Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
LOREDANA IMPERIO
FEDERICO II, TRA MITO E STORIA
“Non aveva alcuna fede in Dio, era astuto, scaltro, sensuale, malvagio e
iracondo. Tuttavia, sapeva talvolta essere uomo di bel garbo e, quando voleva
dimostrare gentilezza e benignità, sapeva essere amichevole, ridente e cortese. Era
operoso, sapeva come leggere, scrivere, cantare e comporre canzoni e musiche.
Sebbene fosse piccolo di statura, era avvenente e di aspetto armonioso. Lo vidi e
molto mi piacque. Parlava molti linguaggi... e se mai fosse stato un buon cattolico e
avesse amato Dio, la Chiesa e la sua stessa anima, pochi imperatori avrebbero
potuto stargli a pari”.
Questa è la descrizione, abbastanza veritiera, che fra’ Salimbene da Parma
dell'Ordine dei Minori francescani ci dà del carattere complesso di Federico II di
Svevia.
Vediamo ora di comprendere, attraverso la narrazione di alcuni punti salienti
della sua vita, quanto fu leggenda e quanto storia e in che maniera gli eventi
forgiarono quest'uomo straordinario, più principe del Rinascimento che sovrano
medievale.
La leggenda germanica, rafforzata alla fine del medioevo da numerose
profezie e ripresa nell'800 in chiave romantica, lo affiancava al Barbarossa, nel
gruppo di quanti non hanno abbandonato del tutto il mondo mortale e vegliano,
chiusi in un luogo inaccessibile, attendendo la Fine dei Tempi per presentarsi a
combattere l'ultima battaglia tra il Bene e il Male.
Già il giorno della sua nascita, il 26 dicembre 1194, era tale da colpire
l'immaginazione popolare, superstiziosa e attenta ai segni augurali.
Che l'evento fosse avvenuto il giorno dopo Natale, per molti, rendeva il
3
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
neonato secondo solo a Cristo.
Alle predizioni e alle leggende favorevoli si contrapponevano sussurri assai
meno nobili sulla dubbia maternità della matura Costanza.
Anche alcuni aspetti della vita di questa imperatrice avevano eccitato la
fantasia dei contemporanei e creato leggende. Storicamente si sa che nacque nel 1154
poco dopo la morte del padre Ruggero II, il più geniale dei re normanni.
La madre Beatrice, terrorizzata da sogni infausti al momento della sua nascita
e dal responso degli indovini di corte che affermavano come Costanza sarebbe stata
per la sua terra fonte della più profonda rovina, l'avrebbe destinata al chiostro.
La giovane visse per anni presso le suore di San Basilio, nel convento del
Santissimo Salvatore, nei pressi del palazzo reale di Palermo. Ma fin qui niente di
strano, nel XII secolo era abbastanza frequente che dame di alto lignaggio vivessero,
per periodi più o meno lunghi, in convento senza aver preso i voti. La principessa, al
momento del matrimonio, aveva quasi 32 anni ed Enrico VI, figlio del Barbarossa,
solo 19.
Che Costanza avesse preso il velo e fosse stata strappata con la forza al
convento fu solo una diceria creduta da più parti e suffragata dalla sua costante
avversità per i tedeschi, in special modo durante la reggenza. Vi prestò fede anche
Dante che nella Divina Commedia le assegnò un posto in Paradiso perché costretta,
contro la sua volontà, ad abbandonare la dolce chiostra.
Dopo 9 anni di sterile attesa, l'improvviso concepimento: l'imperatrice aveva
40 anni. Per i parametri medievali era già vecchia, considerando che la maggior parte
delle donne erano già madri a 14 anni.
Al momento in cui fu assalita dai dolori del parto Costanza era in viaggio per
raggiungere il marito in Sicilia. Secondo più fonti ella avrebbe fatto erigere un
padiglione nella piazza di Jesi e permesso a chi lo volesse, di assistere all'evento. Il
giorno prima, Natale del 1194, Enrico VI, allo squillo delle trombe saracene era stato
incoronato re di Sicilia, nel duomo di Palermo. La madre scelse per il bimbo il nome
di Costantino, ma il padre volle che gli fossero imposti i nomi dei due nonni:
Federico Ruggero. Federico venne al mondo a cavallo del secolo, in un periodo di
grandi mutamenti: l'era delle crociate stava tramontando, i re consolidavano il loro
potere e gettavano le basi delle future nazioni, il campo della cultura, prima esclusivo
predominio della chiesa, si apriva ai laici.
In Oriente la morte del Saladino, la decadenza dell'impero bizantino e
l'avanzata delle tribù della steppa dalla Mongolia verso Occidente, mutavano
rapidamente gli equilibri e le potenze del mondo di allora.
Per Federico il padre non fu mai una figura di rilievo. Enrico vide il suo erede
due sole volte: la prima, subito dopo la nascita, a Foligno e la seconda, più tardi, in
occasione del battesimo avvenuto ad Assisi. Per fortuna il bambino non gli
4
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
assomigliava né fisicamente né moralmente. I cronisti dell' epoca dicono di Enrico
VI: il suo corpo era magro e debole, pallido il volto e sempre severo, dominato da
una fronte spaziosa, la barba rada. Non rideva mai. Aveva il freddo genio dell'uomo
di stato, tipico degli Svevi, ma gli mancavano completamente il fascino suadente e
l'amabilità del Barbarossa; il suo carattere era cupo e dispotico, da ultimo quasi di
pietra; la sua politica, aggressiva al massimo, terribilmente dura ed arida.
Egli percorse, fra violenze e rapine, le terre dei normanni, diffondendo quel
furor theutonicus che ritornerà a lungo nei sirventesi e nei versi dei poeti provenzali
come Bertrand de Born, Peire de la Caravana e Peire Vidal.
I trovatori commemorarono le stragi con questi versi: Lomhardi, ricordatevi,
quando fu conquistata la Puglia, come le dame e i valenti baroni furono messi alla
mercè dei soldatacci... Dio protegga la Lombardia, Bologna e Milano e le città
collegate, Brescia e i Mantovani, sì che nessuno di loro diventi schiavo, e i valorosi
abitanti della Marca…
Alla morte del padre, Federico aveva tre anni e passò sotto la tutela della
madre.
Il 17 maggio successivo, veniva incoronato re di Sicilia.
Sei mesi dopo Costanza moriva affidando al papa Innocenzo III la tutela del
figlio e la reggenza dello stato, ma lasciando praticamente il bimbo e il regno in balia
di forze avide e ostili.
Il re fanciullo era conteso, da un lato dal siniscalco Gualtiero di Pagliara con i
suoi normanni forti dell' appoggio papale, dall' altro dai tedeschi e dai musulmani
capeggiati da Marcovaldo di Anweiler. I vari capi di queste fazioni si spacciavano
tutti come protettori del sovrano, ma in realtà Federico era completamente
abbandonato a se stesso, senza appoggi di alcun genere: un ragazzo vagabondo per i
vicoli palermitani.
Con tutta probabilità la perdita della madre in tenera età, vista da Federico
come un abbandono, dovette condizionare negativamente i suoi rapporti con le
donne. Forse fu la mancanza di una presenza femminile accanto a lui, durante gli
anni della fanciullezza, a determinare la sua diffidenza, la sua gelosia e l'incostanza
dei suoi rapporti amorosi. La sua fu un'infanzia triste e solitaria, nella quale il
fanciullo sopperí alla mancanza di affetti con lo studio di svariate discipline,
l'apprendimento delle lingue (francese, tedesco, volgare, latino, greco e arabo) e delle
arti militari (era buon spadaccino ed eccellente arciere) nonché cacciatore
espertissimo.
L'infanzia e l'adolescenza di Federico trascorsero a Palermo, nella reggia
depredata da Enrico VI, dove per la cattiva amministrazione dei suoi appannaggi egli
soffrì perfino la fame.
Il 26 dicembre 1208 il quattordicenne Federico, per la legge di allora, divenne
5
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
maggiorenne e non fu più rex Siciliae solo nomine. Purtroppo egli si trovò di fronte a
un regno economicamente in rovina, dilaniato dalla guerriglia e dalle appropriazioni,
alle quali avevano partecipato gli avventurieri germanici, i baroni normanni e i
saraceni. Il regno di Ruggero II, della tolleranza e della concordia, ove prosperavano
in pace normanni, siciliani, greci e arabi non esisteva più.
Quando il nuovo re si accinse a riconquistare le sue terre poteva contare solo
sulla fedeltà del popolo e del clero nelle città di Palermo, Messina, Catania,
Caltagirone e Nicosia, ma le loro truppe, composte solo da fanti, non riuscivano a
sottomettere i rivoltosi.
Forse fu questo uno dei motivi per i quali Federico, a 15 anni, sebbene
riluttante, accettò di sposare Costanza d' Aragona, unione proposta e caldeggiata da
Innocenzo III.
La sposa aveva l0 anni più di lui ed era già vedova del re d'Ungheria, ma gli
portava in dote 500 cavalieri aragonesi che avrebbero potuto contribuire alla
sottomissione del regno.
Poco si sa dei rapporti di Federico con la moglie, d'altronde i cronisti
contemporanei, così chiacchieroni e gazzettieri su molti aspetti della vita
dell'imperatore, sono stranamente poco loquaci sulle sue mogli ed amanti. Di lei
sappiamo che fu l'unica ad essere stata incoronata regina ed imperatrice. Fu reggente
del regno di Sicilia durante la permanenza di Federico in Germania, dimostrando
grande assennatezza nella gestione degli affari di Stato.
Nei suoi confronti egli ebbe sempre una sorta di venerazione e forse, a modo
suo, dell' affetto tanto da desiderare di riposarle accanto nella cattedrale di Palermo.
Le fece erigere un prezioso sarcofago di marmo scolpito e vi fece incidere
questo epitaffio “Io, Costanza,fui regina di Sicilia e imperatrice; ora dimoro qui, o
Federico, e san tua sposa”.
Costanza veniva da una corte raffinata, anch'essa influenzata dalla cultura
araba ed ancor più dal retaggio provenzale della sua famiglia.
Molti si sono chiesti da dove arrivarono in Sicilia ed alla corte di Federico gli
influssi e i trovatori della Provenza. È molto probabile che Costanza nel suo seguito
di sposa abbia portato non solo 500 cavalieri, bensì anche musici e trovi eri. Fu
indubbiamente lei che fece del giovane; cresciuto in rozze compagnie, l'uomo di
corte, elegante e disinvolto. Una maggior sicurezza Federico l'acquisì con la nascita
del primogenito Enrico. Secondo la madre, Costanza d' Altavilla, egli avrebbe dovuto
regnare sulla Sicilia come un re Normanno, lontano dagli odiati tedeschi ed estraneo
alle lotte per l'impero, ma il disegno di papa Innocenza, che aveva scomunicato
Ottone IV e caldeggiato l'elezione di Federico imperatore, cambiò il corso della
storia. Era il 1212 quando, con pochi fedeli, Federico intraprese il viaggio verso la
Germania per esservi incoronato.
6
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
A Roma vide il papa e fu la prima ed unica volta che tutore e pupillo
s'incontrarono.
Grazie alle galee genovesi Federico raggiunse rapidamente Genova.
A quest'epoca sembra risalire l'inizio della sua amicizia con Percivalle Doria,
uno dei poeti più dotati della sua corte.
Dopo un viaggio avventuroso giunse in Germania.
Il suo trionfo in quelle terre ci è proposto da una storiografia tedesca di
intonazione romantica, ispirata dai canti dei Minnesanger e dall'immaginazione
popolare. Federico non è mai stato in terra tedesca un sovrano carismatico, i potenti
feudatari erano avidi e infidi, ed egli dovette pagare il loro appoggio con moneta
sonante, fornitagli dal papa, e con la concessione di privilegi e ricchi doni. Fu eletto
re dei Romani a Francoforte e 4 giorni dopo incoronato a Magonza.
Fu allora che Federico conobbe il poeta Walther von der Vogelweide al quale
concesse un feudo a Wiirtzburg che gli consentisse una serena vecchiaia e di non
temere più il gelido febbraio e la vampa dell'estate.
Quando Federico arrivò in Germania il Minnesang era da tempo entrato nella
sua stagione più felice. La lirica tedesca era fiorita intorno alla metà del XIl secolo in
canti anonimi o di poeti cavalieri che esaltavano l'amore in figure simboliche.
L'influsso solare della poesia di Provenza si era trasformato, in terra germanica, in un
canto più mistico e notturno che ascenderà alle vette più alte del sentimento e del
misticismo nel Parsifal di Wolfram von Eschenbach. Indubbiamente anche il contatto
con questi poeti accrebbe il desiderio dell'imperatore di avere un nucleo di trovatori
alla sua corte. Fino alla morte di Innocenzo III nulla lasciava presagire che nel
giovane sovrano si nascondesse l'imperatore deciso a rivendicare in pieno il suo
potere: era allora il più umile e remissivo dei sovrani d'Europa e si era guadagnato lo
sprezzante epiteto di re dei preti. Aveva promesso al pontefice di separare le due
corone di Germania e di Sicilia, di guidare una crociata in Terrasanta, ma la partenza
veniva sempre rimandata. La cosa più importante per il papa era che non vi fosse mai
l'unità delle due corone, che avrebbe stritolato, al centro, i territori della chiesa.
Alla morte di Innocenzo venne eletto Onorio III il cui unico pensiero fu
sempre la crociata e la riconquista di Gerusalemme. A tale scopo continuò ad incitare
Federico alla partenza per la Terrasanta, ma l'imperatore non poteva abbandonare la
riorganizzazione del regno di Germania e di quello di Sicilia gravemente danneggiato
da vent'anni di malgoverno. I continui rinvii finirono per irritare il pur pacifico
Onorio che nel 1225 lo impegnò a partire per la crociata entro due anni, pena la
scomunica.
Come manifestazione di buone intenzioni Federico, rimasto vedovo, sposò
Jolanda, figlia di Giovanni di Brienne, re titolare di Gerusalemme.
L'anno successivo l'imperatore, al culmine della sua potenza, incontrò
7
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
l'unica donna veramente amata nella sua vita: Bianca Lancia.
Scarse e talvolta confuse sono le notizie che i cronisti ci danno di colei che
portò il titolo di concubina imperiale e che gli dette tre figli. Tutti però sono concordi
sulla sua straordinaria bellezza e sul grande amore che per lei nutrì l'imperatore.
Antonio Astesano, in un distico del Carmen, per descrivere le eccezionali doti fisiche
di Bianca afferma che... essa era degna del sommo Giove... e aggiunge che Federico
fu... infiammato ed accecato da quella passione.
Ancor oggi gli storici discutono sulle origini della nobildonna e nemmeno un
convegno a lei dedicato, svoltosi ad Agliano nel 1990, ha risolto definitivamente la
questione. Sembra che il nonno fosse Manfredi I marchese di Busca detto Lancia,
che diede in sposa la figlia a Bonifacio d'Agliano. Quindi la madre di Bianca sarebbe
stata una Lancia e il padre il Signore d'Agliano. Lo zio della bellissima fanciulla
sarebbe stato quindi quel Manfredi II Lancia che figura tra i più fedeli dignitari della
corte di Federico.
Alcuni storici piemontesi vedono in questa relazione dell'imperatore il
tentativo di Federico di legare a sé l'aristocrazia pedemontana. Se tale fosse stato
l'intento del sovrano egli avrebbe scelto una famiglia allora in auge, come i
Monferrato o i Savoia, e non un casato che a causa delle spese assurde e di una
politica dissennata, condotta da Manfredi I, era ridotto sul lastrico.
Ma vi sono altre prove che indicano come quella relazione nacque dall'amore
e non da un disegno politico:
l. l'imperatore ebbe molti figli illegittimi, uno da ogni donna diversa, mentre
da Bianca Lancia ne ebbe tre;
2. nel corso dei suoi tre matrimoni, ebbe contemporaneamente parecchie
amanti, mentre nei sette anni circa della sua relazione con la nobildonna piemontese
egli le fu sempre fedele;
3. i figli avuti da Bianca furono i suoi preferiti ed egli combinò per loro ricchi
e importanti matrimoni. La primogenita, nata nel 1229, chiamata nientemeno che con
il nome della madre Costanza fu sposata a Giovanni Vatatze, imperatore bizantino di
Nicea. Manfredi, il figlio prediletto, nato nel 1232 sposò in prime nozze Beatrice di
Savoia e, successivamente, Elena principessa d'Epiro. Di Violante che si crede nata
nel 1233 o 34, i cronisti dicono che avesse ereditato dalla madre il fascino e lo spirito
delle donne di casa Lancia e osservavano con stupore che essa, caso unico, poteva
contraddire il suo imperiale padre senza subirne le conseguenze. Federico la sposò ad
un suo fedelissimo: Riccardo conte di Caserta;
4. l'importante opera di falconeria “De arte venandi cum avibus” non è
dedicata ad uno dei figli principi, natigli dalle tre mogli, bensì al carissimo ed
amatissimo Manfredi.
“Biondo era, e bello e di gentile aspetto” così ci presenta questo re di Sicilia
il sommo Dante nel terzo canto del Purgatorio e, se è vero che egli assomigliava
8
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
moltissimo alla madre, dobbiamo ritenere la frase dantesca come il probabile ritratto
di Bianca Lancia.
A questa donna è legato in particolar modo il castello di Gioia del Colle.
L'imperatore non lo costruì ex novo bensì, al ritorno dalla Crociata, fece ingrandire e
potenziare una preesistente struttura normanna.
Chi visita oggi questo castello viene condotto a vedere una cella sotterranea
dove spiccano, su una pietra del muro, due tondi in rilievo e si sente raccontare
questa leggenda:
“vuolsi che vi fu messa in prigione e vi morisse Bianca Lancia, madre di
Manfredi, e che quivi egli nascesse. Bianca accusata d'infedeltà fu per ordine
imperiale qui relegata benché incinta. Si partorì Bianca ed il pargolo era assai
simile a Federico per un neo sulla spalla sinistra. Bianca si recise le poppe che unite
al bimbo mandò a Federico in un vassoio. In seguito di ciò morì e qui fu tumulata.
Ricordano il fatto due poppe sculte a rilievo. Fu rinvenuta una tomba vuota”.
Uno scrittore pugliese dopo una visita alla cella sotterranea, aggiungeva:
“Ed io ho veduto le mammelle di Bianca, le ho vedute nel ricordo eternato
della pietà del popolo, perché i carcerieri della infelicissima adultera amante del re
le scolpirono nel mezzo, ad altezza d'uomo per indicare dove l'Imperatrice era
morta. Ed il popolo che ha talvolta il concetto sacro dell' amore più di quello della
gerarchia, battezzò la morta con il nome di imperatrice già che il grande imperatore
l'aveva amata e poi odiata e poi lacrimata”.
Schliemann, nello spiegare il suo straordinario ritrovamento della città di
Troia: diceva che “Ogni leggenda ha un fondo di verità”, pertanto qual è la parte
storica celata nella leggenda popolare di questo castello?
Escludiamo il tradimento di Bianca e il sospetto sulla nascita di Manfredi
perché mai Federico, geloso e possessivo, avrebbe amato un figlio sospettandolo non
suo. Più logica mi sembra possa essere la morte di parto di Bianca e la furia
dell'imperatore che punì la levatrice incarcerandola. Tale tesi è confermata dai recenti
studi del Decker-Hauff che ha dimostrato come l'amata di Federico morì di parto nel
castello di Gioia del Colle e che l'imperatore la sposò sul letto di morte legittimando
“per matrimonio subsequens” i figli avuti da lei. Sappiamo che le collere di Federico
erano terribili, è quindi logico presumere che egli, nel suo furore, abbia falciato
quanti, secondo lui, erano legati alla morte dell'amatissima Bianca.
Da qui il ricordo popolare di un evento tremendo avvenuto nel castello di
Gioia e legato ad una nascita e ad una morte.
Ci sarebbe anche un altro indizio a suffragare quanto sostenuto dallo storico
tedesco: dopo la morte di Federico II fu Manfredi ad organizzare l'imponente corteo
funebre che dal Castello di Fiorentino doveva portare le spoglie del sovrano a
Taranto per l'imbarco sino a Palermo, dove sarebbe stato tumulato. Vi fu un'unica
9
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
sosta: nel Castello di Gioia e la bara di Federico fu sistemata per una notte al centro
della sala del trono di quel fortilizio. Il figlio aveva voluto che, per l'ultima volta, la
salma del padre sostasse nel luogo dov'era morta la madre. E non è da escludere che
la croce in pietra che sovrasta una finestra della cortina di levante del castello stia ad
indicare la stanza ove morì l'amata dell'imperatore e non, come ipotizzato da
qualcuno, la sala interna adibita a cappella all'epoca di Federico II. Forse la fece
apporre il figlio Manfredi divenuto, alla morte del padre, principe di Taranto e quindi
signore del Castello di Gioia del Colle. Non è comunque da escludere anche l'ipotesi
che la croce sia stata messa dal padre di Bianca, Bonifacio d'Agliano, che troviamo
ricordato, in alcuni documenti, come conte di Gioia del Colle.
Forse a questo grande sentimento, che lo legò alla nobildonna di casa Lancia,
è da attribuirsi una frase curiosa contenuta in una lunga lettera, zeppa di quesiti
scientifici, scritta da Federico a Michele Scoto, filosofo e astrologo di corte. Parlando
della sopravvivenza dell'anima, Federico chiede: “E come si spieghi che l'anima di
un uomo vivente, trapassata ad altra vita, non possa essere indotta a ritornare né dal
primo amore, né da odio, come se nulla fosse stato, e non si curi più delle cose
lasciate?”.
Frase significativa e struggente, riflesso del sentimento disperato di un uomo
che piange il perduto amore e che pur essendo il re più potente dell'Occidente
Cristiano non è capace di sconfiggere né la morte, né la solitudine del cuore.
Dopo la morte di Bianca egli, per ragion di stato si sposerà ancora una volta,
con la principessa Isabella d'Inghilterra ma, come per le altre mogli, non l'amerà ed
essa sparirà agli occhi del mondo nella morbida prigionia delle imperatrici schiave.
Per contro il sovrano amò moltissimo tutti i suoi figli, sia legittimi che illegittimi e
curò con particolare scrupolo la loro educazione e prestigio.
Gli anni in cui Federico ebbe accanto Bianca Lancia furono indubbiamente i
più felici e i più fecondi della sua vita. La scomunica inflittagli da Gregorio IX, a
causa dei suoi indugi a partire per la crociata, e la successiva partenza per
Gerusalemme nonostante la sanzione ecclesiastica, non ebbero su Federico e sulla
sua immagine che un peso relativo. La conduzione tutta diplomatica della Crociata,
senza aver sparso il sangue degli Infedeli, mise in tumulto la cristianità.
Ma Federico, sebbene valoroso e spesso in guerra, in realtà non amava i
campi di battaglia e, come il suo grande avo normanno Ruggero II, appena poteva
cercava di risolvere tutto con trattative e accordi.
Al ritratto crudele e spietato che del monarca svevo ci hanno tramandato gli
scrittori di Terrasanta, si contrappongono le testimonianze degli storici arabi della
crociata che lo descrivono come: tollerante, dotto, curioso, miscredente e generoso.
È certo che Federico non vedeva i musulmani come nemici: i suoi veri nemici
erano in Occidente e, mentre egli in Europa considerava ogni principe a sé inferiore
e non si sentiva secondo nemmeno al papa, stimava il Sultano suo pari, come
10
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
potente signore di un'altra parte del mondo.
Nel viaggio di Terrasanta, perché si trattò tutto sommato di un viaggio,
piuttosto che di un pellegrinaggio armato o Crociata, Federico portò la sua viva
curiosità intellettuale, il desiderio di nuovi rapporti e di esperienze ignote, la volontà
di stupire, con la propria cultura, il dottissimo mondo orientale.
Lo storico arabo Ibn Wasil ha lasciato testimonianza di questo atteggiamento:
... l'imperatore inviò a Malik al-Kamil quesiti su difficili questioni di filosofia,
geometria e matematica, per mettere alla prova i valenti uomini della corte... e il
sultano sottopose i quesiti matematici allo sceicco Alam ad-din Qaisar, maestro di
quest'arte, e il resto ad un gruppo di dotti che dettero a tutto una risposta ...
Sebbene Federico si dicesse “sostegno del Pontefice romano, campione della
fede cristiana” egli era soprattutto un laico che cercava in Terrasanta un punto di
incontro tra Occidente e Oriente, al di fuori dei conflitti fra le opposte fedi,
ponendosi di fronte al cristianesimo e all'islamismo col distacco di un filosofo.
I musulmani rimasero tuttavia incerti e perplessi sul suo conto avvertendone,
con disagio, la miscredenza. L'imperatore non assomigliava per niente ai grandi eroi
franchi conosciuti direttamente o a quelli dei quali avevano sentito parlare dai loro
padri. Dopo trent'anni era ancora vivo il ricordo quasi leggendario del bellissimo e
valoroso Riccardo Cuor di Leone.
Per contro Federico, per quanto agile e resistente ai disagi, mancava di
prestanza fisica. Feroce è il commento del cronista arabo Al-Giawzi quando scrive:
“...1'imperatore era di pel rosso, calvo, miope :fosse stato uno schiavo non sarebbe
valso 200 dirham. Ed era evidente dai suoi discorsi che era un materialista, che del
Cristianesimo si faceva semplice gioco...”
È certo che nel momento in cui si autoincoronò re di Gerusalemme nella
basilica del Santo Sepolcro né cristiani, né musulmani lo consideravano tale. La sua
partenza dalla Terrasanta, richiamato in patria dai torbidi provocati dal papa nel
Regno di Sicilia, fu quasi una fuga e l'imbarco sulla galea nel porto di Acri avvenne
mentre i macellai del mercato, sobillati dalla predicazione francescana, lo investivano
con lancio di budella e frattaglie.
Sebbene conclusasi in maniera così indecorosa, la crociata di Federico II,
senza grandi battaglie o vittorie clamorose, fu sul piano politico un successo. Infatti
per la prima volta, dopo quarant'anni dalla conquista della città Santa ad opera del
Saladino, Gerusalemme aveva in Federico un re vero e non solo di nome.
In seguito dopo essere riuscito, tramite il fedele Herman von Salza maestro
dei cavalieri teutonici, a far pace con il papa e ad essere assolto dalla scomunica,
Federico mise mano alla riorganizzazione del Regno, promulgando le Costituzioni di
Melfi, il Liber Augustalis che nel proemio portava il nome dell'Imperatore con tutti i
suoi titoli: “Romanorum Caesar semper Augustus, Italicus, Siculus, Hierosolymitanus, Arelatensis”.
11
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
In esso veniva chiaramente affermata l'autonomia dello Stato rispetto all' altra
potenza, la Chiesa, che pretendeva dirigere gli uomini. Egli negava la mediazione
sacerdotale del potere e alla luce di quanto affermato nel Liber Augustalis aveva un
senso il suo gesto di incoronarsi a Gerusalemme senza un intermediario ecclesiastico
tra sé e Dio.
Le Costituzioni non sono un documento originale, ma una raccolta delle leggi
e dei decreti normanni e delle prime leggi federiciane, vi si sentono talvolta gli
influssi del diritto canonico, gli apporti della scuola di Bologna e della legislazione
romana. La loro grandezza quindi non è nell'originalità, ma nel proposito di
riordinare e chiarire. Un grande senso di giustizia pervade il Liber Augustalis e vi si
dichiara l'assoluta uguaglianza di tutti di fronte alla legge “siano essi franchi, romani
o longobardi”.
Le novità più importanti sono:
· la punizione del giudice fraudolento;
· l'eliminazione del duello e del giudizio di Dio;
· l'introduzione di pene per chi rapiva le donne e faceva violenza alle prostitute;
· condanne per ruberie e mancata assistenza ai naufraghi;
· l'obbligo di solenne resa dei conti per i tutori dei minori;
· il divieto di processi contro fanciulli e pazzi omicidi;
· l'educazione a spese del fisco dei figli di donne giustiziate;
· la proibizione dell'obbligo di acquisto, per i sudditi, dei prodotti del Demanio o di esigere servizi gratuiti a favore del Demanio.
Certo la sopravvivenza di alcuni aspetti del diritto barbarico, come il taglio
della lingua al bestemmiatore o del naso all' adultera, rispecchiavano la concezione
morale dei giorni suoi. Per Federico il diritto era uno strumento di potere esercitato
attraverso il tribunale della Magna Curia. Le città che intendevano darsi ordinamenti
propri eleggendo consoli, rettori e podestà erano punite con la desolazione perpetua, i
ribelli allo stato dati alle fiamme come eretici. Sia gli uni che gli altri erano fautori
del disordine e dell'anarchia. Lo stato era una rigida struttura gerarchica con al
vertice l' imperatore. Il maestro giustiziere, i giustizieri regionali, i camerari, ecc.
facevano parte di un gruppo di abili burocrati dal quale furono esclusi, un po' alla
volta, gli ecclesiastici e i nobili, mentre accedevano alla cancelleria imperiale esperti
giuristi, spesso di modesta condizione sociale. Primeggiarono tra di essi Pier delle
Vigne e Taddeo di Sessa.
Nello stesso anno delle Costituzioni di Melfi, il 1231, Federico cominciò a
riorganizzare la vita economica del Regno. Istituì il monopolio del sale da vendersi
all' ingrosso e al minuto, del ferro, dell' acciaio, della seta e del rame. Il monopolio
della seta per la Puglia e la Calabria fu affidato, assieme alle tintorie, agli ebrei di
Trani.
12
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
Federico sapeva utilizzare accortamente le risorse del Regno e come suo
nonno il normanno Ruggero II, con una politica tollerante sotto la diretta protezione
della corona, assecondò negli ebrei l'abilità nel commercio e negli arabi lo spirito
guerriero, arruolandoli nell'esercito imperiale. Teniamo sempre presente che in
Federico la tolleranza ebbe un limite che coincideva con la salvaguardia dell' ordine
dello stato. È pur vero che dopo aver sconfitto i musulmani di Sicilia,
tradizionalmente fedeli alla monarchia ma irrequieti e turbolenti, egli ne deportò i
superstiti in parte a Lucera, presso Foggia, e gli altri a Nocera, in Campania, che fu
detta perciò “dei Pagani”. La colonia di Lucera era particolarmente numerosa e fu
lasciata libera di amministrarsi autonomamente, e di costruire moschee e vivere
secondo i dettami dell'Islam. Da allora essi dedicarono all'Imperatore e ai suoi
discendenti una fedeltà che non venne mai meno.
A Lucera i saraceni furono anche esperti coltivatori e valenti artigiani, famosi
per la damaschinatura delle armi da taglio quali, spade e pugnali. Dai loro ranghi
l'imperatore trasse sempre la sua guardia personale.
Dopo i monopoli, Federico riformò i pesi e le misure, ai quali si aggiunse il
riordinamento del sistema monetario che si trovava nel caos. Nelle zecche di Brindisi
e Messina furono coniati gli augustali d'oro, con l'effigie di Federico sul dritto nel
sembiante di un cesare romano incoronato di alloro, cerchiato dalla scritta "IMPERATORE ROMANO CESARE AUGUSTO" e sul verso l'immagine dell'aquila
imperiale fra le lettere in tondo del nome FRIDERICUS.
