anche e soprattutto politico, cosicché divenne capo assoluto del governo della città ch'egli cercò, anche coattivamente, di trasformare in una repubblica teocratica. Persona di austeri costumi, fu intollerante verso i dissidenti. Quantunque ponesse a fondamento del suo credo il libero esame e la libertà di coscienza, tuttavia perseguitò chi non si piegava alle sue vedute, come accadde agli antitrinitaristi Alberico Gentile e Michele Serveto8 che egli fece condannare Michele Serveto (Miguel Servet y Reves) nacque in Aragona nel 1511. Fu scienziato e teologo, noto anche con il nome di Michele di Vilanova. Studiò teologia e diritto a Saragozza, Barcellona e Toledo e acquisì notorietà con la traduzione della Geografia di Tolomeo, il commento della Bibbia e 8 71 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza quali eretici e morire sul rogo. Cercò poi di giustificare il suo operato nell'opera "Defensio Dei". Morì a Ginevra nel 1564. La sua dottrina s'impernia nel riconoscimento che la Bibbia è l'unica fonte di fede; unico Sacramento riconosciuto è il Battesimo quale mezzo per cancellare il peccato originale; l'Eucarestia è ammessa solo quale commemorazione; negazione del libero arbitrio perchè la predestinazione è assoluta; nessuna opera e nessun merito acquisito possono sostituire la Grazia, che è un dono; il potere civile è sottoposto a quello ecclesiastico, ecc. ANABATTISTI - Sono così chiamati gli aderenti ad un movimento sorto parallelamente alla Riforma ma da questa indipendente e separato principalmente perchè privo di matrice politica. Originò a Zurigo ove Corrado Grebel, Felice Manz e Giorgio Blaurack, separati si da Zwingli, predicarono la necessità di un secondo battesimo in età adulta. In precedenza lo avevano già fatto, tra il 1523 e il 1525, Carlstadt e Thomas Müntzer (1490-1525), il capo dei profeti di Zwickau, che aveva dato vita ai cosiddetti "Fratelli Cristiani". Il loro orientamento di fede si può, grosso modo, così riassumere: il fondamento è lo studio della Bibbia; l'ideale è il cristianesimo apostolico e l'amore del prossimo sulla guida del "Sermone della Montagna". Gli adepti sono tenuti alla rigida osservanza della legge. Viene così attuato un cristianesimo laico-radicale. A differenza di Lutero ritennero che l'uomo potesse, per mezzo delle buone opere, ottenere lo Spirito Santo e quindi la salvezza. Di idee estremamente giudaizzanti, furono spesso in sintonia con gli Unitaristi o Antitrinitaristi, condividendone l'impostazione teologica rigidamente monoteista. In breve il movimento si orientò verso la protesta sociale violenta. Il Müntzer capeggiò la grande rivolta contadina che, dopo un primo periodo di esitazione, venne aspramente combattuta da Lutero e dai principi tedeschi. Gli Anabattisti furono dapprima sconfitti a Mülhausen: il Müntzer, catturato, venne decapitato. Ma la rivolta continuò e finì ufficialmente nel 1535 con la caduta di Müntzer in Vestfalia, ove si era asserragliato il dittatore apocalittico Giovanni de Leyde l'edizione spagnola delle opere di S.Tommaso. Le sue opere teologiche "De Trinitatis erroribus" e "Cristianismi restitutio" gli procurarono persecuzioni. Perciò riparò a Ginevra da lui ritenuta oasi del libero pensiero. Ma Calvino lo fece morire sul rogo come eretico e negatore della SS.Trinità. 72 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza (1510-36) a capo di una turba fanatica di seguaci, dei quali venne fatta strage9. L'anabattismo ebbe qualche rigurgito nei Paesi Bassi e diede origine alla setta dei Mennoniti (Menno Simons 1492-1559), setta convertitasi invece al pacifismo. Perseguitati, si diffusero in vari paesi d'Europa e, successivamente, in America. SOCINIANI - Sono così chiamati i seguaci di una serie di teorie eretiche che Lelio e Fausto Socini riuscirono a coagulare in una particolare chiesa, detta dei Fratelli Polacchi. Nonostante le persecuzioni, essi si diffusero in Inghilterra, nelle Fiandre, in Transilvania ed anche in Italia, particolarmente nel Veneto. Secondo i fratelli Socini, ha valore solo il Nuovo Testamento liberamente interpretato dalla ragione umana; quindi rifiuto delle scritture dei Santi Padri, delle decisioni conciliari e rigetto dell' autorità del Papa. Dio è una sola persona; Gesù Cristo è un uomo mandato da Dio a predicare il vero e il bene, che offrì sé come esempio. Ne consegue il rigetto del Sacramento dell'Eucarestia. Sostenitori principali del movimento furono Giovanni Giorgio Biandrate di Saluzzo (che fu medico alla corte del re di Polonia), Bernardino Ochino e Matteo Gribaldi. Un ulteriore gruppo di dissidenti presenti nella nostra zona fu quello degli UNITARISTI o ANTITRINITARISTI. Esso negava la Trinità di Dio, cioè l'esistenza di un Dio formato da tre persone uguali e distinte. Riconduceva quindi il cristianesimo al monoteismo più assoluto. Tale teoria venne sostenuta da diverse persone aderenti ai vari movimenti della Riforma ed ebbe il suo principale teorico in Michele Serveto e sostenitori in Giovanni Giorgio Biandrate, Alberico Gentile, Lelio e Fausto Socini. Fu più che altro un movimento trasversale, teologico, speculativo e non formò quindi una vera e propria chiesa distinta. Gli Unitaristi finirono con l'associarsi in parte con gli Anabattisti (Sinodo di Venezia, 1550) o col creare una diversa chiesa il che fecero, come abbiamo già visto, i fratelli Socini. Altri infine vennero assorbiti da paralleli movimenti ereticali più consistenti ed affermati. Ciò premesso vediamo quale impatto la Riforma, intesa in senso lato, abbia avuto nella nostra zona. Le notizie sono purtroppo scarse e frammentarie e non consentono una ricostruzione molto dettagliata. Giovanni di Leyda a capo di una turba di fanatici s'impadronì della città di Münster ove si fece proclamare Re della Nuova Gerusalemme, soppresse con la violenza ogni forma di opposizione ed organizzò la città su basi comuniste. 9 73 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza Dalla confessione fatta davanti all'Inquisizione di Venezia da parte del prete marchigiano Pietro Manelfi risulta che ad introdurre l'eresia anabattista ed antitrinitarista nel Veneto, e in particolare in Serravalle, sarebbe stato un certo Tiziano che vien detto di Conegliano. Però in alcuni verbali questo Tiziano è detto di Ceneda. In altri, di Serravalle. Alcuni studiosi hanno ritenuto di poterlo identificare con Cesare Flaminio, nipote e discepolo di Giannantonio, ma con scarso fondamento e senza alcun valido riscontro. Personalmente ritengo invece che questo Tiziano altri non sia che TIZIANO SARCINELLI, figlio di Antonio. Infatti in quel torno di tempo i Sarcinelli possedevano ed abitavano in palazzi di loro proprietà sia a Ceneda, sia a Serravalle, sia a Conegliano. Ciò giustifica la diversa indicazione di origine sopra riportata. È inoltre da notare, come vedremo più dettagliatamente in seguito, che i giovani serravallesi, che avevano dato vita ad un cenacolo eterodosso, appartenevano quasi tutti alle migliori famiglie della zona, le quali potevano permettersi di inviare i loro figli alla Scuola pubblica di Serravalle, non certo gratuita se, come abbiamo già visto, Giannantonio aveva la facoltà di percepire le rette da essi pagate. Perchè poi il cenacolo sia sorto proprio a Serravalle lo si spiega facilmente. La città era fiorente, sita su una grande direttrice di traffico, sulla via che da Venezia portava direttamente in Alemagna. A Serravalle alcuni mercanti tedeschi abitavano forse stabilmente ed avevano fondachi e depositi per le loro mercanzie. A questo Tiziano viene inoltre addebitato il fatto di aver convertito all'anabattismo e ribattezzato un eretico assai noto e cioè Bruno Busale10 di Napoli, in quegli anni studente all'Università di Padova. Inoltre è noto ch'egli prese parte attiva all'opera di riavvicinamento tra gli Anabattisti e gli Unitaristi favorendo il loro incontro al Sinodo che si tenne segretamente a Venezia nell'autunno del 1550, sinodo che si concluse con un accordo di compromesso. Se la mia individuazione verrà confermata da ulteriori indagini, questo Tizian o Tiziano Sarcinelli, in gioventù, seguendo i fratelli maggiori Gian Maria e Bruno Busale, nato a Napoli da genitori Hispano-marrani, verso il 1540 aderì alle idee di Juan de Valdes e poi a quelle antitrinitarie. Nel 1550 frequentò l'Università di Padova ove conobbe Tiziano e fu da questi ribattezzato tra gli Anabattisti. Nel dicembre 1551, dopo le rivelazioni di Pietro Manelfi. venne arrestato ma nel febbraio successivo fece ampia ritrattazione davanti all'Inquisizione per cui venne condannato solo a pena detentiva. Scarcerato, fece ritorno a Napoli ove, nel 1569, figura svolgere alcuni incarichi per conto del Vicerè di Napoli. 