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Niccolò Povero, Le Mattane

Edizione critica e commentata a cura di V. Celotto

testi e documenti di letteratura e di lingua Collana diretta da Enrico Malato e Andrea Mazzucchi Condirettori Nicola De Blasi, Paola Manni, Giovanni Palumbo Xl niccolÒ PoVero LE MATTANE niccolÒ PoVero le mattane a cura di Vittorio celotto salerno editrice roma Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Napoli « Federico II » isBn 978-88-6973-245-4 tutti i diritti riservati - all rights reserved copyright © 2018 by salerno editrice s.r.l., roma. sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, senza la preventiva autorizzazione scritta della salerno editrice s.r.l. ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. SOMMARIO INTRODUZIONE xi BIBLIOGRAFIA li LE MATTANE NOTA AI TESTI 1 49 INTRODUZIONE n iccolò Povero è poco piú che un anonimo: un rimatore a 1. cui non si può assegnare una storia né un profilo biografico, per quanto essenziale. la documentazione manoscritta non restituisce di lui che un nome e un manipolo di versi, che però si rivela una testimonianza non marginale nel panorama della poesia comica fiorentina della seconda metà del XiV secolo. il suo nome compare nelle rubriche del manoscritto quattrocentesco BncF, ii iV 344 (di qui in poi con la sigla F), che gli attribuisce i due lunghi capitoli in terza rima di cui qui ci occuperemo: « Quest’è una mattana che fece niccolò Povero dormendo […] » (c. 92r) e « Questa ène la seconda mattana che fece niccolò Povero » (c. 93r). il rinnovato interesse per la tradizione della poesia del nonsense e cosiddetta “alla burchia”, e insieme l’esigenza di un inquadramento storiografico che definisca il contesto in cui si profilano le prime sperimentazioni di quella maniera poetica, hanno di recente riportato all’attenzione degli studiosi questi due singolari e ancora poco noti ternari. essi sono stati opportunamente riconosciuti di recente come « una testimonianza imprescindibile per delineare il mosaico della cultura che darà origine alla poesia burchiellesca ».1 esibiscono infatti una struttura compositiva interamente improntata al registro del nonsense, cioè, alla dissoluzione dei legami semantici tra elementi sintatticamente correlati. la strumentazione retorica tipica della tecnica “alla burchia” – il gu1. cfr. Crimi, L’oscura lingua, p. 129. oltre al fondamentale volume di crimi, che ripercorre in dettaglio le tracce di poesia del nonsense nella tradizione giocosa mediolatina e romanza, altri contributi sui precedenti della rimeria burchiellesca, dove alle due mattane di niccolò Povero viene riconosciuto un ruolo di rilievo nella formazione della poetica del nonsense nel XiV secolo, sono quelli di Zaccarello, Burchiello e i burchielleschi, partic. pp. 128-29, il quale peraltro rilevava l’esigenza di una nuova edizione critica e commentata dei due ternari; e di Berisso, Preistoria (mancata) del ‘nonsense’, partic. pp. 31-35. Per le abbreviazioni utilizzate nelle note si rimanda alla Bibliografia posta di seguito a questa Introduzione. xi INTRODUZIONE sto per l’accumulazione seriale, il ricorso oltranzistico a un lessico idiomatico o gergale, l’associazione di referti di realtà svincolati dal senso comune – si trova qui inserita entro una scarna cornice narrativa. la prima mattana (I’ ò una paneruzzola bella e nuova) si configura infatti come raccolta di immagini bizzarre e visioni fantastiche contenute in una piccola cesta da frutta; la seconda (Sí duramente un sonno mi percosse), come rassegna di ricette mediche paradossali esposte da un medico ciarlatano apparso al poeta sotto forma di visio in somnio.2 sull’identità di niccolò Povero non si hanno notizie. oltre al codice quattrocentesco che ne riporta i componimenti, il suo nome compare curiosamente tra le pagine dell’epistolario di santa caterina da siena. la lettera lxxviii, non datata, è infatti indirizzata a un « niccolò Povero, di romagna, romito a Firenze »; e alla stessa persona si accenna in un’altra lettera, datata al 4 novembre 1378 e indirizzata a un tale Francesco di Pipino sarto in Firenze, destinatario di molte delle missive della mistica senese: « ritrovate nicolò Povero di romagna, et ditegli come io so per andare a roma, et che si conforti e preghi dio per noi ».3 si può ben intuire che il tenore delle lettere 2. Vale la pena soffermarsi sulla denominazione che si è deciso di dare a questi testi. ezio levi, che per primo ha portato alla luce i due componimenti, riconoscendo che « questo bizzarro personaggio non è punto degno della dimenticanza degli studiosi », decide di battezzarli, non senza un certo grado di arbitrarietà, paneruzzole, voce di area toscana che designa ‘un cestino, un piccolo paniere’. Questa intestazione trova una sua giustificazione nel primo componimento, che, a partire dall’incipit, I’ ò una paneruzzola bella e nuova, si presenta appunto come una lunga raccolta di personaggi, animali, oggetti che sarebbero contenuti in una cesta. Peraltro, è sulla base di questo incipit che si spiega anche la rubrica del manoscritto riccardiano 2873: « la paneruçola » (c. 71v). se però il termine può dirsi valido per il primo ternario, non lo è per il secondo, che invece si configura come una sorta di visio. È sembrato quindi piú corretto adottare l’unica designazione attestata dalla tradizione manoscritta per entrambi i componimenti, che è appunto quella del ms. F: mattane, vale a dire ‘stramberie, stravaganze, assurdità’. 3. cfr. Caterina da Siena, Lettere, ii pp. 27-28; vi pp. 33-34. sarebbero da accertare anche altre occorrenze del nome di niccolò Povero in manoscritti quattrocenteschi. in particolare il ms. ii iX 125 della Biblioteca nazionale centrale di Firenze raccoglie ben sei sonetti entro la rubrica complessiva « sonetti di niccolò Povero » (cc. 123v-126r); il ms. magliabechiano Vii 1066 riporta il sonetto Pregar ti xii INTRODUZIONE è tale da non concedere informazioni aggiuntive. ma se si potesse accertare la coincidenza di quel niccolò Povero con l’autore delle mattane, avremmo di fronte un caso interessante – ma niente affatto isolato – di un uomo di chiesa alle prese con una scrittura letteraria decisamente sperimentale. allo stesso torno d’anni (ultimo quarto del trecento) rimanderebbe un altro minimo indizio, stavolta interno ai testi, ma dalla consistenza tutt’altro che solida: il riferimento al v. 41 della prima mattana a una « reina giovanna ». si tratta dell’unico personaggio storico nominato nei componimenti di niccolò, che potrebbe identificarsi con giovanna d’angiò, regina di napoli dal 1352 al 1381. nella terzina precedente compare anche un « re d’ungheria », in cui, in virtú della prossimità con giovanna, potrebbe riconoscersi carlo di durazzo, re d’ungheria con il nome di carlo ii il Breve nel biennio 1385-1386. costui fu adottato da giovanna i come figlio ed erede, in quanto unico discendente maschio del ramo principale degli angioini di napoli, ma poi vi entrò in conflitto quando la regina revocò i diritti riconosciutigli, con l’intento di affidare il regno a luigi i d’angiò. la rivalità con luigi d’angiò sfociò in conflitto allorché carlo avanzò verso napoli con un esercito di soldati ungheresi, prese prigioniera giovanna e nel 1382 cinse la corona assumendo il nome di carlo iii. se l’ipotesi di questo doppio riferimento fosse corretta, si potrebbe considerare il conflitto come termine post quem almeno di questo componimento, che anzi andrà ascritto a un periodo non lontano dagli anni ottanta, giacché, come si avrà modo di vedere dal tono generale, è difficile ritenere che il vo’ che mi doni ricovero (c. 27v, rubr.: « sonetto di niccolò Povero »); il ms. riccardiano 1056 infine attribuisce a lui la canzone sicuramente di antonio Pucci Un gentiluom di Roma una fiata (c. 125r; rubr.: « canzone morale di niccolò Povero »). Queste indicazioni vengono da Levi, Le paneruzzole, pp. 81-82, ma si rimanda la loro verifica ad altra sede, non costituendo oggetto di interesse in questo studio, concentrato esclusivamente sulle mattane e sulla loro posizione nella tradizione della poesia pre-burchiellesca. una descrizione analitica del citato ms. ii iX 125 è ora in Iocca, ‘I sonetti del bel pome’, pp. 74-75. xiii INTRODUZIONE testo non alluda ad avvenimenti della storia recente.4 l’incrocio dei pochissimi dati a disposizione, insieme a ciò che si può inferire dalla tradizione manoscritta (la patina linguistica dei componimenti è decisamente fiorentina e i codici che li riportano sono generalmente miscellanee di testi in versi della seconda metà del XiV secolo), indurrebbe ad affermare la pertinenza fiorentina e tardo-trecentesca dei due capitoli ternari, e di conseguenza del loro enigmatico autore. 2. il primo accenno alle mattane di niccolò Povero, subito opportunamente associate allo stile del Burchiello, si deve a severino Ferrari, il quale le rinviene tra le rime popolareggianti raccolte nel manoscritto quattrocentesco c 155 della Biblioteca marucelliana di Firenze (m). la segnalazione di Ferrari sembra essere sfuggita a ezio levi, che per primo pubblica insieme i due ternari in un articolo apparso sugli « studi medievali » nel 1908.5 il levi ha il notevole merito di aver disseppellito i due testi, decretando l’ingresso di niccolò Povero nelle storie letterarie. natalino sapegno ne accoglie alcuni passi nella sua imponente storia della letteratura trecentesca, ma sono soprattutto gli studiosi di tradizioni folkloriche, come giuseppe cocchiara e Piero camporesi, a concedergli un ruolo di rilievo nella tradizione della poesia popolare e giullaresca dei primi secoli.6 4. la ricostruzione si deve a Levi, Le paneruzzole, p. 88. 5. cfr. Levi, Le paneruzzole; poi ripubblicato, senza modifiche sostanziali, ma con la soppressione dell’apparato critico, in Levi, Niccolò Povero. giuseppe crimi ha recentemente divulgato un piccolo scambio epistolare tra ezio levi e il suo maestro, Vittorio rossi, consentendo di ricostruire la strada percorsa dal filologo mantovano prima di approdare all’edizione dei testi: cfr. Crimi, Niccolò Povero, pp. 1034. a partire dall’ed. levi, i due testi sono stati ripubblicati piú volte, ma sempre secondo il testo da lui ricostruito. in particolare in Saffioti, I giullari in Italia, pp. 415-27. il primo si ritrova anche in Crimi, L’oscura lingua, pp. 129-33. una nuova edizione critica e commentata di Sí duramente è stata approntata da chi scrive: cfr. Celotto, Un precedente poco noto della ricetta medica burchiellesca, pp. 96-112. i risultati di quello studio si ripropongono qui con alcune, anche sostanziali, rettifiche. 6. cfr. Sapegno, Il Trecento, pp. 569-70; Cocchiara, Il mondo alla rovescia, pp. 141-45; Camporesi, Il paese della fame, p. 89; Id., La maschera di Bertoldo, p. 117 e n. xiv LE MATTANE i i’ ò una paneruzzola bella e nuova che dentro v’è la torre di mabello: ti mando lavorat’ad ogni pruova. 3 1 paneruzzola] mia p. (+) F; bella e nuova] molto buona m. 2 mabello] babello FmFc. 3 ti mando lavorat’] ti mando che ben fatta F domando chebene fatta Fc e dichoti che fatta m; ad ogni] a ogni F. 1-2. I’ ò una paneruzzola… Mabello: il distico esordiale esibisce subito la struttura portante del componimento, che si articola come un lungo elenco di immagini irreali e visioni fantastiche (uomini politici, personaggi appartenenti all’immaginario letterario o alla realtà municipale fiorentina, animali e oggetti che compiono azioni) raccolti all’interno della paneruzzola. compare il primo degli adynata disseminati lungo tutto il componimento, o meglio un’iperbole in forma di paradosso, con cui si presentano come concrete situazioni irrealizzabili, come qui la torre di Babele contenuta in un paniere, ma cfr. anche vv. 10-12, 98-99, 152 e ii 124-25. l’immagine di una cesta contenente oggetti di varia natura, ma ugualmente impossibili da racchiudere, si trova anche in Fatrasies d’Arras, 5 4-6: « troi faucons lanier / ont fait plain panier / des Vers de la mort »; e Fatrasies di Beaumanoir, 10 9-10: « toute l’iauwe de tamise / fust entree en un panier ». paneruzzola: voce di area toscana che designa un ‘piccolo paniere’, un ‘cestino’, generalmente di vimini intrecciati (GDLI, s.v. panieruzzola). Probabilmente viene da paneruzza, attestato nel secondo quarto del trecento nel libro di spese del monastero di santa trinita a Firenze: « pagai per xiiij tra panieri e paneruççe che messer l’abate comperò a Prato » (Libro di spese, p. 158). in una forma differente, si ritrova in Piovano Arlotto, xxvi 32-38: « venendo uno suo contadino a Firenze, gli dette un paneruzzolo piccolo piccolo e tristo di valore di dua quatrini, dentrovi sei mele cotte, dua uova e uno poco d’insalata e uno cacio piccolo e con esso una lettera […] che […] si facesse rendere quello paniere » (ma nel Glossario, p. 402, la voce è chiosata « piccolo pane »). e cfr. anche Sonetti del Burchiello, xxiii 9-11: « sicché, se ’ pedignon sono sgranati / dolgasi la città de’ paneruzoli / là ove i porri son propaginati ». Mabello: si mantiene la forma attestata in r per Babello, largamente in uso nel toscano trecentesco, ad esempio nelle Chiose Selmi (ed. avalle), xxxi 76-78: « e però fu chiamata la torre di mabello, cioè divisione di genti ». 3. ti mando… pruova: ‘te la mando [la paneruzzola], che è ben lavorata per ogni tipo di utilizzo’, per cui cfr. Boccaccio, Filocolo, ii 45 2: « coperte d’un vermiglio sciamito, guarnite di quanto bisognava nobilmente e fini ad ogni pruova »; iv 27 5: « l’uno di corporale fortezza credo che avanzerebbe il buono ettore, tanto è ad ogni pruova vigorosa e forte »; Teseida, vi 12 2: « d’armi lucenti e forti ad ogni pruova ». il tono allocutorio e le rassicurazioni sulle proprietà del paniere, se non confermano l’ipotesi di levi sul mestiere di « zanaiuolo » del Povero (cfr. Levi, Le pa- 3 ii s í duramente un sonno mi percosse dormendo un giorno quasi in su la isquilla, che sanza chiudere occhio mi riscosse. e come l’acqua tace e sopra stilla cosín ̣e ̣ mi fé ciascunọ mio sentimento per quella maestria che qui distilla: 3 6 1 sonno] sogno m. 3 occhio] oc(c)hi mVb3V; riscosse Vb3V] riscos(s)i (: -osse) 5 Fm. 4. tace… stilla] frange sopra scilla (silla Vb3) V; sopra] senp(r)e m. 6 per quella] di q. Vb3V. mio] om. mVb3V. 1-3. Sí duramente… mi riscosse: il ternario si apre con la descrizione della visio in somnio in cui al poeta appare un medico ciarlatano che gli espone i piú disparati rimedi curativi. Levi, Le paneruzzole, p. 90 n., ha letto questa prima terzina come reminiscenza di Dante, Inf., iv 1-3: « ruppemi l’alto sonno ne la testa / un greve truono sí ch’io mi riscossi / come persona ch’è per forza desta ». un sonno mi percosse: ‘una visione mi colpí’. Per sonno come ‘sogno, visione onirica’ (GDLI, s.v.), cfr. Dante, Inf., xxxiii 26-27: « […] quand’io feci ’l mal sonno / che del futuro mi squarciò ’l velame ». l’uso figurato di percuotere per ‘turbare, affliggere’ si riscontra con una certa frequenza, ad es. in Dante, Inf., v 26-27: « […] or son venuto / là dove molto pianto mi percuote ». 2. in su la isquilla: l’ora segnata dal rintocco della prima campana del mattino (GDLI, s.v.). 3. mi riscosse: il verbo indica propriamente lo scuotersi di chi si risveglia bruscamente, come nel già cit. Dante, Inf., iv 2. in contesti simili il verbo ricorre per lo piú in forma riflessiva; ma non mancano impieghi in forma attiva, come in Boccaccio, Elegia di Madonna Fiammetta, i 3 8: « sí fu grave la doglia del cuore quella aspettante, che tutto il corpo dormente riscosse, e ruppe il forte sonno »; Filostrato, v 28 2-5: « e sí spavento m’è nel core, / che vegghiaria mi saria meglio e dolere; / e spesse volte mi giugne un tremore / che mi riscuote e desta […] ». Per questo motivo si è preferita la variante del gruppo β, che rispetta la rima, conservando il senso corretto, con la costruzione del verbo in forma attiva. 4-5. E come… sentimento: similitudine per indicare il pianto generato dalla visione, che potrebbe scogliersi: ‘e come l’acqua cade giú stillando, a gocce, cosí accadde ad ogni mio sentimento’. ancora, dunque, un’immagine di ascendenza dantesca, del sentimento che diventa lacrime, e quindi « stilla »: cfr. Dante, Inf., xxiii 97-98: « ma voi chi siete, a cui tanto distilla / quant’i’ veggio dolor giú per le guance ». 6. per quella… distilla: ‘per quella sapienza che qui si diffonde’. l’uso metaforico di distillare per ‘diffondersi’ o ‘fluire’ come acqua dalla fonte è anch’esso dantesco, come nella celebre immagine di Dante, Par., xxxiii 61-63: « cotal son io, ché quasi tutta cessa / mia visione, e ancor mi distilla / nel core il dolce che nacque da essa ». 29