Tra l'altro il sovrano si interessò al miglioramento dell' agricoltura, ordinando
la lotta ai parassiti, come attesta un editto del 1231 per la distruzione dei bruchi in
Puglia. Se inizialmente l'imperatore dette impulso ai commerci, in seguito finì per
soffocare la vita economica del Regno con un feroce sistema tributario di stampo
musulmano. Il fisco era il vero padrone del regno e controllava ogni attività
economica: i banchi di cambio, i trasporti, le macellerie, gli stabilimenti di bagni, i
mercati e le fiere.
In quegli anni ebbe inizio la costruzione dei castelli svevi e il restauro di
quelli normanni e la Puglia e la Sicilia ebbero un nutrito sistema di fortificazioni a
difesa del regno meridionale. A differenza dei sovrani normanni che eressero
splendide chiese, quali il duomo di Cefalù e quello di Monreale, il nome di Federico
non è legato ad alcun edificio religioso, sia esso chiesa, abbazia o convento.
L'architettura federiciana è esclusivamente di tipo laico: torri, palazzi e fortezze. E
questo non farà che rafforzare la fama di miscredente attribuita all'imperatore.
Stranamente e in disaccordo con questa fama, ci sono le sue amicizie e le
figure che gli sono accanto: Berardo arcivescovo di Palermo che lo accompagnò nel
primo viaggio verso la Germania e che gli somministrò i sacramenti al momento
della morte; il fedele fra’ Hermann von Salza che fu per 23 anni il mediatore
fra Federico e il papato, il patriarca Bertoldo di Aquileia che intercesse a favore
13
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
dell'imperatore al concilio di Lione suscitando l'ira di Innocenzo IV che lo minacciò
di togliergli il patriarcato, e i cistercensi che gli prestarono in molte occasioni i propri
frati costruttori e dei quali egli indossò il saio in punto di morte.
Se molti denigratori condannarono Federico e gli imputarono molteplici
atrocità, altrettanto fecero i suoi estimatori. Dire che la corte di Federico II rivaleggiò
in sapere con l'antica scuola di Toledo, non è esatto. Federico ricreò la tradizione e
l'apertura culturale presenti alla corte di Palermo, durante il regno del nonno materno,
Ruggero II.
Questo re normanno attirò e fece stabilire nel capoluogo siciliano molti tra i
più ragguardevoli uomini d'ingegno, studiosi, scienziati, dottori e filosofi, geografi e
matematici, sia d'Europa sia del mondo arabo. Il grande studioso arabo al-Edrisi ne
parla così: “Nel campo della matematica e della politica la vastità del suo scibile è
indescrivibile. Non vi è limite alla sua conoscenza delle materie scientifiche da lui
studiate approfonditamente e saggiamente in ogni loro particolare. A lui si debbono
singolari innovazioni, meravigliose invenzioni, quali nessun altro principe ha mai
realizzato”.
Una commissione presieduta da al-Edrisi ricevette dal re normanno l'incarico
di raccogliere informazioni geografiche da tutte le fonti possibili. Il lavoro durò 15
anni e dette origine a due risultati:
1. un planisfero d'argento purissimo, sul quale erano incisi “la configurazione
dei sette climi, i golfi, i mari e i corsi d'acqua, l'ubicazione dei deserti e delle aree
coltivate ecc.”;
2. la più insigne opera geografica del medioevo, frutto delle fatiche di alEdrisi che il suo autore intitolò: “Opera di un uomo desideroso di giungere a
completa conoscenza dei vari paesi del mondo” più nota come il “Libro di Re
Ruggero” e la sua prima pagina è di per sé significativa. Vi si legge: “Il mondo è
tondo come una sfera, le acque vi aderiscono e vi si mantengono a mezzo di un
naturale equilibrio che non conosce varianti”.
Tutto questo avveniva nel 1154, ben 350 anni prima di Cristoforo Colombo.
Ruggero è stato accusato di essere un ingegno poco creativo rispetto a suo
nipote Federico II, perché non ci ha tramandato nessuna opera letteraria veramente
sua. È bene ricordare che il re aveva una spiccata preferenza per le scienze e che
ai suoi tempi i poeti noti a Palermo erano tutti arabi. Comunque senza Ruggero II
il fenomeno culturale della corte sveva non si sarebbe mai verificato. Fu la tradizione
della corte normanna, aperta all'influenza della cultura greco-araba e della filosofia
ebraica, ad attirare alla corte di Federico II un personaggio come Michele Scoto.
Esperto di dottrine scientifiche, di astrologia e di arte magica, egli tradusse opere
di Alpetragio e il De Animalibus di Aristotele, quest'ultima traduzione è dedicata
proprio a: “Frederico, Romanorum imperator, domine mundi”. Rappresentante
di spicco della cultura islamica fu il maestro Teodoro di Antiochia, medico ed
14
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
astrologo, autore di un compendio di igiene e medicina sul modello dei trattati di
medicina veterinaria arabi. Anche il grande matematico Leonardo Fibonacci
dedicava all'imperatore il suo “Liber quadratorum”.
Sebbene all'epoca di Federico II la scuola Salernitana fosse ormai in
decadenza di fronte agli studi di Bologna e Padova, nelle Costituzioni di Melfi era
previsto, per l'esercizio della medicina senza il dottorato di Salerno, un anno di
carcere con la confisca dei beni. La scuola aveva una lunga tradizione di studi
anatomici, basati sulla dissezione dei corpi umani e degli animali.
Nel 1234 l'imperatore riformò l'università di Napoli, fondata 10 anni prima e
decaduta nel contrasto tra l'Impero e la chiesa, nel quadro della riorganizzazione
dello stato poiché in quell 'università si formavano i burocrati del Regno.
Federico era noto per la bramosia del sapere e per la versatilità della sua
mente. Egli approfondiva le cognizioni di cosmografia, matematica, medicina,
filosofia; era più portato per le scienze naturali, alle quali applicava il metodo
sperimentale. Pertanto la caccia col falcone per lui non era solo un semplice diletto,
ma un'arte metodica, e il trattato di falconeria che egli scrisse De arte venandi cum
avibus rivela una prodigiosa preparazione scientifica ed un'acuta esperienza
personale, che gli permisero di controllare e spesso correggere le cognizioni
contenute nel trattato De animalibus di Aristotele. Egli così scriveva:
“Abbiamo seguito Aristotele quando era opportuno, ma in parecchie cose,
specialmente in ciò che riguarda la natura di molti uccelli, pare che egli si sia
allontanato dalla verità, come abbiamo appreso dalla nostra esperienza”.
Il trattato di falconeria di Federico è scritto nello stile semplice e preciso che
si addice alla prosa scientifica. Si compone di sei libri e quale prologo ha la dedica al
diletto figlio Manfredi. Il primo libro è un vero e proprio trattato di ornitologia nel
quale il sovrano classifica gli uccelli delle varie specie, le loro caratteristiche
strutturali, il luogo e il modo di vivere. Negli altri libri si parla di caccia, della varietà
dei falchi nobili e del loro allevamento. Questi pennuti dovevano essere allevati con
cura e addestrati con tecnica. Alla corte federiciana vi era una vera e propria scuola
di falconeria con allevamenti nei castelli dell'Incoronata, di Oria e di Gioia del Colle.
Anche se non fu vero poeta, sembrano suoi solo 4 componimenti, Federico fu
signore e artefice della scuola poetica siciliana.
Il notaio Giacomo da Lentini è considerato l'iniziatore, in concreto, della
scuola e l'inventore del sonetto e come lui altri rimatori furono funzionari di corte,
giudici e notai, da Pier delle Vigne a Jacopo Mostacci e a Guido delle Colonne.
Dell'eredità provenzale i rimatori della corte sveva accolsero solamente il tema
dell'amore.
La vena realistico-burlesca non incontrò il favore nella scuola di Sicilia ed
anche il contrasto di Cielo d' Alcamo rappresenta un'eccezione.
15
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
Nella lirica siciliana non si riflettono le vicende del Regno e dell 'Impero:
mancano i sirventesi infuocati e sarcastici dei trovatori in lingua d'oc presenti alle
corti dell'Italia settentrionale e nella Marca di Treviso.
Il breve e controverso repertorio federiciano è considerato dai più una nobile
finzione, un esercizio nel quale la vita poetica non corrisponde alla vita reale.
Personalmente penso che le due poesie più struggenti, "Poi che ti piace
amore" e "Dela mia disianza", siano realmente legate all'amore per Bianca Lancia,
l'unica donna che dominò il suo cuore per circa sette anni.
Con la ribellione in Germania, del primogenito Enrico, natogli dalla prima
moglie Costanza d' Aragona, iniziò per Federico la parabola discendente. Enrico fu
destituito da re di Germania e sotto la custodia del marchese Manfredi Lancia
condotto in Puglia e rinchiuso in una rocca: otto anni dopo, mentre lo trasferivano ad
un altro castello si gettò in un precipizio.
Ma l'opposizione dei lombardi non dava pace all'imperatore.
Federico li sconfisse clamorosamente a Cortenuova, dove la Lega perse
diecimila uomini, ed egli celebrò il trionfo da imperatore romano entrando
solennemente a Cremona col podestà di Milano, Pietro Tiepolo figlio di Jacopo doge
di Venezia, legato all'asta della bandiera del Carroccio piegata vergognosamente
verso terra, mentre un elefante, dono del sultano d'Egitto, passava fra la moltitudine
festosa portando sul dorso un castello di legno con i trombettieri, i vessilli vittoriosi e
le aquile imperiali.
L'imperatore credeva di essere alla fine della guerra, invece era soltanto al
principio e avrebbe, suo malgrado, passato il resto della vita combattendo.
Per sostenere le spese della guerra e pagare i mercenari, aggravò la pressione
fiscale con collette generali che si susseguivano a ritmo serrato e soprattutto con la
requisizione dei tesori delle chiese, oro, argento, gemme, vesti e paramenti di seta.
Gregorio IX intanto, nel tentativo di distrarre Federico dalla guerra ai Lombardi,
faceva appelli per la Terrasanta. L'imperatore non pensava proprio alla Crociata.
Aveva fatto sposare Enzo, il maggiore dei suoi figli illegittimi, con Adelasia,
signora di Torres e Gallura e lo aveva nominato re di Sardegna. Nel frattempo
appoggiava la politica di Ezzelino da Romano contro suo fratello Alberico e favoriva
Azzo d'Este e altri nobili della Marca Trevigiana.
La Domenica delle palme del 1239 mentre Federico si trovava a Prato della
Valle a Padova, seduto di fronte al popolo festante, Gregorio IX in Laterano
scagliava, per la seconda volta, la scomunica contro l'imperatore.
Iniziò allora uno scambio di lettere feroci nelle quali si accusava il papa di
ambizione e avarizia. In questo clima di ritorsioni il pontefice depose fra’ Elia,
ministro generale dell'Ordine dei Minori e amico dell'imperatore.
Quando le galee veneziane iniziarono le incursioni sulle coste pugliesi
e attaccarono e distrussero due navi imperiali di ritorno dalla Terrasanta, Federico
16
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
fece impiccare, per rappresaglia, Pietro Tiepolo che aveva esibito in catene nel
trionfo di Cortenuova. Il papa indisse allora un Concilio che non poté aver luogo
perché Federico catturò le navi che trasportavano i prelati.
Mentre l'esercito imperiale saccheggiava la campagna romana, il 22 agosto
1241 moriva Gregorio IX quasi centenario.
Il suo successore, Celestino IV occupò il soglio di Pietro per soli 17 giorni.
Dopo quasi due anni, i125 luglio del 1243, fu eletto papa il genovese
Sinibaldo Fieschi dei conti di Lavagna che prese il nome di Innocenzo IV. Il nuovo
pontefice apparteneva ad una nobile famiglia dell'impero e aveva parenti in campo
ghibellino. Federico sembrò soddisfatto dell'elezione e sperò nella pace. Ma
l'imperatore era in errore se credeva di trovare un interlocutore arrendevole in quel
papa freddo e distaccato, ben diverso dal focoso Gregorio. Innocenzo era fermamente
convinto della superiorità del potere ecclesiastico su quello politico ed era ben deciso
a riportare il papato ai fasti precedenti.
Le trattative si presentarono difficili sin dall'inizio, mentre i legati pontifici
sobillavano le città inducendole a ribellarsi all'imperatore.
Secondo l'intento del papa, Federico doveva trasformarsi in un penitente,
dedito alle elemosine e ai digiuni, alla fondazione e alla dotazione di chiese ed
ospedali: umile e devoto avrebbe accettato la scomunica in attesa dell' assoluzione. Il
papa avrebbe assolto l'imperatore dopo la ricostituzione dello stato della chiesa,
Federico invece chiedeva l'assoluzione immediata e, per ottenerla, teneva in pegno le
terre della Chiesa.
Innocenzo, a differenza dello svevo voleva la guerra, ma non intendeva
combatterla nelle condizioni di Gregorio IX con l'imperatore alle porte di Roma.
Fuggì quindi oltralpe, si recò a Lione dove fu indetto un Concilio per giudicare il
sovrano che, costringendo il papa ad abbandonare la città Eterna, diventava un
persecutore della chiesa.
Federico promise di restituire i possessi ecclesiastici, di liberare i prigionieri,
di andare crociato oltremare e restarvi 3 anni, sinché il pontefice non lo avesse
autorizzato a ritornare.
Ma Innocenzo IV, fermo nella sua volontà di annientare il sovrano, respinse
ogni offerta. Nel citato concilio, il sovrano fu deposto e i suoi sudditi sciolti dal
giuramento di fedeltà. Durante questi anni di lotta acerrima per mantenere intatta la
sua sovranità Federico ordinò la costruzione di un monumento che eternasse e
mostrasse ai posteri la gloria sveva.
Il 28 gennaio 1240, da Gubbio, egli firmò un decreto diretto a Riccardo di
Montefuscolo, giustiziere di Capitanata, in cui gli ordinava la costruzione di un
castello presso la chiesa (oggi scomparsa) di Santa Maria del Monte, nei pressi di
Andria.
Nel documento si parla dell'erezione di un castrum.
17
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
Non si sa quando la fortezza fu terminata e se l'imperatore vi soggiornò mai.
Sappiamo solo che nel 1246 il castrum sanctae Mariae de Monte figura nell'elenco
dei castelli pugliesi affidati ai giustizieri di quella terra.
Castel del Monte appare come una splendida opera architettonica della quale
ci è tuttora sconosciuta la destinazione finale.
Non è una fortezza perché vi mancano le strutture tipiche delle opere militari
medievali: il fossato e il ponte levatoio, le postazioni per arcieri e balestrieri, le
caditoie per l'olio bollente, mancano inoltre gli ambienti per accogliere una
guarnigione. Le scale a chiocciola, all'interno delle torri che portano ai piani
superiori, contrariamente alle più elementari regole difensive dell'epoca, girano tutte
a sinistra favorendo l'attaccante e non il difensore. A sfavore dell'uso dell'edificio a
scopo militare depone anche e soprattutto la raffinatezza e la ricchezza dell'apparato
decorativo.
Una possibile ipotesi sulla sua destinazione potrebbe essere quella di una
residenza imperiale progettata per la caccia col falcone e la suggestiva posizione
geografica e la bellezza del luogo, che all' epoca era ricchissimo di verde e di acque,
ne avvalorerebbe l'idea. Ma poteva l'amore per la falconeria giustificare la
progettazione di una struttura così complessa, basata sulla ripetizione quasi ossessiva
dell'ottagono?
Forse è più credibile la tesi che vuole il Castello come simbolo: simbolo della
corona di Gerusalemme, rappresentata come città ottagonale, simbolo dell' impero
celebrato nell' ottagono della cappella palatina di Aquisgrana, simbolo della corona
ferrea dei re d'Italia.
Dunque un simbolo e nel contempo una sfida: domare papa e comuni per
giungere, infine, all'unificazione d'Italia.
Altre ipotesi affascinanti sono state formulate su questo castello.
Qualcuno lo ritiene un trattato di matematica o un simbolo esoterico. L'edi.
ficio costruito in palmi napoletani osserva certe costanti matematiche: le consonanti
musicali dei numeri sonori di Severino Boezio, la sequenza dei numeri magici del
matematico pisano Fibonacci nella quale ogni numero è pari alla somma dei due
precedenti e infine la proporzione aurea di 1,618.
Otto è il numero dell'equilibrio cosmico, della rosa dei venti, dei raggi della
ruota e la struttura del castello esprimerebbe il valore di mediazione tra quadrato e
cerchio. Sul piano esoterico possiamo anche dire che l'ottagono è la figura del fonte
battesimale, connessa con la simbologia della resurrezione, poiché vi si immerge il
neofita per assicurargli la vita eterna.
Guardando il castello dall'alto e dall'interno la struttura dà l'idea di un pozzo.
La simbologia legata alla figura del pozzo rappresenta anche i valori della
sovranità. Questa immagine, nei racconti medievali, ritorna spesso come simbolo
della conoscenza o della verità.
18
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
Se davvero il Castello fu costruito come cenacolo per Federico e i suoi dotti
amici è logico presumere che, a causa della situazione politica, esso rimase deserto.
Fu ironia della sorte o voluta crudeltà degli angioini che questo castello, sorto
perché rammentasse ai posteri la potenza e la gloria degli Svevi, venisse trasformato
in prigione e tomba dei figli di Manfredi e di Federico di Antiochia e dei loro ultimi
sostenitori?
La lotta, ormai, non era più fra la persona del papa e quella dell'imperatore,
bensì fra la chiesa e lo stato, fra due principi contrastanti, fra due idee inconciliabili.
Ormai il destino dell'ultimo Hohenstaufen si faceva crudele ed acerbo.
Seguirono giorni luttuosi: la congiura di alcuni baroni funzionari di corte mentre
Federico era a Grosseto, la disfatta di Parma con la distruzione dell'esercito, il
tradimento di Pier delle Vigne, logoteta del regno di Sicilia e protonotario della corte,
che Dante definisce colui che tenne ambo le chiavi del cor di Federigo e, per ultimo
la sconfitta di Fossalta con la prigionia del figlio Enzo a Bologna.
Il leone svevo, stretto da ogni parte dall'inasprita ostilità dei Guelfi e
amareggiato dall'esitante sfiducia dei Ghibellini, desolato dai lutti familiari, era
sempre più solo, insidiato dal sospetto, intristito dalle vicende avverse. Intanto la
propaganda di Innocenzo IV e dei suoi sostenitori proseguiva instancabile, usando
qualsiasi mezzo: la calunnia, le armi, il denaro, la simonia; per il papa tutto era lecito
pur di annientare l'imperatore.
Il mito e i libelli di parte guelfa descrivono un Federico epicureo, vizioso,
dissoluto. Un enigma sconcertante per i suoi contemporanei.
Certo l'ascesa al potere in giovane età e la mancanza, durante l'infanzia e
l'adolescenza, di una qualsiasi disciplina se non quella impostasi da solo, spiegano
molte delle caratteristiche antipatiche di Federico: la crudeltà, gli improvvisi e
incontrollabili accessi d'ira, la sensualità.
Pochi sanno però che l'imperatore era astemio, non sopportava gli ubriachi,
consumava un solo pasto al giorno. Le sue preferenze in fatto di cibi erano piuttosto
semplici. Prediligeva lo scapece preparato dal suo cuoco Berardo, un piatto tipico
della Puglia meridionale usato tuttora e composto da pesci e verdure, soprattutto
zucchine e melanzane, fritti e poi marinati in una salsa preparata con aceto di vino e
zafferano. Pare che il sovrano fosse ghiotto di prosciutto e formaggi.
Perché tanto scalpore attorno alla corte di Federico e al suo modo di vivere?
L'harem, gli animali esotici, i saraceni e un certo lusso orientale erano sempre esistiti
alla corte normanna, tanto da far soprannominare suo nonno, Ruggero II, sultano
battezzato. Infatti il Tiraz o opificio reale, dove le donne provvedevano alla manifattura delle vesti e paramenti da cerimonia del sovrano, non era altro che l'harem di
corte. Lo stesso discorso vale per il serraglio, presente in tutti i parchi reali di Sicilia.
Il diwan normanno, dove si raccoglievano i proventi dei dazi, dei monopoli
e dei feudi in Sicilia e sul continente, era composto unicamente da personale
19
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 3-20 Imperio
saraceno. Così nelle regioni dove prevalevano i musulmani venivano scelti dei
governatori saraceni chiamati amil.
Ma tutto questo era quasi ignorato al di fuori del Regno di Sicilia e un
apparato reale così fastoso era sconosciuto alla maggior parte degli europei. Federico
invece a causa dei vasti territori a lui soggetti era spesso in viaggio e negli ultimi
dieci anni di vita si spostò continuamente sui campi di battaglia del centro e nord
Italia con buona parte della corte al seguito. Quando i parmensi conquistarono il
campo imperiale vi trovarono: oro, pietre preziose, broccati, vesti di lusso, mobili
rari, il trono e le insegne regali, il sigillo imperiale, la corona, la biblioteca e le donne
saracene. Ma tutto questo sarebbe stato tollerato se egli si fosse prostrato davanti al
papa e avesse governato come suo feudatario, cosa impossibile ed estranea alla
concezione del potere assoluto presente in Federico. Egli concepiva uno stato
accentrato e burocratico, senza alcun controllo del potere sacerdotale, uno stato che
viveva perché così voleva il suo sovrano.
Intanto uno dietro all'altro sparivano dalla scena i maggiori personaggi
dell'età di Federico, divorati dall'inferno dantesco con i suoi sepolcri infuocati, la
selva dei suicidi e la riviera del sangue. Il 1250 vide la riscossa delle armate imperiali
un po' dovunque, ma il sovrano da oltre un anno si trovava nella diletta Puglia: non
aveva partecipato più a nessuna campagna ed era stato ammalato a più riprese.
Fra’ Salimbene, nella sua cronaca, narra della grande tristezza che avvolse
l'imperatore nei suoi ultimi tempi.
Alla fine di novembre di quell' anno, il sovrano ancora ammalato, si mosse da
Foggia verso Lucera e andò a caccia. Ma una grave infiammazione intestinale lo
colse. Era veramente un malanno o un nuovo e riuscito tentativo di avvelenarlo?
Fu trasportato poco distante al castello di Fiorentino in gravi condizioni e
Berardo, arcivescovo di Palermo, convocò i grandi dignitari dello stato, dinanzi ai
quali Federico fece testamento.
Una cronaca, scritta peraltro dopo la morte dell 'Imperatore, narra che gli
astrologi gli avevano predetto la morte subflore, più precisamente che sarebbe morto
davanti a mura di ferro non appena fosse giunto in una città dal nome di fiore.
Intendendo il nome di Castel Fiorentino e avvedutosi che il suo letto era situato
accanto ad una porta murata, che aveva verso l'interno battenti di ferro, pare egli
esclamasse: questo è il luogo della fine che mi è stata predetta. Sia fatta la volontà di
Dio. Il 13 dicembre peggiorò improvvisamente e il suo più vecchio e fedele amico
Berardo gli somministrò i sacramenti.
L'unico dei suoi figli presente era il prediletto Manfredi.
Moriva così a 56 anni Federico II, la meraviglia del mondo, di quel mondo
che non lo aveva compreso.
Sul castello vegliavano immobili i fedeli saraceni.
20
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso
MASSIMO GUSSO
Il QUADRATO “MAGICO” POMPEIANO
(appunti per una conversazione)
§ 1. Premessa
Mi occuperò in queste succinte note d'una figura, insieme -per così dire- geometrica e letterale, che per oltre millecinquecento anni, ha attraversato la Storia
rimanendo perfettamente intatta, se si fa eccezione per il materiale sul quale volta per
volta veniva scritta o incisa.
Si tratta di un crittogramma dalla probabile ascendenza cristiana o giudaicocristiana, che, a seconda degli interpreti dai quali è stato studiato, viene descritto
come “Quadrato SATOR” o “Quadrato ROTAS”, o ancora “Quadrato magico pompeiano”, in quanto le sue più antiche raffigurazioni sono state rinvenute appunto nel
corso degli scavi della cittadina distrutta dall'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.(1).
(1)
V. più oltre la bibliografia specifica al § 7. Per gli scavi di Pompei cfr. in particolare la Guida
Archeologica di Pompei, pubblicata da Mondadori, Milano, 1976 (a cura di E.LA ROCCA, A.DE VOS e
F.COARELLI).
21
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso
Dai primi incerti graffiti, fino alle più precise raffigurazioni parietali o
pavimentali, questa misteriosa figura, espressione di un concetto mistico-religioso e,
insieme (forse) simbolo di appartenenza religiosa, si è prestata e si presta a svariate
interpretazioni.
Mi limiterò, in questa sede, alla sola specifica disamina dei graffiti
pompeiani, ed alla loro lettura: essi sono infatti, come già accennato, le più antiche,
ma proprio per questo le più “inquietanti” testimonianze del messaggio contenuto nel
crittogramma.
§ 2. La prima diffusione del Cristianesimo
Secondo la tradizione la morte di Gesù è fatta risalire al 33 d.C.: in realtà essa
dovrebbe essere anticipata di vari anni(2); la prova diretta, nei decenni
immediatamente seguenti, della diffusione di messaggi cristiani riconoscibili al di
fuori dell'area geografica palestinese, e in particolare in Italia, è inconsistente, ed è
comunque trascurabile prima del secondo secolo d.C.(3)
La tradizione della condanna e dell'esecuzione degli apostoli Pietro e Paolo -a
Roma- nel corso di una ‘persecuzione’, in epoca neroniana, non è supportata da
documentazione coeva.
La prima fase della predicazione evangelica si caratterizzò - com'è
comprensibile - per rudimentalità e modestia di mezzi, come peraltro ci testimoniano
gli stessi Atti degli Apostoli.
Proprio da essi (28,14) apprendiamo che Paolo, nel suo viaggio verso la
capitale, giunse a Pozzuoli, ubi inventis fratribus, rogati sumus manere apud eos..., et
sic venimus Romam. Ciò mostra, senz'ombra di dubbio che esisteva una piccola
comunità cristiana riconoscibile in area campana, contigua alla zona pompeiana ed
(2 )
Comunque non succesivamente al 30 d.C. (cfr. S.MAZZARINO, L'Impero Romano, Roma-Bari,
1973, append. II, p. 884). Se infatti il Vangelo di Luca (2,1-6) pone la nascita di Gesù al 6 d.C., durante il censimento di Quirino, tale data è generalmente giudicata eccessivamente tarda. Sembra si
possa ritenere che alla morte di Erode, primavera del 4 a.C., Gesù avesse almeno due anni:
conseguentemente se la sua vita terrena durò poco più di un trentennio, si dovrebbe arrivare
all'incirca agli anni dal 27 al 29 d.C.: Gesù, secondo alcuni scrittori cristiani, sarebbe morto duobus
Geminis consulibus, e cioè mentre erano consoli C.Fufio e L.Rubelio Gemino, nel 29 d.C. Pilato
governò la Giudea dal 26 al 36 d.C. e quindi ogni congettura deve alla fine iscriversi in quest'arco
di tempo. Tutti i riferimenti neotestamentari presenti in questo lavoro rinviano al Novum
Testamentum graece et latine, nell'edizione di A.MERK, Sumptibus Pontificii Instituti Biblici, Roma,
1964.
(3) Nel sito archeologico che ha restituito tra l'altro i cosiddetti Manoscritti del Mar Morto è stata
scoperta una tomba databile attorno al 42 d.C., con lamentazioni per la crocifissione di Gesù.
Sarebbe questa la prima documentazione epigrafica del cristianesimo (cfr. ancora S.MAZZARINO,
L'Impero Romano, cit., p. 888).
22
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso
ercolanense, verosimilmente composta, almeno in questa fase, da ebrei cristianizzati(4).
§ 3. La scoperta del Quadrato a Pompei
Il 12 novembre 1936 Matteo Della Corte, il più noto studioso dei graffiti
pompeiani, lesse ed identificò il quadrato magico inciso sullo stucco di una delle
baccellature di una colonna del portico occidentale della Grande Palestra. Il graffito
campeggiava in mezzo a molte altre iscrizioni (non meno di diciotto) di mani diverse,
fatto molto comune in un luogo come quello, che rappresentava -in tutta evidenza- il
tipico punto di incontro dei giovani di ogni ceto sociale(5).
È opportuno mostrare qualche esempio di graffiti per dare l'idea della loro
forma esteriore e del loro contenuto(6):
(4) Cfr.
in gen. A.PINCHERLE, Introduzione al Cristianesimo antico, Laterza, Bari, 1971, pp. 39 ss.
Guida Archeologica di Pompei, cit., pp. 257 ss.
(6) N. 144: Nec Phrygas (sic) | extabant quid | agit apex dexter [verso di ispirazione virgiliana, da
Aen. I,468? Allusivo a una competizione sportiva]; N. 147: Mille meae siculis errant (in montibus
agnae) [verso di ispirazione virgiliana dalla II ecloga]; N. 158: Nec prius | absistit quam | septe(m)
ingentia | victor corpora | funda(t) humi [Aen. I,192-193, riproduzione parziale].
Assai significative risultano in particolare, sempre nell'area della Palestra, le scritte lasciate dai
gladiatori, i veri divi sportivi del tempo, che appaiono vanagloriose e leggere, solo in apparente
contrasto con la consapevolezza della sorte tragica che aspettava i loro autori. Si vedano il graffito
di mano del trace Celadus, che si definisce: suspirium et decus puellarum («struggimento e
ammirazione delle ragazze»), e quello del reziario Crescens, che di sé scrive: dominum et medicum
puparum nocturnarum («signore e medico delle ‘belle di notte’»); cfr. Guida Archeologica di Pompei, cit., p. 255.
(5) Cfr.
23
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso
L'usura del tempo e delle intemperie ha ormai definitivamente cancellato il
piccolo graffito (l'altrezza delle lettere era di mm. 6): ne fu tratta tuttavia
fortunatamente una fotografia e ne fu tracciata una scrupolosa trascrizione.
Ci resta nella parte centrale l'enigmatica scritta che così si può ricomporre:
Lo scopritore si rese conto di aver già incontrato, sia pure mutilo, lo stesso
schema letterale il 5 ottobre 1925 (esemplare pubblicato nel 1929 in Notizie degli
Scavi, p. 449, n. 112, fig. 2), su di un frammento d'intonaco dell'ambulacro
meridionale della c.d. Casa di Paquio Proculo(7), senza percepirne, allora, il
significato(8).
Pompei fu sepolta dal Vesuvio nell'agosto del 79 d.C.: la tragedia ha sigillato
la città e quel che vi si trova è perciò incontestabilmente datato. Conosciamo cioè,
prendendo a prestito un'espressione della filologia, il terminus ante quem di qualsivoglia evento avvenuto in quei luoghi. Niente infatti, che non possa essere
antecedentemente datato, può mai esservi avvenuto dopo il 79 d.C.: in certuni casi
possiamo determinare, con una buona approssimazione, ad es., che una scritta poté
essere apposta anche prima di questa fatale data. Ed è probabilmente proprio il caso
del graffito oggetto di questa conversazione.
Infatti la colonna interessata all'iscrizione appartiene ad un gruppo di colonne
stuccate senz'altro databili a prima del terremoto che funestò Pompei nel 62 d.C. in
quanto non danneggiate dallo stesso terremoto, come altre in laterizio, e per altre
ragioni conseguenti ai rilievi degli archeologi al momento della messa in luce della
zona. Infatti tutta la Grande Palestra era in realtà stata trasformata in un cantiere di
lavoro e in quello stato venne poi ricoperta dai lapilli dell'eruzione. Si deve ritenere
ch'essa non fosse più stata utilizzata come tale proprio per i lavori in corso e che
(7 )
Sulla Casa di Paquius Proculus (detta anche Casa di C.Cuspius Pansa) cfr. Guida Archeologica
di Pompei, cit., pp. 208-210.