10 74 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza Martino, si arruolò e combattè nell' esercito veneziano contro le armate imperiali. Suo padre Antonio nel 1512 provocò a Cene da uno scontro armato nel quale rimasero uccisi Antonio, Francesco e Giovanni, figli di Giacomo Cometi, famiglia rivale dei Sarcinelli. Per tale misfatto il Consiglio dei X condannò Antonio e i suoi figli all' esilio nell'isola di Cherso. Ma la condanna fu ben presto revocata verso l'esborso di 4000 ducati e l'impegno di mantenere 25 uomini d'armi al servizio della Repubblica. Nel 1518 Antonio, per sottrarsi al pericolo di vendette, ritenne opportuno lasciare Cene da e, dopo una breve permanenza in Serravalle, andò ad abitare a Conegliano, ove la famiglia si era fatta erigere un grande palazzo. Le storie locali riferiscono notizie sull'ulteriore attività di Gian Maria e Martino mentre tacciono sulle vicissitudini occorse a Tiziano e al fratello minore Giacomino. Ma vediamo più dettagliatamente le notizie sulle altre persone implicate, più o meno direttamente, in questi movimenti. È stato fatto cenno alla scuola pubblica diretta in Serravalle da GIANNANTONIO ZABARRINI, noto come Giannantonio FLAMINIO, chiamato nel 1486 a Serravalle per esercitarvi la funzione di pubblico insegnante di grammatica con contratto quadriennale e lo stipendio di 100 zecchini, oltre le rette pagate dagli scolari. Il suo insegnamento ottenne grande successo e non solo i giovani di Serravalle vi accorsero in buon numero ma anche molti altri vi affluirono dalle città vicine. Scaduto il contratto, nel 1491 passò ad insegnare a Montagnana. Ma a Serravalle continuò ad abitare saltuariamente e a Serravalle gli nacque nel 1498 il figlio Marc'Antonio, nella casa di via Tiera. Tornò ad insegnare a Serravalle nel 1502 e, dopo 4 anni, il Maggior Consiglio gli concesse la cittadinanza, ascrivendolo al Collegio dei Notai. Nel 1509, per timore delle invasioni dei turchi, si trasferì ad Imola ma nel 1517 ritornò definitivamente a Serravalle ove riottenne l'insegnamento pubblico per un quadriennio. Fece anche parte del Maggior Consiglio della città. Tra i suoi discepoli ebbe anche i nipoti Cesare e Sebastiano che vennero da Imola ad abitare con lui e che, a Serravalle assunsero anch' essi il cognome dello zio, ormai noto come "Flaminio". Benchè la sua scuola risulti esser stata frequentata da diversi giovani eretici, egli personalmente non risulta esser mai stato implicato e nemmeno sospettato di eresia11. Altre notizie sull'attività di Giannantonio Zabarrini detto il Flaminio. Nato a Codignola nel 1464, si trasferì con il padre Gio. Antonio da Imola quando aveva 12 anni e vi compì gli studi umanistici. 11 75 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza Suo figlio MARCANTONIO, fino all'età di 16 anni ebbe il padre come maestro e fu giudicato da tutti un ragazzo prodigio. Nel 1514 Giannantonio mandò il figlio a Roma, raccomandandolo al conte Raffaele Lippo Brandolini perchè lo presentasse alla corte romana. Leone X lo ebbe assai caro per il suo ingegno vivace e precocissimo e lo introdusse nella famiglia degli umanisti del suo tempo. Ebbe così modo di venir a contatto con Jacopo Sadoleto, Jacopo Sannazzaro, Baldassar Castiglione e il padre benedettino Gregorio Cortese. Nel 1515 furono stampati a Fano i suoi primi carmi latini unitamente a quelli del poeta Michele Marullo, ottenendo subito fama e notorietà. Desiderato e vezzeggiato da principi, porporati e letterati, girò le corti d'Italia da Bologna a Genova, da Padova a Verona, da Firenze a Viterbo, da Milano ad Urbino, da Mantova a Venezia. Fu al servizio del protonotario papale Stefano Sauli e per 15 anni svolse le funzioni di segretario di Giovanni Matteo Giberti, vescovo di Verona, ove fece parte attiva dell'Accademia Gibertina12. Fu Segretario anche del cardinale Alessandro Farnese. Dal 1538 al 1542 risiedette a Napoli ove conobbe e subì un certo influsso dall' eretico Giovanni Valdès13. In quegli anni, anche molti cattolici si dilettavano nel discutere argomenti religiosi, della Grazia, del Libero arbitrio e della Salvezza. Alla corte viterbese del card. Reginald Pole14, Marc'Antonio divenne amico di Fabrizio Brancuti ed animò un circolo d'ispirazione religiosa del quale fecero Nel 1490 Giannantonio, che intanto aveva cambiato il suo cognome in quello di Flaminio, sposò Veturia Cenedese, abitante in Serravalle, nipote del Pievano di S. Maria Nova. Scrisse una "Vita di S. Domenico" e un poemetto in lode delle vittorie conseguite da Bartolomeo d'Alviano. MorÌ nell'anno 1536. Localmente è molto nota la sua lettera del13 novembre 1521, diretta al Vice Legato di Bologna Bernardo de Rubeis, lettera nella quale descrive la grande alluvione che in quell'anno devastò l'abitato di Serravalle. Giovanni Matteo Giberti nacque a Palermo nel 1495. Eletto vescovo di Verona dimostrò la sua erudizione classica e si circondò di dotti e di persone colte dando vita all’Accademia Gibertina. Fondò la tipografia di Stefano Nicolini e quella dei fratelli Di Sabio e diede alle stampe le edizioni "princeps" dei "Commentari di S.Giovanni Grisostomo sulle Epistole dell'Apostolo S.Paolo". Morì nel 1543. 12 Giovanni Valdès fu un teologo spagnolo tra i cosidetti "illuminati" (alombrados). Le sue idee riformiste non trovarono però alcun seguito in Spagna per cui decise di trasferirsi in Italia. Durante il suo soggiorno a Napoli venne sicuramente a contatto con M.A. Flaminio sul quale esercitò una forte influenza. 13 Reginald Pole (1500-1558), prelato inglese, fece gli studi in Italia, e divenne un insigne umanista. Eletto Cardinale, divenne amico di Erasmo da Rotterdam e dimostrò la sua propensione ad una intesa con i Protestanti. Disapprovò invece il divorzio di Enrico VIII da Caterina d' Aragona. 14 76 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza parte Alvise Priuli, Pietro Carnesecchi, Vittore Soranzo e Apollonio Merenda. Riferendosi a questo periodo il Brancuti15, in una sua lettera, scrive che MarcAntonio sarebbe stato “maestro spirituale di quel circolo nel quale, nonostante l'ostilità del cardinale Pole, si leggevano i libri di Lutero, di Bucero16 e di Calvino”. Ammiratore, oltre che del cardo Pole, anche di Vittoria Colonna, del cardo Giovanni Morone e di Pietro Carnesecchi, negli ultimi 15 anni della sua vita si dedicò agli studi e alle pratiche religiose. Morì a Roma il 18 febbraio 1550 in casa dell'amico cardo Pole, assistito religiosamente dal cardo Pietro Carafa. Ciò premesso viene logicamente da chiedersi fino a che punto MarcAntonio sia stato vicino allo spirito della Riforma e se quindi debba ritenersi o meno un eretico. È da rilevare che la grande maggioranza dei suoi amici e delle persone a lui vicine furono prossime o appartennero a movimenti legati alla Riforma. Il Carne secchi fu condannato per eresia e decapitato a Firenze17; anche il Morone fu accusato di eresia18, ma poi prosciolto; il Pole fu deferito da Paolo IV all'Inquisizione quale eretico; il Brancuti fu un attivo sostenitore della Riforma. Molto si è discusso e molti i pareri espressi dagli studiosi. Personalmente ritengo che, pur non restando egli insensibile ai principi teorici enunciati dai movimenti eterodossi legati alla Riforma, sia però rimasto sostanzialmente fedele alla chiesa romana, della quale però anch' egli auspicava un profondo rinnovamento interiore. Fabrizio Brancuti, nato a Cagli verso il 1500, crebbe alla corte d'Urbino. Unitamente a Pietro Panfilo, il 9 agosto 1537, scrisse una lettera a Marcantonio Flaminio esortandolo a seguire il suo esempio e a dedicarsi allo studio del Nuovo Testamento e ai libri di S. Agostino. Nel 1542 è anch'egli alla corte del cardo Pole, in grande amicizia con il Flaminio ch'egli definisce "maestro spirituale" del Circolo viterbese. Il Flaminio stava allora portando a termine la revisione del "Beneficio di Cristo". Nel 1550 si recò a Parigi avvicinandosi al Calvinismo. In seguito fu però a Venezia, membro di una comunità clandestina luterana. Infine nel 1562 lasciò Venezia e fece parte della Chiesa Italiana di Ginevra. 15 Bucero è il nome italianizzato di Martin Bucer (1491-1551), padre domenicano, che svolse la sua attività principalmente a Strasburgo. Fu persona sempre propensa alla mediazione e al dialogo. 16 Pietro Carnesecchi, nato a Firenze nel 1508, fu sacerdote presso la corte papale. Divenuto aperto fautore della Riforma, per sottrarsi ali 'Inquisizione si trasferÌ a Venezia. Nel 1565, non sentendosi più sicuro nemmeno a Venezia, fece ritorno a Firenze ove però Cosimo I lo fece arrestare. Processato per eresia, venne decapitato (1567). 17 Giovanni Morone (Milano 1509-Roma 1580) fu vescovo di Modena e Cardinale di S.R.C.. Nel 1557 Paolo IV lo fece arrestare sotto accusa di eresia. Morto Paolo IV, venne prosciolto e Pio IV lo incaricò di presiedere l'ultima sessione del Concilio di Trento. 