(8) I due distinti graffiti sono scientificamente catalogati come CIL (Corpus Inscriptionum
Latinarum) IV,8123 (mutilo, Casa di Paquio Proculo) e IV,8623 (integro, portico occidentale della
Grande Palestra, ex Notizie degli Scavi, 15 (1939), pp. 263-266, nr. 139).
24
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso
quindi non ci fosse ragione perché qualcuno andasse a tracciarvi graffiti o a lasciarvi
messaggi(9).
§ 4. Possibili interpretazioni del crittogramma
In ogni caso il nostro quadrato magico, sia che lo si voglia datare al 62 d.C.,
ovvero, all'estremo, al 79 d.C., resta una scoperta interessantissima, specie se, come
vedremo di seguito, constatiamo di trovarci davanti ad un esplicito ‘messaggio’
cristiano.
F.GROSSER, nel 1926, aveva decifrato l'enigmatica scritta sulla base degli
esemplari che, databili a partire dal III sec. d.C., si incontrano con una certa
frequenza in diverse province dell'impero romano, dalla Britannia(10) alle rive
dell'Eufrate.
Le lettere sono venticinque, con la seguente ricorrenza:
lettera
frequenza
A
4
E
4
N
1
O
4
P
2
R
4
S
2
T
4
Le parole sono, necessariamente, cinque: ROTAS e il suo rovescio SATOR;
OPERA e il suo rovescio AREPO, oltre a TENET, leggibile da ogni verso e incrociata su
se stessa.
Si tratta di un versus ricurrens, di un palindromo, di una frase, cioè, leggibile
in orizzontale (da sinistra a destra e viceversa) ed in verticale (dall'alto in basso e dal
basso in alto)(11).
(9 )
A meno di supporre in via del tutto ipotetica che l'autore della scritta fosse uno degli addetti al
cantiere edile impiantato nella Palestra.
(10) Si rinvia per tutti alla formella di stucco inciso con le lettere del quadrato-ROTAS scoperta nel
1868 a Cirenchester. Per il quadrato scoperto nei pressi di Budapest v. qui, infra, nota 17.
(11) Molte iscrizioni magiche antiche sembrano (e forse sono) senza significato. Il loro potere era
immaginato come residente nelle parole stesse. I palindromi erano considerati particolarmente
potenti ed efficaci: Α ΒΛΑ ΝΑΘ ΑΝΑΛΒΑ è uno dei più comuni, forse versione deformata di
parole ebraiche (cfr. infra, bibliografia § 7, 1970J.FERGUSON, p. 154).
25
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso
Al di là della interpretazione del testo così come si legge, è possibile operare
una combinazione delle lettere che lo compongono tale da ottenere due volte la
parola PATERNOSTER intersecante a croce sulla N, con -in aggiunta- le lettere di inizio
e fine A e O, che sono state felicemente interpretate come le lettere greche A (alfa) e
Ω (omèga), simbolo mistico dell'inizio e della fine delle cose, riferibile al Nazareno,
secondo l'infrascritto schema:
È noto che nell'Apocalisse di Giovanni (1,8) si legge: Ego A et Ω, principium
et finis, dicit Dominus Deus, qui est et qui erat et qui venturus est, omnipotens(12).
Si è voluto sostenere che un testo così recente, come quello del quadrato
(databile addirittura allo stesso periodo della visita paolina ai cristiani di Pozzuoli),
non potrebbe aver anticipato spunti presenti per la prima volta nel libro
dell'Apocalisse. In realtà, a parte gli echi stoici o mithraici, che qualquno vi ha voluto
vedere, ma che sono difficilmente dimostrabili, dentro al nostro quadrato magico si
riflette probabilmente il complesso mondo dell'esoterismo giudaico fuso
intraprendentemente nel nascente cristianesimo.
Una presenza giudaica in Pompei è peraltro attestata con sicurezza da alcuni
graffiti specifici(13), e non è poi detto - in ogni caso - che debba esser stato l'autore
Il testo greco recita: Ἐγώ εἰμι τὸ ἄλφα καὶ τὸ ὦ, λέγει Κύριος ὁ Θεός, ὢν καὶ ὁ ὴν ὁ
ἐχόμενος, ὁ παντοκρἁτορ. Cfr. ancora Apoc. 21,6: Ego sum Α et Ω, initium et finis. Sul
(12)
significato dei passi cfr. A.LÄPPLE, Die Apokalypse nach Johannes, Don Bosco Verlag, München
(tr.it. L'Apocalisse, Edizioni Paoline, Roma, 1980, pp. 70 e 220). Non si può non ricordare che
anche in ambiente non cristiano si fa uso della metafora alfabetica: in un epigramma di Marziale
(IX,95) troviamo infatti un gioco di parole su di un personaggio che comincia ad essere Alfius per
finire Olfius, con esplicito rinvio ad A e Ω. Cfr. più oltre la bibliografia specifica al § 7:
1953F.DORNSEIFF.
(13) Cfr. il celebre CIL IV,4976 (SODOMA GOMORA).
26
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso
dell'Apocalisse l'inventore dell'efficacissima formula dell'A e dell'Ω.
Ricordo che alla base del quadrato pompeiano erano state graffite (dalla
stessa mano) tre lettere, che sembrerebbero rappresentarne una sorta di sintesi: si
tratta infatti della combinazione di A, O (=Ω), estremi dello svolgimento del crittogramma, e di N, centro dello stesso. La N, in particolare, rappresenterebbe la sigla del
Salvatore: N(azarenus).
Le tre lettere, insieme, significherebbero quindi: Principio (A) e fine (Ω) di
ogni cosa è il Nazareno (N).
Questa sigla sintetizzerebbe peraltro il misterioso motto aramaico che si trova
in chiusura della prima lettera di Paolo ai Corinzi (16,22), Maran atha (gr. Μαρὰν
ἀθά), che starebbe a significare appunto: Nostro Signore è principio e fine (di ogni
cosa).
Più difficile è dire se le lettere S e Δ (delta), che precedono invece il quadrato
(della stessa mano?) siano o meno simboli cristiani: secondo alcuni S starebbe per
Salvatore (gr.: sotèr = σωτέρ), e il Δ raffigurerebbe un simbolo trinitario. Tuttavia in
questo caso, ciò pare davvero assai dubbio, data l'epoca.
La S peraltro figura al centro di un immaginario cerchio componibile
potenzialmente da ventiquattro delle venticinque lettere del quadrato. Questa scritta è
leggibile all'infinito sia procedendo da destra che da sinistra, ed ha un aspetto ed una
costruzione che sembra d'origine gnostica (il serpente che si morde la coda: anche la
S, che resta al centro della figura, potrebbe richiamare il serpente e dar quindi accesso
ad un universo parallelo di interpretazioni).
Ma torniamo al graffito ed al suo aspetto esteriore.
La croce che si staglia nel disegno del PATERNOSTER è altresì direttamente
ravvisabile all'interno del quadrato, comunque si orientino le parole, all'incrocio dei
due TENET legati sulla unica N mistica(14):
(14)
È noto che la preghiera del Pater Noster è recitata da Gesù nel corso del celeberrimo Discorso
della Montagna, stante l'evengelista Matteo (6,9-13), in un testo riferibile al massimo al 50-55 d.C.;
il Pater Noster riferito da Luca (11,1-4), assai più breve, risale invece ad una tradizione diversa e
comunque deriva da un testo composto non prima del 61-64 d.C. (cfr. G.RICCIOTTI, Vita di Gesù
Cristo (1941), Mondadori, Milano, 1974, pp. 346 ss.; 359-361; 481-483).
27
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso
Ciò si verifica anche per il testo greco(15).
Ma il quadrato, tra le sue tante sorprese cela al suo interno due tipi di croce:
quella immissa, o capitata, cioè la tipica croce latina:
e quella a tau (c.d. commissata o patibulata):
Per quest'ultimo tipo di croce, le lettere che non contribuiscono a comporre il
disegno del tau:
consentirebbero (se ricomposte) di leggere la seguente brevissima frase:
cioè: il Padre Salvatore è l'inizio e la fine di tutto.
Infinito è stato e sarebbe ancora il dibattito sulla forma della croce cristiana.
Personalmente ritengo tuttavia che, al di là dell'interesse archeologico (o per la storia
dei simboli dell'arte sacra), la disposizione dei due assi della croce dipendesse
purtroppo dall'estro dei carnefici, dal numero delle esecuzioni che dovevano eseguire
e quindi -se mi si consente- dai loro problemi tecnici, per quanto orribili, ma non da
altro.
Normalmente il palo verticale doveva trovarsi infisso stabilmente, soprattutto
se il luogo delle esecuzioni era a ciò specificamente deputato (come nel caso del
Calvario). Non è necessario specificare i vantaggi che derivavano a chi eseguiva le
condanne. Il suppliziando era inchiodato all'asse orizzontale, al quale, verosimilmente veniva anche legato: quest'asse veniva poi issato con corde al palo infisso
(15)
Il palindromo σατωρ αρεπω τενετ ωπερα ρωτασ è peraltro rinvenibile in diversi papiri
magici della tradizione alessandrina e copta (cfr. bibliografia, infra § 7: 1949 K.PREISENDANZ, s.v.
«Palindrom»).
28
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso
in terra e, a questo punto il condannato veniva inchiodato sui calcagni e ulteriormente
legato all'altezza dei piedi, con le ginocchia piegate di lato.
L'incrocio tra i due assi poteva formare una croce a tau, o anche una croce
come quella più tradizionalmente conosciuta, con una porzione visibile del palo
verticale al di sopra della testa del condannato(16).
(16)
A quanto pare il Vangelo di Matteo (15,26) potrebbe lasciar intendere che la croce di Gesù
fosse costruita in questo modo. V. però il celebre crocifisso blasfemo rinvenuto sul Palatino nel
1856 (risalente probabilmente alla prima metà del III secolo: v. riproduzione, pag. 12), ove un
uomo con la testa d'asino è raffigurato crocifisso ad una croce a TAU; cfr. D.VORREUX, Un symbole
franciscain. Le Tau. Histoire, Théologie et Iconographie, Éditions Franciscaines, Paris, 1977, p. 83.
Tuttavia la insospettabile testimonianza di Seneca (Dial. 6,20,3) e anche alcuni ritrovamenti
archeologici di resti di corpi di condannati alla crocifissione, fanno pensare che ci fosse una
notevole varietà di applicazioni del supplizio. Sulla forma della croce cfr. ancora G.RICCIOTTI, Vita
di Gesù Cristo, cit., pp. 676 e 679).
29
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso
Fatto sta che per un periodo non breve la raffigurazione della croce come un
tau è una costante e lo stesso culto reso al simbolo del tau costituisce uno dei più
vitali esempi della simbologia cristiana(17), assieme all'agnello, ed al pesce, il cui
termine greco è un acrostico di Gesù.
Ma veniamo alle interpretazioni letterali. Qualcuno sostiene che la scritta
leggibile nel quadrato significhi che Dio (SATOR), cioè il Seminatore (=il Creatore),
regola le opere (OPERA) degli uomini, ed il movimento degli astri (ROTAS). La parola
AREPO, così, resterebbe tuttavia incomprensibile. Se invece si legge la prima parola
da destra a sinistra e poi, la seconda, da sinistra a destra, e poi di seguito come per la
prima, con il raddoppio della parola centrale, ad imitazione del movimento che il bue
compie sul campo quando ara (c.d. lettura bustrofedica), si leggerebbe: SATOR OPERA
TENET - TENET OPERA SATOR (il creatore governa le opere [degli uomini] - governa le
opere [degli uomini] il creatore). Ma il senso non è comunque soddisfacente, anche
eliminando in questo modo lo scoglio rappresentato da AREPO.
Quest'ultima parola è il rovescio di OPERA, ma è altresì l'acrostico di:
A
Rerum
Extremarum
Principio
Omni
L'intera frase potrebbe cioè significare: Dio governa le opere [degli uomini] e
nelle sue mani sta il principio e la fine di tutto.
Non può poi essere trascurato un passo enigmatico di Ezechiele (1,15-21), cui
sembra alludere l'altrettanto enigmatico incrocio di parole del quadrato(18).
(17)
Il TAU si incontra su di una tegola del III secolo, trovata nei pressi dell'attuale Budapest,
accompagnato da un quadrato magico. All'interno del quadrato le lettere P ed R sono barrate come
per incorporare un TAU nella loro grafia. il TAU, infine, ed il quadrato, campeggiano sui due lati di
una croce di Sant'Andrea, barrata a sua volta da una linea verticale. Il chi (Χ) e lo iota (Ι) così
ottenuti rendono le iniziali greche di Cristo Gesù.
Il TAU è simbolo molto antico (v. ad esempio tra i richiami biblici Ezechiele 9,4): è l'ultima lettera
dell'alfabeto ebraico, scritta x o +, ed aveva frequenti richiami numerologici anche per i greci, ove
rappresentava il numero 300.
Sembra vi alludesse oscuramente anche Gesù (Matteo 5,18), giocando verbalmente sulla lettera iota
e su un trattino orizzontale che la farebbe diventar TAU: il passo è stato interpretato come un
preannuncio della croce.
Se inizialmente il TAU non ha richiami patibolari, questi emergono nella tarda grecità ellenistica
(cfr. Luciano di Samosata, iudic.voc., 12), e permangono ovviamente in tutta la successiva
tradizione cristiana antica e medievale; cfr. D.VORREUX, Un symbole franciscain. Le Tau, cit. pp. 33
ss.
(18) Il Profeta, riferendo la sua visione del cocchio divino, dice: ...Io guardavo quegli esseri ed ecco
30
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso
Esiste infine persino una curiosa proposta interpretativa che si rifà alla tradizione copta abissina ove esiste una catalogazione dei cinque (?) chiodi della croce di
Cristo, ciascuno dei quali avrebbe un suo proprio nome. Alcuni di questi nomi
ricordano in modo impressionante le parole del quadrato magico, e sono cinque come
le parole del graffito pompeiano: SÂDOR, ARÂDOR, DANÂT, ADÉRÂ e RODÂS.
Tornando al ritrovamento pompeiano, è doveroso ricordare che uno studioso
del calibro di J.CARCOPINO(19) ha tuttavia sostenuto a più riprese che la iscrizione
pompeiana sarebbe stata opera di violatori della città di Pompei addirittura del
secondo secolo d.C. i quali, penetrati tra le rovine, avrebbero inciso l'ultimo
messaggio cristiano in voga al loro tempo, di provenienza dall'area lionese (di
ispirazione del vescovo Ireneo, dopo la persecuzione del 177 d.C.). In questo modo
l'illustre storico spiegherebbe il mistero del termine AREPO, per il quale è rivendicata
un'origine celtica (significherebbe ‘aratro’).
Che case ed edifici di Pompei siano stati esplorati subito dopo l'eruzione è
dato di fatto da tutti ammesso. Ciò non significa tuttavia estendere l'esplorazione in
modo indiscriminato.
Ma se entrando in una stanza (di un piano superiore), dall'alto e trovandola
libera da detriti, come peraltro sarà senz'altro accaduto, poteva anche passare nella testa dell'audace violatore di lasciare un segno tangibile del proprio passaggio,
scrivendo magari sul muro: casa violata! (cfr. CIL IV,2311), ciò non può
assolutamente essere accaduto per la zona della Palestra sia perchè le sommità
visibili delle colonne segnalavano esplicitamente che di sotto non v'era più nulla da
prelevare, sia perché le fotografie scattate durante lo sterro dell'area mostrano
chiaramente intatti i diversi strati di lapilli vulcanici.
Non volendo escludere nulla, nulla sembra tuttavia davvero essere convincente: probabilmente tutti i significati proposti hanno qualche possibilità di
contenere parte della verità del misterioso contenuto del quadrato, soprattutto se
considerati in composita mescolanza tra di loro.
sul terreno una ruota al loro fianco, di tutti e quattro. | Le ruote avevano l'aspetto e la struttura come
di topazio e tutt'e quattro la medesima forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in
mezzo a un'altra ruota. | Potevano muoversi in quattro direzioni, senza aver bisogno di voltare nel
muoversi. | La loro circonferenza era assai grande e i cerchi di tutt'e quattro erano pieni di occhi
tutt'intorno. | Quando quegli esseri viventi si muovevano, anche le ruote si muovevano accanto a
loro e, quando gli esseri si alzavano da terra, anche le ruote si alzavano. | Dovunque lo spirito le
avesse spinte, le ruote andavano e ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell'essere vivente era
nelle ruote. | Quando essi si muovevano esse si muovevano; quando essi si fermavano, esse si
fermavano e, quando essi si alzavano da terra, anche le ruote ugualmente si alzavano, perché lo
spirito dell'essere vivente era nelle ruote (il testo italiano è quello della Sacra Bibbia, Edizioni
Paoline, Roma 1980, p. 842).
(19) Cfr. più oltre la bibliografia specifica al § 7: 1948J.CARCOPINO.
31
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso
Ritengo comunque che l'uso di comporre il quadrato fosse un segno di
riconoscimento, un modo di annunciarsi esplicito nello stesso tempo coperto e
riservato, un modo di presentarsi ad altri che conoscessero il suo significato, per
incontrarsi.
Il graffito pompeiano è addirittura firmato da tal SAVTRANVS (o è a lui
dedicato): ciò significa che chi aveva visto il messaggio poteva chiedere di lui,
mentre per tutti gli altri si trattava solo di un rozzo insieme di lettere, del tutto
incomprensibile, ma anche del tutto innocuo.
Bisogna considerare infatti -e invece il fatto sembra sfuggire ai più- che il
culto cristiano doveva sembrare poco meno di una follìa agli abitanti dell'impero, se
non altro per la tremenda provocazione di porre ad oggetto di culto il patibolo più
esecrabile, il summum supplicium per eccellenza, ma anche il servile supplicium, la
pena di morte destinata agli schiavi ed agli humiliores(20). La provocazione era
rivoluzionaria e sconvolgente e, almeno per i primi tempi, agli adepti, in genere ex ebrei, già per questo non particolarmente ben visti, non dovette esser facile
comunicare tra di loro. Ecco allora la necessità di segnali distintivi, di messaggi
segreti i quali son tipicamente destinati -in ogni epoca- a tener alto il morale e a
conservare la disciplina e la coesione del gruppo.
§ 5. Interpretazioni numeriche del quadrato magico
Restando nell'ambiente culturale che aveva prodotto i temi e i testi
apocalittici, pervasi di singolare attenzione per i numeri, si può esaminare il quadrato
magico sul piano, appunto, numerico.
Sul
presupposto della corrispondenza che può essere attribuita
reciprocamente, in greco, ai numeri ed alle lettere, ad es.:
A
I
R
2
B
K
S
3
G
L
T
4 5
DE
MN
UF
6 7
q Z
XO
CY
8 9
H U
P
V Ϡ
s'ottiene un quadrato di numeri contenente una croce latina centrale formata
dal numero cinque, cioè la cosiddetta ‘croce delle quintessenze’:
(20) Sullo
‘scandalo’ della croce cfr. ad es. S.G.F.BRANDON, The Trial of Jesus of Nazareth, Batsford,
London, 1968 (tr.it. Il Processo a Gesù, Edizioni di Comunità, Milano, 1974, spec. pp. 147 ss.);
M.HENGEL, Crocifissione ed espiazione, ed. it. Paideia, Brescia, 1988, spec. pp. 68 ss. e
F.RUGGIERO, La follia dei cristiani, Il Saggiatore, Milano, 1992, pp. 22 ss.
32
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso
E non solo: sommando tutte le lettere del quadrato si ottiene il numero 97.
9+7 fa 16 e 1+6 fa 7, numero apocalittico per eccellenza.
§ 6. Quadrati magici in matematica e nell'arte
Quadrati magici numerici sono conosciuti in Cina e in India, e dall'India,
pare, giungessero in Europa. Furono considerati amuleti contro il malocchio, e come
tali portati addosso, dati ai malati ecc.
Mi ci soffermerò assai succintamente, in quanto questo esula esplicitamente
dal tema della conversazione, pur se merita qualche cenno.
Il più semplice di questo tipo di quadrati è costituito da combinazioni di
numeri da 1 a 9 con risultato 15.
Esempio tipico il seguente:
I più complessi si costruiscono sulla base della somma costante:
n (n2 + 1)
2
ovvero hanno a che fare con la teoria dei numeri primi e la loro spiegazione o la
semplice illustrazione va al di là delle mie forze.
Nel XVI secolo l'alchimista e mago tedesco Enrico Cornelio Agrippa ideò
diversi quadrati magici, dotati di svariate caratteristiche matematiche, i quali, a suo
dire rappresentavano Saturno, Giove, Marte, il Sole, Venere, Mercurio e la Luna.
Uno di questi quadrati campeggia in una celeberrima incisione di A.DÜRER,
33
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso
Melencolia I, ed ha il compito di difendere la figura rappresentata dalla maligna
influenza di Saturno(21).
Si suggerisce di seguito un modestissimo, e senz'altro incompleto elenco
artistico-turistico, dei luoghi ove può essere visto ancora il quadrato magico.
Su di una parete del corridoio di ronda dello Schloss Maretsch (Castel
Mareccio) di Bolzano si trova un quadrato orientato con SATOR, anziché con ROTAS.
Il simbolo dovette essere in qualche modo fatto proprio come simbolo mistico dai
Cavalieri Templari: infatti diversi luoghi templari recano il Quadrato-SATOR, come il
castello di Jarnac, in Francia, o San Giacomo di Compostela. In Italia si segnalano
quadrati magici a Pieve Terzagni, in provincia di Cremona, (pavimento musivo del
presbiterio della chiesa); nel convento di Santa Maria Maddalena a Verona, e sulla
facciata della chiesa di San Pietro ad Oratorium nei dintorni di Capestrano, in
provincia dell'Aquila..
Ma per parlare compiutamente di tutto questo si deve necessariamente
esplorare un'altra storia che spetta a persone più competenti di me raccontare.
(21)
Cfr., per i dettagli, A.WARBURG, Gesammelte Schriften, G.B.Teubner, Leipzig-Berlin, 1932
(tr.it. La Rinascita del Paganesimo Antico, La Nuova Italia, Firenze, 1966, spec. pp. 354-360).
34
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 21-35 Gusso
§ 7. Cenni per un orientamento bibliografico
(in stretto ordine cronologico e senza pretesa di esaustività)
1926 F.GROSSER, «Ein neuer Versuch zur Deutung der Sator-Formel», Archiv. f. Rel.-.Wiss., 24
(1926), pp. 165-169;
1937 M.DELLA CORTE, «Il crittogramma del Pater Noster», Rend. R.Accad. Nap., 17 (1937), pp.
80-99;
1939 M.DELLA CORTE, «Pompei. Le iscrizioni della Grande Palestra ad occidente
dell'Anfiteatro», Notizie degli Scavi, 15 (1939), pp. 239-327, part. pp. 261-266;
1939 M.DELLA CORTE, «I Cristiani a Pompei», Rend.R.Accad.Nap., 19 (1939), pp. 5-32;
1939 A.MAIURI, «La Croce di Ercolano», Rend.Pontif.Accad. di Archeol., 15 (1939), pp. 193218;
1940 A.MAIURI, «La scoperta della Croce ad Ercolano», Le Arti, 2/3 (1940), pp. 187-192 (=
Saggi di Varia Antichità, cit., pp. 379-390);
1941 C.WENDEL, «Das Rotas-Quadrat in Pompeji», Zeitschrift für d.neutest. Wissenschaft, 40
(1941), pp. 138-151;
1941 A.MAIURI, «Dissensi e consensi intorno alla Croce d'Ercolano», Roma. Rivista di studi e
vita romana, 19/10 (1941), pp. 399-413 (= Saggi di Varia Antichità, cit., pp. 391-408);
1945 I.SUNDWALL, «l'enigmatica iscrizione “Rotas” in Pompei», Acta Acad. Aboensis,
Humaniora, 15,5 (1945), pp. 1-17;
1948 J.CARCOPINO, «Le christianisme secret du carré magique», Museum Helveticum, 5 (1948),
pp. 16 ss. (= Études d'Histoire Chrétienne, Paris, 1953, pp. 11-91);
1949 K.PREISENDANZ, s.v. «Palindrom», Real Enz., 18/3 (1949), cc. 133-139;
1951 H.FUCHS, «Die Herkunft der Satorformel», Schweizer Archiv für Volkskunde, 47 (1951),
pp. 28-54;
1952 H.HOMMEL, «Die Satorformel und ihr Ursprung. Studien zum Problem Christentum und
Antike», Berlin, 1952 (= Theologia Viatorum, 4 (1952), pp. 108-180);
1953 F.DORNSEIFF, «Martialis IX 95 und Rotas-Opera-Quadrat», Rheinisches Museum, 96
(1953), pp. 373-378;
1953 A.MAIURI, «Sul Quadrato Magico o criptogramma cristiano», Rend.Accad. Arch. Lett. e
B.A.Nap., 28 (1953), pp. 101-111 (= Saggi di Varia Antichità, Neri Pozza ed., Venezia, 1954,
pp. 303-316);
1957 E.CORTI, Untergang und Auferstehung von Pompeji und Herculaneum, F.Bruckman,
München (= tr.it. Ercolano e Pompei, Einaudi, Torino [1957], 1977, spec. pp. 230-232);
1966 R.ÉTIENNE, La vie quotidienne à Pompéi, Lib.Hachette, Paris, 1966 (= tr.it. La vita
quotidiana a Pompei, Il Saggiatore, Milano, 1973, spec. pp. 257-261);
1970 J.FERGUSON, The Religions of the Roman Empire, Thames & Hudson, London, 1970
(tr.it., Le Religioni nell'Impero Romano, Laterza, Roma-Bari, 1974, spec. pp. 153-156)
35
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
LORENZO CADEDDU
1945 - 1975 DA TRIESTE A OSIMO
PREMESSA
Ringrazio la professoressa Imperio per le belle parole di presentazione ed un
grazie particolarmente sentito a quanti mi onorano con la loro presenza.
Premetto di non essere un conferenziere, ma solo un modesto cultore di storia
e per questo sento il dovere di scusarmi anticipatamente per le carenze e la
frammentarietà di cui potrà risentire l'esposizione.
Il tema che mi accingo a trattare ancorché riferito ad avvenimenti trascorsi da
circa cinquant'anni è drammaticamente attuale e coinvolge emotivamente quanti,
direttamente o indirettamente, hanno vissuto una tra le pagine più buie della storia
d'Italia.
Svilupperò l'argomento limitatamente a quell'osservatorio che oggi potremmo
definire "privilegiato" che era Trieste anche se, me ne rendo ben conto, molto
limitato rispetto alle tragedie che si sono consumate in Istria, in Dalmazia e su buona
parte delle province di Trieste e Gorizia.
Chiedo, dunque, scusa se non darò risalto a taluni avvenimenti che, nell'
animo di chi li ha vissuti e sofferti, assumono particolare rilevanza.
GENERALITÀ
Prima di trattare il tema che mi sono proposto, è bene delineare quale era la
situazione generale nel contesto della quale gli avvenimenti si svolsero.
36
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
Tutto può essere fatto risalire all'8 settembre 1943 quando a Cassibile il
Generale Castellano sottoscrive per l'Italia l'armistizio breve.
A Brindisi, dove si è trasferito il Re con la Real casa, il Generale Badoglio,
d'intesa con gli alleati, cerca di dare efficacia e legittimità al governo monarchico.
Fuori dal territorio nazionale e limitatamente alla Slovenia, Croazia e Dalmazia 8
divisioni italiane si dissolvono per mancanza di ordini.
Molti interrogano la propria coscienza chiedendosi cosa bisognasse fare o
cosa si potesse fare.
Ci sono coloro che si dirigono verso casa, chi si dà alla macchia per opporsi
ai tedeschi e chi, come nella Venezia Giulia, viene "arruolato" nelle brigate
partigiane che fanno capo al Maresciallo Tito, segretario generale del Partito
Comunista Jugoslavo. È bene precisare che in Istria il movimento partigiano ebbe
connotazioni diverse da brigata a brigata.
Esistevano, infatti, moltissime formazioni sia italiane che slave non sempre
collegate tra loro, anzi spesso in contrasto.
Per semplicità di trattazione quando parleremo di brigate partigiane
sottintenderemo quelle slave del Maresciallo Tito che ebbero tristemente parte nelle
vicende di cui stiamo trattando.
Al nord Mussolini, rientrato in Italia, dà vita a Salò alla Repubblica Sociale
Italiana che combatte a fianco dell'alleato germanico.
E la guerra continua.
Sempre a nord-est le forze armate tedesche assumono il controllo dei territori
abbandonati dalle unità italiane e "litorale adriatico" è la nuova denominazione della
costa che da Trieste, attraverso l'lstria giunge in Dalmazia.
Alle forze della neo costituita Repubblica Sociale Italiana spetta il compito di
presidiare la Venezia Giulia. Ciò avviene con elementi della Guardia Nazionale
Repubblicana e con reparti della X MAS.
Non sembra, però, che tedeschi ed italiani siano in grado di opporsi per molto
tempo alla continua pressione dei partigiani slavi. Soprattutto in Istria ed in parte
delle province di Gorizia e Trieste la nuova situazione consente alle brigate titine di
operare una sorta di pulizia etnica, sia a danno di cittadini del ceppo italiano, sia di
cittadini slavi apertamente contrari ad un futuro governo Comunista.
Migliaia di persone vengono prelevate a forza e gettate, ancora vive, in quelle
profonde voragini carsiche tristemente note come foibe.
In Istria la caccia all'italiano ha inizio immediatamente dopo 1'8 settembre
1943 e si protrarrà sino al maggio del 1945 quando giunsero gli alleati, mentre in
Dalmazia gli episodi più efferati ebbero a verificarsi nel 1945 contestualmente alla
caduta del fronte tedesco.
37
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
In Dalmazia gli infoibamenti avevano una tragica variante: gli annegamenti.
In poche parole, le persone di cui ci si voleva sbarazzare venivano imbarcate, portate
allargo e quindi, mani e piedi legati, venivano gettate in mare.
Non sono solo i fascisti ad essere colpiti, anche noti antifascisti finiscono
nelle foibe e questo rispondeva al progetto del Maresciallo Tito di colpire gli
esponenti della vita economica, sociale e politica della penisola istriana.
Una volta sconvolto il sistema sociale si sarebbe fatto strada il terrore, cosa
che puntualmente si verificò costringendo centinaia di migliaia di esuli ad
interminabili marce pur di allontanarsi da un territorio che stava trasformandosi in un
immenso cimitero.
Secondo l'Albo d'Oro pubblicato dall'U nione degli Istriani sono oltre 16.500
i cittadini vittime delle foibe.
Questa sera, però, non rievocheremo questi avvenimenti sui quali tanto si è
detto e tanto si è scritto e di cui ora, grazie all'iniziativa del prof. Sinagra -libero
docente di diritto internazionale all'università di Roma- grazie al prof. Sinagra,
dicevo, la procura della Repubblica ha aperto un' inchiesta su cui sta indagando il
sostituto Martelli.
Stasera non parleremo di foibe ma di quello che secondo gli anglo-americani
doveva divenire il Territorio Libero di Trieste e che, invece, non venne mai
costituito.
Consentitemi, prima di entrare nel vivo del problema, di pormi e porvi una
domanda: le foibe potevano essere evitate?
Ebbene, pare proprio di sì. Paolo Simoncelli sull'Avvenire del 27 ottobre
scorso, rivela che l'ammiraglio De Courten - ministro della marina del regno del sud avrebbe concordato con il Comandante della X MAS, Junio Valerio Borghese un
piano per sostenere uno sbarco del reggimento "SAN MARCO" sulle coste istrianodalmate contestualmente al ritiro dei tedeschi e comunque prima dell'arrivo dei
partigiani slavi mentre i reparti della X MAS avrebbero costituito teste di ponte nei
tratti di costa in prossimità di Trieste, Fiume, Pola e Zara.
Sempre secondo il Simoncelli il Borghese non solo si sarebbe impegnato a
porre i suoi uomini agli ordini del governo del sud, ma addirittura si sarebbe offerto
di metterli a disposizione della brigata partigiana "OSOPPO", se solo questa si fosse
mostrata interessata alla difesa delle province italiane.
Riferisce ancora Simoncelli che inglesi e americani non autorizzarono
quest'azione che avrebbe potuto salvare migliaia di vite, ma diffidarono il governo
Badoglio dall'interessarsi al confine orientale.
Pare comunque che gli alleati vedessero, nel tentativo di opporsi a Tito,
38
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
l'amalgama che avrebbe potuto far superare il dualismo fascismo/antifascismo.
Questo lascerebbe intendere come già fosse stata decisa la sorte dei territori
ad est di Trieste. Paolo Simoncelli non è certo uno storico a caccia di facili scoop e
dunque, anche se la notizia merita taluni approfondimenti, possiamo in generale
dargli credito.
SITUAZIONE
Fatta questa breve ma necessaria introduzione, veniamo ora al nostro tema
che svilupperemo in termini cronologici, esprimendo alcune valutazioni su argomenti
generalmente acquisiti e mantenendoci su una narrazione rigorosamente cronologica
per quegli avvenimenti che, troppo recenti, risultano tuttora coperti dal segreto di
stato. Seguirò, nell'esposizione, questa traccia:
1. occupazione titina di Trieste;
2. occupazione alleata;
3. il Territorio Libero;
4. il ritorno all'Italia di Trieste e della "zona A";
5. il trattato di Osimo.
Tornando alle vicende della guerra, già nei primi mesi del 1945 queste
potevano dirsi definitivamente orientate a favore degli alleati e nessuno, ormai,
credeva più all'arma segreta tedesca.
Nell'Europa centrale i sovietici del Generale Zukov stavano per dare il colpo
di grazia a Berlino, capitale del REICH mentre l'Italia, veniva ripercorsa dagli alleati
da sud a nord.
Nella Venezia Giulia sempre più spesso i reparti della Repubblica Sociale si
opponevano, con le armi, alle violenze tedesche a danno di italiani e fatte eseguire,
per lo più, dai fedeli ustascia croati di Ante Pavelic.
In questo quadro si consumò l'agonia dell'lstria, della Dalmazia e delle loro
province: Pola, Fiume e Zara e parte delle province di Trieste e Gorizia.
Il 25 di aprile del 1945, da "radio libertà" che trasmette da Milano, il
Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia lancia ai CNL locali l'ordine per
l'insurrezione armata.
A Trieste l'appello è raccolto dalle brigate partigiane "Venezia Giulia",
"Frausin", "Pisoni", "San Sergio" e "Garibaldi" che attaccano decisamente i
39
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
tedeschi ottenendo un successo insperato.
I tedeschi, costretti ad abbandonare il presidio dei capisaldi, si asserragliano
nel castello sul colle di San Giusto, nell' edificio del Palazzo di Giustizia e al porto
dove sono ancora efficienti alcune batterie montate su motozattere.
Il loro intendimento è quello di arrendersi agli alleati/che ormai hanno
raggiunto Monfalcone.
Senza più ostacoli davanti a loro i partigiani del IX Corpus entrano in città al
grido di "TRST JE NAS" che vuoI dire "Trieste è nostra".
È l'alba dello maggio 1945.
Da Belgrado, la sera stessa, Tito può annunciare al mondo che "....il grande
emporio di Trieste è congiunto alla Jugoslavia....".
L'ingresso in città era stato preceduto da nuclei di attivisti il cui compito era
quello di organizzare una manifestazione di popolo inneggiante a Tito e ai liberatori
slavi.
E mentre i partigiani italiani costringevano i tedeschi alla difensiva, questi
attivisti tappezzavano le strade di Montebello (è un quartiere di Trieste) con
manifesti, uno dei quali recava lo stralcio di una lettera che un'esponente politico
italiano aveva inviato al quotidiano slavo clandestino "Osvobodilna Fronta", cioè " il
nostro avvenire" (si tratta di Palmiro Togliatti n.d.a.).
Diceva, il manifesto: "Lavoratori di Trieste! Il vostro dovere è di accogliere le
truppe di Tito come liberatrici e di collaborare con esse nel modo più stretto". La data
è, stranamente, quella del 30 aprile.
Si pensi ora che dei due Corpus che entrano a Trieste all'alba di quel l°
maggio - il VII ed il IX - il primo, in tre giorni di marce continue e senza soste, dalle
alture attorno a Fiume puntò su Trieste, mentre il secondo era entrato in città
provenendo da Gorizia. A nessuno interessarono Zagabria e Belgrado che verranno
liberate soltanto il 7 maggio. Questo lascia intendere quanto ci tenesse Tito ad entrare
a Trieste prima degli alleati.
Sentite cosa aveva scritto il 30 aprile Mons. Santin, eroico vescovo di Trieste:
"Qui sull'altare della mia cappella, davanti al Santissimo Sacramento, oggi, 30 aprile
1945, festa di S.Caterina da Siena, patrona d'Italia, e apertura del mese di Maria, alle
ore 19:45, in un momento che è forse il più tragico della storia di Trieste, mentre
tutte le umane speranze per la salvezza della città sembrano fallire, come vescovo
indegnissimo di Trieste mi rivolgo alla Vergine Santa per implorare pietà e salvezza.
Faccio un voto privato e un voto che riguarda la città. Questo voto è il seguente: se
con la protezione della Madonna Trieste sarà salva, farò ogni sforzo perch6 sia eretta
una chiesa in suo onore".
Mons. Santin, che tanto si era adoperato per convincere i tedeschi a non
difendere la città per non coinvolgere la cittadinanza inerme, mons. Santin,
dunque, considerava l'occupazione slava come "il momento più tragico della storia di
40
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
Trieste" .
Per coloro che non lo sanno dirò che mons. Santin era istriano, di Rovigno e
come vescovo la sua diocesi comprendeva, oltre Trieste, anche Capodistria e dunque
gli erano ben noti gli eccessi consumati dagli slavi.
Per completezza di trattazione dirò che il voto di mons. Santin è scritto di suo
pugno dietro ad un'immagine sacra della Madonna ed il voto pubblico fu sciolto con
l'edificazione del noto Santuario di Monte Grisa.
Gli alleati, e nella fatti specie i neozelandesi della 2A divisione del Generale
Freyberg, entrarono in città il successivo giorno 2, quando cioè il Municipio, la
Prefettura e tutti gli edifici pubblici erano stati già occupati e la città aveva già un
Governatore slavo nel Generale Dusan Kveder ed un Vice Governatore nel triestino
Giorgio Jaksetich.
Tra i primi atti compiuti dal nuovo Governatore vi fu l'immediato disarmo di
tutte le formazioni partigiane, lo scioglimento del Comitato di Liberazione Nazionale
e l'emanazione di un'ordinanza in sei punti che doveva regolare la vita della città.
Figuratevi che il coprifuoco venne drasticamente fissato dalle ore 15.00 alle
ore 10.00 del giorno successivo.
Ma ciò che più preoccupò i triestini, fu l'adozione dell'ora di Lubiana che
entrò in vigore alle ore 01:00 del 4 maggio.
Questa norma, per l'esattezza la numero 5, fece comprendere ai triestini che la
città ormai era considerata parte integrante della nuova Repubblica jugoslava.
Era questo uno dei tanti tentativi di slavizzare la città e tra questi il più
eclatante, fu quello di registrare come residenti i partigiani entrati in città il l0
maggio.
In questo modo Tito avrebbe potuto dimostrare al mondo che Trieste era una
città etnicamente slava.
Tra i primi provvedimenti adottati dal Commissario del IX Corpus, vi fu la
requisizione della redazione e della tipografia del quotidiano "IL PICCOLO" per
pubblicarvi l'edizione in lingua italiana del quotidiano sloveno "OSVOBODILNA
FRONTA" e cioè il già noto "NOSTRO AVVENIRE" stampato sino ad allora
clandestinamente.
Il 5 maggio una dimostrazione di italianità venne dispersa a colpi d'arma da
fuoco. Tutto cominciò in Piazza Unità mentre si svolgeva una delle tante preordinate
manifestazioni slovene che dovevano dimostrare agli alleati che Trieste era città
slava. Una donna rimasta sconosciuta, con le lacrime agli occhi estrasse dal seno un
fazzoletto tricolore che sventolò davanti ad un soldato neozelandese.
Questi prese il fazzoletto, lo sventolò e poi se lo legò al collo. La scena non
passò inosservata. Da ogni parte della piazza i triestini conversero verso quel
41
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
tricolore e la moltitudine divenne sempre più folla. Si formò un corteo di 50.000
persone diretto al sacrario di Oberdan che cantava e sventolava bandiere italiane
uscite fuori non si sa come.
Il corteo giunse in largo poldoni e qui incontrò una pattuglia slava che intimò
l'alt.
Le prime file cercarono di arrestarsi ma vennero sospinte avanti dalle file di
dietro che non si erano accorte di ciò che stava accadendo.
Gli slavi aprirono il fuoco ad altezza d'uomo e non appena la folla si fu
dissolta, si poterono contare per terra cinque morti ed una trentina di feriti. I
neozelandesi non mossero un dito.
Il "Nostro avvenire" nello stigmatizzare la dimostrazione italiana, ammonì i
triestini con queste parole: "bisogna liquidare per sempre tutti i resti del fascismo e
tutti gli agenti della Gestapo tedesca...". Nessuno, però, riusciva a comprendere chi
erano gli agenti della Gestapo dato che i tedeschi si erano arresi o dove fossero i resti
del fascismo ormai dissolto nella definitiva sconfitta della guerra.
Fu necessario arrivare al 1954 per sentir dire ad alcuni parlamentari italiani
che "...bisognava comprendere e giustificare, almeno in sede storica, anche i pur
deplorevoli eccessi...".
Poco importava, però, se tra i deplorevoli eccessi non vi era solo qualche
manifestazione dispersa a colpi d'arma da fuoco ma migliaia di italiani scomparsi
nelle profondità carsiche di cui è disseminata l'Istria.
Nonostante queste cose fossero sotto gli occhi di tutti e degli alleati in
particolare, il problema di Trieste, e più in generale della Venezia Giulia, continuava
ad essere sottovalutato.
Si pensi che l'annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia era l'unico
punto su cui Re Pietro, sovrano jugoslavo in esilio, e Tito, astro nascente del
comunismo internazionale, avevano una perfetta identità di vedute.
Tito d'altro canto, non si preoccupò mai di tener nascosti i suoi obiettivi
contando sull'appoggio sovietico. Il piano di questi ultimi era chiaro: sottrarre
all'influenza occidentale la Jugoslavia, la Grecia e l'Albania per acquisire porti nel
mediterraneo. Tito stava giocando bene le sue carte: nel 1944 si era assunto l'onere di
gestire direttamente la guerra partigiana, in Carnia e nella Venezia Giulia e dunque,
al tavolo della pace, avrebbe potuto rivendicare quel pezzo d'Italia.
Gli obiettivi del Maresciallo, però, non collimavano con quelli degli anglo
americani che intendevano porre sotto amministrazione alleata le province di Trieste,
Gorizia, Udine, Trento e Bolzano allo scopo di controllare meglio le vie di
comunicazione verso la Germania che sarebbe stata occupata per intero e nel modo in
cui tutti sappiamo.
42
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
Di questi intendimenti ebbe notizia anche il governo Badoglio per mezzo di
una lettera che l'ammiraglio Stone scrisse al ministro degli esteri italiano conte
Visconti Venosta. La lettera è dell'11 settembre 1944.
E le intenzioni degli alleati dovevano essere note anche al Maresciallo Tito
che, meno di un mese prima, si era incontrato a Napoli con il premier inglese
Churchill e a Bolsena con il Generale Alexander.
Churchill, prevedendo che Tito avrebbe fatto valere i suoi diritti sui confini
che aveva raggiunto, inviò subito un telegramma al presidente americano Truman nel
quale ribadÌ la necessità che truppe alleate occupassero Trieste prima di Tito e
concludeva sostenendo che "il possesso costituisce i nove decimi del diritto".
Tito era giunto a questa conclusione almeno due anni prima.
E così finì che mentre Churchill, Truman ed Alexander continuavano a
scambiarsi messaggi, Tito occupava militarmente Trieste.
Intanto a Trieste si giunse ad un angoscioso 8 maggio.
Tito, che in un primo momento parlava di annessione della città alla neo
costituita repubblica slovena, proclamò invece Trieste settima repubblica jugoslava
autonoma.
Gli alleati e soprattutto i britannici, preoccupati, dell'atteggiamento deciso di
Tito, il 12 maggio inviarono a Belgrado il Generale Alexander con il compito di
ricondurre all'ordine il Maresciallo che rimase, invece, sulle sue posizioni.
Lo sviluppo degli avvenimenti varcò cosi i limiti del semplice problema
militare per approdare al tavolo dei politici.
Vediamo ora:
- perchè ed in che modo gli slavi abbandonarono Trieste dopo 43 giorni;
- perchè, dopo l'occupazione slava della città e dopo il suo abbandono, dovettero trascorrere ben nove anni prima che fosse ricongiunta all'Italia.
Il nocciolo del problema può essere ricondotto alla già delineata
contrapposizione tra alleati da una parte ed Unione Sovietica dall'altra.
I primi, in nome di un consolidato principio di democrazia, caldeggiavano
una soluzione negoziata, mentre i secondi sostenevano che i nuovi confini dovevano
coincidere con le linee raggiunte dalle truppe al momento dell'entrata in vigore degli
armistizi.
Per sostenere la validità di questo asserto, Stalin appoggiò fermamente Tito
ed un atteggiamento così deciso convinse gli Stati Uniti ad affrontare l'argomento
con la cautela richiesta da una situazione esplosiva.
Eisenhower, Churchill, Eden e Stalin per nove anni seguirono, giorno e notte,
le vicende di questa città.
Di lei sapevano tutto, come se vi fossero nati e vissuti e sapevano anche cosa
43
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
si sarebbe dovuto fare di lei, anche se, ovviamente, le opinioni erano totalmente
diverse...
I rapporti tra Tito e gli Alleati, dunque, si tesero sino a rischiare la rottura.
Il sottosegretario britannico agli Esteri Low dichiarò alla Camera dei Comuni
che i tedeschi a Trieste si erano arresi ai neozelandesi del Generale Freyberg e
pertanto la città non poteva essere considerata "territorio jugoslavo liberato" come
tentava, invece, di far credere il Maresciallo Tito.
Alle parole gli alleati fecero seguire i fatti: una forte squadra navale
britannica, scortata da caccia americani, attraccò nel golfo di Trieste mentre in
Carinzia i partigiani vennero costretti ad abbandonare in buon ordine la regione
davanti alla costituzione di un governo militare alleato.
Si aprì, dunque, un contenzioso insanabile tra, alleati da una parte e Unione
Sovietica e Jugoslavia dall'altra.
Ben presto il contenzioso divenne vera e propria guerra fredda che assunse i
toni più aspri il 19 maggio.
Il Generale Alexander, per accusare Tito davanti all'opinione pubblica
mondiale utilizzò uno strumento inusuale: un ordine del giorno alle truppe del
Mediterraneo nel quale delineò la posizione alleata nei confronti del problema di
Trieste e dell' Istria.
Disse testualmente Alexander: "...la zona intorno a Trieste, Gorizia e ad est
dell'Isonzo fa parte dell' Italia e si chiama Venezia Giulia. I suddetti territori sono ora
rivendicati dal Maresciallo Tito che vuole incorporarli alla Jugoslavia... Queste
pretese verranno esaminate e giudicate secondo giustizia e con spirito di imparzialità
alla conferenza di pace... Sembra che il Maresciallo Tito abbia l'intenzione di effettuare le sue rivendicazioni con la forza delle armi e con l'occupazione militare.
Un'azione di questo genere rammenta troppo Hitler, Mussolini e il Giappone.
Noi abbiamo combattuto questa guerra per impedire che tali azioni si ripetano. Noi
non possiamo adesso mancare al principio vitale per il quale abbiamo combattuto...".
Come si vede il Generale Alexander, pur confermando nel modo più chiaro
ed inequivocabile gli intendimenti degli alleati, si mostrò anche possibilista nei
confronti delle pretese slave purché avallate in sede di conferenza di pace.
Al Generale Alexander rispose lo stesso Tito con un discorso nel quale
sostenne cinque principi:
l°. ciò che è stato raggiunto è stato raggiunto per sempre e non v'è potenza al
mondo che possa toglierlo;
44
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
2°. la storia non ci perdonerebbe mai se lasciassimo i nostri fratelli slavi sotto
il giogo fascista;
3°. io non posso che esprimere tutta la mia meraviglia e il mio risentimento
per l'improponibile confronto che la stampa occidentale fa tra la presenza di truppe
jugoslave a Trieste, in Istria e nel litorale con le occupazioni operate dai NaziFascisti;
4°. l'esercito jugoslavo ha cacciato i Nazi-Fascisti con la potenza delle armi, li
ha ricacciati oltre l'ISONZO e dunque non può essere giudicata come arbitraria
l'occupazione di questi territori;
5°. la Jugoslavia è pronta a collaborare con le forze alleate ma nello stesso
tempo non può permettersi di essere umiliata o privata dei propri interessi.
La risposta di Tito fu dura o, come scrisse la stampa americana, fu "un vero e
proprio pugno nello stomaco".
Nuove truppe anglo-americane vennero fatte affluire in Friuli dove furono
tenute in stato di allarme e a Tito non rimase altro da fare che abbassare il tono della
polemica.
Propose allora di lasciare truppe slave in città ponendole agli ordini del
Generale Alexander ma la proposta non venne neanche presa in considerazione. La
reazione alleata colpÌ anche Stalin nonostante continuasse - ma con minore
convinzione - a sostenere il Maresciallo Tito.
Il Generale Morgan, Capo di Stato Maggiore del Generale Alexander, venne
inviato a Belgrado in un ultimo tentativo di ricondurre all'ordine il premier
Jugoslavo. Tito, compreso che gli alleati non avrebbero mai riconosciuto la sovranità
slava su Trieste, sottoscrisse con lui un accordo -detto appunto di Belgrado- che
prevedeva l' arretramento delle brigate slave ad oriente di una linea che correva ad est
di Trieste.
Il trattato, sottoscritto il 9 giugno, sanzionò una specie di linea di confine più
nota come "LINEA MORGAN". Di fatto si costituirono due zone indicate come "A"
e "B". La prima che comprendeva Trieste venne posta sotto amministrazione alleata
mentre la seconda fu assegnata provvisoriamente alla Jugoslavia. Lo sgombero di
Trieste avvenne il 12 giugno.
Con il ritiro dei partigiani slavi dietro la LINEA MORGAN, gli alleati misero
a capo del Governo Militare alleato provvisorio il Colonnello americano Alfred
Bowman, non tenero nei confronti degli italiani e apertamente schierato dalla parte
degli slavi.
Si è sempre vociferato che ciò fosse dovuto all'influenza che esercitava su di
lui l'interprete jugoslava Miroslava Strukelj che divenne, si dice, la sua amante.
In questa situazione si giunse ai lavori preliminari del trattato di pace che
45
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
ebbero inizio a Londra il 18 gennaio 1946.
In quel periodo si sparse la voce secondo la quale gli slavi stavano
preparando un colpo di mano su Trieste nel caso la conferenza di pace non avesse
accolto le richieste per la costituzione di una repubblica federativa.
A queste voci risposero i Generali Lee e Morgan che non esclusero l'uso delle
armi nel caso gli slavi avessero attuato quanto era solo oggetto di voci.
Quale base delle discussioni venne preso l'asserto, generalmente riconosciuto,
di fissare l'andamento delle frontiere secondo la linea etnica e a tal proposito venne
nominata una commissione quadri partita formata dai rappresentanti di Stati Uniti,
Inghilterra, Francia e Unione Sovietica.
L'indagine fu effettuata tra il 9 marzo ed il 5 aprile del 1946 ma non servÌ a
chiarire le singole posizioni. È comunque accertato che durante le ricognizioni
effettuate dalla commissione nei territori occupati dagli slavi, i residenti di origine
italiana vennero tenuti nascosti in chiese o grotte o trasferiti in altri comuni. Per
contro, migliaia di slavi e croati delle regioni dell'interno vennero fatti affluire nei
centri del litorale in modo tale che risultasse facile dimostrare come i centri visitati
dalla commissione fossero abitati esclusivamente da una popolazione appartenente al
gruppo etnico slavo.
Tra il 25 aprile ed il 26 maggio si svolse a Parigi una conferenza durante la
quale Molotov - Ministro degli Interni sovietico - continuò ad insistere perch6 Trieste
venisse assegnata alla Jugoslavia mentre Byrnes responsabile del dipartimento di
stato del Governo degli Stati Uniti, sostenne la necessità di indire un plebiscito, ma
entrambe le proposte vennero respinte.
Tra due sezioni dei lavori venne avanzata dai francesi l'ipotesi di
internazionalizzare la città giuliana, ma il Ministro degli Esteri jugoslavo - Edvar
Cardelj - fece sapere che non si sarebbe opposto alI 'internazionalizzare del porto ma
non avrebbe neanche preso in considerazione quella della città.
L'idea comunque cominciò a prendere sempre più corpo.
In Italia i lavori erano seguiti con particolare interesse e l'idea di
internazionalizzare Trieste non poteva soddisfare gli italiani ma tutto sommato
poteva essere l'unica possibile per bloccare, almeno temporaneamente, le richieste
russo-jugoslave.
Tra discussioni, emendamenti, proposte e controproposte si giunse al 3 luglio
1946 che è considerata la data ufficiale della nascita del Territorio Libero di Trieste.
Oltre ai francesi che l'avevano proposta la soluzione non soddisfece nessuno.
Alla conferenza di pace, che si aprÌ a Parigi il 28 settembre, la costituzione
del Territorio Libero venne approvata dalla commissione politica e territoriale per
l'Italia con 12 voti favorevoli, 5 contrari e 3 astenuti.
46
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
In un clima di tensione, si giunse al 10 febbraio 1947 allorche a Parigi venne
sottoscritto il definitivo trattato di pace.
L'Italia fu costretta a cedere alla Jugoslavia un territorio di 8.258 chilometri
quadrati, abitato da oltre 580 mila abitanti. Si trattava delle intere province di Pola,
Fiume e Zara e di porzioni prevalenti di quelle di Gorizia e Trieste, oltre a
corrispondere danni di guerra per 125 milioni di dollari.
Il trattato di pace sarebbe entrato in vigore il 15 settembre dello stesso anno e
per tale data il Territorio Libero di Trieste avrebbe dovuto essere costituito. Ma non
fu così.
Ha scritto Diego De Castro: "gli slavi quel giorno volevano entrare a Trieste,
furono gettate bombe al termine di una manifestazione italiana; morÌ uno studente e
ci furono più di ottanta feriti.
Lubiana, durante una spettacolosa dimostrazione, giurò al Maresciallo Tito di
non rinunciare a Trieste.
A Roma, il Capo Provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, ricevette i
rappresentanti dei partiti italiani di Trieste e De Gasperi pronunciò accorate parole
alla radio promettendo che l'Italia non avrebbe mai abbandonato i suoi figli...".
Gorizia, anch' essa sotto amministrazione alleata, fu più fortunata.
Il 14 settembre una colonna del 114° reggimento di fanteria entrò in città
sanzionando cosÌ il definitivo ricongiungimento all'Italia.
Ma un nuovo episodio doveva raggelare il sangue dei goriziani: si era saputo
di un accordo per cedere Gorizia alla Jugoslavia in cambio della piena sovranità
italiana su Trieste.
È inutile che vi dica come Gorizia insorse alla notizia e il 9 novembre rispose
imbandierando tutta la città.
Tornando a Trieste v'è da dire che il previsto Territorio Libero di Trieste non
venne mai costituito a causa dell' atteggiamento ostruzionistico della Jugoslavia che
bocciava tutte le proposte di nomina di un Governatore.
A fine settembre i governi di Stati Uniti e Gran Bretagna nominarono
Comandante delle Truppe di occupazione il britannico Generale Airey che rimase
nell'incarico sino al 15 marzo 1951.
Durante tutto il periodo adempì al suo dovere con scrupolo e, soprattutto, con
imparziale coscienza.
Fu certamente un amico dei triestini e i triestini seppero ripagare questo
affetto non provocando, nel periodo in cui era a capo della città, alcun incidente.
Il 20 marzo 1948 con una dichiarazione tripartita anglo-franco-americana i
governi alleati, constatata l'impossibilità di realizzare il previsto Territorio Libero, auspicarono che il territorio del contendere fosse restituito all'Italia quale stato
47
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
titolare della sovranità sia sulla "zona A" che sulla "zona B".
La reazione di Belgrado fu piuttosto violenta, ma tutto sommato non accadde
nulla.
Negli anni successivi gli scenari internazionali fecero passare in secondo
piano i problemi connessi con le zone "A" e "B".
Vediamo, in un velocissimo excursus, i fatti più significativi che, in qualche
modo, ebbero riflessi sugli avvenimenti che stiamo esaminando:
-1949: il 4 aprile a Washington venne firmato il Patto Atlantico che darà vita
all'attuale NATO;
-1950: il16 aprile ebbero luogo nella "zona B" le elezioni nelle quali il Partito
Comunista Jugoslavo ottenne l'89,3% dei voti. Queste elezioni meritano due brevi
ma significativi approfondimenti:
a. Mons. Santin, vescovo di Trieste e Capodistria, denunciò le violenze messe
in atto dagli slavi per impedire al gruppo etnico italiano di partecipare alle elezioni;
b. Ai giornalisti italiani, regolarmente accreditati nella zona "B" per assistere
alle elezioni, venne impedito di svolgere il loro lavoro ed anzi furono brutalmente
percossi. Tra i 14 giornalisti che presentarono una vibrata protesta alla missione
jugoslava di Trieste vi erano anche i due inviati speciali dell'unità: Gianni Rodari e
Ferruccio Pandulo.
In Italia, alla Camera dei deputati, venne formalizzata la richiesta di cessione
di Gorizia alla Jugoslavia in cambio di Trieste (relatore il Segretario generale del PCI
on. Palmiro Togliatti N.d.A.).
La proposta venne respinta;
-1951: Nonostante la collettivizzazione delle terre, in J ugqslavia le attività
produttive, in forte crisi, raggiunsero minimi storici.
Il 15 marzo il Comandante delle truppe d'occupazione Generale Airey venne
richiamato in Gran Bretagna ed al suo posto il governo di Sua Maestà designò quale
governatore il più che scorbutico generale Winterton.
-1952: è forse l'anno in cui maggiori furono gli avvenimenti:
a. era il 20 marzo quando una manifestazione venne organizzata per
sollecitare gli anglo-americani alla materiale applicazione di quanto previsto dalla
dichiarazione tripartita del 1948;
b. nota di protesta di Belgrado per la decisione del Governo Militare alleato di
indire le elezioni amministrative contestualmente a quelle politiche indette in Italia;
c. al Governo Militare alleato viene affiancato un consigliere politico italiano
nella persona di Diego De Castro. Note di protesta di Belgrado del 20 maggio e del
14 settembre e di Mosca il 24 giugno;
d. nuove elezioni in "zona B" e "plebiscito" a favore del Partito Comunista
Jugoslavo che ottiene il 96% dei voti.
48
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
Il 1953 fu anch'esso particolarmente importante per Trieste.
Il 29 agosto essendo circolata la voce su una possibile invasione slava della
città, il Presidente del Consiglio On. Pella ammassò truppe al confine mentre la flotta
prese il largo ancorandosi, al limite delle acque internazionali, davanti alla costa
istriana.
Ovviamente questo provocò una nota di protesta di Belgrado che però fu
respinta.
E cosÌ Tito, che nel corso di un comizio a Nova Gorica, aveva chiesto la
smilitarizzazione della frontiera, richiamò alle armi alcune classi.
Il 4 ed il 6 novembre per Trieste furono giorni drammatici. La città pianse 6
morti e 77 feriti, vittime dei proiettili del Maggiore Williams.
Vediamo perché il Maggiore Williams fece sparare sulla folla.
Ricorreva, il 4 novembre e come di consueto il sindaco chiese ai funzionari
del Governo Militare alleato, di poter issare il tricolore sulla sede municipale.
Stranamente, quell'anno, l'autorizzazione non venne concessa e la città intera
manifestò in Piazza dell 'Unità il suo disappunto.
I primi incidenti scoppiarono davanti alla prefettura e proseguirono in Ponte
Rosso. Neanche i gradini della chiesa di S.Antonio Nuovo impedirono alla polizia di
sparare ad altezza d'uomo.
In Italia la notizia di quei morti provocò sdegno e soprattutto timore che la
situazione potesse ulteriormente deteriorarsi.
Il Presidente del Consiglio, On. Pella, chiese di poter partecipare ai funerali
delle vittime, ma il Governatore britannico non lo autorizzò.
Improvvisamente, le acque parvero calmarsi.
L'Italia accettò l'ipotesi di una conferenza a cinque per cercare una soluzione
al problema di Trieste mentre la Jugoslavia subordinò la sua partecipazione alla
rinuncia, da parte degli anglo-americani, al trapasso dei poteri alle autorità italiane.
Non basta.
Il 5 dicembre Pella si incontrò a Roma con il plenipotenziario Pavic Gregoric
con il quale concordò il simultaneo ritiro delle truppe ammassate al confine.
Tra alti e bassi si giunse alla tanto attesa firma del "memorandum d'intesa"
sottoscritto a Londra il 5 ottobre 1954.
Per una fastidiosa forma influenzale del Ministro degli Esteri britannico - Sir.
Anthony Eden - la firma del documento ebbe luogo nella sua abitazione al numero 1
di Carlton Haus Garden e non, come sarebbe stato più corretto, al Foreign Office.
Sul tavolo erano allineate quattro copie del protocollo, scritte in lingua inglese su carta celestina, legata da un nastro azzurro sul quale faceva spicco il sigillo rosso
49
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
di ceralacca del Ministero degli Esteri.
Una carta geografica, su cui erano state riportate alcune modifiche alla linea
di demarcazione tra la "zona A" e "zona B", era spiegata davanti alle copie del
protocollo.
All'epoca, Ambasciatore italiano a Londra era Manlio Brosio, futuro
Presidente della NATO, mentre l'Ambasciatore jugoslavo era tale Vladimir Velebit.
I due plenipotenziari si strinsero cortesemente la mano sotto gli sguardi
compiaciuti dei funzionari britannici e statunitensi, ma non si scambiarono ne un'
occhiata ne una parola.
Secondo il protocollo diplomatico dell'epoca, in materia di precedenza veniva
seguito l'ordine alfabetico degli Ambasciatori per cui il primo a firmare fu Manlio
Brosio, poi il Sottosegretario britannico Harrison, quindi il Commissario statunitense
a Vienna -Thompson- ed infine l'ambasciatore Velebit.
Trieste, come accolse la notizia dell'accordo?
Per la prima volta i triestini mostrarono di crederci e ciò per via di alcuni
piccoli indizi che, indirettamente, confermarono la notizia dell'avvenuto accordo.
Il primo elemento probatorio i triestini lo individuarono proprio in città: la
sera prima della prevista firma dell'accordo - dunque il 4 ottobre - il pro-sindaco di
Trieste e sei assessori partirono per Roma dove, dopo essere stati ricevuti dal
Presidente del Consiglio - On. Scelba - avrebbero presenziato nel pomeriggio al
Senato all'annuncio dell'avvenuta firma.
Altro elemento probatorio era costituito dai colloqui ad alto livello tra il
Generale Winterton ed il Capo di Stato Maggiore britannico da una parte ed i
consiglieri politici dall'altra. Tema dei colloqui: il passaggio dei poteri e lo sgombero
delle truppe alleate dalla "zona A".
Infine, in materia di mantenimento dell'ordine pubblico si era tenuta una
riunione tra il prefetto Vitelli ed i rappresentanti dei partiti politici per evitare
manifestazioni di qualunque genere prima dell'arrivo delle truppe italiane.
Lasciamo per un attimo il prefetto di Trieste a colloquio con i rappresentanti
dei partiti politici e facciamo un piccolo passo indietro per cercare di capire come si
arrivò alla firma del "memorandum di intesa" e, soprattutto, come fu possibile
convincere il Premier jugoslavo Tito ad accettarlo.
Torniamo al dicembre del '52.
Alla "Lancaster House" di Londra è in pieno svolgimento una riunione dei
Ministri degli Esteri occidentali per discutere il riarmo della Germania e
l'inserimento delle forze armate tedesche nel sistema difensivo dell' Alleanza
Atlantica. Trieste non è, dunque, nell' agenda dei lavori, tuttavia se ne parla.
50
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
Alla conferenza partecipano: Allen Dulles per gli Stati Uniti, Anthony Eden
per la Gran Bretagna, Mendes France per la Francia, Adenauer per la Germania,
Pearson per il Canada, Spaak per il Belgio, Baien per l'Olanda, Bech per il
Lussemburgo ed il Prof. Gaetano Martino per l'Italia.
Martino era divenuto Ministro degli Esteri soltanto il giorno prima, avendo
sostituito l'on. Attilio Piccioni dimissionario in quanto il proprio figliolo - Giampiero
- era stato indiziato per l'uccisione di tale Wilma Montesi.
Martino, dunque, alla "Lancaster House" caldeggiò la definitiva soluzione del
problema triestino in senso favorevole all'Italia.
Ma l'avvenimento che fece pendere definitivamente la bilancia a favore
dell'Italia accadde nell'estate del 1953 allorche l'Ambasciatore statunitense a Roma Clara Boothe Luce - inviò un rapporto riservato a Washington nel quale valutava la
situazione italiana passibile di profonde modifiche che avrebbero avuto riflessi
negativi anche sulla politica estera americana.
Il diplomatico attribuiva al problema di Trieste e del suo entroterra la
possibilità di indebolire la posizione del Presidente del Consiglio e del partito che
rappresentava, alle imminenti elezioni politiche.
Un eventuale successo elettorale dell'opposizione avrebbe certamente posto in
essere l'acquisizione di basi NATO sulla penisola ed avrebbe influenzato
l'atteggiamento italiano in seno all'ONU.
Una mano al Presidente americano per una decisione favorevole all'Italia,
gliela diede il Presidente del Consiglio On. Pella che minacciò pubblicamente gli
alleati di non sottoscrivere la conferenza europea sul disarmo e di uscire dalla
NATO.
Come abbiamo visto Pella mobilitò le Forze Armate e Tito, per dimostrare
che la Jugoslavia non accettava passivamente la risoluzione italiana, mobilitò alcune
classi di riservisti che vennero ammassate ai confini.
Ma Pella andò oltre.
Dalle memorie del Generale Eisenhower apprendiamo che il Presidente del
Consiglio si rivolse al Generale Gruenter affinche si facesse portavoce ed ottenesse
l'avvallo del Presidente Truman per una eventuale occupazione militare italiana della
"zona A".
L'atteggiamento deciso di Pella ottenne un duplice scopo:
a. quello di forzare la mano agli Stati Uniti;
b. quello di far comprendere al Maresciallo Tito che Trieste non sarebbe mai
stata una città slava.
Da alcune parti si è avanzata l'ipotesi che gli Alleati "comprarono" l'adesione
di Tito al memorandum di Londra con consistenti carichi di grano oltre ad un
51
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
compenso monetario e che con questi Tito armò i porti di Fiume e Capodistria con i
quali la Jugoslavia fece concorrenza ai porti italiani dell'alto Adriatico.
A Roma, intanto, appena avuta notizia della firma del "memorandum", il
Consiglio dei Ministri - riunito sotto la presidenza dell'On. Scelba - designò il
prefetto Giovanni Palamara quale commissario civile per la "zona A" ed il Generale
Edmondo De Renzi - Comandante del 5° Corpo d' Armata - quale Comandante delle
forze d'occupazione.
Alle ore 14:00 del 6 ottobre 1953 da Radio Trieste il Generale Winterton Governatore Militare della città - confermava ai triestini l'avvenuta firma del Trattato
che avrebbe riconsegnato la città all'Italia.
Memore di quanto accaduto un anno prima egli stesso autorizzò l'esposizione
del tricolore sul palazzo della Prefettura e su tutti gli edifici comunali.
Lo stesso giorno il Generale De Renzi, dalla sua sede di Vittorio Veneto si
recò al castello di Duino dove discusse, con lo Stato Maggiore del Governo Militare
alleato, le modalità esecutive per il trapasso dei poteri.
Trieste in quel tempo ebbe un buon Sindaco. Si chiamava Giovanni Bartoli,
"Gianni Lagrima" per i suoi concittadini, per quel suo commuoversi ogni qual volta
vedeva sventolare un tricolore o parlava semplicemente di Patria.
Bartoli era istriano, di Rovigno d'lstria, come Mons. Santin.
Laureato in ingegneria al Politecnico di Torino, durante la guerra di
liberazione rappresentò la Democrazia Cristiana in seno al Comitato di liberazione
nazionale.
Rischiò più volte di essere "eliminato" sia dai partigiani slavi sia da quelli
italiani delle brigate filo-slave.
Nessuno più di Giovanni Bartoli, in quel momento, meritava di assumere e
recitare a Trieste la parte del protagonista.
Il 23 ottobre del 1954, a soli tre giorni dal ricongiungimento di Trieste
all'Italia, una delle istituzioni fondamentali del governo militare alleato cessava la
propria attività.
Si trattava della Corte di Giustizia.
In nove anni di attività aveva dibattuto circa 5000 cause tra processi penali e
civili.
Il più clamoroso di tutti fu certamente il processo ad una giovane insegnante
polesana, tale Maria Pasquinelli, rea di aver ucciso a Pola il Generale inglese De
Winton colpevole, secondo la Pasquinelli, di rappresentare una delle potenze
vincitrici responsabili della cessione dell'Istria alla Jugoslavia.
La Pasquinelli, considerata da molti nativa di Pola, era in realtà una
bergamasca che insegnava a Pola.
Il processo venne seguito con interesse in tutto il mondo e ciò preoccupava
non poco i responsabili dell'ordine pubblico in quanto, un atteggiamento troppo
52
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
favorevole all'imputata poteva scatenare il mondo slavo che avrebbe accusato gli
alleati di guardare con troppa benevolenza all 'Italia mentre, un atteggiamento troppo
severo, avrebbe avuto ripercussioni negative nei nazionalisti italiani e triestini in
particolare.
Maria Pasquinelli era difesa dall' avvocato Enzo Molgera che, richiamato dal
presidente della corte ad attenersi alle procedure legali britanniche, rispose che "...era
un italiano che difendeva un 'italiana...".
Questa frase scatenò il delirio di quanti assistevano al processo e il presidente
fu costretto, per la prima volta, a sospendere la seduta.
Maria Pasquinelli venne condannata a morte, commutata poi all'ergastolo e fu
quindi rimessa in libertà.
La donna, molto dignitosamente, non chiese mai la grazia, ne sconti di pena,
neanche quando, in occasione dell'incoronazione a Londra della Regina Elisabetta, la
cosa poteva essere possibilissima. Chiese però perdono alla moglie del Generale De
Winton, chiarendo che il suo gesto non aveva nulla di personale.
Scontò la carcerazione prima a Trieste, poi a Venezia ed infine a Firenze.
Oggi, ancorché anziana, vive in pace a Bergamo sua terra natale.
Attorno alla "zona A", in attesa del 26 ottobre, cominciavano ad attestarsi i
reparti militari che avrebbero dovuto sostituire le unità britanniche e statunitensi nell'
occupazione della città.
Da Venezia la 2A Divisione navale avrebbe riconsegnato all'Italia le acque
territoriali del golfo giuliano, mentre dall'aeroporto di Istrana erano pronti al decollo i
velivoli del 2° stormo.
Si giunse cosÌ al tanto atteso 26 ottobre.
Quel giorno il quotidiano triestino "Il Piccolo" uscì in un' edizione inconsueta
di 40 pagine. Da quel lontano 2 maggio 1945 era la prima volta che "Il Piccolo"
tornava nelle edicole.
Nel periodo del governo militare alleato l'unico quotidiano in lingua italiana
era "Il Giornale di Trieste", poco amato dai triestini perchè filo-slavo.
Dunque, "Il Piccolo", quel giorno si presentò ai lettori in un'edizione di 40
pagme.
In quelle centrali erano stati pubblicati i saluti di tutti i direttori dei quotidiani
italiani e fra i tanti indirizzi di saluto ve ne erano due particolarmente significativi. Il
primo era del Vescovo Mons. Santin ed il secondo del Sindaco Giovanni Bartoli.
Diceva tra l'altro quello di Mons. Santin: "...ritorna l'Italia. Dopo vicende ed
avvenimenti tragici che raramente si incontrano nella storia. Abbiamo tutti tanto
sofferto...molti non sono con noi. Per questo la gioia...ci sembra quasi peccato. Ma
non può essere un peccato salutare con fervida letizia i fratelli che vengono...Dio
benedirà l'Italia che ritorna...".
Vale la pena ricordare anche quanto ebbe a dire il primo cittadino che esordì
53
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
con queste parole: "Benvenuti, soldati d'Italia" e proseguiva rivivendo taluni
avvenimenti legati alla sua origine istriana. Ricorda un bersagliere di stoffa portato
da fanciullo a Wagna in Istria dove la sua famiglia venne internata il 24 maggio 1915
all' entrata in guerra dell' Italia;
torna alla mente di Bartoli un tricolore che sempre a Wagna spuntò tra gli
internati all 'annuncio che il 3 novembre del 1918 i bersaglieri erano sbarcati a
Trieste ed infine, l'odierno ritorno dei soldati italiani nella città di San Giusto.
Com'era facilmente intuibile le unità italiane, che avrebbero dovuto compiere
alcuni atti di cerimoniale unitamente ai reparti britannici, giunsero nel cuore della
città a piazza dell'Unità con oltre un'ora di ritardo, a causa della folla che aveva
costituito un vero e proprio muro umano.
Saltò il cerimoniale; il Generale Winterton che si doveva incontrare con il
Generale De Renzi non ebbe la pazienza di attendere.
Preferì imbarcarsi sulla portaerei "Centaur" facendo rotta verso Malta.
Ad un atto i triestini non assistettero, atto che tutto sommato era di rilevante
importanza. Certamente il più importante di quella giornata: alle 05:20, sotto una
pioggia battente, un'aliquota dell'82° Reggimento motorizzato "Torino" attraverso la
rotabile dell'altopiano, iniziò a dispiegarsi lungo i valichi confinari con la Repubblica
Jugoslava: Precenicco, Fernetti, Pese, Caresana, Rabuiese e Lazzaretto.
La gioia per il ritorno di Trieste all'Italia fu solo adombrata dalla notizia di un
violento nubifragio, che abbattuto si sul salernitano, provocò oltre duecento morti e
migliaia di feriti e senza tetto.
Il 4 novembre successivo giunse a Trieste il Presidente della Repubblica
Luigi Einaudi, salutato dalle salve delle artiglierie prodiere delle unità della 2A e 8A
divisione navale.
Prima della solenne parata militare, il Presidente Einaudi decorò di Medaglia
d'oro al Valor Militare il gonfalone per l'italianità dimostrata dai suoi cittadini dal
1848 al 1947. Cento anni di italianità!
Qui terminerebbe la storia della passione di Trieste se il 197 5 non avesse
avuto una strana appendice.
Dico strana perchè per la prima volta nella storia della diplomazia mondiale,
un paese legittimo rinunciò unilateralmente ad una porzione di territorio a favore di
un altro stato.
È il caso della "zona B" del mai costituito Territorio Libero di Trieste che il
Governo italiano riconobbe come legittimamente sottoposto alla Repubblica
Jugoslava.
Vediamo come si giunse a questa, per alcuni versi incomprensibile, soluzione
del problema istriano giacché il Governo aveva garantito la provvisorietà della
54
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
"zona B". Tutto ebbe inizio allorchè ai valichi di confine tra "zona A" e "zona B"
comparvero, sul versante slavo, tabelle metalliche che facevano riferimento alla
sovranità della Repubblica Federativa di Jugoslavia sulla striscia di confine.
Per il Governo italiano era evidente che la Jugoslavia non considerava i
valichi di confine come transiti su una linea di demarcazione negoziabile e comunque
provvisoria, ma considerava i valichi come punti di transito su un confine di stato
non negoziabile.
L'Italia, come era logico, inviò a Belgrado una nota di protesta con richiesta
di chiarimenti che Belgrado non concesse, anzi rispedÌ la nota al mittente. Nuova
presentazione della nota da parte italiana con la riaffermazione circa la provvisorietà
del confine tra "zona A" e "zona B".
Belgrado non fece attendere la risposta basata sull'errata convinzione che il
"memorandum" di Londra aveva definitivamente chiuso il contenzioso tra Jugoslavia
e Italia.
La Farnesina confutò le affermazioni di Belgrado e il 21 marzo 1974 il
Presidente del Consiglio dei Ministri incaricato, l'On. Mariano Rumor, nel
presentarsi per il voto di fiducia alla camera espresse "...stupore e rammarico..." per
l'atteggiamento jugoslavo.
Belgrado rispose alle dichiarazioni di Rumor sostenendo che se l'Italia avesse
rimesso in discussione la sovranità jugoslava sulla "zona B", la Jugoslavia avrebbe
rimesso in discussione l'italianità di Trieste e di tutta la "zona A".
L'Italia respinse le affermazioni di Belgrado ma Tito, in un forte discorso
tenuto a Nova Gorica, affermò che ormai la "zona B" non esisteva più. Esisteva solo
la Repubblica Federativa di Jugoslavia.
Bisognerà attendere il 10 agosto per udire le prime parole concilianti e sono
quelle del Ministro degli Esteri italiano, Aldo Moro, che auspicava il ripristino di
buoni rapporti tra Italia e Jugoslavia
Rispose all'onorevole Moro il Segretario della Lega dei Comunisti Stane
Dolanc che, in un acceso discorso, accusò l'Italia di rincorrere "suggestioni fasciste"
parlò di "suggestioni fasciste" anche Tito quattro giorni dopo a Jesenice. E di
suggestioni fasciste parlerà ancora, a Pola, il Presidente del Consiglio Federale
Dremal Bijedic.
Questo è quanto successe solo pochi mesi prima di Osimo.
Il 10 ottobre 1975, si venne a conoscenza che accordi tra Italia e Jugoslavia,
avevano azzerato il contenzioso tra i due paesi.
L'annuncio è contemporaneo: al Parlamento italiano per bocca di Mariano
Rumor e all'assemblea jugoslava da Milos Minic.
Soltanto 12 giorni dopo la firma di Osimo, gli sloveni organizzano a Trieste
una manifestazione dedicata alla storia degli avvenimenti del 1945 ed avanzano
nuove richieste.
55
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
Venendo, per un momento, ai giorni nostri, non possiamo non constatare
come il Ministro degli Esteri del precedente governo, Antonio Martino, avesse fatto
qualche tentativo per riaprire il contenzioso tra Italia e Slovenia anche se solo in
termini di riacquisizione di beni abbandonati.
L'attuale Ministro Susanna Agnelli, sottoscrivendo la domanda di ingresso
nella Comunità Europea avanzata dal Governo di Lubiana, ha completamente
azzerato le già scarse probabilità di ridiscussione del Trattato di Osimo.
È come se l'lstria fosse stata pugnalata una terza volta!
56
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
57
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
58
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 36-59 Cadeddu
59
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
VINCENZO RUZZA
ERETICI E SCISMATICI, TRA PIAVE E LIVENZA.
IN ETÀ MEDIOEVALE E MODERNA
INTRODUZIONE
L'argomento che intendo proporre alla vostra attenzione questa sera è
certamente di notevole interesse, ma nel contempo insolito e difficile da trattare.
Non nascondo che, dopo averlo scelto un po' frettolosamente e fatto includere
nel calendario dei colloqui mensili programmato dal Circolo Vittoriese di Ricerche
storiche, mi sono, in un certo senso, pentito d'averlo fatto.
Sia perché la trattazione avrebbe richiesto una preparazione teologica ch'io
non possiedo, sia per la difficoltà di reperire notizie certe, per la parte relativa al
periodo più antico, e più ampie per il periodo più recente.
Inoltre sarebbe stato assai utile poter eseguire nuove indagini negli Archivi di
Stato sui numerosi processi celebrati a Venezia e nelle altre città del dominio veneto
di terraferma, processi che non ho avuto la possibilità di vedere, soprattutto a causa
delle norme restrittive recentemente imposte a chi vuoI accedere agli archivi
pubblici.
Norme medioevali nella concezione, discriminatorie nella pratica e
defatiganti per il ricercatore, che viene in ogni modo dissuaso dall'accedervi.
Un ulteriore motivo sta nella problematica di valutare l'effettivo pensiero
delle persone implicate nei processi. Cioè di capire se l'adesione alle proposizioni
ereticali ad esse imputate sia stata solo formale oppure sostanziale.
Conoscere cosa essi effettivamente avessero fatto o pensato è assai difficile
da stabilire in quanto - a prescindere dalla veridicità delle loro affermazioni,
ovviamente intese ad alleggerire la posizione processuale - ci è dato conoscere solo
60
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
quello ch'essi hanno dichiarato nel corso dell'interrogatorio. Anzi, più precisamente,
quello che i cancellieri hanno ritenuto di verbalizzare per motivare la sentenza.
Allora, mi direte voi, perchè hai scelto questo argomento?
Per due semplici motivi:
1) perchè l'argomento ha un suo fascino, un quid di mistero che desta
curiosità ed interesse.
2) per invogliare qualcuno, giovane laureando o studioso ricercatore, ad
approfondirlo ulteriormente.
Questo secondo motivo trova il suo fondamento nel fatto che altri argomenti
da me proposti in passato in modo sommario - lanciati come il classico sasso in
piccionaia - sono stati raccolti, sviluppati e portati avanti da altri.
Cito due esempi. Le notizie a suo tempo da me fornite in questa sede intorno
all'attività dello stampatore Marco Claseri sono state poi accresciute e sviluppate
nella tesi di laurea da Maria Rita Sonego.
Anche le mie due relazioni sul comportamento del clero cenedese nel periodo
risorgimentale hanno avuto un seguito e fornito lo spunto a Ido Da Ros che ne ha
tratto il volume "Il clero della diocesi cenedese nel Risorgimento", edito nel 1990.
Sarei oltremodo lieto se anche dalla relazione di questa sera altri prenderanno spunto
per farne un lavoro di maggior completezza e respiro.
Fatta questa digressione, cercherò di trattare l'argomento come meglio mi sarà
possibile. Ovviamente nei limiti e con i condizionamenti che ho in precedenza
enumerati.
PREMESSA
Prima d'entrare in argomento ritengo utile fornire alcuni chiarimenti e
precisazioni sulla portata dei due termini: eresia e scisma.
Sfogliando "Le Dictionnaire de Thèologie Catholique" di A. Vacant et E.
Manginot e comparando le definizioni con quelle di altri dizionari, pur nelle diverse
sfumature usate, si può concludere che per ERESIA si deve intendere ogni dottrina
contraria alla vera fede e cioè che si oppone o diverge in modo immediato, diretto o
in contraddittorio alla verità rivelata e proposta come tale dalla Chiesa alla credenza
dei fedeli.
SCISMA invece vuol significare la separazione voluta dall'unità e dalla
comunione ecclesiale.
Indubbiamente l'eresia è molto più grave dello scisma perchè presuppone un
dissenso dottrinale, mentre nello scisma prevale un dissenso formale o
semplicemente disciplinare.
Ne consegue che gli eretici vengono esclusi dalla comunione cristiana, mentre
61
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
gli scismatici non vengono espulsi - ma sono essi che si autoescludono.
Gli scismatici dichiarati tali fanno ancora parte della chiesa e - qualora vi
rientrino - viene loro conservato l'eventuale stato di sacerdote o di vescovo,
precedentemente rivestito.
Tutto sembrerebbe chiaro e ben definito. Nella pratica invece la
discriminazione tra scisma ed eresia non appare sempre così netta e sicura.
Nei secoli lontani, e cioè nei primi secoli di vita della Chiesa, spesso è
difficile distinguere e classificare perchè sovente gli eretici non sono stati espulsi
formalmente dalla chiesa e, al contrario, molti scismatici non hanno minimamente
inteso di uscire dall'ambito ecclesiale.
Nei primi secoli, mentre i Padri della chiesa si sforzavano di formulare le
proposizioni teologiche - frutto di dibattiti a volte anche molto accesi e cavillosi sulle
verità poi codificate nei vari Concilii Ecumenici, le discussioni avvenivano in piena
buona fede e i sostenitori di proposizioni, successivamente giudicate eterodosse,
credettero, quasi sempre, di esser nell' ambito della retta interpretazione delle Sacre
Scritture.
Il sorgere di tante divergenze teologiche non deve destare in noi meraviglia.
Esse si sono verificate in tutti i tempi e in tutte le religioni e quasi sempre derivano
dallo scontro tra la speculazione teologica e quella filosofica. E dalla chiave di lettura
dei testi.
Si tratta di un fenomeno comune a tutte le credenze. E trova nel Cristianesimo
il suo fondamento principale nel fatto che, Gesù Cristo, come anche la maggior parte
degli altri fondatori di religioni, non ha lasciato nulla di scritto ma ha fatto solamente
esposizioni verbali.
I suoi dettami sono stati poi trascritti dai discepoli in modo non sempre
univoco, donde il sorgere di dubbi e di differenti interpretazioni.
Circa il proliferare delle fazioni o sette in altre religioni, vediamo ad esempio
cosa successe nell'Islam.
Cito l'Islam perchè è un'altra grande religione monoteista. Maometto aveva
già preannunciato il sorgere di ben 73 fazioni o sette "di cui - disse - una sola si
salverà".
La profezia si è puntualmente ed abbondantemente avverata almeno per
quanto riguarda il numero1.
1
Altre sette che si differenziano più o meno dalle primitive norme coraniche:
Dai Sunniti derivarono i Kharigiti e gli Abaditi (fautori della guerra santa contro gli infedeli). Molte
di più sorsero tra gli Sciti e cioè gli Alidi, gli Ismailiti o Settimani, i Safarditi, gli Zaiditi (Yemen),
gli Imaniti o Duodecimali (Persia e India). Altre ancora furono i Nosairi, i Càrmati, i Orusi, gli
Hasasin (noti come i seguaci del Vecchio della Montagna).
I Mutaziliti o Separatisti diedero luogo ai Metuali e ai Giafariti; gli Hanafiti; gli Ibaditi, i Wahabiti
(Mandismo), i Sufisti, i Babisti (Persia), i Bahaisti (diffusi anche negli USA), gli Alawiti (Curdi), i
62
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
Infatti oltre ai due principali gruppi religiosi in cui l'Islam si è diviso e cioè i
Sunniti e gli Sciti, le sette eretiche sono enormemente proliferate, superando la
previsione.
Ma torniamo alla nostra religione cristiana.
Nei primi secoli i teologi che hanno formulato teorie eterodosse sono stati
spesso, per non dire quasi sempre, in buona fede.
I loro seguaci diedero vita a sette, alcune delle quali rientrarono poi nell'
ortodossia a seguito dei pronunciamenti conciliari.
Altre invece non ne accettarono le decisioni uscendo di fatto o facendosi
espellere esplicitamente dalla chiesa.
Tra le sette più note ricordo gli Ariani, i Donatisti, gli Gnostici, i Manichei, i
Monofisiti, i Nestoriani, i Pelagiani e i Semipelagiani2.
Tutto questo accadde nel periodo in cui la teologia della religione cristiana si
andava formando e i vari concilii cercavano di definire le proposizioni di fede da
valere, uniche, per tutti i fedeli.
Ciò venne raggiunto solo dopo lunghe discussioni imperniate soprattutto sulla
Trinità, sulla immanenza o trascendenza di Dio, sulla Provvidenza, sulla
predestinazione e sul libero arbitrio, sulla natura di Cristo, sul potere salvifico della
Grazia, sulla sopravvivenza dell' anima oltre la morte, ecc.
Nel VI sec. si verificò lo Scisma dei Tre Capitoli che coinvolse dapprima
tutta l'Italia settentrionale. Si restrinse poi alla sola Regione "Venetia et Histria", più
Milano e Como. Tale scisma durò fino all'anno 700 circa.
Più tardi i Pauliciani (VII-X sec.), diffusi si specie in Armenia, ritennero di
doversi adeguare all'insegnamento paolino dandogli preminenza su quello dei
Vangeli. Inoltre ripudiarono ogni forma di culto esterno.
Altro motivo di dispute teologighe fu l'Iconoclastia, che divise il mondo
occidentale da quello orientale.
Nazaryya (Khogia e Mawala in India e Africa Orientale. che hanno loro capo L'Agha Khan).
Alcune di queste sette assorbirono elementi eterogenei mutuandoli da antiche credenze o da
precedenti religioni. Così ad esempio i Nosairiti attuarono un vero e proprio sincretismo religioso,
assumendo molte feste e riti propri dei cristiani come, ad es., la celebrazione del Natale di Cristo,
dell 'Epifania, la benedizione del pane e del vino, ecc. Ancor oggi in Egitto i musulmani osservano
alcune festività cristiane mediate dai riti religiosi dei Copti.
Altre sette ch'ebbero un certo seguito:
Adozionisti, Basilidi, Chielasti, Carpocraziani, Circoncellioni, Corinti, Diteisti, Doceti, Eutichesi,
Eoni, Mandeisti, Marcioniti, Meleziani (363-415), Modalisti, Montanisti, Novaziani (254), Offisti,
Privatisti, Priscilliani, Sabelliani, Teodotisti, Valentiniani
2
63
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
In seguito si verificò lo scisma greco che, iniziato da Fozio nel IX sec., si
prolungò con Michele Cerulario e con Andronico Paleologo fino al XIII sec. Basato
sostanzialmente su motivi di preminenza tra la chiesa romana e quella grecobizantina, imperniò il dissenso teologico sul termine "filioque" inserito nel "Credo".
In parole povere, per gli uni lo Spirito Santo procede solo dal Padre, per gli
altri dal Padre e dal Figlio.
Nel con tempo in occidente sorsero diversi movimenti scismatici. I Bogomili
o Babuni, capeggiati da Pre’ Geremia, si diffusero tra le popolazioni slave abitanti
nei balcani tra il X e il XII sec. Da essi derivarono poi i Càtari, i nuovi Manichei, i
Patarini, gli Albigesi.
Questi ultimi, derivati dai Manichei Bulgari, si diffusero specie ad Albi in
Provenza (donde il nome).
Sorsero inoltre i fraticelli spirituali, gli Umiliati, i Valdesi (1180) detti anche i
Poveri di Lione, ecc.3
Si arriva così allo scisma d'Occidente (1378-1417) che portò la scissione in
seno alla chiesa cattolica con la creazione simultanea di due ed anche di tre Papi. O,
più esattamente, alla simultanea creazione di un Papa e di uno o due Antipapi.
Nel sec. XVI si diffusero il Luteranesimo e il Calvinismo, alimentati da moti
separatisti precedenti. Essi, a loro volta, ne fecero sorgere di nuovi.
Ricordo gli Hussiti o Utraquisti di Boemia, capeggiati da Giovanni Huss e
Giovanni Wycliff; gli Anabattisti, i Mennoniti, i Sociniani nonchè l'Anglicanesimo
(Enrico VIII, 1530).
Nel '700 infine si verificarono il movimento dei Giansenisti di Utrecht (1723)
e lo scisma Greco-Russo, promosso e sostenuto, per motivi nazionalistici - da Pietro
il Grande.
Non tutti questi movimenti ereticali e scismatici ebbero degli adepti nella
zona tra Piave e Livenza.
Anzi solo ben pochi. O perlomeno sono pochi quelli di cui ci è pervenuta
memoria o documentazione.
Le notizie che ho potuto raccogliere e sulle quali mi soffermerò questa sera si
riferiscono solo:
- alle eresie di Pelagio e di Ario,
- allo scisma cosiddetto dei Tre Capitoli,
- alla Riforma protestante che vide alcune infiltrazioni nei nostri paesi di
Altri eretici assai noti furono Amaldo da Brescia († 1154) e Gioachino da Fiore (Cosenza 11301201). Più tardi fra Girolamo Savonarola (Ferrara 1452-Firenze 1498) venne accusato di eresia. Ma
in realtà è da considerarsi, più che altro, uno scismatico. I suoi seguaci furono detti i "Piagnoni".
3
64
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
Luteranesimo, di Calvinismo, ma anche delle dottrine sostenute dagli Anabattisti e
dai Sociniani.
- Infine ricorderò alcune adesioni alle teorie giansenistiche verificate si fra
noi nella seconda metà del XVIII sec.
Può darsi che qualche altra eresia tra quelle sorte nei primi quattro secoli
abbia avuto qualche seguace tra i fedeli già esistenti nell'alto cenedese. Ma se vi
furono, non ne è rimasta traccia, ad eccezione dell' eresia Pelagiana e di quella
Ariana.
Quest'ultima, poi, non fu patrimonio della popolazione autoctona ma venne
importata dai Goti e dai Longobardi e sopravvisse durante il periodo della loro
dominazione in Italia.
PELAGIANESIMO - Pelagio fu un monaco e teologo britannico, vissuto tra
il 360 e il 420 dell'E.V. Non era sacerdote ma persona di puri ed austeri costumi, di
notevole ingegno ma di scarsa cultura.
Recatosi a Roma, espresse il suo dissenso circa l'interpretazione dei sacri testi
e trovò autorevoli e numerosi seguaci tra cui anche alcuni vescovi.
In sostanza negava il peccato originale e propugnava un naturalismo ed un
razionalismo cristiano, radicale e coerente nel negare il soprannaturale. Per lui la
salvezza è conseguibile indipendentemente dai meriti e dalle virtù redentrici di
Cristo. Il peccato di Adamo è solo un esempio di come l'uomo si sia allontanato da
Dio, ma non pregiudicò la possibilità di salvarsi per i suoi successori.
L'invasione dei Goti, guidati da Alarico, lo indusse a trasferirsi a Cartagine
(410-411), ove lasciò il suo maggior discepolo Celestio, il quale sostenne una vivace
polemica teologica con S.Agostino.
Pelagio invece si trasferÌ in Palestina da dove le sue teorie si diffusero nel
mondo orientale ed ellenistico.
Il Sinodo di Diospoli nel 415 non ritenne di condannarlo mentre il Concilio di
Cartagine (417) lo dichiarò eretico. Il Papa Zosimo, ne1418, scomunicò Pelagio e
Celestio. Tuttavia molti vescovi suffraganei della Chiesa Aquileiese presero
posizione a favore di Pelagio (418).
Combattuto specialmente da S.Girolamo, il pelagianesimo vide scemare le
sue fortune dopo le condanne pronunciate dal Concilio di Antiochia (424) e da quello
di Efeso (431).
Orbene, tra i sostenitori di Pelagio viene ricordato il diacono ANIANO Buon conoscitore delle lingue greca e latina, scrittore elegante e forbito per i suoi
tempi, Aniano continuò anche dopo le condanne sinodali a sostenere le idee eretiche
pelagiane in opposizione a S. Girolamo e a S. Agostino.
Egli fece la versione dal greco al latino di diverse omelie di S. Girolamo e gli
vengono attribuite anche varie traduzioni dagli scritti di S. Crisostomo, alcune delle
quali furono recepite nell' antico breviario romano.
65
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
Per contro S.Girolamo dichiarò di non degnarsi nemmeno di confutare lo
pseudo-diacono della chiesa "Celedese". Ossia di Ceneda (come interpretò il
Baronio, seguito dal Mondini e dal Lotti) mentre A. Vacant e E. Mangenot, nel citato
"Dictionnaire de Thèologie Catholique" opinarono trattarsi non di Ceneda bensì di
Celenna, cittadina campana esistente in epoca imperiale, che si ritiene sorgesse nella
valle del Volturno, non molto lontano da Capua4.
L'incertezza permane e difficilmente potrà venir risolta.
Coloro che non accettano la lezione "Celedese=cenedese" lo fanno in base al
presupposto - invero molto discutibile - che non possa farsi risalire l'esistenza di una
chiesa vescovile a Ceneda ai primi decenni del V sec.5
Ma nel V sec. Celenna quasi certamente non esisteva più. Inoltre nemmeno
Celenna risulta esser mai stata sede episcopale. Non la cita tra le antiche sedi vescovi
li italiane nemmeno mons. Louis Marie Duchesne, insigne storico dell'organizzazione della Chiesa nei primi secoli dell'era volgare.
Milita inoltre a favore di Ceneda il fatto che molti vescovi suffraganei della
chiesa Aquileiese, che fu sempre in stretto contatto con il mondo greco-orientale,
avevano in quel tempo (418) accettato le idee di Pelagio.
ARIANESIMO - Ario, prete di Alessandria d'Egitto, nacque verso l'anno 280.
Le sue speculazioni lo portarono ad affermare che Dio creò il Verbo dal nulla, prima
del tempo. Pertanto il Figlio non è propriamente Dio, benché la sua natura sia molto
superiore a quella umana.
Ne consegue che non c'è identità di sostanza tra il Padre e il Figlio.
Sostenne tali teorie al Concilio di Nicea, avvenuto nel 325, ma le sue
proposizione vennero condannate quali eretiche.
Tuttavia esse guadagnarono terreno specie nelle diocesi orientali e, sotto
l'imperatore Costanzo, si diffusero anche in occidente.
Ario, dapprima esiliato, riebbe in seguito il favore dell'imperatore Costantino.
Morì nell'anno 338.
VACANT A. e MANGENOT E. "Dictionnaire de Thèologie Catholique" Paris, 1909.
MORICCA U. "Storia della letteratura latina" TO, 1932.
Luis Marie DUCHESNE, Histoire ancienne de l'Eglise (traduzione di G.Barni in "I Longobardi in
Italia" NO, De Agostini, 1975).
4
A Julia Concordia la presenza di nuclei di cristiani è documentata già alla fine del II sec. mentre
la locale Cattedrale risulta costruita tra il 381 e il 386. Sembra poco probabile che due secoli dopo
non vi fossero ancora nuclei di fedeli nella zona pedemontana tra Piave e Livenza e che nel V sec.
non vi esistesse già un'organizzazione ecclesiale ben definita.
Nel V sec. anche Belluno risulta già sede episcopale. È difficile concepire che l'evangelizzazione
sia da Aquileia arrivata a Belluno senza passare nè lasciar segno a Ceneda!
5
66
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
Dopo la sua morte l'arianesimo continuò a dilagare in Oriente fino all'
avvento dell'imperatore Teodosio che impose ovunque l'ortodossia.
In occidente praticamente scomparve mentre si affermò nuovamente tra i Goti
che a loro volta lo diffusero tra le popolazioni barbariche installate ai confini
dell'impero.
Allorché i Goti invasero l'Italia, l'appartenenza all'arianesimo acquisì una
connotazione politica e razziale, differenziando le popolazioni romane da quelle
barbariche.
Ariani furono poi i Longobardi che si convertirono al cattolicesimo solo nella
seconda metà del VII sec.
L'arianesimo fu quindi nei nostri paesi fenomeno d'importazione.
Ludovico Antonio Muratori, nei suoi Annali d'Italia, afferma che durante il
primo secolo di dominazione longobarda in ogni città vi furono contemporaneamente
due vescovi, uno ariano ed uno cattolico.
Il primo nelle Fare, il secondo nelle Pievi.
In questo periodo i Longobardi perseguitarono il clero cattolico, in seguito
poi, a periodi alterni, esso fu più o meno tollerato.
Infine i Longobardi si convertirono anch'essi al cattolicesimo negli ultimi
decenni del VII secolo.
A Ceneda, capoluogo di Ducato, vi fu quindi quasi certamente un vescovo
ariano. Ma personalmente ritengo che vi fosse già, almeno nel VI sec. anche un
vescovo cattolico6.
Ancora sulla dibattuta questione degli inizi della nostra diocesi.
Nei primi anni dell'VIII sec, a Ceneda c'era il vescovo Valentiniano.
Nel Placito di Liutprando - qualora lo si riconosca veritiero almeno nella sostanza - emerge
chiaramente ch'egli aveva esercitato le funzioni episcopali precedentemente alla sua ordinazione
canonica.
Infatti gli viene rinfacciato dal Patriarca Callisto che il vescovo di Oderzo era ancor vivo "quando
tu presalutus honorem sumpsisti". Cioè quando tu sei entrato in carica "non ancora salutato dal
popolo" (il che avveniva di regola subito dopo l'elezione e prima della consacrazione).
Il vescovo Valentiniano doveva quindi esser da poco rientrato nell'ortodossia.
Ed è per tale motivo che il Patriarca dice ch'egli "nostram presentiam adiit, humiliter nos obsecrans,
ut ei confirmare... dignaremur". Valentiniano voleva quindi ottenere la consacrazione canonica.
Oltre, beninteso, ottenere la reintegrazione nel possesso del territorio già facente parte della diocesi
opitergina. Poco prima, sempre il testo del Placito reca anche la frase: "verum etiam a sacerdotali
ordine merito est deponendum", avrebbe cioè meritato di venir deposto per aver egli esercitato le
funzioni episcopali prima di esser canonicamente riconosciuto dal Patriarca.
Valentiniano, poi, si fece una nuova tomba in Cattedrale, come viene riferito dal Lotti, e ciò perchè,
dopo esser rientrato nell'ortodossia, non voleva venir sepolto nella tomba dei precedenti vescovi,
ariani o scismatici che fossero stati, e venir confuso con essi.
6
67
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
Non è pensabile infatti che la chiesa locale sia rimasta acefala per due secoli,
senza collegamento con la sede di Oderzo, rimasta invece sotto il dominio dei
Bizantini, quasi sempre in lotta con i Longobardi, tanto che per ben due volte questi
la distrussero.
A suffragare questa mia affermazione ricordo il caso di Padova.
Presa e distrutta la città ad opera di Agilulfo, il suo vescovo preferì
abbandonare la sede e trasferirsi esule nelle lagune.
Ebbene, subito la diocesi di Padova passò alle dipendenze del vescovo di
Treviso, non essendo concepibile per i Longobardi che un episcopato potesse venir
amministrato da un vescovo divenuto suddito di Bisanzio e quindi da considerare un
nemico.
SCISMA DEI TRE CAPITOLI
Causa dello scisma furono gli scritti di Teodoro, vescovo di Mopsuestia, e
quelli di Teodoreto di Ciro. Inoltre una lettera del vescovo di Hibla di Edessa. Il
Concilio di Calcedonia, svoltosi nel 451, li riconobbe come ortodossi sebbene, in
realtà, mostrassero affinità con l'eresia nestoriana, condannata invece dal predetto
Concilio.
I tre scritti (detti anche "I tre capitoli") in sostanza sostenevano che in Cristo
v' erano due nature e due persone. Ciò in contrasto con la dottrina già codificata, che
insegna esservi in Cristo sì due nature (la divina e l'umana) ma una sola persona.
L'imperatore Giustiniano nell'anno 544 condannò gli scritti anzidetti come
eretici. Mal sopportando la sua intromissione negli affari ecclesiastici, la chiesa
occidentale in un primo tempo non volle riconoscere la condanna fatta unilateralmente su iniziativa dell'imperatore.
Dopo reiterate pressioni Papa Vigilio nel 548 acconsentì ad accettare la tesi
imperiale. La condanna venne poi confermata dal V Concilio Ecumenico tenuto a
Costantinopoli nel 553, su convocazione imperiale.
La maggior parte dei vescovi dell'occidente accettarono le decisioni papali e
rientrarono nell'ortodossia. Invece il Patriarca di Aquileia, e con lui tutti i suoi
vescovi suffraganei, rimasero fermi nel riconoscere valide le decisioni del Concilio di
Calcedonia e non quelle adottate nel V Concilio di Costantinopoli.
Ad alimentare lo scisma concorsero certamente i Longobardi che nella
divisione della chiesa italiana vedevano diminuito il potere del Papato, loro
antagonista e non certo benevolo nei loro confronti.
Lo scisma durò fin verso gli ultimi anni del 700.
Il clima di tensione verificato si nel Veneto a seguito dello scisma è
dimostrato dalle disavventure occorse a Marciano, vescovo di Oderzo.
Eletto nel 549 alla sede opitergina, in sintonia col Patriarca di Aquileia
68
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
anch'egli aderì allo scisma dei Tre Capitoli, mentre il popolo di Oderzo, allora
suddito di Bisanzio, aderì senza riserve alle risoluzioni imperiali.
Non avendo egli accettato nemmeno le decisioni del Sinodo Costantinopolitano (553), fu costretto dal popolo a lasciare Oderzo e a trovare temporaneo rifugio
presso il Patriarca, ad Aquileia.
Marciano fu presente al Sinodo di Grado (579) nei cui atti si sottoscrisse
quale vescovo di Oderzo. Morì esule a Grado nel 593 e venne sepolto nella Basilica
di Santa Eufemia, nella quale fu ritrovata, non molti decenni fa, la sua tomba.
Se il Cenedese avesse fatto parte della diocesi di Oderzo il vescovo Marciano
non avrebbe avuto necessità di rifugiarsi presso il Patriarca in quanto avrebbe avuto
fedele a lui oltre metà della diocesi e la possibilità di trasferire la sede episcopale a
Ceneda, allora posseduta dai Franchi e poi, nel 569, divenuta dominio dei
Longobardi.
Ciò gli sarebbe stato possibile qualora Ceneda avesse fatto parte della diocesi
di Oderzo. Mentre non fu possibile perchè a Ceneda c'era evidentemente un altro
vescovo.
Questo è un ulteriore motivo che mi fa personalmente ritenere che a Ceneda
esistesse già un episcopato, sorto fin da quando i Franchi avevano invaso l'Alto
Veneto, durante la guerra gotica, separando nettamente il territorio cenedese da
quello opitergino.
I Longobardi si convertirono a poco a poco al cattolicesimo ma nella Venetia
et Histria continuò lo scisma dei Tre Capitoli fino agli ultimi anni del VII secolo.
Dopo un salto di ben sette secoli senza notizie, incontriamo tracce della
Riforma Protestante e quindi di Luteranesimo e di Calvinismo, ma anche degli
Anabattisti, degli Antitrinitaristi e dei Sociniani.
LA RIFORMA
Con tale termine s'intende un insieme di moti di rivolta contro la chiesa
romana avvenuti attorno al XVI secolo.
Motivi principali: la corruzione del clero romano; la vendita delle indulgenze
e l'abuso delle reliquie dei santi; il cumulo dei benefici ecclesiastici in una sola
persona; la pretesa della chiesa romana di esser l'unica in grado di dettare l'esatta
interpretazione dei testi sacri; l'organizzazione verticistica ed assolutistica della
Chiesa di Roma. Non ultimo movente l'astio del mondo germanico nei confronti di
quello latino.
La riforma promossa da Lutero sostenne sostanzialmente che: la
Giustificazione è dono gratuito che l'uomo non può conseguire con le sole opere
buone ma viene esclusivamente dai meriti del Cristo e quindi dalla Fede in Lui.
Viene contestata la preminenza e quindi l'infallibilità del Papa.
69
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
È ammessa la critica di tutte le decisioni conciliari, dei dogmi e dei dettami
codificati nei secoli dalla chiesa. Viene ribadita la necessità di riformare la chiesa
romana secondo le Scritture, per salvarla dalla corruzione vigente.
È contestato il valore della Messa quale sacrificio espiatorio e la Comunione
dei Santi. Riconosciuto il valore solo di alcuni sacramenti.
Assioma di fede: L'uomo è peccatore ma è reso giusto dai meriti di Cristo,
purché abbia fiducia e fede in lui.
Queste, grosso modo, le divergenze dottrinali principali nei confronti del
cattolicesimo, divergenze che andarono ampliandosi nel tempo.
Infatti in un primo periodo la frattura con la chiesa romana non apparve
insanabile essendo sostanzialmente più scismatica che eretica.
Varie persone in questa prima fase tentarono di trovare una possibile
mediazione. Invece la frattura andò vieppiù allargandosi a causa di reciproche
incomprensioni.
Nel 1530 il teologo Filippo Melantone7, alla Conferenza di Augusta, cercò di
smussare le divergenze redigendo la "Confessione Augustana", quale base di
discussione per un possibile accordo.
Ma il testo redatto non venne accettato né da Roma né da Lutero anche
perchè lasciava insolute troppe questioni fondamentali quali, ad es., l'esistenza del
Purgatorio, il valore delle indulgenze, il significato della Messa, il problema della
Transustanziazione, l'organizzazione del sacerdozio.
Tuttavia la Confessione Augustana finì con il consolidare ancor più il
movimento protestante e segnò la pratica fine del Sacro Romano Impero.
Calvino poi non accettò il libero arbitrio e sostenne l'assoluta predestinazione
degli eletti; negò che i sacramenti conferiscano la Grazia; l'Eucarestia ha solo un
valore simbolico.
Mise al bando le immagini sacre e le cerimonie liturgiche sostituendole con la
Parola, cioè con la predicazione.
Ulteriori variazioni teologiche vennero apportate dagli Anabattisti e dalle
altre sette protestanti sorte a fianco delle principali.
IL LUTERANESIMO
Martin Lutero, nato nel 1488, si fece frate agostiniano.
Dopo un viaggio fatto a Roma, decise di insorgere contro il lusso paganeggiante
Filippo Melantone (Philipp Melancthon - 1497-1560) fu docente alle università di Tubinga e
Wittemberg, ove conobbe e seguì Lutero nei cui confronti agì quale elemento moderatore al fine di
evitare la scissione con la Chiesa Cattolica. Fu scrittore, grammatico e teologo illustre.
7
70
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
e la corruzione che dominavano nella corte romana.
Si dedicò allo studio ed alla interpretazione dei testi sacri. Il 31 ottobre del
1517 affisse alle porte della Cattedrale di Wittemberg 95 tesi solo in parte
dissenzienti dall'ortodossia ufficiale. Scomunicato da Leone X, bruciò in piazza la
bolla pontificia dando origine allo scisma.
Trovò subito sostegno nei principi-elettori tedeschi che lo difesero contro
l'imperatore Carlo V. Lo scisma scivolò nell'eresia e assunse poi valenza anche
politica.
Lutero fu a lungo ospite dell 'Elettore di Sassonia nel castello di Wartburg
ove morì nel 1546.
Egli elaborò nel tempo varie proposizioni teologiche sempre più dissenzienti.
Molte sono state in precedenza già enunziate. Alcune ulteriori variazioni furono
sostenute da Ulrich Zwingli, più radicali di quelle luterane, variazioni ch'ebbero largo
seguito specie in Svizzera.
IL CALVINISMO
La chiesa protestante calvinista venne fondata da Giovanni Calvino, nato a
Noyon nel 1509, figlio di un notaio apostolico. A soli 12 anni godeva già di un
beneficio ecclesiastico. Ma ben presto rinunciò alla carriera ecclesiastica e si dedicò
allo studio del diritto e della teologia.
Nel 1532, a Parigi, cominciò a manifestare la sua simpatia per la Riforma. Fu
perciò perseguitato ed indotto ad emigrare in varie città.
Nel 1535, trovandosi a Basilea, pubblicò le "Istituzioni della Religione
Cristiana", base di una sua riforma della Riforma.
Nei suoi viaggi non mancò di venire in Italia, e fu ospite a Ferrara di Renata
di Francia, sposa di Ercole II d'Este, e gran sostenitrice del movimento protestante in
Italia.
A Ginevra venne nominato professore di teologia ed acquistò in breve un
notevole potere, anche e soprattutto politico, cosicché divenne capo assoluto del
governo della città ch'egli cercò, anche coattivamente, di trasformare in una
repubblica teocratica.
Persona di austeri costumi, fu intollerante verso i dissidenti.
Quantunque ponesse a fondamento del suo credo il libero esame e la libertà di
coscienza, tuttavia perseguitò chi non si piegava alle sue vedute, come accadde
agli antitrinitaristi Alberico Gentile e Michele Serveto8 che egli fece condannare
Michele Serveto (Miguel Servet y Reves) nacque in Aragona nel 1511. Fu scienziato e teologo,
noto anche con il nome di Michele di Vilanova. Studiò teologia e diritto a Saragozza, Barcellona e
Toledo e acquisì notorietà con la traduzione della Geografia di Tolomeo, il commento della Bibbia e
8
71
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
quali eretici e morire sul rogo.
Cercò poi di giustificare il suo operato nell'opera "Defensio Dei".
Morì a Ginevra nel 1564.
La sua dottrina s'impernia nel riconoscimento che la Bibbia è l'unica fonte di
fede; unico Sacramento riconosciuto è il Battesimo quale mezzo per cancellare il
peccato originale; l'Eucarestia è ammessa solo quale commemorazione; negazione
del libero arbitrio perchè la predestinazione è assoluta; nessuna opera e nessun merito
acquisito possono sostituire la Grazia, che è un dono; il potere civile è sottoposto a
quello ecclesiastico, ecc.
ANABATTISTI - Sono così chiamati gli aderenti ad un movimento sorto
parallelamente alla Riforma ma da questa indipendente e separato principalmente
perchè privo di matrice politica. Originò a Zurigo ove Corrado Grebel, Felice Manz e
Giorgio Blaurack, separati si da Zwingli, predicarono la necessità di un secondo
battesimo in età adulta.
In precedenza lo avevano già fatto, tra il 1523 e il 1525, Carlstadt e Thomas
Müntzer (1490-1525), il capo dei profeti di Zwickau, che aveva dato vita ai
cosiddetti "Fratelli Cristiani".
Il loro orientamento di fede si può, grosso modo, così riassumere: il
fondamento è lo studio della Bibbia; l'ideale è il cristianesimo apostolico e l'amore
del prossimo sulla guida del "Sermone della Montagna". Gli adepti sono tenuti alla
rigida osservanza della legge.
Viene così attuato un cristianesimo laico-radicale.
A differenza di Lutero ritennero che l'uomo potesse, per mezzo delle buone
opere, ottenere lo Spirito Santo e quindi la salvezza.
Di idee estremamente giudaizzanti, furono spesso in sintonia con gli
Unitaristi o Antitrinitaristi, condividendone l'impostazione teologica rigidamente
monoteista. In breve il movimento si orientò verso la protesta sociale violenta.
Il Müntzer capeggiò la grande rivolta contadina che, dopo un primo periodo
di esitazione, venne aspramente combattuta da Lutero e dai principi tedeschi. Gli
Anabattisti furono dapprima sconfitti a Mülhausen: il Müntzer, catturato, venne
decapitato.
Ma la rivolta continuò e finì ufficialmente nel 1535 con la caduta di Müntzer
in Vestfalia, ove si era asserragliato il dittatore apocalittico Giovanni de Leyde
l'edizione spagnola delle opere di S.Tommaso. Le sue opere teologiche "De Trinitatis erroribus" e
"Cristianismi restitutio" gli procurarono persecuzioni. Perciò riparò a Ginevra da lui ritenuta oasi
del libero pensiero. Ma Calvino lo fece morire sul rogo come eretico e negatore della SS.Trinità.
72
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
(1510-36) a capo di una turba fanatica di seguaci, dei quali venne fatta strage9.
L'anabattismo ebbe qualche rigurgito nei Paesi Bassi e diede origine alla setta
dei Mennoniti (Menno Simons 1492-1559), setta convertitasi invece al pacifismo.
Perseguitati, si diffusero in vari paesi d'Europa e, successivamente, in America.
SOCINIANI - Sono così chiamati i seguaci di una serie di teorie eretiche che
Lelio e Fausto Socini riuscirono a coagulare in una particolare chiesa, detta dei
Fratelli Polacchi.
Nonostante le persecuzioni, essi si diffusero in Inghilterra, nelle Fiandre, in
Transilvania ed anche in Italia, particolarmente nel Veneto.
Secondo i fratelli Socini, ha valore solo il Nuovo Testamento liberamente
interpretato dalla ragione umana; quindi rifiuto delle scritture dei Santi Padri, delle
decisioni conciliari e rigetto dell' autorità del Papa.
Dio è una sola persona; Gesù Cristo è un uomo mandato da Dio a predicare il
vero e il bene, che offrì sé come esempio.
Ne consegue il rigetto del Sacramento dell'Eucarestia. Sostenitori principali
del movimento furono Giovanni Giorgio Biandrate di Saluzzo (che fu medico alla
corte del re di Polonia), Bernardino Ochino e Matteo Gribaldi.
Un ulteriore gruppo di dissidenti presenti nella nostra zona fu quello degli
UNITARISTI o ANTITRINITARISTI.
Esso negava la Trinità di Dio, cioè l'esistenza di un Dio formato da tre
persone uguali e distinte. Riconduceva quindi il cristianesimo al monoteismo più
assoluto. Tale teoria venne sostenuta da diverse persone aderenti ai vari movimenti
della Riforma ed ebbe il suo principale teorico in Michele Serveto e sostenitori in
Giovanni Giorgio Biandrate, Alberico Gentile, Lelio e Fausto Socini.
Fu più che altro un movimento trasversale, teologico, speculativo e non
formò quindi una vera e propria chiesa distinta.
Gli Unitaristi finirono con l'associarsi in parte con gli Anabattisti (Sinodo di
Venezia, 1550) o col creare una diversa chiesa il che fecero, come abbiamo già visto,
i fratelli Socini. Altri infine vennero assorbiti da paralleli movimenti ereticali più
consistenti ed affermati.
Ciò premesso vediamo quale impatto la Riforma, intesa in senso lato, abbia
avuto nella nostra zona. Le notizie sono purtroppo scarse e frammentarie e non
consentono una ricostruzione molto dettagliata.
Giovanni di Leyda a capo di una turba di fanatici s'impadronì della città di Münster ove si fece
proclamare Re della Nuova Gerusalemme, soppresse con la violenza ogni forma di opposizione ed
organizzò la città su basi comuniste.
9
73
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
Dalla confessione fatta davanti all'Inquisizione di Venezia da parte del prete
marchigiano Pietro Manelfi risulta che ad introdurre l'eresia anabattista ed
antitrinitarista nel Veneto, e in particolare in Serravalle, sarebbe stato un certo
Tiziano che vien detto di Conegliano.
Però in alcuni verbali questo Tiziano è detto di Ceneda. In altri, di Serravalle.
Alcuni studiosi hanno ritenuto di poterlo identificare con Cesare Flaminio,
nipote e discepolo di Giannantonio, ma con scarso fondamento e senza alcun valido
riscontro.
Personalmente ritengo invece che questo Tiziano altri non sia che TIZIANO
SARCINELLI, figlio di Antonio. Infatti in quel torno di tempo i Sarcinelli
possedevano ed abitavano in palazzi di loro proprietà sia a Ceneda, sia a Serravalle,
sia a Conegliano. Ciò giustifica la diversa indicazione di origine sopra riportata.
È inoltre da notare, come vedremo più dettagliatamente in seguito, che i
giovani serravallesi, che avevano dato vita ad un cenacolo eterodosso, appartenevano
quasi tutti alle migliori famiglie della zona, le quali potevano permettersi di inviare i
loro figli alla Scuola pubblica di Serravalle, non certo gratuita se, come abbiamo già
visto, Giannantonio aveva la facoltà di percepire le rette da essi pagate.
Perchè poi il cenacolo sia sorto proprio a Serravalle lo si spiega facilmente.
La città era fiorente, sita su una grande direttrice di traffico, sulla via che da Venezia
portava direttamente in Alemagna.
A Serravalle alcuni mercanti tedeschi abitavano forse stabilmente ed avevano
fondachi e depositi per le loro mercanzie.
A questo Tiziano viene inoltre addebitato il fatto di aver convertito
all'anabattismo e ribattezzato un eretico assai noto e cioè Bruno Busale10 di Napoli,
in quegli anni studente all'Università di Padova.
Inoltre è noto ch'egli prese parte attiva all'opera di riavvicinamento tra gli
Anabattisti e gli Unitaristi favorendo il loro incontro al Sinodo che si tenne
segretamente a Venezia nell'autunno del 1550, sinodo che si concluse con un accordo
di compromesso.
Se la mia individuazione verrà confermata da ulteriori indagini, questo Tizian
o Tiziano Sarcinelli, in gioventù, seguendo i fratelli maggiori Gian Maria e
Bruno Busale, nato a Napoli da genitori Hispano-marrani, verso il 1540 aderì alle idee di Juan de
Valdes e poi a quelle antitrinitarie.
Nel 1550 frequentò l'Università di Padova ove conobbe Tiziano e fu da questi ribattezzato tra gli
Anabattisti.
Nel dicembre 1551, dopo le rivelazioni di Pietro Manelfi. venne arrestato ma nel febbraio
successivo fece ampia ritrattazione davanti all'Inquisizione per cui venne condannato solo a pena
detentiva. Scarcerato, fece ritorno a Napoli ove, nel 1569, figura svolgere alcuni incarichi per conto
del Vicerè di Napoli.
10
74
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
Martino, si arruolò e combattè nell' esercito veneziano contro le armate imperiali.
Suo padre Antonio nel 1512 provocò a Cene da uno scontro armato nel quale
rimasero uccisi Antonio, Francesco e Giovanni, figli di Giacomo Cometi, famiglia
rivale dei Sarcinelli.
Per tale misfatto il Consiglio dei X condannò Antonio e i suoi figli all' esilio
nell'isola di Cherso. Ma la condanna fu ben presto revocata verso l'esborso di 4000
ducati e l'impegno di mantenere 25 uomini d'armi al servizio della Repubblica.
Nel 1518 Antonio, per sottrarsi al pericolo di vendette, ritenne opportuno
lasciare Cene da e, dopo una breve permanenza in Serravalle, andò ad abitare a
Conegliano, ove la famiglia si era fatta erigere un grande palazzo.
Le storie locali riferiscono notizie sull'ulteriore attività di Gian Maria e
Martino mentre tacciono sulle vicissitudini occorse a Tiziano e al fratello minore
Giacomino.
Ma vediamo più dettagliatamente le notizie sulle altre persone implicate, più
o meno direttamente, in questi movimenti.
È stato fatto cenno alla scuola pubblica diretta in Serravalle da
GIANNANTONIO ZABARRINI, noto come Giannantonio FLAMINIO, chiamato
nel 1486 a Serravalle per esercitarvi la funzione di pubblico insegnante di
grammatica con contratto quadriennale e lo stipendio di 100 zecchini, oltre le rette
pagate dagli scolari.
Il suo insegnamento ottenne grande successo e non solo i giovani di
Serravalle vi accorsero in buon numero ma anche molti altri vi affluirono dalle città
vicine. Scaduto il contratto, nel 1491 passò ad insegnare a Montagnana. Ma a
Serravalle continuò ad abitare saltuariamente e a Serravalle gli nacque nel 1498 il
figlio Marc'Antonio, nella casa di via Tiera.
Tornò ad insegnare a Serravalle nel 1502 e, dopo 4 anni, il Maggior Consiglio
gli concesse la cittadinanza, ascrivendolo al Collegio dei Notai.
Nel 1509, per timore delle invasioni dei turchi, si trasferì ad Imola ma nel
1517 ritornò definitivamente a Serravalle ove riottenne l'insegnamento pubblico per
un quadriennio. Fece anche parte del Maggior Consiglio della città.
Tra i suoi discepoli ebbe anche i nipoti Cesare e Sebastiano che vennero da
Imola ad abitare con lui e che, a Serravalle assunsero anch' essi il cognome dello zio,
ormai noto come "Flaminio".
Benchè la sua scuola risulti esser stata frequentata da diversi giovani eretici,
egli personalmente non risulta esser mai stato implicato e nemmeno sospettato di
eresia11.
Altre notizie sull'attività di Giannantonio Zabarrini detto il Flaminio. Nato a Codignola nel 1464,
si trasferì con il padre Gio. Antonio da Imola quando aveva 12 anni e vi compì gli studi umanistici.
11
75
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
Suo figlio MARCANTONIO, fino all'età di 16 anni ebbe il padre come
maestro e fu giudicato da tutti un ragazzo prodigio.
Nel 1514 Giannantonio mandò il figlio a Roma, raccomandandolo al conte
Raffaele Lippo Brandolini perchè lo presentasse alla corte romana.
Leone X lo ebbe assai caro per il suo ingegno vivace e precocissimo e lo
introdusse nella famiglia degli umanisti del suo tempo. Ebbe così modo di venir a
contatto con Jacopo Sadoleto, Jacopo Sannazzaro, Baldassar Castiglione e il padre
benedettino Gregorio Cortese. Nel 1515 furono stampati a Fano i suoi primi carmi
latini unitamente a quelli del poeta Michele Marullo, ottenendo subito fama e
notorietà. Desiderato e vezzeggiato da principi, porporati e letterati, girò le corti
d'Italia da Bologna a Genova, da Padova a Verona, da Firenze a Viterbo, da Milano
ad Urbino, da Mantova a Venezia. Fu al servizio del protonotario papale Stefano
Sauli e per 15 anni svolse le funzioni di segretario di Giovanni Matteo Giberti,
vescovo di Verona, ove fece parte attiva dell'Accademia Gibertina12. Fu Segretario
anche del cardinale Alessandro Farnese.