18 77 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza Lo dimostra la sua produzione di liriche religiose, tutte permeate da sincera aspirazione ad un'intima e sentita spiritualità. Fa parte di questo gruppo anche la parafrasi in versi latini di una trentina di salmi davidici. Per contro la critica recente tende ad attribuirgli la paternità del "Trattato del beneficio di Cristo", opuscolo di impronta chiaramente eretica19. Assai meno fedele alla chiesa romana si dimostrò invece Sebastiano Flaminio il quale, unitamente al fratello Cesare, fece parte attiva di quel gruppo di giovani serravallesi che contestavano, più o meno apertamente, il magistero della chiesa cattolica ed inclinavano verso concezioni vagamente luterane, calviniste ed anabattiste, concezioni ch'ebbero una certa diffusione anche in altre località della zona. Di Sebastiano, cugino di MarcAntonio, sappiamo che venne a Serravalle, unitamente al fratello Cesare, e che studiò alla scuola dello zio Giannantonio. È noto che Sebastiano venne in seguito inquisito perchè sospetto di eresia presso il Tribunale dell'Inquisizione di Imola, ma che riuscì a cavarsela, ottenendo l'assoluzione. Cesare Flaminio, fratello di Sebastiano, dopo aver frequentato la scuola dello zio, studiò filosofia e legge e conseguì il dottorato in diritto. Fu al servizio del cardo Agostino Trivulzio e successe a Marc'Antonio nel godimento del beneficio della Commenda di S. Prospero in Faenza. Anch'egli, come il fratello Sebastiano, fece parte del cenacolo dei giovani serravallesi incline alle innovazioni teologiche provenienti dalla Germania, nel quale si discuteva di riforma della chiesa, della Grazia, della Predestinazione, ecc. Allorché il fratello Sebastiano fu arrestato ed accusato di eresia, riuscì a sottrarsi alla cattura con la fuga e per molto tempo rimase latitante. Dopo alcuni anni fu nuovamente arrestato e processato, finendo sul rogo in piazza della Minerva, a Ulteriori notizie su Marc'Antonio Flaminio. Seguì il card. Pole al Concilio di Trento ma ricusò di assolvere alle funzioni di segretario del Concilio stesso. Nonostante le sue varie peregrinazioni restò sempre molto legato a Serravalle, sua città natale, ove aveva, oltre alla casa di abitazione, anche una piccola villa in località "alla Sega", lungo il corso del fiume Meschio. A Serravalle, ove spesso fece brevi ritorni, ebbe amico d'infanzia Tito Cesana e, più avanti negli anni, mons. Andrea Minucci. Fu pure molto legato a Francesco Robortella, di famiglia cenedese, trapiantata ad Udine. Di lui ci resta una vasta raccolta di poesie latine ("Carmina), soavissime liriche di ispirazione amorosa, conviviale e occasionale. Molte sue lettere in volgare sono disseminate in diverse raccolte eterogenee. Scrisse anche un trattato di filosofia aristotelica. Ancor oggi i suoi versi latini vengono ammirati per la loro eleganza stilistica e la fine cesellatura. Per essi fu ritenuto in vita - e viene tutt' ora annoverato - come uno dei maggiori umanisti del Cinquecento. 19 78 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza Roma, nel 155720. A Serravalle fece parte del citato cenacolo eterodosso anche Lodovico Mantovani o Mantovano. Apparteneva ad una famiglia che si era trasferita a Serravalle nella seconda metà del '400 e che abitava nel palazzo di via Tiera (ora Casoni), proprio dirimpetto al ponte della Beccaria. Era una famiglia di rilievo nella vita di Serravalle. Francesco nel 1509 aveva pubblicato una lettera in versi in lode delle gesta compiute dal generale veneziano Bartolomeo D'Alviano. Lodovico, probabilmente figlio di Francesco, nacque a Serravalle verso il 1510. Promettente chierico, entrò alla corte del vescovo di Verona Giovanni Matteo Giberti, sembra per intercessione di Marcantonio Flaminio. Sembrava destinato ad una brillante carriera ecclesiastica senonché, nel 1539, per aver parlato imprudentemente di "Grazia e di Predestinazione" con un gruppo di persone veronesi, venne da queste denunciato. Fu imprigionato e sottoposto alla Inquisizione di Verona. Confessò di essersi sentito illuminato direttamente da Dio, ed in dovere di partecipare ad altri le sue intuizioni, le quali furono dagli inquisitori ritenute sostanzialmente eretiche ma non luterane. Confessò inoltre che nell' estate del 1538 a Serravalle un gruppo di giovani si sarebbe riunito attorno ad Alessandro Cito lini "venuto de Franza" il quale a sua volta sarebbe stato in relazione con il conterraneo Marc'Antonio Flaminio per discutere, anche e soprattutto, di questioni religiose. Il vescovo Giberti indubbiamente protesse il suo chierico ed accettò, o perlomeno finse di accettare, come sincera l'asserzione di Lodovico di essersi sbagliato scambiando le sue convinzioni personali per una rivelazione avuta da Dio, e di esser comunque sinceramente pentito. Perciò gli fu concesso il perdono e fu rinviato a Serravalle ed affidato in custodia ad un suo cognato, del quale non ho trovato menzione. Doveva aver quindi una sorella sposata a Serravalle. Nel 1550 Lodovico figura esser Maestro della locale Scuola pubblica e di esercitare inoltre l'avvocatura. Ma la sua dimora a Serravalle non fu a lungo pacifica: venne di nuovo accusato Il rogo rappresentò la forma di pena capitale maggiormente usata nei confronti degli eretici impenitenti. Tuttavia non mancano esempi di decapitazioni e di altre forme di esecuzione. Ricordo, ad es., quanto avvenne nel 1562 al frate minorita Fonzio e a Giulio Gherlandi di Spresiano: dichiarati eretici impenitenti, entrambi furono annegati nella laguna di Venezia, tra l'isola di S. Elena e quella del Lido. 20 79 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza di contestare la divinità di Cristo, di diffondere asserzioni ritenute blasfeme e di esercitare la propaganda eretica di porta in porta. (Pressapoco come fanno attualmente i Testimoni di Geova). Per di più, l'anno successivo partecipò a Venezia al concilio segreto promosso dagli Anabattisti, concilio che si svolse regolarmente. Ma le magistrature veneziane vennero subito dopo a conoscenza del fatto per la delazione di Pietro Manelfi, prete marchigiano21. Ludovico, avvisato per tempo, riuscì a sfuggire alla cattura e riparò oltre i confini dello stato veneto, probabilmente in Svizzera. Di lui non si hanno ulteriori notizie. Oltre a Marcantonio Flaminio, il Mantovani chiamò in causa anche Alessandro Citolini, appartenente ad un'antica e nobile famiglia di Colle e di Serravalle, famiglia ch'ebbe un peso notevole nella vita politica e culturale della città. Infatti molti suoi membri fecero parte del Consiglio della Magnifica Comunità serravallese. ALESSANDRO CITOLINI, figlio di Teofilo, nacque in Serravalle verso l'anno 1500. Le condizioni agiate della famiglia gli consentirono di dedicarsi agli studi, ricevendo un'ottima istruzione umanistica. Verso il 1530 divenne discepolo ed amico di Giulio Camillo22 detto Delminio, al cui insegnamento perfezionò i suoi orientamenti culturali. Insieme con lui fece alcuni viaggi in Italia e in Francia. Nel corso di questi viaggi venne sicuramente a contatto con elementi calvinisti, le cui teorie egli espose, nell'estate 1538, al gruppo di giovani di Serravalle, tra i quali appunto Ludovico Mantovani, che l'anno successivo venne processato per eresia in Verona. Il gruppo dissidente di Serravalle - imbevuto di idee eterogenee derivanti dall' anabattismo, dal socinianesimo, dal calvinismo e dalluteranesimo - doveva essere abbastanza consistente e di esso fecero parte diverse persone di spicco, tra cui, in base alle rivelazioni del Mantovani, anche Marc'Antonio Flaminio. Il Citolini dimorò poi a Roma ove divenne amico di mons. Claudio Tolomei che lo ebbe in gran stima. Continuò sempre più ad esternare le sue simpatie verso le idee della Riforma e comunque eterodosse, idee accentuatamente anticlericali, dovute ai suoi contatti Il governo veneziano fu in un primo periodo largamente indulgente verso i circoli riformati. Invece dopo la vittoria dell'Imperatore di MUhlberg (1547) assunse un atteggiamento più cauto, a volte ostile. Preoccupato del dilagare dei casi di eresia che venivano accertati e perseguiti nel territorio della Repubblica di Venezia, il Consiglio dei Dieci, nel 1564, decretò infine il bando da tutto lo Stato Veneto dei seguaci delle dottrine protestanti. 21 G.C.Delminio fu un buon letterato veneto (1485-1544) che acquistò fama per le "Annotazioni sopra le rime del Petrarca". Lavorò all'opera "Teatro Retorico", lavoro non completato e perduto. 22 80 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza con Cosimo e GiovanBattista Pallavicini, e con Pier Paolo Vergerio23. In quegli anni fece alcuni viaggi: fu ad Urbino, alla corte del duca Guidobaldo (1541); dimorò poi a Genova (1545), a Piacenza (1547) e a Venezia (1546-47), facendosi altri amici tra cui Lodovico Dolce, Federico Badoer e Pietro Aretino. Nel 1561 pubblicò a Venezia la sua opera più importante e cioè la "Tipocosmia", per la quale è particolarmente noto. La propensione del Citolini verso le idee protestanti si era intanto fatta più evidente ed aveva sollevato i sospetti dell'Inquisizione. Invano i suoi amici cercarono d'indurlo ad una maggior prudenza ed attenzione per non correre il rischio di venir incriminato. Resosi conto alfine che le cose stavano prendendo per lui una brutta piega, nel 1565 dovette abbandonare frettolosamente l'Italia per sfuggire al Tribunale del S. Uffizio che aveva avviato contro di lui un processo per eresia. Sembra peraltro che anche in precedenza il Citolini sia stato sottoposto ad un tribunale d'Inquisizione. Abbandonò quindi Venezia e riparò dapprima a Ginevra, quindi a Strasburgo, ove il suo amico Giovanni Sturm - noto sostenitore della Riforma - lo fornì di lettere di raccomandazione ad alcuni amici inglesi24. Quindi emigrò a Londra. Nel frattempo i1 28 luglio 1565 fu emessa la sentenza del tribunale dell'Inquisizione che lo condannò con la seguente motivazione: "haereticum contumacem et fugitivum ac impenitentem". In Inghilterra fu ben accolto dal Ministro Cook e da questi presentato alla regina Elisabetta, per incarico della quale, nel gennaio 1566 si recò a Strasburgo, a Basilea ed Augusta per raccogliere notizie e seguire da vicino lo svolgimento delle varie diete e congressi che stavano cercando di armonizzare le disparate professioni di fede nelle quali stava ramificandosi la Riforma. Tra queste l'Anglicanesimo, al quale pare certo che il Citolini abbia dato la sua adesione. A Londra allacciò rapporti di amicizia con l'eretico Giordano Bruno. In seguito fu messo un po' in disparte e, nonostante le sue lamentele, non potè ottenere una sistemazione confacente ai suoi desideri. Cercò di rendersi amico il dignitario di corte C. Hatton dedicando gli la sua opera "Grammatica de la lingua Italiana", opera che non venne stampata e che finì P.P.Vergerio, il Giovane, nato a Capodistria nel 1498, fu teologo e polemista di fama. Dopo esser stato Nunzio Apostolico in Germania, fu vescovo di Capodistria. Avvicinatosi nel frattempo alla Riforma ne divenne un fervido sostenitore, propagandando la a Capodistria, nella Svizzera, in Valtellina, nel Friuli (1558) e in Polonia. È autore di opere apologetico-religiose d'ispirazione protestante. 23 Lo Sturm o Sturmius fu un grande umani sta tedesco. Fu detto il Cicerone e l'Aristotele della Germania (1507 -1589). Ardente sostenitore della Riforma, aprì e diresse ottime scuole a Parigi e a Strasburgo. Scrisse opere di retorica, pedagogia e letteratura. 24 81 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza nella British Library di Londra. Mancano ulteriori notizie sull'esule che la tradizione indica esser defunto all'incirca nel 1576, mentre alcuni indizi fanno ritenere doversi posticipare tale evento al 158325. Che il cenacolo di Serravalle non sia stato in diocesi un caso isolato ce lo dimostra l'attività di un altro sostenitore della Riforma: Andrea Zantani, caso sul quale ha effettuato a suo tempo, accurate ricerche lo storico Pio Paschini. Patrizio Veneto della potente famiglia Zantani (o Centani), nato nei primi anni del sec. XVI, entrò nella carriera ecclesiastica. Nel 1530 fu a Roma nella segreteria del cardinale Marco Corner, per il cui interessamento Paolo II, nel 1540, lo elesse vescovo di Limassol, nell'isola di Cipro. Lo Zantani non raggiunse mai la sede - ove inviò a rappresentarlo un suo vicario - e fissò invece la sua residenza in Conegliano, ove sembra avesse notevoli interessi economici ed alcune proprietà. Altre notizie di Alessandro Citolini. Fu condiscepolo di Marc'Antonio Flaminio e poi allievo di Marcantonio Amalteo. Svolse qualche attività per conto della Magnifica Comunità serravallese. CosÌ nella primavera del 1530 venne incaricato di rilasciare, previo accertamento, i certificati di sanità ai viaggiatori in transito e figura già tra i membri del Consiglio dei Nobili. Durante la sua dimora romana mons. Claudio Tolomei lo ebbe in gran stima e pubblicò tre sue Odi, quale esempio di forma metrica ideale (esametri e pentametri, nel volume "Versi e regole della nuova poesia toscana" (Roma, 1539). Sempre a Roma, nel 1540, il Citolini scrisse la sua "Lettera in difesa della lingua volgare", scritto che venne stampato a Venezia nel dicembre dello stesso anno dal tipografo Francesco Marcolino, sembra all' insaputa dell' autore. In essa il Citolini, nella discussione tra i sostenitori della lingua latina e quelli della parlata volgare, prende netta posizione a favore della seconda, argomentando che solo il volgare è in grado di adattarsi alle esigenze del tempo ed è elemento vivo, espressivo e in costante evoluzione. Tesi sostenute anche dal Bembo e dal Ruscelli. Coltivò con esito felice lo studio della lingua inglese nella quale compose alcune poesie, dimostrando sicurezza e padronanza della lingua. Nel 1561 pubblicò a Venezia la sua opera più importante e cioè la "Tipocosmia", dedicata al vescovo di Arras mons. Carlo Perrenot. Detta opera si articola in una serie di dialoghi - ripartiti in sette giornate - nei quali viene praticamente riassunto tutto lo scibile del suo tempo. La pubblicazione suscitò non poche polemiche: alcuni (tra cui il Partenio, Erasmo di Valvasone e lo Zeno) avanzarono l'ipotesi che il C. si fosse appropriato di alcuni lavori inediti del Dalminio, ormai defunto, utilizzandoli per il suo lavoro; altri invece ritennero la Tipocosmia opera di un precursore, alla quale si sarebbe poi ispirato Francesco Bacone da Verulamio per l'impostazione della sua Enciclopedia. Nel 1564 ribadì le sue convinzioni sulla necessità di usare il volgare. Nella pubblicazione de "Il Diamerone" di Marco Valerio Marcellino, da lui curata, premise"... una dotta e giudiciosa lettera over discorso intorno alla lingua volgare", dedicata a L. Cornaro e datata 10 luglio 1564. 25 82 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza Già a partire dal 1542 incominciò a manifestare la sua inclinazione per l'area del dissenso religioso e le sue simpatie per le idee protestanti e per quelle calviniste in particolare. Così prese sotto la sua protezione Ambrogio Cavalli, frate milanese, che aveva lasciato in quell'anno l'ordine degli Eremitani per entrare nell' area ereticale, e lo inviò a Cipro a reggere in sua vece la diocesi di Limassol26. Allorché il Cavalli venne poi accusato di eresia, lo Zantani usò tutta la sua influenza perchè venisse prosciolto. Ma quando il Cavalli venne nuovamente arrestato ed imprigionato a Venezia, lo Zantani architettò un piano per farlo evadere dal carcere. Il piano venne attuato con successo da suo fratello abate che organizzò un rocambolesco assalto armato alla scorta che stava traducendo il Cavalli a Roma. Nel 1546-47 lo Zantani partecipò ad alcune riunioni del Concilio di Trento, ma in posizione marginale e di scarso rilievo. A partire dal 1548 favorì il sorgere in Conegliano e in Asolo di un vasto movimento eterodosso, cercando di coagularvi anche le cellule Anabattiste ed Unitariste da qualche tempo presenti in loco. In Conegliano divenne l'esponente di spicco di un gruppo di giovani che discuteva della predestinazione, della grazia, del libero arbitrio e della redenzione acquisita per i soli meriti del Cristo. Tale attività non tardò a venir in luce e arrivò all'orecchio del Nunzio di Venezia, mons. Giovanni Della Casa, che ne fece rapporto al Papa pregandolo d'intervenire contro quei "giovani heretici" che a Conegliano e in altri luoghi del Trevigiano facevano "pubblici circuli per le piazze, ragionando insieme et senza Ambrogio Cavalli - Il milanese Girolamo Cavalli entrò nell'ordine dei Padri Eremitani ed assunse il nome di Padre Ambrogio da Milano. Pervenne al grado di Maestro di Teologia Sacra (1528) e fu Reggente dello Studio Generale di Bologna. Sedotto dalle idee teologiche di Erasmo, nel 1537 ebbe i primi scontri con l'Inquisizione e, a causa di alcune sue prediche, fu bandito dalla Diocesi di Milano mentre il Priore Generale dell'Ordine gli tolse la facoltà di predicare. Fu poi prosciolto dal Maestro del Sacro Palazzo di Roma e divenne Priore del Convento di S. Marco di Milano. Nel 1542 abbandonò l'Ordine e passò al servizio di mons. Zantani che lo inviò quale suo vicario a Limassol. A causa di alcune sue prediche fatte nella Quaresima del 1544 venne sottoposto ad Inquisizione. Tornato a Venezia fu arrestato nel gennaio 1545 per ordine del Nunzio mons. Giovanni Della Casa: il processo si concluse con la sua solenne abiura resa il 31 marzo 1545 nella chiesa di S. Maria Formosa in Venezia e con l'estradizione a Roma. L'anno successivo è nei Grigioni e, nel 1547, a Ferrara, presso Renata di Francia che lo nominò suo elemosiniere. Disperso il Circolo eretico di Ferrara, fuggì ancora nei Grigioni e poi a Ginevra. Ma, ritornato clandestinamente a Ferrara allo scopo d'indurre Wenata di Francia a non desistere dalle sue idee religiose (1555), venne scoperto, arrestato e consegnato all'Inquisizione. Tradotto a Roma, fu condannato quale eretico impenitente alla pena capitale. Venne impiccato e poi bruciato in Campo dei Fiori il 15 giugno 1556. 