Dal 1538 al 1542 risiedette a Napoli ove conobbe e subì un certo influsso dall'
eretico Giovanni Valdès13. In quegli anni, anche molti cattolici si dilettavano nel
discutere argomenti religiosi, della Grazia, del Libero arbitrio e della Salvezza.
Alla corte viterbese del card. Reginald Pole14, Marc'Antonio divenne amico di
Fabrizio Brancuti ed animò un circolo d'ispirazione religiosa del quale fecero
Nel 1490 Giannantonio, che intanto aveva cambiato il suo cognome in quello di Flaminio, sposò
Veturia Cenedese, abitante in Serravalle, nipote del Pievano di S. Maria Nova. Scrisse una "Vita di
S. Domenico" e un poemetto in lode delle vittorie conseguite da Bartolomeo d'Alviano. MorÌ
nell'anno 1536. Localmente è molto nota la sua lettera del13 novembre 1521, diretta al Vice Legato
di Bologna Bernardo de Rubeis, lettera nella quale descrive la grande alluvione che in quell'anno
devastò l'abitato di Serravalle.
Giovanni Matteo Giberti nacque a Palermo nel 1495. Eletto vescovo di Verona dimostrò la sua
erudizione classica e si circondò di dotti e di persone colte dando vita all’Accademia Gibertina.
Fondò la tipografia di Stefano Nicolini e quella dei fratelli Di Sabio e diede alle stampe le edizioni
"princeps" dei "Commentari di S.Giovanni Grisostomo sulle Epistole dell'Apostolo S.Paolo". Morì
nel 1543.
12
Giovanni Valdès fu un teologo spagnolo tra i cosidetti "illuminati" (alombrados). Le sue idee
riformiste non trovarono però alcun seguito in Spagna per cui decise di trasferirsi in Italia. Durante
il suo soggiorno a Napoli venne sicuramente a contatto con M.A. Flaminio sul quale esercitò una
forte influenza.
13
Reginald Pole (1500-1558), prelato inglese, fece gli studi in Italia, e divenne un insigne umanista. Eletto Cardinale, divenne amico di Erasmo da Rotterdam e dimostrò la sua propensione ad
una intesa con i Protestanti. Disapprovò invece il divorzio di Enrico VIII da Caterina d' Aragona.
14
76
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
parte Alvise Priuli, Pietro Carnesecchi, Vittore Soranzo e Apollonio Merenda.
Riferendosi a questo periodo il Brancuti15, in una sua lettera, scrive che
MarcAntonio sarebbe stato “maestro spirituale di quel circolo nel quale, nonostante
l'ostilità del cardinale Pole, si leggevano i libri di Lutero, di Bucero16 e di Calvino”.
Ammiratore, oltre che del cardo Pole, anche di Vittoria Colonna, del cardo
Giovanni Morone e di Pietro Carnesecchi, negli ultimi 15 anni della sua vita si
dedicò agli studi e alle pratiche religiose.
Morì a Roma il 18 febbraio 1550 in casa dell'amico cardo Pole, assistito
religiosamente dal cardo Pietro Carafa.
Ciò premesso viene logicamente da chiedersi fino a che punto MarcAntonio
sia stato vicino allo spirito della Riforma e se quindi debba ritenersi o meno un
eretico. È da rilevare che la grande maggioranza dei suoi amici e delle persone a lui
vicine furono prossime o appartennero a movimenti legati alla Riforma. Il Carne
secchi fu condannato per eresia e decapitato a Firenze17; anche il Morone fu accusato
di eresia18, ma poi prosciolto; il Pole fu deferito da Paolo IV all'Inquisizione quale
eretico; il Brancuti fu un attivo sostenitore della Riforma.
Molto si è discusso e molti i pareri espressi dagli studiosi.
Personalmente ritengo che, pur non restando egli insensibile ai principi teorici
enunciati dai movimenti eterodossi legati alla Riforma, sia però rimasto
sostanzialmente fedele alla chiesa romana, della quale però anch' egli auspicava un
profondo rinnovamento interiore.
Fabrizio Brancuti, nato a Cagli verso il 1500, crebbe alla corte d'Urbino. Unitamente a Pietro
Panfilo, il 9 agosto 1537, scrisse una lettera a Marcantonio Flaminio esortandolo a seguire il suo
esempio e a dedicarsi allo studio del Nuovo Testamento e ai libri di S. Agostino. Nel 1542 è
anch'egli alla corte del cardo Pole, in grande amicizia con il Flaminio ch'egli definisce "maestro
spirituale" del Circolo viterbese. Il Flaminio stava allora portando a termine la revisione del
"Beneficio di Cristo". Nel 1550 si recò a Parigi avvicinandosi al Calvinismo. In seguito fu però a
Venezia, membro di una comunità clandestina luterana. Infine nel 1562 lasciò Venezia e fece parte
della Chiesa Italiana di Ginevra.
15
Bucero è il nome italianizzato di Martin Bucer (1491-1551), padre domenicano, che svolse la
sua attività principalmente a Strasburgo. Fu persona sempre propensa alla mediazione e al dialogo.
16
Pietro Carnesecchi, nato a Firenze nel 1508, fu sacerdote presso la corte papale. Divenuto aperto
fautore della Riforma, per sottrarsi ali 'Inquisizione si trasferÌ a Venezia. Nel 1565, non sentendosi
più sicuro nemmeno a Venezia, fece ritorno a Firenze ove però Cosimo I lo fece arrestare.
Processato per eresia, venne decapitato (1567).
17
Giovanni Morone (Milano 1509-Roma 1580) fu vescovo di Modena e Cardinale di S.R.C.. Nel
1557 Paolo IV lo fece arrestare sotto accusa di eresia. Morto Paolo IV, venne prosciolto e Pio IV lo
incaricò di presiedere l'ultima sessione del Concilio di Trento.
18
77
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
Lo dimostra la sua produzione di liriche religiose, tutte permeate da sincera
aspirazione ad un'intima e sentita spiritualità. Fa parte di questo gruppo anche la
parafrasi in versi latini di una trentina di salmi davidici. Per contro la critica recente
tende ad attribuirgli la paternità del "Trattato del beneficio di Cristo", opuscolo di
impronta chiaramente eretica19.
Assai meno fedele alla chiesa romana si dimostrò invece Sebastiano Flaminio
il quale, unitamente al fratello Cesare, fece parte attiva di quel gruppo di giovani
serravallesi che contestavano, più o meno apertamente, il magistero della chiesa
cattolica ed inclinavano verso concezioni vagamente luterane, calviniste ed
anabattiste, concezioni ch'ebbero una certa diffusione anche in altre località della
zona.
Di Sebastiano, cugino di MarcAntonio, sappiamo che venne a Serravalle,
unitamente al fratello Cesare, e che studiò alla scuola dello zio Giannantonio. È noto
che Sebastiano venne in seguito inquisito perchè sospetto di eresia presso il
Tribunale dell'Inquisizione di Imola, ma che riuscì a cavarsela, ottenendo
l'assoluzione.
Cesare Flaminio, fratello di Sebastiano, dopo aver frequentato la scuola dello
zio, studiò filosofia e legge e conseguì il dottorato in diritto. Fu al servizio del cardo
Agostino Trivulzio e successe a Marc'Antonio nel godimento del beneficio della
Commenda di S. Prospero in Faenza.
Anch'egli, come il fratello Sebastiano, fece parte del cenacolo dei giovani
serravallesi incline alle innovazioni teologiche provenienti dalla Germania, nel quale
si discuteva di riforma della chiesa, della Grazia, della Predestinazione, ecc.
Allorché il fratello Sebastiano fu arrestato ed accusato di eresia, riuscì a
sottrarsi alla cattura con la fuga e per molto tempo rimase latitante. Dopo alcuni
anni fu nuovamente arrestato e processato, finendo sul rogo in piazza della Minerva, a
Ulteriori notizie su Marc'Antonio Flaminio. Seguì il card. Pole al Concilio di Trento ma ricusò
di assolvere alle funzioni di segretario del Concilio stesso. Nonostante le sue varie peregrinazioni
restò sempre molto legato a Serravalle, sua città natale, ove aveva, oltre alla casa di abitazione,
anche una piccola villa in località "alla Sega", lungo il corso del fiume Meschio. A Serravalle, ove
spesso fece brevi ritorni, ebbe amico d'infanzia Tito Cesana e, più avanti negli anni, mons. Andrea
Minucci. Fu pure molto legato a Francesco Robortella, di famiglia cenedese, trapiantata ad Udine.
Di lui ci resta una vasta raccolta di poesie latine ("Carmina), soavissime liriche di ispirazione
amorosa, conviviale e occasionale. Molte sue lettere in volgare sono disseminate in diverse raccolte
eterogenee. Scrisse anche un trattato di filosofia aristotelica. Ancor oggi i suoi versi latini vengono
ammirati per la loro eleganza stilistica e la fine cesellatura. Per essi fu ritenuto in vita - e viene tutt'
ora annoverato - come uno dei maggiori umanisti del Cinquecento.
19
78
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
Roma, nel 155720.
A Serravalle fece parte del citato cenacolo eterodosso anche Lodovico
Mantovani o Mantovano. Apparteneva ad una famiglia che si era trasferita a
Serravalle nella seconda metà del '400 e che abitava nel palazzo di via Tiera (ora
Casoni), proprio dirimpetto al ponte della Beccaria.
Era una famiglia di rilievo nella vita di Serravalle.
Francesco nel 1509 aveva pubblicato una lettera in versi in lode delle gesta
compiute dal generale veneziano Bartolomeo D'Alviano.
Lodovico, probabilmente figlio di Francesco, nacque a Serravalle verso il
1510.
Promettente chierico, entrò alla corte del vescovo di Verona Giovanni Matteo
Giberti, sembra per intercessione di Marcantonio Flaminio.
Sembrava destinato ad una brillante carriera ecclesiastica senonché, nel 1539,
per aver parlato imprudentemente di "Grazia e di Predestinazione" con un gruppo di
persone veronesi, venne da queste denunciato. Fu imprigionato e sottoposto alla
Inquisizione di Verona.
Confessò di essersi sentito illuminato direttamente da Dio, ed in dovere di
partecipare ad altri le sue intuizioni, le quali furono dagli inquisitori ritenute
sostanzialmente eretiche ma non luterane.
Confessò inoltre che nell' estate del 1538 a Serravalle un gruppo di giovani si
sarebbe riunito attorno ad Alessandro Cito lini "venuto de Franza" il quale a sua volta
sarebbe stato in relazione con il conterraneo Marc'Antonio Flaminio per discutere,
anche e soprattutto, di questioni religiose.
Il vescovo Giberti indubbiamente protesse il suo chierico ed accettò, o
perlomeno finse di accettare, come sincera l'asserzione di Lodovico di essersi
sbagliato scambiando le sue convinzioni personali per una rivelazione avuta da Dio,
e di esser comunque sinceramente pentito. Perciò gli fu concesso il perdono e fu
rinviato a Serravalle ed affidato in custodia ad un suo cognato, del quale non ho
trovato menzione. Doveva aver quindi una sorella sposata a Serravalle.
Nel 1550 Lodovico figura esser Maestro della locale Scuola pubblica e di
esercitare inoltre l'avvocatura.
Ma la sua dimora a Serravalle non fu a lungo pacifica: venne di nuovo accusato
Il rogo rappresentò la forma di pena capitale maggiormente usata nei confronti degli eretici
impenitenti. Tuttavia non mancano esempi di decapitazioni e di altre forme di esecuzione. Ricordo,
ad es., quanto avvenne nel 1562 al frate minorita Fonzio e a Giulio Gherlandi di Spresiano:
dichiarati eretici impenitenti, entrambi furono annegati nella laguna di Venezia, tra l'isola di S.
Elena e quella del Lido.
20
79
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
di contestare la divinità di Cristo, di diffondere asserzioni ritenute blasfeme e di
esercitare la propaganda eretica di porta in porta. (Pressapoco come fanno
attualmente i Testimoni di Geova). Per di più, l'anno successivo partecipò a Venezia
al concilio segreto promosso dagli Anabattisti, concilio che si svolse regolarmente.
Ma le magistrature veneziane vennero subito dopo a conoscenza del fatto per la
delazione di Pietro Manelfi, prete marchigiano21. Ludovico, avvisato per tempo,
riuscì a sfuggire alla cattura e riparò oltre i confini dello stato veneto, probabilmente
in Svizzera. Di lui non si hanno ulteriori notizie.
Oltre a Marcantonio Flaminio, il Mantovani chiamò in causa anche
Alessandro Citolini, appartenente ad un'antica e nobile famiglia di Colle e di
Serravalle, famiglia ch'ebbe un peso notevole nella vita politica e culturale della città.
Infatti molti suoi membri fecero parte del Consiglio della Magnifica Comunità
serravallese.
ALESSANDRO CITOLINI, figlio di Teofilo, nacque in Serravalle verso
l'anno 1500. Le condizioni agiate della famiglia gli consentirono di dedicarsi agli
studi, ricevendo un'ottima istruzione umanistica. Verso il 1530 divenne discepolo ed
amico di Giulio Camillo22 detto Delminio, al cui insegnamento perfezionò i suoi
orientamenti culturali. Insieme con lui fece alcuni viaggi in Italia e in Francia.
Nel corso di questi viaggi venne sicuramente a contatto con elementi
calvinisti, le cui teorie egli espose, nell'estate 1538, al gruppo di giovani di
Serravalle, tra i quali appunto Ludovico Mantovani, che l'anno successivo venne
processato per eresia in Verona.
Il gruppo dissidente di Serravalle - imbevuto di idee eterogenee derivanti dall'
anabattismo, dal socinianesimo, dal calvinismo e dalluteranesimo - doveva essere
abbastanza consistente e di esso fecero parte diverse persone di spicco, tra cui, in
base alle rivelazioni del Mantovani, anche Marc'Antonio Flaminio.
Il Citolini dimorò poi a Roma ove divenne amico di mons. Claudio Tolomei
che lo ebbe in gran stima.
Continuò sempre più ad esternare le sue simpatie verso le idee della Riforma
e comunque eterodosse, idee accentuatamente anticlericali, dovute ai suoi contatti
Il governo veneziano fu in un primo periodo largamente indulgente verso i circoli riformati.
Invece dopo la vittoria dell'Imperatore di MUhlberg (1547) assunse un atteggiamento più cauto, a
volte ostile. Preoccupato del dilagare dei casi di eresia che venivano accertati e perseguiti nel
territorio della Repubblica di Venezia, il Consiglio dei Dieci, nel 1564, decretò infine il bando da
tutto lo Stato Veneto dei seguaci delle dottrine protestanti.
21
G.C.Delminio fu un buon letterato veneto (1485-1544) che acquistò fama per le "Annotazioni
sopra le rime del Petrarca". Lavorò all'opera "Teatro Retorico", lavoro non completato e perduto.
22
80
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
con Cosimo e GiovanBattista Pallavicini, e con Pier Paolo Vergerio23.
In quegli anni fece alcuni viaggi: fu ad Urbino, alla corte del duca
Guidobaldo (1541); dimorò poi a Genova (1545), a Piacenza (1547) e a Venezia
(1546-47), facendosi altri amici tra cui Lodovico Dolce, Federico Badoer e Pietro
Aretino. Nel 1561 pubblicò a Venezia la sua opera più importante e cioè la
"Tipocosmia", per la quale è particolarmente noto. La propensione del Citolini verso
le idee protestanti si era intanto fatta più evidente ed aveva sollevato i sospetti
dell'Inquisizione. Invano i suoi amici cercarono d'indurlo ad una maggior prudenza
ed attenzione per non correre il rischio di venir incriminato. Resosi conto alfine che
le cose stavano prendendo per lui una brutta piega, nel 1565 dovette abbandonare
frettolosamente l'Italia per sfuggire al Tribunale del S. Uffizio che aveva avviato
contro di lui un processo per eresia. Sembra peraltro che anche in precedenza il
Citolini sia stato sottoposto ad un tribunale d'Inquisizione. Abbandonò quindi
Venezia e riparò dapprima a Ginevra, quindi a Strasburgo, ove il suo amico Giovanni
Sturm - noto sostenitore della Riforma - lo fornì di lettere di raccomandazione ad
alcuni amici inglesi24. Quindi emigrò a Londra.
Nel frattempo i1 28 luglio 1565 fu emessa la sentenza del tribunale
dell'Inquisizione che lo condannò con la seguente motivazione: "haereticum contumacem et fugitivum ac impenitentem".
In Inghilterra fu ben accolto dal Ministro Cook e da questi presentato alla
regina Elisabetta, per incarico della quale, nel gennaio 1566 si recò a Strasburgo, a
Basilea ed Augusta per raccogliere notizie e seguire da vicino lo svolgimento delle
varie diete e congressi che stavano cercando di armonizzare le disparate professioni
di fede nelle quali stava ramificandosi la Riforma. Tra queste l'Anglicanesimo, al
quale pare certo che il Citolini abbia dato la sua adesione.
A Londra allacciò rapporti di amicizia con l'eretico Giordano Bruno. In
seguito fu messo un po' in disparte e, nonostante le sue lamentele, non potè ottenere
una sistemazione confacente ai suoi desideri.
Cercò di rendersi amico il dignitario di corte C. Hatton dedicando gli la sua
opera "Grammatica de la lingua Italiana", opera che non venne stampata e che finì
P.P.Vergerio, il Giovane, nato a Capodistria nel 1498, fu teologo e polemista di fama. Dopo
esser stato Nunzio Apostolico in Germania, fu vescovo di Capodistria. Avvicinatosi nel frattempo
alla Riforma ne divenne un fervido sostenitore, propagandando la a Capodistria, nella Svizzera, in
Valtellina, nel Friuli (1558) e in Polonia. È autore di opere apologetico-religiose d'ispirazione
protestante.
23
Lo Sturm o Sturmius fu un grande umani sta tedesco. Fu detto il Cicerone e l'Aristotele della
Germania (1507 -1589). Ardente sostenitore della Riforma, aprì e diresse ottime scuole a Parigi e a
Strasburgo. Scrisse opere di retorica, pedagogia e letteratura.
24
81
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
nella British Library di Londra.
Mancano ulteriori notizie sull'esule che la tradizione indica esser defunto
all'incirca nel 1576, mentre alcuni indizi fanno ritenere doversi posticipare tale
evento al 158325.
Che il cenacolo di Serravalle non sia stato in diocesi un caso isolato ce lo
dimostra l'attività di un altro sostenitore della Riforma: Andrea Zantani, caso sul
quale ha effettuato a suo tempo, accurate ricerche lo storico Pio Paschini.
Patrizio Veneto della potente famiglia Zantani (o Centani), nato nei primi
anni del sec. XVI, entrò nella carriera ecclesiastica.
Nel 1530 fu a Roma nella segreteria del cardinale Marco Corner, per il cui
interessamento Paolo II, nel 1540, lo elesse vescovo di Limassol, nell'isola di
Cipro.
Lo Zantani non raggiunse mai la sede - ove inviò a rappresentarlo un suo
vicario - e fissò invece la sua residenza in Conegliano, ove sembra avesse notevoli
interessi economici ed alcune proprietà.
Altre notizie di Alessandro Citolini. Fu condiscepolo di Marc'Antonio Flaminio e poi allievo di
Marcantonio Amalteo. Svolse qualche attività per conto della Magnifica Comunità serravallese.
CosÌ nella primavera del 1530 venne incaricato di rilasciare, previo accertamento, i certificati di
sanità ai viaggiatori in transito e figura già tra i membri del Consiglio dei Nobili. Durante la sua
dimora romana mons. Claudio Tolomei lo ebbe in gran stima e pubblicò tre sue Odi, quale esempio
di forma metrica ideale (esametri e pentametri, nel volume "Versi e regole della nuova poesia
toscana" (Roma, 1539). Sempre a Roma, nel 1540, il Citolini scrisse la sua "Lettera in difesa della
lingua volgare", scritto che venne stampato a Venezia nel dicembre dello stesso anno dal tipografo
Francesco Marcolino, sembra all' insaputa dell' autore. In essa il Citolini, nella discussione tra i
sostenitori della lingua latina e quelli della parlata volgare, prende netta posizione a favore della
seconda, argomentando che solo il volgare è in grado di adattarsi alle esigenze del tempo ed è
elemento vivo, espressivo e in costante evoluzione. Tesi sostenute anche dal Bembo e dal Ruscelli.
Coltivò con esito felice lo studio della lingua inglese nella quale compose alcune poesie,
dimostrando sicurezza e padronanza della lingua. Nel 1561 pubblicò a Venezia la sua opera più
importante e cioè la "Tipocosmia", dedicata al vescovo di Arras mons. Carlo Perrenot. Detta opera
si articola in una serie di dialoghi - ripartiti in sette giornate - nei quali viene praticamente riassunto
tutto lo scibile del suo tempo. La pubblicazione suscitò non poche polemiche: alcuni (tra cui il
Partenio, Erasmo di Valvasone e lo Zeno) avanzarono l'ipotesi che il C. si fosse appropriato di
alcuni lavori inediti del Dalminio, ormai defunto, utilizzandoli per il suo lavoro; altri invece
ritennero la Tipocosmia opera di un precursore, alla quale si sarebbe poi ispirato Francesco Bacone
da Verulamio per l'impostazione della sua Enciclopedia. Nel 1564 ribadì le sue convinzioni sulla
necessità di usare il volgare. Nella pubblicazione de "Il Diamerone" di Marco Valerio Marcellino,
da lui curata, premise"... una dotta e giudiciosa lettera over discorso intorno alla lingua volgare",
dedicata a L. Cornaro e datata 10 luglio 1564.
25
82
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
Già a partire dal 1542 incominciò a manifestare la sua inclinazione per l'area
del dissenso religioso e le sue simpatie per le idee protestanti e per quelle calviniste
in particolare.
Così prese sotto la sua protezione Ambrogio Cavalli, frate milanese, che
aveva lasciato in quell'anno l'ordine degli Eremitani per entrare nell' area ereticale, e
lo inviò a Cipro a reggere in sua vece la diocesi di Limassol26.
Allorché il Cavalli venne poi accusato di eresia, lo Zantani usò tutta la sua
influenza perchè venisse prosciolto. Ma quando il Cavalli venne nuovamente
arrestato ed imprigionato a Venezia, lo Zantani architettò un piano per farlo evadere
dal carcere. Il piano venne attuato con successo da suo fratello abate che organizzò
un rocambolesco assalto armato alla scorta che stava traducendo il Cavalli a Roma.
Nel 1546-47 lo Zantani partecipò ad alcune riunioni del Concilio di Trento, ma in
posizione marginale e di scarso rilievo.
A partire dal 1548 favorì il sorgere in Conegliano e in Asolo di un vasto
movimento eterodosso, cercando di coagularvi anche le cellule Anabattiste ed
Unitariste da qualche tempo presenti in loco.
In Conegliano divenne l'esponente di spicco di un gruppo di giovani che
discuteva della predestinazione, della grazia, del libero arbitrio e della redenzione
acquisita per i soli meriti del Cristo.
Tale attività non tardò a venir in luce e arrivò all'orecchio del Nunzio di
Venezia, mons. Giovanni Della Casa, che ne fece rapporto al Papa pregandolo
d'intervenire contro quei "giovani heretici" che a Conegliano e in altri luoghi del
Trevigiano facevano "pubblici circuli per le piazze, ragionando insieme et senza
Ambrogio Cavalli - Il milanese Girolamo Cavalli entrò nell'ordine dei Padri Eremitani ed
assunse il nome di Padre Ambrogio da Milano. Pervenne al grado di Maestro di Teologia Sacra
(1528) e fu Reggente dello Studio Generale di Bologna. Sedotto dalle idee teologiche di Erasmo,
nel 1537 ebbe i primi scontri con l'Inquisizione e, a causa di alcune sue prediche, fu bandito dalla
Diocesi di Milano mentre il Priore Generale dell'Ordine gli tolse la facoltà di predicare. Fu poi
prosciolto dal Maestro del Sacro Palazzo di Roma e divenne Priore del Convento di S. Marco di
Milano. Nel 1542 abbandonò l'Ordine e passò al servizio di mons. Zantani che lo inviò quale suo
vicario a Limassol. A causa di alcune sue prediche fatte nella Quaresima del 1544 venne sottoposto
ad Inquisizione. Tornato a Venezia fu arrestato nel gennaio 1545 per ordine del Nunzio mons.
Giovanni Della Casa: il processo si concluse con la sua solenne abiura resa il 31 marzo 1545 nella
chiesa di S. Maria Formosa in Venezia e con l'estradizione a Roma. L'anno successivo è nei
Grigioni e, nel 1547, a Ferrara, presso Renata di Francia che lo nominò suo elemosiniere. Disperso
il Circolo eretico di Ferrara, fuggì ancora nei Grigioni e poi a Ginevra. Ma, ritornato
clandestinamente a Ferrara allo scopo d'indurre Wenata di Francia a non desistere dalle sue idee
religiose (1555), venne scoperto, arrestato e consegnato all'Inquisizione. Tradotto a Roma, fu
condannato quale eretico impenitente alla pena capitale. Venne impiccato e poi bruciato in Campo
dei Fiori il 15 giugno 1556.
26
83
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
rispetto" di religione.
Il Pontefice Paolo III invitò Annibale Grisoni - inquisitore che si era distinto a
Capodistria nell' azione di smantellamento delle eresie ivi diffuse dal vescovo Pier
Paolo Vergerio il Giovane - ad interessarsi senza indugio del caso.
Il Grisoni iniziò le indagini ma non ebbe il coraggio di aprire un formale
procedimento contro un membro di una famiglia tanto potente come gli Zantani e la
denuncia rimase sospesa e col tempo s'insabbiò.
Quando venne però eletto Paolo IV (1555) l'inchiesta fu riaperta.
Nel 1557 lo Zantani fu incarcerato ma subito rimesso in libertà contro il
versamento di una cauzione. Tradotto poi nello Stato Pontificio e incarcerato, il 9
agosto 1559 fu degradato dal rango vescovi le e ridotto allo stato laicale.
Alla morte di Paolo IV (1559), a Roma scoppiarono alcuni tumulti popolari
approfittando dei quali i prigionieri del S. Uffizio poterono riacquistare la libertà.
Anche lo Zantani colse l'occasione per evadere.
Da Roma riuscì a raggiungere Chiavenna e il Cantone svizzero dei Grigioni.
Altra persona implicata nei movimenti ereticali fu Orazio BRUNETTI. Nato
a Porci a nel 1521 fu valente medico e apprezzato filosofo.
Esercitò l'arte di Esculapio in diverse città del Veneto e infine fissò la sua
dimora presso i conti di Porci a e Brugnera, ove sposò Ginevra, figlia del conte
Alessandro.
Le sue idee filosofiche e religiose, assai prossime a quelle della Riforma, le
acquisì da gentiluomini e letterati provenienti d'oltralpe.
Nel 1548 pubblicò un volume di sue lettere, opera che dedicò a Renata di
Francia, moglie di Ercole II d'Este, nota fautrice della diffusione del protestantesimo
in Italia.
L'inquisizione intervenne ed ordinò la distruzione di tutti gli esemplari di
detto volume27.
Il Brunetti ne ebbe gravi noie e solo a stento poté sottrarsi al processo già
avviato a suo carico28.
Siamo così giunti all'ultimo movimento eretico in argomento e cioè al
GIANSENISMO.
Questo movimento religioso fu promosso da Jannsen Cornelio, noto
come Giansenio. Nato in Olanda nel 1585, Giansenio fu insegnante di esegesi
biblica all'Università di Lovanio e vescovo di Ypres, ove morì nel 1638 a causa del
Nonostante le draconiane disposizioni impartite dall'Inquisizione, non tutti gli esemplari del
volume vennero distrutti. I pochi sopravvissuti sono attualmente molto rari. Uno di essi lo possiede
il dr. G.P. Zagonel.
27
Dal citato epistolario del Brunetti emerge tra l'altro l'esistenza di un rapporto di parentela tra
l'autore ed Alessandro Citolini.
28
84
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
contagio contratto nell' assistere gli appestati.
Scrisse l' "Augustinus", opera uscita postuma, nella quale si rifà alla teologia
di S. Agostino.
I suoi seguaci, detti Giansenisti, postularono il rigetto di ogni forma di
superstizione; il decentramento a favore delle chiese regionali (legate ai sovrani);
l'abolizione della preminenza del Papa, ridotto ad un "primus inter pares"; il rigetto
del culto dell'Immacolata Concezione, del Sacro Cuore di Gesù e dei Santi.
La dottrina venne diffusa specie ad opera dei monaci di Port Royal e alle
opere filosofiche di Biagio Pascal. Venne combattuta dalla Compagnia di Gesù e
condannata quale eretica da Urbano VIII.
I Giansenisti vennero perseguitati da Luigi XIV e trovarono rifugio in
Olanda. Il monastero di Port Royal venne distrutto ma parte del clero francese
continuò a favorirli. Il movimento praticamente si estinse con l'inizio della
Rivoluzione Francese, che tutto travolse.
L'infiltrazione nei nostri paesi avvenne molto tardi, dopo che fu riattivato dal
vescovo di Pistoia, Scipione de' Ricci, che assecondò il Granduca Leopoldo di
Toscana nell' opera di riforma degli ordini religiosi, riforma che venne modellata in
conformità degli ideali giansenistici (Sinodo di Pistoia, 1786).
Nei nostri paesi l'esponente di maggior rilievo di tale movimento fu Pietro
MOLENA, giovane abate di Conegliano, mansionario presso la Collegiata ivi
esistente e membro della locale Accademia Agraria.
Persona colta ed erudita, parlatore piacevole e convincente fu attratto dagli
ideali ascetici del giansenismo e, nell' estate del 1791 , ne fece aperta professione di
fede in Conegliano. Oltre che sostenere tali teorie, ritenute dalla chiesa eterodosse,
mostrò anche spiccate simpatie per le idee rivoluzionarie che stavano arrivando dalla
Francia di modo che la gioventù del luogo, affascinata dalla sua facile e persuasiva
eloquenza, si mostrava favorevole alle nuove idee religiose e di libertà.
Per tale motivo fu incriminato, e con lui don Gaetano Carnielli, don Antonio
Bussolini e don Pietro Zambenedetti. Arrestato il 4 gennaio 1792 e tradotto a
Venezia, venne rinchiuso nelle prigioni di stato dette "i piombi".
Ne seguì il processo (il cui incartamento si trova nell'ASVE) che assodò la
colpevolezza del Molena, accusato di difendere le teorie gianseniste e neorealiste di
Francia; di insegnare il catechismo in modo oscuro e difforme dalle direttive
ecclesiastiche; di disapprovare la Bolla papale "Unigenitus".
Per tali motivi venne condannato a 5 anni di relegazione da scontare nel
Castello di Cattaro "mantenuto dalla carità del Tribunale e con lire tre al giorno". Gli
altri sacerdoti coimputati se la cavarono invece con una severa ammonizione. Tra
questi merita un cenno Antonio BUSSOLINI, nato a Conegliano il 3 gennaio 1741.
Dopo aver compiuto i primi studi presso il locale Collegio dei Padri Domenicani,
passò nel Seminario diocesano per completarli e fu ordinato sacerdote.
85
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 60-86 Ruzza
Fu dapprima maestro di grammatica e retorica nel predetto collegio dei Padri
Domenicani. Fu poi chiamato a Portogruaro a svolgere le funzioni di Rettore di quel
Seminario. E a Portogruaro venne probabilmente a contatto con alcuni sostenitori
delle teorie di Giansenio alle quali egli aderì.
Tornato a Conegliano entrò nel gruppo filogiansenista e filofrancese
capeggiato da Francesco Molena, e per tale motivo subì anch' egli un primo processo
dal quale uscì perdonato (1792), ed un secondo processo, nel 1797, estinto con la
caduta della Repubblica di Venezia.
Come ha detto qui recentemente Giorgio Zoccoletto, a Venezia i processi da
archiviare passavano "in casson".
Il Bussolini passò gli ultimi anni della sua vita insegnando retorica a
Conegliano nel collegio dei PP. Domenicani.
Di animo debole, difficilmente trovava la forza per opporsi alle vicissitudini
della vita. Per di più fu angustiato da traversie economiche e morali per cui si chiuse
in sè stesso, isolandosi da tutti.
Morì a Conegliano il 2 febbraio 1807. Tra i coinvolti abbiamo nominato
anche don Pietro ZAMBENEDETTI, soprannominato "Bianzo", sacerdote e poeta,
anch'egli di Conegliano.
Appartenne al gruppo di giovani, capeggiato da don Pietro Molena, che
s'interessò e sostenne le teorie gianseniste.
Sospettato inoltre di sentimenti filogiacobini e rivoluzionari, nel gennaio
1792, subì un primo processo da parte degli Inquisitori di Stato di Venezia, ma fu
rilasciato dopo aver subito una severa ammonizione.
Sembra peraltro che abbia ulteriormente persistito nei suoi atteggiamenti per
cui, tra il 1797 e il 1798, subì un secondo processo (unitamente a Giuseppe
Cappelletto e a Jarca degli Uberti) processo che non ebbe esito a seguito della caduta
della Repubblica di S. Marco29.
In seguito lo Zambenedetti fu Priore, poi Economo e infine Ispettore
dell'Ospedale Civile di Conegliano.
Analoga sorte processuale subÌ il giovane abate coneglianese Gaetano
Carnielli. La cellula giansenistica di Conegliano negli ultimi anni del '700 perse
rapidamente importanza e valenza religiosa. Fu in pratica sopraffatta ed assorbita
dagli avvenimenti politici e militari verificatisi in quegli anni e di lei non si ebbe più
sentore.
Con ciò ho terminato. Un grazie al dr. Vittorino Pianca per l'aiuto fornitomi, e
grazie a tutti per la paziente, cortese attenzione!
29
Il verbale di detto processo è stato di recente integralmente trascritto dal prof. don Nilo Faldon.
86
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco
FRANCO POSOCCO
CARTOGRAFIA E TERRITORIO
Il contributo della documentazione aerofotogrammetrica
nella storia del paesaggio veneto
L'aerofotogrammetria come linguaggio geografico
La visione zenitale del territorio non è per noi quella consueta. L'esperienza
quotidiana infatti ci fa percepire la geosuperficie e gli oggetti, che vi consistono, da
una stazione appoggiata su di essa, poiché anche noi siamo vincolati e partecipi della
crosta terrestre.
È ben vero che, salendo sulla torre di un castello, sul campanile di una chiesa
o sulla cima di una montagna, è possibile godere di una veduta panoramica estesa ad
uno spazio più ampio; fin dall'antico gli uomini hanno cercato di conquistare una
visione più vasta andando in alto ed i metodi usati nell'artiglieria classica hanno
sviluppato tale esigenza, conferendo un progressivo impulso alle tecniche del rilievo
topografico ed alla misurazione delle medie distanze.
Si trattava tuttavia sempre di percezioni oblique o comunque dell'apprezzamento di aree ristrette. Fin quando un pallone aerostatico o un aeromobile non ci
permisero di librarci in volo ad una maggiore altezza, non si poté disporre della
possibilità conoscitiva offerta dall'immagine zenitale, quella sognata nel mito di
Dedalo e Icaro, quella progettata da Leonardo Da Vinci.
E tuttavia la rappresentazione della terra in forma contestuale fu perseguita
fin dall'antico, poiché gli uomini volevano "vedere" la superficie, su cui vivevano, da
un punto di vista allora impossibile, ma sinottico e onnicomprensivo, quello dal quale
il Maligno tentò il Cristo, "mostrandogli in un istante tutti i regni della terra", dopo
averlo condotto in volo sulla cima di un monte altissimo ed averlo in precedenza
"deposto" sul pinnacolo del Tempio (Mt 4,5-8 -(Lc 4, 6-9).
87
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco
Le diverse carte, mappe, piante e portolani, che si sono succeduti nel corso
dei secoli, sono la risposta più o meno astratta e simbolica, più o meno tecnica e
descrittiva, a questa esigenza di rappresentare e possedere lo spazio terrestre nella sua
forma e nella sua dimensione.
La rilevazione aerea nella sua maniera classica di fotografia o in quella
recente di ortocarta, in quanto estranea all'usuale esperienza dei sensi e prossima
invece all'immaginario interiore, quale viene considerato e ricostruito, sembra infatti
dotata dei caratteri semiologici tipici del linguaggio convenzionale e quindi omogenea rispetto ai prodotti cartografici. Ciò vale a maggior ragione per le immagini da
satellite effettuate con le più diverse tecniche, poiché anch'esse, grazie alle particolari
tecnologie utilizzate, appaiono "mirate" e cioè atte a selezionare particolari caratteri
della realtà, descrivendoli con uno specifico corredo di segni e di espressioni.
Si può quindi affermare che l'aerofotogrammetria costituisce un "linguaggio"
della rappresentazione geografica, anzi che al suo interno, a seconda delle possibilità
iconografiche del materiale utilizzato e delle sue capacità di evidenziazione e
selezione, si può individuare una famiglia di linguaggi affini, atti ad evidenziare
oppure, per converso, ad omettere determinati dati e/o caratteri, che gli oggetti
rilevati manifestano.
In tale sistema semantico, a seconda della sensibilità dell'emulsione utilizzata,
possono essere messi in luce particolari aspetti tematici: l'umidità relativa, il colore
dei tetti, la vegetazione, l'archeologia, etc.
Per tale motivo la fotointepretazione va intesa come una tecnica linguistica, in
quanto disciplina relativa alla lettura ed alla decifrazione del significato segnico degli
oggetti rilevati. La formalizzazione di questi linguaggi formali e di questi metodi di
indagine conoscitiva costituisce un terreno ancora in gran parte da esplorare, ma che
si qualifica in prospettiva di grande importanza per l' avanzamento degli studi
geografici ed in genere per le ricerche urbane e territoriali.
Lo sviluppo della fotogrammetria aerea nel Veneto
Il rilevamento aereo trovò nella nostra regione uno dei primi campi di applicazione, tanto che il Veneto può essere considerato un territorio ove, almeno per
alcune parti, esiste documentazione aerofotogrammetrica relativa agli albori di tale
tecnica. Ciò avvenne essenzialmente per due ragioni assai diverse tra loro: da un lato
la presenza del centro storico di Venezia con al sua straordinaria morfologia e
dall'altro la permanenza, tra il 1917 e il 1918, del fronte bellico sulla linea del Piave e
del Grappa. La lunga tradizione del vedutismo settecentesco ed ottocentesco, particolarmente fiorente nella pittura veneta, si pensi al Guardi, al Canaletto e al Bellotto,
nonché ai Ricci, al Carlevaris ed a tanti altri pittori ed incisori dell'epoca, indusse
88
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco
i pionieri della fotografia, verso la fine del secolo scorso, a cogliere le possibilità di
rappresentazione offerte di palloni aerostatici e poi dai primi incerti velivoli;
Venezia, città mirabile, poteva essere rappresentata anche dall'alto in tutta la sua
bellezza di caratteri monumentali e folkloristici, in tutta la sua suggestione di aspetti
romantici e di struggente decadenza, che tanto piacevano in quell' epoca.
Le foto di Venezia, terrestri ed aeree, andavano a ruba, come capitava nel
XVI secolo per le acqueforti, tale era la notorietà dell' oggetto desiderato; bisogna
anche osservare che la struttura urbana, quale emerge, ad esempio, dal fotopiano del
1911, è davvero straordinaria; la risoluzione dell'immagine, notevole per l'epoca,
consente infatti di apprezzare aspetti che nessuna, pur perfezionata cartografia,
permetteva allora di cogliere e di confrontarlo con la "forma urbis" realizzata negli
anni '80.
Le riprese dall'alto furono realizzate nel 1911 dal Regio Corpo degli
Aerostieri, utilizzando anche palloni frenati e nel 1913 servendosi del dirigibile.
Ben diverse erano le ragioni, per cui i fotografi militari, usando i ricognitori
della neonata Regia Aviazione, effettuarono senza un vero piano di volo dal 1917 al
19l8, dopo la rotta di Caporetto, numerose strisciate sulle zone invase dal nemico
oltre il Piave e sugli altipiani; si pensò perfino di agganciare una microcamera ad un
piccione viaggiatore.
L'aviazione italiana, com'è noto, era più sviluppata di quella austro-ungarica e
l'Istituto Geografico Militare di Firenze si qualificava in quell'epoca come una sede
fondamentale per la progettazione e la sperimentazione delle nuove tecniche aerofotogrammetriche. Per questo i materiali conservati nei musei della Prima Guerra
Mondiale, negli Archivi storici e presso l'Aerofototeca Nazionale dell'Istituto Centrale per il Catalogo, al di là del valore documentale, testimoniano una esperienza
fondamentale per la messa a punto delle metodologie e delle forme di conoscenza e
rappresentazione del territorio.
Diversi fotogrammi sono conservati nel Museo dell'Aria di S. Pelagio (PD),
nel Museo della Battaglia di Vittorio Veneto (TV) e nell' Archivio Caproni di Trento.
I problemi concettuali derivanti dall'utilizzazione delle nuove tecniche
aerofotogrammetriche, ai fini della restituzione stereoscopica e della descrizione
fotografica, hanno avuto pertanto quale primo campo di applicazione e
sperimentazione, tra gli altri, anche il Veneto con le sue città, i suoi fiumi, la sua
campagna e la sua montagna, soprattutto con le infrastrutture, le zone industriali, le
coste, i nodi ferroviari, i ponti, etc.
L'interesse strategico del Triveneto ha del resto determinato un particolare
costante interesse per la rappresentazione cartografica del territorio, quale
oggetto di fortificazione e di controllo, sia durante l'epoca napoleonica, sia nel
seguente periodo del Regno Lombardo-Veneto e dell'Unità d'Italia. Le ricognizioni
89
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco
topografiche, le verifiche della rete geodetica e le relative elaborazioni cartografiche
sono state quindi nel Nord Est del paese frequenti ed accurate, come pure le sequenze
di fogli l: 100.000 e di tavolette 1:25.000 redatte ed aggiornate a cura dell'I.G.M.I.
L'importanza del confine orientale caratterizza anche il primo dopoguerra e
tutta l'epoca del Fascismo; anzi, durante quegli anni furono realizzate diverse
rilevazioni aerofotogrammetriche di singole zone; ma sfortunatamente tali materiali,
coperti dal vincolo di riservatezza stabilito dalla legge, sono di difficile reperimento;
sarebbe interessante per la storia territoriale poterli individuare, al fine di consentirne
la consultazione e l'utilizzazione. Una ricerca negli archivi storici militari delle
nazioni partecipanti al Primo conflitto consentirebbe anche di documentare altre zone
del Veneto, oltre a quelle, di cui si conoscono le rappresentazioni aerofotogrammetriche realizzate da parte italiana. Sarebbe così possibile seguire, non solo l'evoluzione
della tecnica fotogrammetrica e cartografica, nonché l'avanzamento della topografia,
incrementata ed affinata dalla disponibilità del mezzo aereo, ma anche disporre di
ulteriori immagini per documentare le trasformazioni territoriali.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, quando il Veneto faceva parte della
Repubblica Sociale Italiana (1943-1945) ed una delle sue province, quella di
Belluno, era stata incorporata nel III Reich, quale porzione dell'Alpenvorland, gli
Alleati, utilizzando i ricognitori della R.A.F. (Royal Air Force) britannica,
effettuarono una rilevazione sistematica di quasi tutto il territorio regionale, con
speciale attenzione alle zone urbane, a quelle industriali, ai nodi stradali e ferroviari,
ai porti, ai ponti ed alle infrastrutture di importanza militare. Si tratta di una
documentazione di straordinario interesse, non solo per individuare i danni e le
devastazioni della guerra, ma anche per valutare l'assetto territoriale ed insediativo
alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Il Servizio Aerofotografico dell'U.S. Army statunitense, realizzò successivamente (nel 1954-55) un volo sistematico, detto volo G.A.I., anch'esso come quello
R.A.F. acquisito alla fototeca regionale, nel quale si può documentare l'assetto del
Veneto alla fine della ricostruzione ed all'inizio del "boom" economico, che
caratterizzò gli anni '50 e '60.
Il presente volume documenta poi i rilievi sistematici della Regione
rispettivamente del 1975 e del 1987, mentre per singole aree-problema si infittiscono
nel tempo i voli effettuati da amministrazioni locali (Comuni e Province), Enti di
Stato (E.N.E.L., C.N.R., Autostrade, etc.), con l'adozione di tecniche sofisticate e di
rappresentazioni in bianco e nero, a colori e con particolari emulsioni fotosensibili
(EIRA anni 1960-1970 ed altri).
Volendo cogliere il significato della scansione temporale delle diverse
rilevazioni, si può osservare che:
a) le immagini realizzate fino alla Prima Guerra Mondiale compresa, illustra-
90
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco
no la situazione storica del territorio regionale, quale era stata definita durante il
periodo risorgimentale; l'insediamento è formato dai centri antichi e dalle strutture
agricole decentrate (ville venete, corti rurali, aggregati frazionali), mentre l'apparato
infrastrutturale innovativo si limita alle ferrovie e ad alcune strade di importanza
nazionale.
b) Le immagini realizzate fino alla Seconda Guerra Mondiale ed in particolare il volo R.A.F. 1943-44 documentano la ricostruzione dei paesi investiti dal
fronte bellico sull'altipiano di Asiago e lungo il Piave, nonché le trasformazioni dovute all'urbanesimo di epoca fascista con il relativo corredo di aree industriali e di infrastrutture civili e militari, nonché di bonifiche idrauliche e di sistemazioni fondiarie.
c) I diversi voli del dopoguerra (volo G.A.I. - 1955, volo Regione - 1975,
volo Regione - 1985, volo a colori Regione - 1987) consentono di ricostruire gli
assetti successivi e le profonde trasformazioni territoriali avvenute durante la
Repubblica Italiana dall'epoca dello sviluppo incontrollato a quella più recente dell'
evoluzione pianificata. Si tratta di imponenti processi di trasformazioni dei connotati
naturali, dell'insediamento urbano, delle reti infrastrutturali e del paesaggio rurale,
che hanno profondamente modificato il volto del Veneto ed il suo assetto funzionale.
Il vasto materiale accumulato nella cartoteca, consente di seguire passo passo tali
trasformazioni e di valutarne gli esiti e gli impatti.
d) Il "volo Italia" del 1988-1989 e quello del 1994 ci permettono di documentare la nostra regione nel suo assetto attuale, cogliendo l'imponente sforzo di costruzione dell'armatura urbana e di modificazione del contesto morfologico, che è stato
prodotto; ci consente anche di apprezzare i grandi problemi che con tali trasformazioni si sono determinati nell'equilibrio ambientale e nell'organismo insediativo.
La trasformazione territoriale nella sequenza aerofotogrammetria
Scorrendo le ingiallite fotografie dell'inizio secolo assieme agli artigianali
fotomosaici scattati dagli operatori militari durante la prima guerra mondiale e
trovando non poche difficoltà a riconoscere i siti rilevati, viene spontanea una
domanda: come si presentava il Veneto nella prima metà del secolo? qual'era il suo
assetto e quale la sua immagine?
La prima e più immediata osservazione riguarda il rapporto fra la natura e
l'insediamento; desta stupore infatti notare quanto netta fosse allora la distinzione fra
la città e la campagna. Il territorio agrario evidenzia la sua trama di campi chiusi,
delimitati da siepi e filari, scoli e capezzagne, con le colture a rotazione ed il fitto
appoderamento mezzadrile; radi e cadenzati sono gli edifici rustici, mentre spiccano
le ville venete con i loro giardini ed i borghi rurali con le chiese parrocchiali,
spesso associati alla grande azienda aristocratica. Emerge anche l'imponenza
dell'apparato militare con le fortificazioni dello scacchiere veronese e veneziano
91
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco
e quelle disseminate sulle Alpi ed allo sbocco delle valli.
Sulla collina la trama rurale si fa più minuta e più organica rispetto al sito,
mentre le colture pregiate (vigneti, frutteti, ortaggi, etc.) disegnano un paesaggio
antico ancora formato secondo gli schemi iconografici celebrati dalla pittura veneta.
La montagna in tale contesto evidenzia, nella successione e nell' alternanza
del prato-pascolo rispetto al bosco, la intensa utilizzazione agro-silvo-pastorale e la
pratica dell'alpeggio.
In questo assetto ambientale caratterizzato dalla prevalenza delle
connotazioni fisiche originarie (geomorfologiche, idrografiche, botaniche) e dalla
sapiente conformazione antropica del paesaggio, quale si è andato configurando nella
lunga storia territoriale, la città appare solitamente costituita da un nocciolo storico
assai compatto, spesso murato, nonché dalle aggregazioni esterne concentriche
rispetto a questo ed addensate ali 'uscita delle vie di comunicazione.
Radi sono i nuovi paesi nati in corrispondenza di stazioni ferroviarie
(Mogliano Veneto, S. Bonifacio, etc.), mentre si possono rilevare i borghi distrutti
lungo il Piave verso la fine del primo conflitto mondiale (S. Donà di Piave, Nervesa
della Battaglia, etc.). Anche le infrastrutture sono ancora rilevabili nel loro reticolo
storico di età veneta, rispetto al quale emergono le vie "maestre" e le ferrovie realizzate da Napoleone, dall'Austria e dal Regno d'Italia. Dello stesso periodo sono alcuni
aspetti dell'incipiente industrializzazione rilevabili nelle fabbriche poste lungo i fiumi
del Pedemonte (Schio, Vittorio Veneto, Verona, etc.) ed in alcune attrezzature della
bonifica ubicate nelle aree perilagunari.
Città chiuse ed intatte emergono dalle foto, tra cui spicca quella commovente
di Venezia a fine Ottocento, quando essa era attaccata al Veneto soltanto dall'esile
ponte ferroviario e non esistevano ancora il Piazzale Roma e l'isola del Tronchetto.
Un Veneto agreste è dunque quello che emerge dalle foto più antiche, dove la forma
insigne tramandata dall'immaginario collettivo è quella armonica ed ordinata di uno
dei più celebri paesaggi agrari, punteggiati di castelli e ville, città murate e giardini.
I fotogrammi cui si è fatto cenno, denunciano la lentezza delle trasformazioni
avvenute durante il Regno sabaudo, quando anche nel Veneto, pur tardivamente, si
avviò il processo di industrializzazione e di armatura territoriale.
Confrontare quelle immagini sbiadite con quelle realizzate, utilizzando
tecnologie sempre più sofisticate in questo dopoguerra e fino ai giorni nostri,
consente di rilevare e misurare quanto imponenti e strutturali siano state le
modificazioni, che hanno reso il Veneto "diverso" da quello che era un tempo e per
certi versi "irriconoscibile". Le trasformazioni infatti sono così generalizzate da
coinvolgere non solo ogni settore della regione, ma anche ogni settore territoriale.
Facendo riferimento al contributo reso dalla fotointerpretazione, esse si
possono così sintetizzare:
92
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco
a) La denaturalizzazione del territorio
L'assetto fisico della regione, quale si è storicamente configurato nell'equilibrio fra le connotazioni naturali originarie ed il paziente lavoro di adattamento
umano, si è andato traumaticamente alterando, nel senso che gli elementi costitutivi
della geografia sono stati profondamente intaccati, modificati e talvolta cancellati.
Le coste sono state consolidate artificialmente con marginamenti e pannelli,
le foci sono state armate con moli e scogliere, i corsi d'acqua sono stati arginati e
regimati con opere trasversali, mentre sono state realizzate derivazioni e canalizzazioni. Dalle foto emergono anche l'estensione dei dissesti idrogeologici in atto in
particolare nelle zone sismiche (Alpago, Vajont, Valdastico, etc.), la riduzione dei
ghiacciai e dei nevai, le aree di più intensa escavazione di pietra e ghiaia (Colli
Euganei, Vedelago, Albaredo all'Adige, medio Brenta, etc.), la bonifica delle valli
residue (Valle Vecchia, etc.). Si notano i tagli boschivi determinati dagli impianti di
risalita o dagli elettrodotti e la violenta incisione delle opere stradali in ambienti
precedentemente intatti.
Straordinaria è invece la capacità di recupero dimostrata dall'ambiente
rispetto alle installazioni militari ed alle devastazioni della prima guerra mondiale; i
danni sembrano essere ormai ricomposti e gli equilibri rigenerati.
b) La contaminazione dell'ambiente
L'industrializzazione del Veneto e la crescente utilizzazione di nuove
sostanze da parte delle attività produttive ed in genere nell'ambito insediativo ha
comportato diffusi fenomeni di degrado ambientale.
Alcune di queste alterazioni sono state registrate dalla cartografia aerea
tradizionale in bianco e nero e da quella che utilizza particolari emulsioni (colore,
falso colore, infrarosso tecnico, ultravioletto, etc.). Si è potuto con tali tecnologie
registrare l'andamento stagionale ed annuale dei fenomeni di inquinamento e
contaminazione della laguna di Venezia, dell' Alto Adriatico e dei laghi alpini, con
particolare riguardo per i pennacchi d'uscita dalle foci fluviali ed agli aloni circostanti
le zone industriali e gli impianti di trattamento.
Anche tal une zone di addensamento del pulviscolo atmosferico o aree
caratterizzate dalla presenza nel terreno di sostanze particolari possono essere
individuabili attraverso la rilevazione aerea. Dalle foto si possono inoltre riconoscere
le aree abbandonate, dove il degrado è massimo a causa dell'accatastamento di
carcasse, rifiuti ed altri materiali; si tratta delle "derelicts lands", che ormai
circondano le periferie e le infrastrutture.
b) La omologazione del paesaggio
Si è già accennato precedentemente alla mutazione generalizzata dell'
immagine storica del Veneto, sia nella pianura, sia in collina, sia in montagna, sia
infine lungo le coste litoranee.
93
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco
Tale processo sembra essere avvenuto con le forme dell'omologazione
figurativa, con la progressiva inserzione di manufatti realizzati secondo il linguaggio
architettonico razionalista-funzionale, nonché mediante la progressiva cancellazione
dei caratteri, dei modi e dei magisteri locali. In altri termini si sono andate riducendo
le distinzioni iconografiche e le specificazioni della tradizione, con la obliterazione
delle differenze legate al sito, alla sua comunità, alla sua cultura, alla sua storia.
Più concretamente si può avvertire dalle riprese aeree la trasformazione del
regime fondiario e la progressiva prevalenza, specie nelle zone peri urbane, della
piccola proprietà coltivatrice anche a seguito del frazionamento (salvo nel Polesine e
nelle "Basse") della grande azienda aristocratica. Nella campagna più esterna si nota
invece il superamento del modello agronomico per campi chiusi e la realizzazione di
grandi superfici aperte mediante spianamento delle baulature, taglio delle siepi e dei
filari, cancellazione della micro-idrografica capillare (scoline, fossati, etc.).
Il territorio extra-urbano non solo diventa sede di una agricoltura
industrializzata e quindi dotata di attrezzature ed impianti, ma anche funge da
contenitore per le infrastrutture indesiderate dalla città, che tende ad ubicare
casualmente fuori dall'abitato quei servizi che sono considerati non compatibili con
le esigenze della convivenza.
La campagna, la collina e le zone vallive sono interessate da una edificazione
sparsa "a pepe sull'insalata" di abitazioni e rustici, più fitta nelle zone periurbane, oppure disposta "a filamento" lungo le strade e le zone accessibili, con l'eccezione delle
grandi aziende, ove invece si assiste all' abbandono e alla demolizione dei rustici
marginali. Al deterioramento dell'immagine paesaggistica dovuto alla presenza di
oggetti nuovi, incongrui nella forma e nella funzione, partecipa anche la montagna,
ove l'abbandono del prato-pascolo e del corredo di malghe e tabià comporta
l'avanzamento del bosco: ceduo nel pedemonte, di conifere nella montagna più alta.
c) La diffusione dell'insediamento
L'apertura della città e la discontinuità nella compattezza urbana, già avviate a
cavallo del secolo, hanno via via determinato una espansione degli aggregati urbani
"a macchia d'olio"; è questo uno dei fenomeni più vistosi, specie nell'area centrale
della regione, ove l'ingrandimento dei centri maggiori e dei paesi di media
dimensione a spese dello spazio circostante e lungo le linee di traffico, tende a
formare degli aloni attorno ai capoluoghi, con il risultato talvolta di saldare tra loro
più abitati, dando forma ad estese "galassie", cioè ad aree indistinte, ove la campagna
non è più campagna, perchè disgregata e la città non è ancora città, perchè
incompleta.
L’espansione non è quindi compatta, ma per diffusione esterna e per occupa-
94
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco
zione progressiva, informale dal punto di vista morfologico, irrazionale dal punto di
vista funzionale, aggressiva dal punto di vista ambientale.
Le foto consentono anche di distinguere un primo periodo del dopoguerra
caratterizzato da una edificazione sparsa e disordinata, poiché sprovvista di strumenti
di coordinamento, rispetto ad un periodo più recente (dopo il 1970), ove si avverte la
presenza dei piani regolatori e delle lottizzazioni con cui essi sono stati realizzati. In
alcuni casi sono nate delle vere new towns, come a Mestre, nella cintura padovana e
veronese, a Jesolo, a Sottomarina, nelle altre palazzate litoranee e comunque nelle
zone periurbane, ove maggiore era lo sviluppo.
e) La dispersione delle attività produttive
Ai primi del secolo l'industria era tradizionalmente un elemento costitutivo
della città e parte di questa. Nel periodo fra le due guerre è documentabile un
progressivo trasferimento delle attività produttive fuori dall'aggregato urbano: in
zone apposite come nel caso di Marghera e più limitatamente di Padova, Verona,
etc., lungo i corsi d'acqua nel caso dei centri industriali pedemontani: Schio, Vittorio
Veneto, Bassano del Grappa, etc.
Nel secondo dopoguerra si assiste ad un imponente fenomeno di dispersione
delle attività industriali, artigianali, commerciali, agroindustriali e turistiche nella
campagna ed in genere nel territorio aperto. Più recentemente gli strumenti della
pianificazione urbanistica hanno iniziato ad attribuire una forma a tali insediamenti,
talchè dalle foto si possono riconoscere delle zone specificatamente destinate a tali
funzioni.
f) L'estensione delle infrastrutture
Uno dei settori di maggiore impatto ambientale, in cui la foto aerea serve a
registrare e misurare in modo sinottico l'entità della trasformazione fisica e la sua
sostanziale irreversibilità, quello delle infrastrutture puntuali e a rete: superficiali e
sotterranee, per il trasporto di persone, beni e fluidi, nonché per il trasferimento di
energia ed informazioni.
Le immagini documentano il sovrapporsi e l'infittirsi di autostrade, idrovie,
ferrovie, trasmettitori, porti, aeroporti, interporti, nonché di pipelines, acquedotti,
fognature, grandi derivazioni, elettrodotti, impianti di risalita, di depurazione, di
trattamento, etc. che si sono via via aggiunti alla viabilità storica su strada e su ferro,
alterando assetti geologici e botanici, inserendo elementi di rigida geometria e
modificando ambienti naturali ed antropici di rilevante qualità.
g) L'obliterazione dei beni culturali
La visione dall'alto e la relativa immagine, con la sua imparzialità registra
anche il continuo implacabile processo di degrado del territorio, inteso come
cultura dello spazio e quindi come paesaggio umano, come bene culturale comples-
95
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte
Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – Quaderno n. 1 (settembre 1995), pp. 87-96 Posocco
sivo ed artefatto sociale; la perdita dell'immagine storica non è stata causata solo
dalle guerre, dai terremoti, dalle alluvioni e dalle altre catastrofi naturali, ma anche
dalle ricostruzioni dei centri offesi e dal processo di sviluppo, che si è andato
realizzando nell' ultimo cinquantennio e che ha coinvolto la città e la campagna, la
collina e la montagna con il loro patrimonio di ambienti naturali e di oggetti artistici.
Scendendo ad un maggior dettaglio, la foto interpretazione consente di
registrare all'interno delle aree vaste, anche la modificazione dei contesti più prossimi
ai monumenti, l'erosione dei fondali, il taglio delle prospettive arborate e dei giardini,
il degrado delle figurazioni che circondano i castelli e le ville, le abbazie e le chiese,
nonché l'assedio che l'edificazione porta in genere ai beni culturali sparsi per il
territorio ed a quelli ambientali che sono solitamente ad essi associati.
h) La formazione del paesaggio moderno
Assieme alla modificazione del paesaggio e dell' assetto antico la fotografia
aerea consente anche di rilevare la formazione del paesaggio attuale, quello della
contemporaneità.
Si tratta in alcuni casi di un 'immagine esclusiva, soprattutto nelle periferie e
nelle zone industriali, là dove la capacità sociale di modellamento e trasformazione
ha intaccato profondamente la giacitura naturale ed ha attribuito ai luoghi un volto
diverso, del tutto artificiale.
Le regole formali di questo paesaggio sono profondamente diverse rispetto a
quelle che caratterizzavano da un punto di vista linguistico e strutturale gli spazi
urbani ed extraurbani dei secoli passati.
Ma anche nei siti, ove l'organismo insediativo appare fortemente segnato
dalla matrice storica o l'ambiente naturale manifesta il radicamento della sua
morfologia e dei suoi equilibri, la modernità ha via via inserito, talvolta in modo
evidente, tal altra con discrezione, i segni della sua presenza; in tali casi la
fotointerpretazione è capace di segnalare il processo di attualizzazione e riuso degli
spazi e dei manufatti più antichi, che vengono così reinterpretati e riproposti nel
contesto odierno della città e del territorio.
Lo storico e l'urbanista, scorrendo i fotogrammi delle diverse serie e
confrontandone le immagini, devono rilevare in modo neutrale e disincantato le
trasformazioni che sono avvenute, onde comprendere le cause e valutarne gli effetti
strutturali e formali.
Ma talvolta capita allo studioso impegnato a decifrare una carta gualcita e
grigia, di essere sedotto dal rigore dell'assetto antico e dalla qualità artistica dei
relativi oggetti, ancora visibile nonostante l'aggressione ed il degrado.
Le immagini storiche servono quindi per documentare e capire le
trasformazioni, ma sono anche capaci di destare nostalgia e rimpianto.
96
© Circolo Vittoriese di Ricerche Storiche – riproduzione consentita solo se è correttamente citata la fonte