26 83 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza rispetto" di religione. Il Pontefice Paolo III invitò Annibale Grisoni - inquisitore che si era distinto a Capodistria nell' azione di smantellamento delle eresie ivi diffuse dal vescovo Pier Paolo Vergerio il Giovane - ad interessarsi senza indugio del caso. Il Grisoni iniziò le indagini ma non ebbe il coraggio di aprire un formale procedimento contro un membro di una famiglia tanto potente come gli Zantani e la denuncia rimase sospesa e col tempo s'insabbiò. Quando venne però eletto Paolo IV (1555) l'inchiesta fu riaperta. Nel 1557 lo Zantani fu incarcerato ma subito rimesso in libertà contro il versamento di una cauzione. Tradotto poi nello Stato Pontificio e incarcerato, il 9 agosto 1559 fu degradato dal rango vescovi le e ridotto allo stato laicale. Alla morte di Paolo IV (1559), a Roma scoppiarono alcuni tumulti popolari approfittando dei quali i prigionieri del S. Uffizio poterono riacquistare la libertà. Anche lo Zantani colse l'occasione per evadere. Da Roma riuscì a raggiungere Chiavenna e il Cantone svizzero dei Grigioni. Altra persona implicata nei movimenti ereticali fu Orazio BRUNETTI. Nato a Porci a nel 1521 fu valente medico e apprezzato filosofo. Esercitò l'arte di Esculapio in diverse città del Veneto e infine fissò la sua dimora presso i conti di Porci a e Brugnera, ove sposò Ginevra, figlia del conte Alessandro. Le sue idee filosofiche e religiose, assai prossime a quelle della Riforma, le acquisì da gentiluomini e letterati provenienti d'oltralpe. Nel 1548 pubblicò un volume di sue lettere, opera che dedicò a Renata di Francia, moglie di Ercole II d'Este, nota fautrice della diffusione del protestantesimo in Italia. L'inquisizione intervenne ed ordinò la distruzione di tutti gli esemplari di detto volume27. Il Brunetti ne ebbe gravi noie e solo a stento poté sottrarsi al processo già avviato a suo carico28. Siamo così giunti all'ultimo movimento eretico in argomento e cioè al GIANSENISMO. Questo movimento religioso fu promosso da Jannsen Cornelio, noto come Giansenio. Nato in Olanda nel 1585, Giansenio fu insegnante di esegesi biblica all'Università di Lovanio e vescovo di Ypres, ove morì nel 1638 a causa del Nonostante le draconiane disposizioni impartite dall'Inquisizione, non tutti gli esemplari del volume vennero distrutti. I pochi sopravvissuti sono attualmente molto rari. Uno di essi lo possiede il dr. G.P. Zagonel. 27 Dal citato epistolario del Brunetti emerge tra l'altro l'esistenza di un rapporto di parentela tra l'autore ed Alessandro Citolini. 28 84 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza contagio contratto nell' assistere gli appestati. Scrisse l' "Augustinus", opera uscita postuma, nella quale si rifà alla teologia di S. Agostino. I suoi seguaci, detti Giansenisti, postularono il rigetto di ogni forma di superstizione; il decentramento a favore delle chiese regionali (legate ai sovrani); l'abolizione della preminenza del Papa, ridotto ad un "primus inter pares"; il rigetto del culto dell'Immacolata Concezione, del Sacro Cuore di Gesù e dei Santi. La dottrina venne diffusa specie ad opera dei monaci di Port Royal e alle opere filosofiche di Biagio Pascal. Venne combattuta dalla Compagnia di Gesù e condannata quale eretica da Urbano VIII. I Giansenisti vennero perseguitati da Luigi XIV e trovarono rifugio in Olanda. Il monastero di Port Royal venne distrutto ma parte del clero francese continuò a favorirli. Il movimento praticamente si estinse con l'inizio della Rivoluzione Francese, che tutto travolse. L'infiltrazione nei nostri paesi avvenne molto tardi, dopo che fu riattivato dal vescovo di Pistoia, Scipione de' Ricci, che assecondò il Granduca Leopoldo di Toscana nell' opera di riforma degli ordini religiosi, riforma che venne modellata in conformità degli ideali giansenistici (Sinodo di Pistoia, 1786). Nei nostri paesi l'esponente di maggior rilievo di tale movimento fu Pietro MOLENA, giovane abate di Conegliano, mansionario presso la Collegiata ivi esistente e membro della locale Accademia Agraria. Persona colta ed erudita, parlatore piacevole e convincente fu attratto dagli ideali ascetici del giansenismo e, nell' estate del 1791 , ne fece aperta professione di fede in Conegliano. Oltre che sostenere tali teorie, ritenute dalla chiesa eterodosse, mostrò anche spiccate simpatie per le idee rivoluzionarie che stavano arrivando dalla Francia di modo che la gioventù del luogo, affascinata dalla sua facile e persuasiva eloquenza, si mostrava favorevole alle nuove idee religiose e di libertà. Per tale motivo fu incriminato, e con lui don Gaetano Carnielli, don Antonio Bussolini e don Pietro Zambenedetti. Arrestato il 4 gennaio 1792 e tradotto a Venezia, venne rinchiuso nelle prigioni di stato dette "i piombi". Ne seguì il processo (il cui incartamento si trova nell'ASVE) che assodò la colpevolezza del Molena, accusato di difendere le teorie gianseniste e neorealiste di Francia; di insegnare il catechismo in modo oscuro e difforme dalle direttive ecclesiastiche; di disapprovare la Bolla papale "Unigenitus". Per tali motivi venne condannato a 5 anni di relegazione da scontare nel Castello di Cattaro "mantenuto dalla carità del Tribunale e con lire tre al giorno". Gli altri sacerdoti coimputati se la cavarono invece con una severa ammonizione. Tra questi merita un cenno Antonio BUSSOLINI, nato a Conegliano il 3 gennaio 1741. Dopo aver compiuto i primi studi presso il locale Collegio dei Padri Domenicani, passò nel Seminario diocesano per completarli e fu ordinato sacerdote. 85 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza Fu dapprima maestro di grammatica e retorica nel predetto collegio dei Padri Domenicani. Fu poi chiamato a Portogruaro a svolgere le funzioni di Rettore di quel Seminario. E a Portogruaro venne probabilmente a contatto con alcuni sostenitori delle teorie di Giansenio alle quali egli aderì. Tornato a Conegliano entrò nel gruppo filogiansenista e filofrancese capeggiato da Francesco Molena, e per tale motivo subì anch' egli un primo processo dal quale uscì perdonato (1792), ed un secondo processo, nel 1797, estinto con la caduta della Repubblica di Venezia. Come ha detto qui recentemente Giorgio Zoccoletto, a Venezia i processi da archiviare passavano "in casson". Il Bussolini passò gli ultimi anni della sua vita insegnando retorica a Conegliano nel collegio dei PP. Domenicani. Di animo debole, difficilmente trovava la forza per opporsi alle vicissitudini della vita. Per di più fu angustiato da traversie economiche e morali per cui si chiuse in sè stesso, isolandosi da tutti. Morì a Conegliano il 2 febbraio 1807. Tra i coinvolti abbiamo nominato anche don Pietro ZAMBENEDETTI, soprannominato "Bianzo", sacerdote e poeta, anch'egli di Conegliano. Appartenne al gruppo di giovani, capeggiato da don Pietro Molena, che s'interessò e sostenne le teorie gianseniste. Sospettato inoltre di sentimenti filogiacobini e rivoluzionari, nel gennaio 1792, subì un primo processo da parte degli Inquisitori di Stato di Venezia, ma fu rilasciato dopo aver subito una severa ammonizione. Sembra peraltro che abbia ulteriormente persistito nei suoi atteggiamenti per cui, tra il 1797 e il 1798, subì un secondo processo (unitamente a Giuseppe Cappelletto e a Jarca degli Uberti) processo che non ebbe esito a seguito della caduta della Repubblica di S. Marco29. In seguito lo Zambenedetti fu Priore, poi Economo e infine Ispettore dell'Ospedale Civile di Conegliano. Analoga sorte processuale subÌ il giovane abate coneglianese Gaetano Carnielli. La cellula giansenistica di Conegliano negli ultimi anni del '700 perse rapidamente importanza e valenza religiosa. Fu in pratica sopraffatta ed assorbita dagli avvenimenti politici e militari verificatisi in quegli anni e di lei non si ebbe più sentore. Con ciò ho terminato. Un grazie al dr. Vittorino Pianca per l'aiuto fornitomi, e grazie a tutti per la paziente, cortese attenzione! 29 Il verbale di detto processo è stato di recente integralmente trascritto dal prof. don Nilo Faldon. 86 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco FRANCO POSOCCO CARTOGRAFIA E TERRITORIO Il contributo della documentazione aerofotogrammetrica nella storia del paesaggio veneto L'aerofotogrammetria come linguaggio geografico La visione zenitale del territorio non è per noi quella consueta. L'esperienza quotidiana infatti ci fa percepire la geosuperficie e gli oggetti, che vi consistono, da una stazione appoggiata su di essa, poiché anche noi siamo vincolati e partecipi della crosta terrestre. È ben vero che, salendo sulla torre di un castello, sul campanile di una chiesa o sulla cima di una montagna, è possibile godere di una veduta panoramica estesa ad uno spazio più ampio; fin dall'antico gli uomini hanno cercato di conquistare una visione più vasta andando in alto ed i metodi usati nell'artiglieria classica hanno sviluppato tale esigenza, conferendo un progressivo impulso alle tecniche del rilievo topografico ed alla misurazione delle medie distanze. Si trattava tuttavia sempre di percezioni oblique o comunque dell'apprezzamento di aree ristrette. Fin quando un pallone aerostatico o un aeromobile non ci permisero di librarci in volo ad una maggiore altezza, non si poté disporre della possibilità conoscitiva offerta dall'immagine zenitale, quella sognata nel mito di Dedalo e Icaro, quella progettata da Leonardo Da Vinci. E tuttavia la rappresentazione della terra in forma contestuale fu perseguita fin dall'antico, poiché gli uomini volevano "vedere" la superficie, su cui vivevano, da un punto di vista allora impossibile, ma sinottico e onnicomprensivo, quello dal quale il Maligno tentò il Cristo, "mostrandogli in un istante tutti i regni della terra", dopo averlo condotto in volo sulla cima di un monte altissimo ed averlo in precedenza "deposto" sul pinnacolo del Tempio (Mt 4,5-8 -(Lc 4, 6-9). 87 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco Le diverse carte, mappe, piante e portolani, che si sono succeduti nel corso dei secoli, sono la risposta più o meno astratta e simbolica, più o meno tecnica e descrittiva, a questa esigenza di rappresentare e possedere lo spazio terrestre nella sua forma e nella sua dimensione. La rilevazione aerea nella sua maniera classica di fotografia o in quella recente di ortocarta, in quanto estranea all'usuale esperienza dei sensi e prossima invece all'immaginario interiore, quale viene considerato e ricostruito, sembra infatti dotata dei caratteri semiologici tipici del linguaggio convenzionale e quindi omogenea rispetto ai prodotti cartografici. Ciò vale a maggior ragione per le immagini da satellite effettuate con le più diverse tecniche, poiché anch'esse, grazie alle particolari tecnologie utilizzate, appaiono "mirate" e cioè atte a selezionare particolari caratteri della realtà, descrivendoli con uno specifico corredo di segni e di espressioni. Si può quindi affermare che l'aerofotogrammetria costituisce un "linguaggio" della rappresentazione geografica, anzi che al suo interno, a seconda delle possibilità iconografiche del materiale utilizzato e delle sue capacità di evidenziazione e selezione, si può individuare una famiglia di linguaggi affini, atti ad evidenziare oppure, per converso, ad omettere determinati dati e/o caratteri, che gli oggetti rilevati manifestano. In tale sistema semantico, a seconda della sensibilità dell'emulsione utilizzata, possono essere messi in luce particolari aspetti tematici: l'umidità relativa, il colore dei tetti, la vegetazione, l'archeologia, etc. Per tale motivo la fotointepretazione va intesa come una tecnica linguistica, in quanto disciplina relativa alla lettura ed alla decifrazione del significato segnico degli oggetti rilevati. La formalizzazione di questi linguaggi formali e di questi metodi di indagine conoscitiva costituisce un terreno ancora in gran parte da esplorare, ma che si qualifica in prospettiva di grande importanza per l' avanzamento degli studi geografici ed in genere per le ricerche urbane e territoriali. Lo sviluppo della fotogrammetria aerea nel Veneto Il rilevamento aereo trovò nella nostra regione uno dei primi campi di applicazione, tanto che il Veneto può essere considerato un territorio ove, almeno per alcune parti, esiste documentazione aerofotogrammetrica relativa agli albori di tale tecnica. Ciò avvenne essenzialmente per due ragioni assai diverse tra loro: da un lato la presenza del centro storico di Venezia con al sua straordinaria morfologia e dall'altro la permanenza, tra il 1917 e il 1918, del fronte bellico sulla linea del Piave e del Grappa. La lunga tradizione del vedutismo settecentesco ed ottocentesco, particolarmente fiorente nella pittura veneta, si pensi al Guardi, al Canaletto e al Bellotto, nonché ai Ricci, al Carlevaris ed a tanti altri pittori ed incisori dell'epoca, indusse 88 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco i pionieri della fotografia, verso la fine del secolo scorso, a cogliere le possibilità di rappresentazione offerte di palloni aerostatici e poi dai primi incerti velivoli; Venezia, città mirabile, poteva essere rappresentata anche dall'alto in tutta la sua bellezza di caratteri monumentali e folkloristici, in tutta la sua suggestione di aspetti romantici e di struggente decadenza, che tanto piacevano in quell' epoca. Le foto di Venezia, terrestri ed aeree, andavano a ruba, come capitava nel XVI secolo per le acqueforti, tale era la notorietà dell' oggetto desiderato; bisogna anche osservare che la struttura urbana, quale emerge, ad esempio, dal fotopiano del 1911, è davvero straordinaria; la risoluzione dell'immagine, notevole per l'epoca, consente infatti di apprezzare aspetti che nessuna, pur perfezionata cartografia, permetteva allora di cogliere e di confrontarlo con la "forma urbis" realizzata negli anni '80. Le riprese dall'alto furono realizzate nel 1911 dal Regio Corpo degli Aerostieri, utilizzando anche palloni frenati e nel 1913 servendosi del dirigibile. Ben diverse erano le ragioni, per cui i fotografi militari, usando i ricognitori della neonata Regia Aviazione, effettuarono senza un vero piano di volo dal 1917 al 19l8, dopo la rotta di Caporetto, numerose strisciate sulle zone invase dal nemico oltre il Piave e sugli altipiani; si pensò perfino di agganciare una microcamera ad un piccione viaggiatore. L'aviazione italiana, com'è noto, era più sviluppata di quella austro-ungarica e l'Istituto Geografico Militare di Firenze si qualificava in quell'epoca come una sede fondamentale per la progettazione e la sperimentazione delle nuove tecniche aerofotogrammetriche. Per questo i materiali conservati nei musei della Prima Guerra Mondiale, negli Archivi storici e presso l'Aerofototeca Nazionale dell'Istituto Centrale per il Catalogo, al di là del valore documentale, testimoniano una esperienza fondamentale per la messa a punto delle metodologie e delle forme di conoscenza e rappresentazione del territorio. Diversi fotogrammi sono conservati nel Museo dell'Aria di S. Pelagio (PD), nel Museo della Battaglia di Vittorio Veneto (TV) e nell' Archivio Caproni di Trento. I problemi concettuali derivanti dall'utilizzazione delle nuove tecniche aerofotogrammetriche, ai fini della restituzione stereoscopica e della descrizione fotografica, hanno avuto pertanto quale primo campo di applicazione e sperimentazione, tra gli altri, anche il Veneto con le sue città, i suoi fiumi, la sua campagna e la sua montagna, soprattutto con le infrastrutture, le zone industriali, le coste, i nodi ferroviari, i ponti, etc. L'interesse strategico del Triveneto ha del resto determinato un particolare costante interesse per la rappresentazione cartografica del territorio, quale oggetto di fortificazione e di controllo, sia durante l'epoca napoleonica, sia nel seguente periodo del Regno Lombardo-Veneto e dell'Unità d'Italia. Le ricognizioni 89 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco topografiche, le verifiche della rete geodetica e le relative elaborazioni cartografiche sono state quindi nel Nord Est del paese frequenti ed accurate, come pure le sequenze di fogli l: 100.000 e di tavolette 1:25.000 redatte ed aggiornate a cura dell'I.G.M.I. L'importanza del confine orientale caratterizza anche il primo dopoguerra e tutta l'epoca del Fascismo; anzi, durante quegli anni furono realizzate diverse rilevazioni aerofotogrammetriche di singole zone; ma sfortunatamente tali materiali, coperti dal vincolo di riservatezza stabilito dalla legge, sono di difficile reperimento; sarebbe interessante per la storia territoriale poterli individuare, al fine di consentirne la consultazione e l'utilizzazione. Una ricerca negli archivi storici militari delle nazioni partecipanti al Primo conflitto consentirebbe anche di documentare altre zone del Veneto, oltre a quelle, di cui si conoscono le rappresentazioni aerofotogrammetriche realizzate da parte italiana. Sarebbe così possibile seguire, non solo l'evoluzione della tecnica fotogrammetrica e cartografica, nonché l'avanzamento della topografia, incrementata ed affinata dalla disponibilità del mezzo aereo, ma anche disporre di ulteriori immagini per documentare le trasformazioni territoriali. Durante la Seconda Guerra Mondiale, quando il Veneto faceva parte della Repubblica Sociale Italiana (1943-1945) ed una delle sue province, quella di Belluno, era stata incorporata nel III Reich, quale porzione dell'Alpenvorland, gli Alleati, utilizzando i ricognitori della R.A.F. (Royal Air Force) britannica, effettuarono una rilevazione sistematica di quasi tutto il territorio regionale, con speciale attenzione alle zone urbane, a quelle industriali, ai nodi stradali e ferroviari, ai porti, ai ponti ed alle infrastrutture di importanza militare. Si tratta di una documentazione di straordinario interesse, non solo per individuare i danni e le devastazioni della guerra, ma anche per valutare l'assetto territoriale ed insediativo alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il Servizio Aerofotografico dell'U.S. Army statunitense, realizzò successivamente (nel 1954-55) un volo sistematico, detto volo G.A.I., anch'esso come quello R.A.F. acquisito alla fototeca regionale, nel quale si può documentare l'assetto del Veneto alla fine della ricostruzione ed all'inizio del "boom" economico, che caratterizzò gli anni '50 e '60. Il presente volume documenta poi i rilievi sistematici della Regione rispettivamente del 1975 e del 1987, mentre per singole aree-problema si infittiscono nel tempo i voli effettuati da amministrazioni locali (Comuni e Province), Enti di Stato (E.N.E.L., C.N.R., Autostrade, etc.), con l'adozione di tecniche sofisticate e di rappresentazioni in bianco e nero, a colori e con particolari emulsioni fotosensibili (EIRA anni 1960-1970 ed altri). Volendo cogliere il significato della scansione temporale delle diverse rilevazioni, si può osservare che: a) le immagini realizzate fino alla Prima Guerra Mondiale compresa, illustra- 90 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco no la situazione storica del territorio regionale, quale era stata definita durante il periodo risorgimentale; l'insediamento è formato dai centri antichi e dalle strutture agricole decentrate (ville venete, corti rurali, aggregati frazionali), mentre l'apparato infrastrutturale innovativo si limita alle ferrovie e ad alcune strade di importanza nazionale. b) Le immagini realizzate fino alla Seconda Guerra Mondiale ed in particolare il volo R.A.F. 1943-44 documentano la ricostruzione dei paesi investiti dal fronte bellico sull'altipiano di Asiago e lungo il Piave, nonché le trasformazioni dovute all'urbanesimo di epoca fascista con il relativo corredo di aree industriali e di infrastrutture civili e militari, nonché di bonifiche idrauliche e di sistemazioni fondiarie. c) I diversi voli del dopoguerra (volo G.A.I. - 1955, volo Regione - 1975, volo Regione - 1985, volo a colori Regione - 1987) consentono di ricostruire gli assetti successivi e le profonde trasformazioni territoriali avvenute durante la Repubblica Italiana dall'epoca dello sviluppo incontrollato a quella più recente dell' evoluzione pianificata. Si tratta di imponenti processi di trasformazioni dei connotati naturali, dell'insediamento urbano, delle reti infrastrutturali e del paesaggio rurale, che hanno profondamente modificato il volto del Veneto ed il suo assetto funzionale. Il vasto materiale accumulato nella cartoteca, consente di seguire passo passo tali trasformazioni e di valutarne gli esiti e gli impatti. d) Il "volo Italia" del 1988-1989 e quello del 1994 ci permettono di documentare la nostra regione nel suo assetto attuale, cogliendo l'imponente sforzo di costruzione dell'armatura urbana e di modificazione del contesto morfologico, che è stato prodotto; ci consente anche di apprezzare i grandi problemi che con tali trasformazioni si sono determinati nell'equilibrio ambientale e nell'organismo insediativo. La trasformazione territoriale nella sequenza aerofotogrammetria Scorrendo le ingiallite fotografie dell'inizio secolo assieme agli artigianali fotomosaici scattati dagli operatori militari durante la prima guerra mondiale e trovando non poche difficoltà a riconoscere i siti rilevati, viene spontanea una domanda: come si presentava il Veneto nella prima metà del secolo? qual'era il suo assetto e quale la sua immagine? La prima e più immediata osservazione riguarda il rapporto fra la natura e l'insediamento; desta stupore infatti notare quanto netta fosse allora la distinzione fra la città e la campagna. Il territorio agrario evidenzia la sua trama di campi chiusi, delimitati da siepi e filari, scoli e capezzagne, con le colture a rotazione ed il fitto appoderamento mezzadrile; radi e cadenzati sono gli edifici rustici, mentre spiccano le ville venete con i loro giardini ed i borghi rurali con le chiese parrocchiali, spesso associati alla grande azienda aristocratica. Emerge anche l'imponenza dell'apparato militare con le fortificazioni dello scacchiere veronese e veneziano 91 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco e quelle disseminate sulle Alpi ed allo sbocco delle valli. Sulla collina la trama rurale si fa più minuta e più organica rispetto al sito, mentre le colture pregiate (vigneti, frutteti, ortaggi, etc.) disegnano un paesaggio antico ancora formato secondo gli schemi iconografici celebrati dalla pittura veneta. La montagna in tale contesto evidenzia, nella successione e nell' alternanza del prato-pascolo rispetto al bosco, la intensa utilizzazione agro-silvo-pastorale e la pratica dell'alpeggio. In questo assetto ambientale caratterizzato dalla prevalenza delle connotazioni fisiche originarie (geomorfologiche, idrografiche, botaniche) e dalla sapiente conformazione antropica del paesaggio, quale si è andato configurando nella lunga storia territoriale, la città appare solitamente costituita da un nocciolo storico assai compatto, spesso murato, nonché dalle aggregazioni esterne concentriche rispetto a questo ed addensate ali 'uscita delle vie di comunicazione. Radi sono i nuovi paesi nati in corrispondenza di stazioni ferroviarie (Mogliano Veneto, S. Bonifacio, etc.), mentre si possono rilevare i borghi distrutti lungo il Piave verso la fine del primo conflitto mondiale (S. Donà di Piave, Nervesa della Battaglia, etc.). Anche le infrastrutture sono ancora rilevabili nel loro reticolo storico di età veneta, rispetto al quale emergono le vie "maestre" e le ferrovie realizzate da Napoleone, dall'Austria e dal Regno d'Italia. Dello stesso periodo sono alcuni aspetti dell'incipiente industrializzazione rilevabili nelle fabbriche poste lungo i fiumi del Pedemonte (Schio, Vittorio Veneto, Verona, etc.) ed in alcune attrezzature della bonifica ubicate nelle aree perilagunari. Città chiuse ed intatte emergono dalle foto, tra cui spicca quella commovente di Venezia a fine Ottocento, quando essa era attaccata al Veneto soltanto dall'esile ponte ferroviario e non esistevano ancora il Piazzale Roma e l'isola del Tronchetto. Un Veneto agreste è dunque quello che emerge dalle foto più antiche, dove la forma insigne tramandata dall'immaginario collettivo è quella armonica ed ordinata di uno dei più celebri paesaggi agrari, punteggiati di castelli e ville, città murate e giardini. I fotogrammi cui si è fatto cenno, denunciano la lentezza delle trasformazioni avvenute durante il Regno sabaudo, quando anche nel Veneto, pur tardivamente, si avviò il processo di industrializzazione e di armatura territoriale. Confrontare quelle immagini sbiadite con quelle realizzate, utilizzando tecnologie sempre più sofisticate in questo dopoguerra e fino ai giorni nostri, consente di rilevare e misurare quanto imponenti e strutturali siano state le modificazioni, che hanno reso il Veneto "diverso" da quello che era un tempo e per certi versi "irriconoscibile". Le trasformazioni infatti sono così generalizzate da coinvolgere non solo ogni settore della regione, ma anche ogni settore territoriale. Facendo riferimento al contributo reso dalla fotointerpretazione, esse si possono così sintetizzare: 92 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco a) La denaturalizzazione del territorio L'assetto fisico della regione, quale si è storicamente configurato nell'equilibrio fra le connotazioni naturali originarie ed il paziente lavoro di adattamento umano, si è andato traumaticamente alterando, nel senso che gli elementi costitutivi della geografia sono stati profondamente intaccati, modificati e talvolta cancellati. Le coste sono state consolidate artificialmente con marginamenti e pannelli, le foci sono state armate con moli e scogliere, i corsi d'acqua sono stati arginati e regimati con opere trasversali, mentre sono state realizzate derivazioni e canalizzazioni. Dalle foto emergono anche l'estensione dei dissesti idrogeologici in atto in particolare nelle zone sismiche (Alpago, Vajont, Valdastico, etc.), la riduzione dei ghiacciai e dei nevai, le aree di più intensa escavazione di pietra e ghiaia (Colli Euganei, Vedelago, Albaredo all'Adige, medio Brenta, etc.), la bonifica delle valli residue (Valle Vecchia, etc.). Si notano i tagli boschivi determinati dagli impianti di risalita o dagli elettrodotti e la violenta incisione delle opere stradali in ambienti precedentemente intatti. Straordinaria è invece la capacità di recupero dimostrata dall'ambiente rispetto alle installazioni militari ed alle devastazioni della prima guerra mondiale; i danni sembrano essere ormai ricomposti e gli equilibri rigenerati. b) La contaminazione dell'ambiente L'industrializzazione del Veneto e la crescente utilizzazione di nuove sostanze da parte delle attività produttive ed in genere nell'ambito insediativo ha comportato diffusi fenomeni di degrado ambientale. Alcune di queste alterazioni sono state registrate dalla cartografia aerea tradizionale in bianco e nero e da quella che utilizza particolari emulsioni (colore, falso colore, infrarosso tecnico, ultravioletto, etc.). Si è potuto con tali tecnologie registrare l'andamento stagionale ed annuale dei fenomeni di inquinamento e contaminazione della laguna di Venezia, dell' Alto Adriatico e dei laghi alpini, con particolare riguardo per i pennacchi d'uscita dalle foci fluviali ed agli aloni circostanti le zone industriali e gli impianti di trattamento. Anche tal une zone di addensamento del pulviscolo atmosferico o aree caratterizzate dalla presenza nel terreno di sostanze particolari possono essere individuabili attraverso la rilevazione aerea. Dalle foto si possono inoltre riconoscere le aree abbandonate, dove il degrado è massimo a causa dell'accatastamento di carcasse, rifiuti ed altri materiali; si tratta delle "derelicts lands", che ormai circondano le periferie e le infrastrutture. b) La omologazione del paesaggio Si è già accennato precedentemente alla mutazione generalizzata dell' immagine storica del Veneto, sia nella pianura, sia in collina, sia in montagna, sia infine lungo le coste litoranee. 93 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco Tale processo sembra essere avvenuto con le forme dell'omologazione figurativa, con la progressiva inserzione di manufatti realizzati secondo il linguaggio architettonico razionalista-funzionale, nonché mediante la progressiva cancellazione dei caratteri, dei modi e dei magisteri locali. In altri termini si sono andate riducendo le distinzioni iconografiche e le specificazioni della tradizione, con la obliterazione delle differenze legate al sito, alla sua comunità, alla sua cultura, alla sua storia. Più concretamente si può avvertire dalle riprese aeree la trasformazione del regime fondiario e la progressiva prevalenza, specie nelle zone peri urbane, della piccola proprietà coltivatrice anche a seguito del frazionamento (salvo nel Polesine e nelle "Basse") della grande azienda aristocratica. Nella campagna più esterna si nota invece il superamento del modello agronomico per campi chiusi e la realizzazione di grandi superfici aperte mediante spianamento delle baulature, taglio delle siepi e dei filari, cancellazione della micro-idrografica capillare (scoline, fossati, etc.). Il territorio extra-urbano non solo diventa sede di una agricoltura industrializzata e quindi dotata di attrezzature ed impianti, ma anche funge da contenitore per le infrastrutture indesiderate dalla città, che tende ad ubicare casualmente fuori dall'abitato quei servizi che sono considerati non compatibili con le esigenze della convivenza. La campagna, la collina e le zone vallive sono interessate da una edificazione sparsa "a pepe sull'insalata" di abitazioni e rustici, più fitta nelle zone periurbane, oppure disposta "a filamento" lungo le strade e le zone accessibili, con l'eccezione delle grandi aziende, ove invece si assiste all' abbandono e alla demolizione dei rustici marginali. Al deterioramento dell'immagine paesaggistica dovuto alla presenza di oggetti nuovi, incongrui nella forma e nella funzione, partecipa anche la montagna, ove l'abbandono del prato-pascolo e del corredo di malghe e tabià comporta l'avanzamento del bosco: ceduo nel pedemonte, di conifere nella montagna più alta. c) La diffusione dell'insediamento L'apertura della città e la discontinuità nella compattezza urbana, già avviate a cavallo del secolo, hanno via via determinato una espansione degli aggregati urbani "a macchia d'olio"; è questo uno dei fenomeni più vistosi, specie nell'area centrale della regione, ove l'ingrandimento dei centri maggiori e dei paesi di media dimensione a spese dello spazio circostante e lungo le linee di traffico, tende a formare degli aloni attorno ai capoluoghi, con il risultato talvolta di saldare tra loro più abitati, dando forma ad estese "galassie", cioè ad aree indistinte, ove la campagna non è più campagna, perchè disgregata e la città non è ancora città, perchè incompleta. L’espansione non è quindi compatta, ma per diffusione esterna e per occupa- 94 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco zione progressiva, informale dal punto di vista morfologico, irrazionale dal punto di vista funzionale, aggressiva dal punto di vista ambientale. Le foto consentono anche di distinguere un primo periodo del dopoguerra caratterizzato da una edificazione sparsa e disordinata, poiché sprovvista di strumenti di coordinamento, rispetto ad un periodo più recente (dopo il 1970), ove si avverte la presenza dei piani regolatori e delle lottizzazioni con cui essi sono stati realizzati. In alcuni casi sono nate delle vere new towns, come a Mestre, nella cintura padovana e veronese, a Jesolo, a Sottomarina, nelle altre palazzate litoranee e comunque nelle zone periurbane, ove maggiore era lo sviluppo. e) La dispersione delle attività produttive Ai primi del secolo l'industria era tradizionalmente un elemento costitutivo della città e parte di questa. Nel periodo fra le due guerre è documentabile un progressivo trasferimento delle attività produttive fuori dall'aggregato urbano: in zone apposite come nel caso di Marghera e più limitatamente di Padova, Verona, etc., lungo i corsi d'acqua nel caso dei centri industriali pedemontani: Schio, Vittorio Veneto, Bassano del Grappa, etc. Nel secondo dopoguerra si assiste ad un imponente fenomeno di dispersione delle attività industriali, artigianali, commerciali, agroindustriali e turistiche nella campagna ed in genere nel territorio aperto. Più recentemente gli strumenti della pianificazione urbanistica hanno iniziato ad attribuire una forma a tali insediamenti, talchè dalle foto si possono riconoscere delle zone specificatamente destinate a tali funzioni. f) L'estensione delle infrastrutture Uno dei settori di maggiore impatto ambientale, in cui la foto aerea serve a registrare e misurare in modo sinottico l'entità della trasformazione fisica e la sua sostanziale irreversibilità, quello delle infrastrutture puntuali e a rete: superficiali e sotterranee, per il trasporto di persone, beni e fluidi, nonché per il trasferimento di energia ed informazioni. Le immagini documentano il sovrapporsi e l'infittirsi di autostrade, idrovie, ferrovie, trasmettitori, porti, aeroporti, interporti, nonché di pipelines, acquedotti, fognature, grandi derivazioni, elettrodotti, impianti di risalita, di depurazione, di trattamento, etc. che si sono via via aggiunti alla viabilità storica su strada e su ferro, alterando assetti geologici e botanici, inserendo elementi di rigida geometria e modificando ambienti naturali ed antropici di rilevante qualità. g) L'obliterazione dei beni culturali La visione dall'alto e la relativa immagine, con la sua imparzialità registra anche il continuo implacabile processo di degrado del territorio, inteso come cultura dello spazio e quindi come paesaggio umano, come bene culturale comples- 95 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco sivo ed artefatto sociale; la perdita dell'immagine storica non è stata causata solo dalle guerre, dai terremoti, dalle alluvioni e dalle altre catastrofi naturali, ma anche dalle ricostruzioni dei centri offesi e dal processo di sviluppo, che si è andato realizzando nell' ultimo cinquantennio e che ha coinvolto la città e la campagna, la collina e la montagna con il loro patrimonio di ambienti naturali e di oggetti artistici. Scendendo ad un maggior dettaglio, la foto interpretazione consente di registrare all'interno delle aree vaste, anche la modificazione dei contesti più prossimi ai monumenti, l'erosione dei fondali, il taglio delle prospettive arborate e dei giardini, il degrado delle figurazioni che circondano i castelli e le ville, le abbazie e le chiese, nonché l'assedio che l'edificazione porta in genere ai beni culturali sparsi per il territorio ed a quelli ambientali che sono solitamente ad essi associati. h) La formazione del paesaggio moderno Assieme alla modificazione del paesaggio e dell' assetto antico la fotografia aerea consente anche di rilevare la formazione del paesaggio attuale, quello della contemporaneità. Si tratta in alcuni casi di un 'immagine esclusiva, soprattutto nelle periferie e nelle zone industriali, là dove la capacità sociale di modellamento e trasformazione ha intaccato profondamente la giacitura naturale ed ha attribuito ai luoghi un volto diverso, del tutto artificiale. Le regole formali di questo paesaggio sono profondamente diverse rispetto a quelle che caratterizzavano da un punto di vista linguistico e strutturale gli spazi urbani ed extraurbani dei secoli passati. Ma anche nei siti, ove l'organismo insediativo appare fortemente segnato dalla matrice storica o l'ambiente naturale manifesta il radicamento della sua morfologia e dei suoi equilibri, la modernità ha via via inserito, talvolta in modo evidente, tal altra con discrezione, i segni della sua presenza; in tali casi la fotointerpretazione è capace di segnalare il processo di attualizzazione e riuso degli spazi e dei manufatti più antichi, che vengono così reinterpretati e riproposti nel contesto odierno della città e del territorio. Lo storico e l'urbanista, scorrendo i fotogrammi delle diverse serie e confrontandone le immagini, devono rilevare in modo neutrale e disincantato le trasformazioni che sono avvenute, onde comprendere le cause e valutarne gli effetti strutturali e formali. Ma talvolta capita allo studioso impegnato a decifrare una carta gualcita e grigia, di essere sedotto dal rigore dell'assetto antico e dalla qualità artistica dei relativi oggetti, ancora visibile nonostante l'aggressione ed il degrado. Le immagini storiche servono quindi per documentare e capire le trasformazioni, ma sono anche capaci di destare nostalgia e rimpianto. 96 © Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte