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QPS3 - Utopia

2018, Quaderni di Parentesi Storiche

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Catterin, Giuseppe, et al. “QPS3 - Utopia.” Quaderni Di Parentesi Storiche, vol. 3, 2018, p. 59.

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Catterin, G., Genova, V., Storiche, P., & Bernardini, J. (2018). QPS3 - Utopia. Quaderni Di Parentesi Storiche, 3, 59.

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Catterin, Giuseppe, Vanessa Genova, Parentesi Storiche, and Jacopo Bernardini. “QPS3 - Utopia.” Quaderni Di Parentesi Storiche 3 (2018): 59.

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Catterin G, Genova V, Storiche P, Bernardini J. QPS3 - Utopia. Quaderni di Parentesi Storiche. 2018;3:59.

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Catterin, G. et al. (2018) “QPS3 - Utopia,” Quaderni di Parentesi Storiche, 3, p. 59.

Abstract

Cari lettori, è online in download gratuito il nuovo numero della nostra rivista Quaderni di Parentesi Storiche! Abbiamo scelto, per questo terzo e ultimo numero dell'anno, di parlare di Utopia e mondi utopici e distopici, con uno sguardo che abbraccia insieme passato, presente e futuro. Parleremo di Sparta e delle teorie aristoteliche sul governo perfetto; del rapporto tra la città di Dio di Sant'Agostino e il modo di pensare la città nel medioevo; delle utopie moderne, da Thomas More a Campanella a Comenio, fino al socialismo utopistico del primo Ottocento e alle "comunità che resistono"; approfondiremo idee di architettura urbana; temi di letteratura, spettacolo e, infine, di questioni di genere. Tutto in sessanta pagine da scaricare e leggere con gusto! Buona lettura!

{ {QPS pensiero da platone a more da campanella a engels Rivista di Storie, Arti e Attualità paesaggi ` ripensando la citta medievale comunita` che resistono utopie urbane : societa` e potere sparta e il governo perfetto tra scienza e uguaglianza la paura dell 'androide genere e distopia utopiA ANNO 1 | NUMERO 3 | NOVEMBRE 2018 Sommario Editoriale p. 03 Inseguendo il governo perfetto: Sparta p. 04 Focus | Lorenzo Domenis Ripensando la città medievale p. 08 Focus | Giuseppe Catterin Utopie moderne: da Thomas More a Comenio p. 14 Focus | Paolo Perantoni Campanella e l’educazione dei Solari p. 18 Focus | Alessia Pirola Utopia tra scienza e uguaglianza p. 22 Dossier | Paolo Perantoni Il socialismo utopistico per Marx e Engels p. 28 Dossier | Jacopo Bernardini La paura dell’androide da R.U.R. a Westworld p. 34 Dossier | Nicola Cosentino Utopie possibili: comunità che resistono p. 42 Gallery | Paolo Perantoni Giardini verticali e progettazione dell’utopia urbana p. 48 Rubric | Valentina Quitadamo Le forme antropiche del potere p. 54 Review | Vanessa Genova |QPS| N°3 PS: noi Parentesi Storiche è un progetto avviato da una équipe di studenti iscritti ai corsi di Scienze Storiche di varie Università italiane e si struttura come laboratorio di scrittura e di ricerca finalizzato alla pubblicazione e divulgazione della conoscenza storica. Proprio la nostra impronta universitaria, le nostre conoscenze metodologiche nel fare e nello scrivere la Storia, la nostra capacità critica – acquisita negli anni di studio – delle fonti e dei contenuti di esse e il nostro modo di ragionare sulla Storia, aspiriamo siano il marchio con cui farci conoscere e attraverso cui costruire qualcosa di nuovo e originale. Ma c’è di più. Il nostro progetto ha anche e soprattutto un intento generazionale: ovvero che si connoti come un progetto creato da giovani, studiosi e studenti, che vogliano dare una risposta, attraverso la cultura e il sapere storico, al problema intellettuale e culturale del nostro presente. Una generazione di accademici o di futuri accademici? Non esattamente. Intendiamo, piuttosto, una generazione di giovani, coscienti del nostro presente storico, con un piede nel passato e uno sguardo di fronte. Ognuno con la propria voce che esprime le sue urgenze di presente. Ecco: il nostro progetto ha l’ambizione di inserirsi proprio in questo spazio, di creare un ponte per riportare e ridare alle scienze storiche quella comunicabilità che pare abbiano perso abbandonandosi in un certo modo ad uno specialismo fine a sé stesso. In sostanza, il progetto Parentesi Storiche vuole essere fautore di un’idea di scienza e cultura storica che sia “disinteressata”, libera, capace di suscitare passione e impegno vivo; che sia palestra di spirito critico e allo stesso tempo faccia provare, a noi e al nostro pubblico, quel sentimento di leggerezza e di bellezza che ci pervade quando scopriamo qualcosa, quando il nostro studio e le nostre letture ci illuminano, come per divinazione, una verità che ancora non conoscevamo. Quaderni di Parentesi Storiche | anno 1 | n° 3 | novembre 2018 Registrazione Tribunale di Verona | n° 1936 R.S. del 14 ottobre 2011 QPS n° 3 Progetto editoriale | Paolo Perantoni Proprietario | Associazione Culturale Parentesi Storiche Direttore responsabile | Angelo Perantoni Caporedattore | Alessandro Rigo Redazione | Giuseppe Catterin, Lorenzo Domenis, Francesco Fontana, Caterina Mongardini, Paolo Perantoni, Valentina Quitadamo, Oriana Rodella, Alessandro Rigo, Enrico Ruffino, Luca Scuro Progetto grafico | Paolo Perantoni, Luca Scuro Revisione | Giuseppe Catterin Impaginazione | Paolo Perantoni Hanno scritto | Jacopo Bernardini, Giuseppe Catterin, Nicola Cosentino, Lorenzo Domenis, Vanessa Genova, Paolo Perantoni, Alessia Pirola, Valentina Quitadamo Copertina | Alessandro Rigo | photo credits Unsplash di Simone Hutsch Quarta di copertina | Marta Marchini Redazione chiusa il | 31 ottobre 2018 Editoriale Sono molti coloro che usano, o hanno adoperato, la parola utopia e il suo aggettivo utopico, e di cui vi è traccia nel nostro mondo digitale. Se si apre un motore di ricerca come Google, infatti, alla parola utopia corrispondono circa 91 milioni e mezzo di risultati, quasi 4 milioni per utopico. Si tratta di una parola, verrebbe da dire, che piace, vuoi perché è effettivamente ben costruita attorno alle radici greche, vuoi perché denota un certo fascino per un mondo altro, misterioso, dove tutto va bene (m. utopico) o tutto va male (m. distopico). Non tutti però conoscono appieno il significato di utopia, né sanno quando e come il termine è nato o come si è evoluto nel corso del tempo. La parola utopia, alcuni lo sapranno, è stata inventata da Thomas More nel 1515, ma questo vuol significare che non esisteva prima del XVI secolo? E ancora: alcuni pensatori contemporanei hanno associato la caduta del muro di Berlino alla fine dell’utopia, ma è proprio vero? E che dire dell’esplosione, in tempi recentissimi, dell’uso della parola distopia e di opere ad essa collegate? C’entra qualcosa con l’ascesa dei populismi in Europa e negli Stati Uniti? Da storici non abbiamo la pretesa di rispondere a tutte le domande. Anzi, è nostro compito volerne formulare di nuove, in modo da stimolare il pensiero e il dibattito e, perché no, aiutare a leggere la realtà quotidiana in maniera più complessa e quindi più completa. Abbiamo voluto offrirvi un viaggio alla ricerca della presenza di utopia (e della sorella distopia) nel corso dei secoli, utilizzando molte discipline affini alla storia, come la filosofia, la letteratura, la religione, financo l’architettura e il cinema. Si parte, come ovvio, dalla culla del nostro pensiero, la Grecia classica. Cercheremo di capire se Sparta fosse o meno un tentativo di società utopica nel panorama dell’Ellade. Passeremo poi al Medioevo, dove ci chiederemo quanto ha a che fare la Città di Dio di Sant’Agostino con la costruzione dell’idea stessa di città. Gli anni della cosiddetta età moderna sono stati tutto un fiorire di scritture utopiche, a cominciare dall’opera progenitrice di More fino a quelle dei rivoluzionari francesi; in questo clima approfondiremo l’importanza dell’educazione in un’opera basilare com’è la Città del Sole di Campanella della quale recentemente si è tornato a scrivere e pubblicare. Conosceremo il pensiero socialista utopistico – o utopico? – dell’Ottocento, scopriremo come sia stato recepito dal marxismo e, dulcis in fundo, torneremo al punto di partenza, ossia ai giorni nostri. Possiamo ancora parlare di utopia e della sua realizzazione o dobbiamo rassegnarci alla distopia? Nelle pagine finali di questo numero, letteratura, cinema e tv ci mostreranno una via, l’architettura un’altra. Insomma, in questo numero verrà data risposta ad alcune domande, altre ne nasceranno, ed è proprio quest’ultimo caso quello che vi auguriamo! Paolo Perantoni parentesi.storiche@gmail.com www.parentesistoriche.it 3 FO C U S Inseguendo il governo perfetto: Sparta La ricerca di una forma di governo perfetta, che abbini la solidità dello Stato al benessere del popolo, è una tematica che attraversa tutta la storia occidentale, e non solo, sin dall’Antichità. Grandi filosofi e pensatori, Platone, Aristotele e Senofonte su tutti, cercarono di individuare quale fosse la migliore forma di governo, quale fosse l’ideale politico da applicare per garantire sicurezza, dinamismo e soddisfazione sociale su tutti i livelli, dal “popolo bue” alle élite di potere. Platone, da filosofo più che da “politologo”, immagina un governo ideale utopico all’interno della celebre opera La Repubblica, dove si trattegia un popolo governato da filosofi addestrati al pensiero quanto alla guerra. Una sofocrazia (letteralmente potere ai saggi) dove la proprietà sfuma e dove il benessere dei cittadini trova largo spazio, seppur in cambio della rinuncia ad alcuni aspetti della sfera privata. Lo stato ideale di Platone, così affascinante a secoli di distanza tanto da aver ispirato alcuni pensatori dell’area socialista e comunista, resta un mero sforzo teorico, basato, tuttavia, su alcuni modelli realmente esistenti, considerati illuminati e degni di imitazione. Questi vengono ampiamente ripresi da un altro grande filosofo ed erudito greco, Aristotele, all’intero della Politica. La Politica si contrappone alla visione della Repubblica: se per Platone tutti i cittadini devono interessarsi alla vita pubblica e alle problematiche ad essa collegata, Aristotele incentra il dibattito sulla dimensione del cittadino come attore autonomo che esercita le proprie virtù etiche e dà il proprio contributo alla vita pubblica. Nell’arco della sua dissertazione, il filosofo di Stagira individua alcune realtà degne di note da cui prendere spunto -i modelli citati qualche riga sopra- ossia: Sparta, Creta e Cartagine. Sparta, da sempre, esercitò un grande fascino su gli altri abitanti dell’Ellade per via della sua forma di governo articolata e originale. A Sparta vi erano due monarchi, il cui potere era riferito in primis alla sfera militare, vi era l’assemblea degli Efori, un gruppo di cinque magistrati investiti di ampi poteri tanto da poter persino deporre un sovrano, l’Apella, ossia l’assemblea dei cittadini spartani che nominava gli efori, e la Gherusia, composta dai due sovrani e da ventotto spartani di almeno sessant’anni eletti a vita dall’Apella svolgente compiti legislativi e giudiziari. Fuori dalla sfera politica si trovavano gli Iloti, schiavi originari della Messenia dediti solo alla coltura dei campi e privi di diritti. Tutte queste istituzioni venivano attribuite al semi-leggendario Licurgo, grande legislatore spartano che avrebbe ideato il tutto. Come emerge da questa schematica disamina, il sistema spartano appare tutt’altro che lineare o semplice, vista la presenza di diverse realtà che, spesso e volentieri, potevano bloccarsi a vicenda. Per esempio, una decisione dell’Apella poteva essere respinta dalla Gherusia e viceversa. Questo intricato sistema di ruoli e possibili blocchi veniva lodato da molti in quanto consentiva una costante vigilanza affinché non ci fossero scalate al potere o svolte autoritarie. La paura della tirannide animò spesso e volentieri il dibattito della Grecia Classica; molti vedevano nella tirannide la più grande minaccia politica dato che essa ledeva qualsiasi forma di libertà. Platone e Aristotele | Raffaello | La scuola di Atene | Particolare | Stanze vaticane | Roma | 1509-1511 4 |QPS| N°3 5 FO C U S La costituzione degli spartani veniva ritenuta la migliore in quanto combinava tutte le costituzioni o, quanto meno, amalgamava elementi tipici della monarchia (i due re), dell’oligarchia/aristocrazia (eforato e Gherusia) e della democrazia (Apella). La difficoltà di ergere Sparta a modello stava proprio nella sua originalità: il sistema spartano poteva dirsi efficace nel contesto in cui era nato e cresciuto, fuori dalla Laconia applicare un sistema simile risultava quasi improponibile, ragion per cui il sistema spartano venne mai applicato in altre zone della Grecia. Giovane guerriero si mette l’elmo | particolare di una coppa | Museo Nazionale di Atene | VI a.C. 6 |QPS| N°3 Sparta non era l’unico caso eccezionale, lo stesso Aristotele cita l’esempio di Creta che avrebbe potuto essere, secondo alcuni autori, persino fonte di ispirazione per la costituzione degli Spartani. Il celebre geografo del V secolo a.C., Erodoto, sostenne che Licurgo passò molto tempo presso i Cretesi per via della consanguineità dei due popoli: la città di Lyctus, nei pressi di Cnosso, era infatti colonia spartana. I coloni lacedemoni avrebbero assorbito le leggi locali stabilite da uno dei più grandi legislatori del mito greco: Minosse. Dice Aristotele: “Il sistema cretese ha analogie con quello spartano. Coltivano i campi per uni gli iloti per gli altri i perieci. Gli efori hanno la stessa autorità dei magistrati cretesi noti come cosmi solo che essi sono dieci e non cinque. Gli anziani di Sparta, i gheronti, sono uguali agli anziani di Creta che siedono in un consiglio. Tutti i cittadini sono membri dell’assemblea che si limita a confermare il voto degli anziani e dei cosmi.” Anche a Creta viene, quindi, riconosciuta una capillare suddivisione dei poteri che garantisce stabilità e sicurezza. Tra l’altro, Creta ebbe pochi problemi di stabilità interna poiché non subì frequenti rivolte dei perieci a differenza di Sparta che spesso dovette contrastare le insurrezioni degli iloti. Del resto, sottolinea Aristotele, i Cretesi non avviarono una politica espansionistica a differenza di Sparta. Non resta che esaminare l’ultimo modello ritenuto di grande valore da Aristotele e non solo: Cartagine. A differenza delle realtà esaminate fino ad adesso che appartengono tutte alla sfera greca, Cartagine si colloca, ovviamente, nel mondo fenicio essendo una fondazione dell’importante città di Tiro. Cartagine, tuttavia, non crebbe isolata: la sua posizione strategica al centro del Mediterraneo, la città sorgeva nell’area dell’attuale Tunisia, permise ai Cartaginesi di entrare in contatto con diverse realtà tra cui il mondo greco, l’impero persiano, gli Etruschi e via dicendo. Aristotele definisce la costituzione cartaginese come “una buona costituzione, con elementi quasi identici a quella spartana”. Lo stagirita evidenzia la presenza di due re, i sufeti, che avevano il compito di guidare l’esercito, un consiglio degli anziani, una sorta di eforato allargato e la presenza di un’assemblea popolare. Ancora una volta viene sottolineata la stabilità di questo sistema che, come a Sparta e a Creta, ha scongiurato il rischio della tirannide. Cartigine però, a differenza degli altri due modelli, devia più verso l’oligarchia e non verso l’aristocrazia. Secondo lo Stagirita i magistrati, oltre ad essere eletti per merito, vengono scelti anche in base alla ricchezza; ciò renderebbe lo stato più avido, accusa che va inserita nel topos dei popoli orientali dediti al lusso e allo sfarzo. Inoltre, a Cartagine è concesso occupare più di una carica contemporaneamente, elemento che Aristotele condanna sempre nell’ottica della repulsione verso l’accentramento del potere. Chi si erge, quindi, a modello? Quale costituzione risulta la migliore? Verrebbe da dire Sparta che fa sempre da contraltare agli altri due esempi di virtù, risultando una costante pietra di paragone. Al di là di tutto, al di là della scelta del migliore, resta un fatto degno di nota: la continua ricerca di un modello ideale che non si appiattisca verso la semplicità ma anzi che tenda a una complessità maggiore. Ancora oggi ci si interroga su quale sia il sistema di governo migliore, arrovellandosi in cerca di modelli da cui trarre ispirazione senza cadere nella mera utopia. La grande vincitrice di questi sforzi è sempre la complessità: i nostri sistemi democratici attuali, così di- stanti dalla democrazia greca, possono risultare piuttosto articolati e complicati nella loro suddivisione dei poteri. Il potere si fraziona onde evitare che cada nelle mani di un singolo, minaccia sempre in agguato anche nell’età contemporanea. Ma il frazionamento può generare lentezza, blocchi e difficoltà interne, ragion per cui è necessario trovare un paradigma da seguire. L’uroboro della ricerca del “governo perfetto” non ha mai finito di mangiarsi la coda. Lorenzo Domenis | Verona Aristotele, Politica, Laterza, Bari, 2012 Platone, La repubblica, Mondadori, Milano, 2010 Senofonte, La costituzione degli Spartani, Mondadori, Milano, 2009 E. Levy, Sparta, Argo editrice, Lecce, 2007 Licurgo | busto in marmo attribuitogli | probabile copia romana di età imperiale 7 FO C U S Ripensando la città medievale Si sarebbe creduto che il mondo, gettando lungi da sé gli antichi vestimenti, s’ornasse di un candido manto di novelle chiese Gli Historiarum libri quinque di Rodolfo Glabro, monaco francese che visse a cavallo tra il X e l’XI secolo, rappresentarono a lungo il puntello su cui fondare una tra più caratteristiche leggende collegate all’Evo di mezzo: il millenarismo, animato dalla spasmodica paura dell’anno Mille, che accomunò il ricco al povero, il potente all’umile. Il timore della fine del mondo non costituisce, tuttavia, un unicum tipico della cultura medievale. Questo genere di attesa si può riscontrare, infatti, ad ogni latitudine e in ogni temperie storico-culturale del Globo terracqueo. Ogni civiltà, a partire da quelle tecnicamente meno raffinate fino a giungere agli imperi che hanno plasmato la storia, si è posta, durante il suo percorso evolutivo, questa fatidica domanda, secondo una concezione lineare del tempo – che, pertanto, concepisce tanto un inizio, quanto una fine. Eppure, le annotazioni di Rodolfo consentono all’occhio di un osservatore attento, privo quindi di qualsivoglia impianto mitopoietico, di formulare considerazioni di ben più ampio respiro. Sebbene mediato da un genuino gusto per il classico impianto retorico dell’Antichità, il commento dell’uomo di Chiesa costituisce altresì una interessante testimonianza dei primi fermenti di quel processo di sviluppo socioeconomico, battezzato dalla storiografia contemporanea come “rinascita dell’anno Mille”. Le molteplici manifestazioni di questa crescita, che abbracciarono vasti campi delle attività umane, si riverberarono positivamente anche nel tessuto urbano di quelle zone del Continente, quali centro – nord Italia e città francesi, che riuscirono a perdurare dal tardoantico. Le città italiane, ad esempio, iniziarono la loro crescita economica, visibile nell’ampliamento delle rispettive cerchie murarie, il più delle volte ancora ancorate alle dimensioni della tarda età romana. O, ancora, nella spinta a colonizzare vaste porzioni dei distretti rurali finitimi, mediante la costruzione ex novo di nuove realtà urbane. La città medievale, inoltre, iniziò proprio allora a differenziare profondamente il proprio panorama produttivo. Le mura urbane serbavano, infatti, un microcosmo ad alta densità non solo abitativa, ma sovente perfino produttiva: tramontato il periodo della rigorosa partizione geometrica tipica dell’insediamento di fondazione romana, lo spazio urbano medievale percorse nuovi scenari, preferendo uno sviluppo attorno alcuni punti focali, quali la piazza principale o i maggiori luoghi di potere, siano essi laici o religiosi. Spazi che, quindi, coniugavano unità abitative, spesso dotate di porzioni adibite ad attività primarie di sussistenza domestica, come orti o porzioni circoscritte a vigna, a parti intra murarie, sovente veri e propri quartieri, dalla spiccata vocazione produttiva, grazie anche al rapido diffondersi di un vivace ceto artigianale operante all’interno degli stessi spazi urbani. Questo peculiare genere di combinazione, tuttavia, garantiva anche una serie di problematiche difficilmente eludibili, quali rischi sanitari o la formazione di aree a scarsa salubrità con conseguente danno alla salute della comunità. L’autorità pubblica di molte realtà comunali della Penisola si fece dunque promotrice di tutta una serie d’interventi volti a migliorare il più Les Très Riches Heures du duc de Berry | Barthélemy d’Eyck |1416 | Chantilly | Musée Condé | Ms.65, f.3v 8 |QPS| N°3 9 FO C U S possibile il decoro urbano, come si può evincere dagli statuti comunali di molte città. La normativa, il più delle volte particolarmente stringete, si prefiggeva l’obiettivo di riscrivere in maniera significativa lo spazio urbano, tramite interventi che interessarono i processi produttivi più impattanti. Il ciclo della lavorazione delle carni, ad esempio, venne trasferito coattamente al di fuori della cerchia muraria. Analogamente, s’impose agli operatori della lunga filiera della produzione tessile, in particolar modo ai tintori, di spostarsi lungo corsi d’acqua posti il più lontano possibile dai centri abitati. Norme simili furono indirizzate anche alla cittadinanza circa il trattamento e la raccolta dei rifiuti urbani. Si sancì, ad esempio, l’obbligo di scaricare le deiezioni nei butti. Vale a dire spazi appositamente apprestati, spesso semplici fosse di riempimento, ubicate tra gli interstizi posti tra un’abitazione e l’altra. Verso il volgere del Duecento, le realtà comunali più strutturate iniziarono a gestire la problematica in maniera più organica. La città di Siena, ad esempio, a partire dal 1296, metteva a gara la gestione dei rifiuti urbani al miglior offerente – che, a sua volta, poteva rifarsi dei costi sostenuti utilizzandoli come concime. Sebbene ancora lungi dalla pianificazione della città ideale, che molta fortuna ottenne durante il Rinascimento, si può comunque sostenere l’esistenza, sebbene in forma più empirica che teorica, di una visione comune circa la corretta gestione degli spazi urbani all’interno delle città medievali. La capillare opera di risistemazione dello spazio condotta dall’Uomo medievale, in aggiunta agli esempi fin qui analizzati, ebbe modo di mostrarsi anche nella necessità di tracciare, nella maniera più rigorosa possibile, una nuova geografia ultraterrena. L’esempio più celebre di questa esigenza si può certamente scorgere nella certosina mappatura condotta da Dante Alighieri all’interno della sua immortale Commedia, compendio di un ultraterreno di chiara derivazione classica plasmato, tuttavia, assieme alle nuove “scoperte” geografiche condotte dall’uomo medievale. È il caso del Purgatorio, la cui definitiva normazione, come magistralmente dimostrato da Jacques Le Goff, è pienamente ascrivibile alla Dottrinalmente parlando, invece, l’ortodossia cristiana doveva fronteggiare numerose eresie cristologiche, quali il Pelagianesimo, particolarmente diffuso in Africa, e l’Arianesimo. De civitate Dei | 1440 | San Daniele del Friuli | Biblioteca Civica Guarneriana | Guarneriano 8 | f. 50v 10 |QPS| N°3 L’obiettivo ultimo della trattazione è dunque di sancire il definitivo primato culturale della nuova religione sugli antichi culti romani e, al contempo, di sottolineare la superiorità del Cristianesimo sul Paganesimo. temperie medievale, capace di normarne luoghi e, soprattutto, coniare appositamente una nuova e precisa iconografia. Va però detto che la sua giunse dopo una plurisecolare gestazione, i cui profondi inizi possono venir rintracciati nel passato remoto della stessa dottrina cristiana. L’impianto teologico e il background teorico, su cui si è poi innestato il successivo pensiero medievale, affondano la propria ragione d’essere direttamente nel pensiero di Sant’Agostino. Sebbene si possa considerare, almeno spiritualmente, genitore del Purgatorio, la fama del Padre della Chiesa è indissolubilmente legata alla sua opera più celeberrima: La città di Dio, in latino conosciuta come De civitate Dei, opera mastodontica strutturata in ben ventidue libri che esercitò una profonda influenza nel pensiero dei secoli successivi. Composta durante un lasso di tempo di circa tredici anni, il periodo storico in cui venne redatta influì significativamente sul suo contenuto. Il V secolo fu per l’ecumene romana, e in particolar modo per la provincia dell’Africa, un secolo di difficoltà, culminato in quella che siamo soliti definire “caduta” della pars occidentis. Da un punto di vista politico, le armi e la stessa autorità imperiale erano sempre più in balia dei popoli barbarici – lo stesso Agostino morì durante l’assedio vandalico a Ippona. Quegli stessi popoli che, descritti esoticamente da Tacito giusto qualche secolo prima, erano giunti a saccheggiare l’Urbe, scuotendo pro- fondamente le stesse fondamenta ideologiche su cui si basava Roma: non è dunque un caso che il De Civitate Dei si apra proprio rievocando questo evento epocale, capace di generare “un’enorme sciagura”. Dottrinalmente parlando, invece, l’ortodossia cristiana doveva fronteggiare numerose eresie cristologiche, quali il Pelagianesimo, particolarmente diffuso in Africa, e l’Arianesimo. Inoltre, nonostante la sconfitta militare patita da Eugenio presso il Frigido (394 d.C), in uno scontro che univa rivendicazioni politiche a pretese di carattere religioso, il paganesimo romano-greco era ancora lontano dal definirsi completamente superato, come si può evincere dalla diatriba che lo stesso Sant’Agostino conduce fin dalla sua premessa. I Pagani, stando alle parole del De civitate Dei | 1440 | San Daniele del Friuli | Biblioteca Civica Guarneriana | Guarneriano 8 | f. 233v 11 DOSSIER vescovo di Ippona, tentarono di attribuire il tracollo della statualità romana ai messaggi insiti nella religione cristiana. Ed è proprio alla luce di quest’ultima e drammatica contrapposizione che si deve calare il De Civitate Dei, opera scritta, giova ricordarlo, da un antico protetto di Simmaco, a lungo l’autorevole difensore della “fazione” pagana. L’obiettivo ultimo della trattazione è dunque di sancire il definitivo primato culturale della nuova religione sugli antichi culti romani e, al contempo, di sottolineare la superiorità del Cristianesimo sul Paganesimo. Superiorità che nel pensiero agostiniano assume un valore naturalmente lapalissiano, perché decisa direttamente dalla Provvidenza Divina. Gerusalemme | Liber Chronicarum | 1497 BNF | RES-G-503 | ff. 62r-63v 12 |QPS| N°3 La dotta analisi storica delle vicende romane, condotta grazie a una straordinaria conoscenza degli storici classici, si muove dunque nei binari della demitizzazione, volta a screditare il grande passato dei Romani, ultimo rifugio idealizzato in cui le restanti vestigia della cultura pagana cercavano scampo contro l’amara realtà del presente. A questa azione non vengono risparmiati nemmeno i miti fondativi di Roma: Romolo, da mitico fondatore dell’Urbe, diviene il fratricida che segnò, ancora prima della sua effettiva nascita, il tracollo finale della potenza romana. La scientifica analisi storica condotta da Agostino opera lungo orizzonti culturali pienamente cristiani. La concezione del tempo universale, ad esempio, presenta già aspetti ed elementi tipicamente cristiani, come il pensiero escatologico dell’Antico Testamento, secondo cui Dio si serve della storia per realizzare i propri progetti di redenzione. La stessa storia, d’altro canto, passa da una rappresentazione ciclica ad una visione più lineare: ogni aspetto umano, essendo tale, inizia con un principio, procede con i suoi progressi per terminare con una fine. Questo principio vale anche per quello che è il più importante aspetto del pensiero agostiniano: l’esistenza di due città, nella cui intersezione si svolge l’intera vicenda umana. Sorte agli albori dell’umanità, la loro dicotomia incarna perfettamente la perenne lotta tra bene e male. La Civitas Terrena, ossia la città della carne e del diavolo, venne fondata da Caino, e rappresenta l’aspetto più concupiscente dell’esistenza. La Civitas Dei, al contrario, venne edificata dal pastore Abele, metafora perfetta per simboleggiare il luogo privilegiato dallo spirito. Sebbene poste agli antipodi, esse, di fatto, vivono intrecciate e mescolate in ogni uomo. Quali sono, dunque, le prospettive del fedele? Quale la sua condizione? La concezione umana, secondo il punto di vista di Sant’Agostino, è simile a quella del peregrinus, del viandante straniero che deve compiere il suo personale viaggio per raggiungere la tanto agognata città divina. Viandante che, tuttavia, risiede, seppur temporaneamente, nel mondo che lo circonda, perché ad esso legato mediante vincoli e, soprattutto, doveri. Il libro, dunque, si prefigura non tanto come un caloroso invito a rifuggire la realtà che circonda il cristiano, bensì a viverla in maniera distaccatamente attiva, come fedele che contribuisce a ornare il mondo di “un candido manto di novelle chiese” e come cittadino che partecipa a ottimizzare gli spazi urbani della città medievale. Giuseppe Catterin | Venezia Agostino, La città di Dio, trad. e cura di Domenico Marafioti, Mondadori, Milano, 2011 J. Le Goff, La nascita del Purgatorio, Einaudi, Torino, 2014 F. Menant, L’Italia dei comuni (1100-1350), Viella, Roma, 2011. Ulma | Liber Chronicarum | 1497 BNF | RES-G-503 | ff. 190r-191v 13 FO C U S litica e religiosa dettata dal regno di Enrico VIII, per il quale lavorò come diplomatico e uomo di corte, almeno fino al 1534, quando mancò di giurare fedeltà al sovrano, cosa che gli costò la vita l’anno successivo. More non fu solo un esempio di stoica dignità dinnanzi alla morte (venne subito beatificato da Pio XI per questo), fu soprattutto una persona la cui sensibilità ne faceva “un uomo politico consapevole dei mali del suo tempo e delle distorsioni sociali prodotte da un sistema economico e di potere profondamente irrazionale e ingiusto”1. La spietata analisi di questi mali è il tema principale del dialogo che si trova nel primo libro dell’opera, ma esso è così importante che in realtà soggiace anche alla restante descrizione di Utopia, quasi che More volesse lasciare con quest’opera un vero e proprio “testamento politico”2. Utopia si apre infatti con un profondo dialogo critico sulla società inglese tra More, Pieter Gilles e Hythloday; proprio quest’ultimo propone un programma di riforma radicale sul modello platonico: se i governanti non ascoltano i filosofi, occorre che i filosofi si facciano governanti. Da qui inizia il racconto del viaggio verso le Americhe dove si trova Utopia. More ha ben presente Platone e la sua Atlantide, dato che prima di tutto ne dà gli estremi “storici” attraverso il racconto della fondazione da parte di Utopo e la successiva organizzazione territoriale e urbana che portano Utopia a diventare un’isola, proprio come Atlantide. L’organizzazione è presto detta: cinquantaquattro città uguali e di forma quadrata, con alte mura e organizzate per piazze e isolati, ognuno dei quali destinati all’abitazione di trenta famiglie che scelgono annualmente, come rappresentante, un filarco. Ogni dieci filarchi viene eletto un protofilarco: dai duecento protofilarchi viene scelto un capo supremo con carica a vita. Si tratta quindi di una repubblica e Luigi Firpo ha avanzato l’ipotesi che More avesse in mente il modello veneziano, sebbene fosse nota la sua antipatia verso l’aristocrazia3. La repubblica utopica si regge sull’agricoltura: sia nel contado che in città, ogni casa ha il proprio orto-giardino, e tutti, siano essi contadini o cittadini, sono chiamati a lavorare nei campi a seconda della necessità. Tutti lavorano sei ore al giorno, il resto del tempo sono liberi di impegnarlo a seconda delle proprie inclinazioni. More è consapevole che una vita comunitaria “forzata” non è soddisfacente per l’individuo, quindi nella sua Utopia vige la rego- 1 3 Utopie moderne: da Thomas More a Comenio Anversa 1515. L’umanista inglese Thomas More, amico intimo di Erasmo da Rotterdam, inizia a comporre Utopia, che vedrà la stampa l’anno dopo, presso Lovanio. Né More né Erasmo potevano immaginare che questa semplice opera, che riprendeva la tradizione classica del modello platonico di uno stato en logois, ma rielaborato in modo originale e calato nei propri tempi, potesse diventare un modello e un genere letterario, e che la creazione di un neologismo attraverso un gioco di parole – utopia – ovvero un non luogo felice, fosse destinato a durare nei secoli con grandissima fortuna. Sarebbe impossibile comprendere Utopia senza conoscere le vicende politiche dell’Europa del ‘500 in cui More si ritrovò, non solo a vivere, ma pure a ricoprire un ruolo da protagonista. Se da un lato, infatti, egli si trovò ad agire nel contesto del pieno e più florido Umanesimo, dall’altro assistette alla profonda crisi po- 2 14 |QPS| N°3 Comparato, Utopia, p. 64. Servier, Storia dell’utopia, p. 93. L. Firpo in Introduzione a T. More, Utopia, Guida, Napoli, 1979. Thomas More | olio su tela | particolare | Hans Holbein il Giovane | 1527 15 FO C U S la di non rinunciare ad alcun piacere a meno che non si leda se stessi o gli altri. Non esiste proprietà privata, viene disprezzato l’oro e i metalli preziosi, le vesti sono sobrie e i piaceri onesti, tutto ciò contribuisce a fare degli Utopiani un popolo che guarda “alla dolcezza del vivere”. Il fanatismo e l’intolleranza sono stati aboliti; gli Utopiani, infatti, possono credere in quello che vogliono e allo stesso tempo scendono in guerra solo a scopo difensivo: ecco che in tutto questo emerge l’irenismo religioso dell’amico Erasmo. Come ha sapientemente colto Vittor Ivo Comparato, Utopia è un testo ironico, sottile, enigmatico, colmo di riferimenti classici e accessibile a più livelli, ma, se è comprensibile completamente solo per i pochi umanisti del ‘500, viceversa rimane eloquente per tutti. Gli echi dell’opera di More non tardarono a manifestarsi presso altri umanisti del tempo, sebbene forse più come divertissement: la prima edizione del 1516 e quella definiti- 4 16 |QPS| N°3 Comparato, Utopia, p. 69. va del 1518 avevano come curatore nientemeno che lo stesso Erasmo, segno di una sua “benedizione”. A queste edizioni seguirono traduzioni in tedesco, francese, inglese, fiammingo e italiano. In Italia l’editore Anton Francesco Doni, dopo averne pubblicata un’edizione a cura di Ortensio Lando (1548), scrisse anch’egli un piccolo testo utopico dal titolo Mondi (1552). L’anno dopo venne il turno di Francesco Patrizi da Cherso con La città felice, pubblicata a Venezia. Anche Francois Rabelais allude a More nel suo Gargantua e Pantagruel (1532), quando descrive l’esagonale abbazia di Thélème che riprende anche l’immagine della Gerusalemme apocalittica di tradizione medievale. Se Rabelais, per esprimere il fermento religioso della prima metà del ‘500, attinse a piene mani dalla fonti filosofiche e politiche classiche – nonostante le feroci critiche dalla Sorbonne – l’aspirazione alla renovatio religiosa e politica da parte po- polare rimane emanazione diretta delle tensioni religiose-ereticali del tardo Medioevo. In Boemia gli Hussiti avevano teorizzato l’uguaglianza assoluta tra cristiani, da qui la loro conseguente disobbedienza alle autorità religiose. A Nikolsburg si cominciano a sperimentare comunità utopiche come quella dei Fratelli Moravi. Non deve sorprendere il fatto che queste correnti fossero ben conosciute anche al di fuori della Moravia e della Boemia: le tensioni di cui sopra avevano da secoli travalicato i confini diffondendosi in tutta Europa5. Tra il 1523 e il 1524 Thomas Müntzer diede alle stampe i suoi nove pamphlets con chiari riferimenti ad una tradizione utopica, che qui viene trasposta in quello che è stato definito come comunismo anabattista. Il millenarismo religioso, unito al profetismo, finiscono quindi per congiungersi alla storia dell’utopia sotto una visione duplice: dal punto di vista escatologico e da quello “pratico” con gli esperimenti di co- 5 Si vedano in proposito gli studi di Ottavia Niccoli, in particolare Profeti e popolo nell’Italia del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1987. munità perfetta in chiave cristiana. L’utopia come genere letterario trova quindi un terreno fertile negli ambienti riformati: il francescano Johann Eberlin, sostenitore della Riforma, inserì temi utopici nei suoi Statuti della città di Wolfaria. L’uso di questo artificio letterario, la legislazione fittizia degli statuti cittadini, risulta facilmente comprensibile a tutti e ha quindi molto successo. Anche Michael Gaismair – capo della rivolta contadina del Tirolo – utilizza questo espediente per il suo testo inedito Landesordnung (1526), che doveva essere da una parte un testamento politico e dall’altra uno scritto per spronare la popolazione alla ribellione. Sul versante della Controriforma, invece, le tendenze evangeliche, valdesiane e irenistiche, devono inevitabilmente divenire carsiche per sopravvivere. Nell’opera L’infinito di Ludovico Agostini (1582), vi è una parte utopica dedicata alla “repubblica immaginata”, ma in queste righe ciò che emerge è una malinconica rassegnazione dell’umanista dinanzi all’adesione totale allo spirito della Controriforma: pena il castigo delle istituzioni. La fine del ‘500 è segnata da guerre, epidemie e crisi agrarie, non sorprende quindi che questi eventi potessero venir letti in chiave apocalittica: la fine dei tempi era vicina, ma all’orizzonte doveva sorgere un secolo aureo. Era questa un’attesa – supportata dall’astrologia, dalla cabbala e dalle filosofie ermetiche e alchemiche – che accumunava tanto i cattolici quanto i protestanti. Tommaso Campanella stava appunto predicando l’avvento di que- sto secolo aureo quando fu arrestato per aver ordito una ribellione ai danni delle autorità spagnole. Per questo venne arrestato e condotto a Napoli, nella prigione di Castel Sant’Elmo, dove vi rimase per ventisette anni scrivendo le sue opere, tra cui La Città del Sole (1602). In questa utopia è forte l’elemento astronomico, vi è di fondo un’allusione al sistema eliocentrico copernicano: la città è infatti di forma circolare, con sette cinte murarie, ciascuna intitolata a un pianeta e la sua distribuzione, a partire dal centro, è di tipo radiale. In questo si riallaccia alla tradizione della Gerusalemme celeste. Potenza, Sapienza e Amore permeano e governano la Città del Sole mentre forte attenzione è dedicata all’educazione dei Solariani. Se il testo campanelliano era rivolto agli intellettuali dell’epoca, e suonava come un’esortazione al cambiamento, i primi anni del ‘600 registrano su questo punto sia un estremo pessimismo – come nei Ragguagli di Parnaso del Boccalini (1612), che il suo esatto contrario. A raccogliere la sfida di una comunità perfetta ci pensarono i cosiddetti Rosacroce, una fratellanza che poneva le basi della propria “utopia per illuminati” sull’esoterismo e sull’alchimia. Ne Le Nozze chimiche di Christian Rosenkreutz (1616) di Johann Valentin Andreae – testo fondante della comunità – emergono molti degli aspetti utopici di derivazione campanelliana: Cristianopoli, la città-isola dove il narratore approda, è il simbolo di una rinascita simbolica della - e nella - vita cristiana. Non a caso al centro del potere e della città è posta una chiesa. Al lato opposto si colloca il testo di Giovanni Amos Comenio Il labirinto del mondo e il paradiso del cuore (1623). Si tratta di una sorta di anti-utopia, segnata da un pessimismo sicuramente frutto delle vicissitudini subite dalla comunità dei Fratelli Boemi di cui egli fece parte. Molte delle descrizioni, infatti, dalla deposizione di Federico V, alle stragi, dalle distruzioni alle carestie che ne scaturirono, ci appaiono come una grande e lucida metafora delle tristi vicende che diedero origine alla guerra dei Trent’anni (1618-1648). Paolo Perantoni | Verona A. Baldini, Realismo e Utopia: da More a Eberlin, https://governarelapaura. unibo.it/article/download/6528/6314 V. I. Comparato, Utopia, Il Mulino, Bologna, 2005 L. Firpo, Lo stato ideale della Controriforma, Laterza, Bari, 1957 J. Servier, Storia dell’utopia. Il sogno dell’Occidente da Platone ad Aldous Huxley, Mediterranee, Roma, 2002. Nella pagina accanto | L’isola di Utopia | particolare a colori da xilografia | ed. 1550 | BNF E*-630 17 FO C U S Campanella e l’educazione dei Solari [...] s’allevan tutti in tutte l’arti. Dopo gli tre anni li fanciulli imparano la lingua e l’alfabeto nelle mura, caminando in quattro schiere; e quattro vecchi li guidano e insegnano, e poi li fan giocare e correre, per rinforzarli, e sempre scalzi e scapigli, fin alli sette anni, e li conducono nell’officine dell’arti, cosidori, pittori, orefici, ecc.; e mirano l’inclinazione. Dopo li sette anni vanno alle lezioni delle scienze naturali, tutti; ché son quattro lettori della medesima lezione, e in quattro ore tutte quattro le squadre si spediscono; perché, mentre gli altri si esercitano col corpo, o fan gli pubblici servizi, gli altri stanno alla lezione. Poi tutti si mettono alle matematiche, medicine ed altre scienze, e ci è continua disputa tra di loro e concorrenza; e quelli poi diventano offiziali di quella scienza, dove miglior profitto fanno, o di quell’arte meccanica, per- ché ognuna ha il suo capo. Ed in campagna, nei lavori e nella pastura delle bestie pur vanno a imparare; e quello è tenuto di più gran nobiltà, che più arti impara, e meglio le fa. Onde si ridono di noi, che gli artefici appellamo ignobili, e diciamo nobili quelli, che null’arte imparano e stanno oziosi e tengon in ozio e lascivia tanti servitori con roina della republica. Il brano è tratto da “La città del Sole”, opera scritta Tommaso Campanella durante la sua lunga prigionia: nel 1602, infatti, il teologo-filosofo stava scontando la lunga pena detentiva, durata ben 27 anni, inflittagli dalle autorità spagnole. Fu condannato a seguito della scoperta della congiura che tramò contro il governo spagnolo, auspicando un rinnovamento sociale e l’instaurazione di una repubblica fondata su principi filosofici. Inspirandosi alle opere La Repubblica di Platone e Utopia di Thomas More, il domenicano si servì dell’artificio di un dialogo immaginario tra un marinaio di Cristoforo Colombo e un membro dell’Ordine dei Cavalieri Ospitalieri per descrivere la sua ideale forma di governo. Come emerge dalle parole dell’autore, uno dei pilastri per il corretto funzionamento della società è l’educazione, concepita in maniera ugualitaria per maschi e femmine e aperta a tutti i membri della comunità, senza distinzioni di classi sociali. Una visione che si discosta dalla realtà di inizio Seicento, quando l’istruzione riservata ai ceti nobiliari era monopolio della Chiesa, mentre quella popolare era ancora pressoché inesistente. Il superamento della scuola nella configurazione assunta, nel corso di tutta la sua storia fino all’età umanistico-rinascimentale, come ente preposto alla formazione della classe dirigente trova, in realtà, la sua origine concettuale nella Riforma protestante, anche se il percorso che ne portò alla concreta realizzazione fu alquanto travagliato. Martin Lutero sostenne che i fedeli dovessero poter dialogare direttamente con Dio per vivere intimamente la loro esperienza religiosa, escludendo così l’intermediazione della Chiesa. L’istruzione popolare divenne quindi una condizione indispensabile per consentire l’accesso autonomo alle Sacre Scritture e perseguire la strada verso la salvezza eterna dell’anima. Nel pensiero di Lutero la scuola era dunque al servizio della religione. Comenio, teologo e pedagogista tedesco vissuto nella prima metà del Tránsito espiral | Remedios Varo | 1962 18 |QPS| N°3 19 FO C U S Seicento e considerato padre della moderna didattica, fece un ulteriore passo in avanti, assegnando alla scuola una finalità civile e sociale. Ogni uomo, in quanto figlio di Dio, aveva diritto al pieno sviluppo della propria personalità per concorrere al progresso della comunità. Rispetto a Lutero, Comenio era attento ai nuovi orientamenti scientifici; in particolare, era vicino al pensiero di Francesco Bacone, sostenitore di una cultura non libresca né accademica, ma legata all’esperienza e affidata al metodo induttivo. Ne consegue che la scuola avrebbe dovuto differenziarsi per classi per seguire le esigenze specifiche delle tappe dello sviluppo individuale. Anche Campanella condivideva un insegnamento fondato sull’intuizione e sull’esperienza diretta: nella Città del Sole i bambini dopo i tre anni sono condotti dai maestri lungo le sette mura istoriate, come a formare una grande enciclopedia che permetta loro di apprendere nozioni su matematica, geografia, storia, sul regno vegetale e animale, sui riti, gli usi e i costumi delle varie province della terra. Le raffigurazioni delle arti e delle scienze rendono le conoscenze accessibili a tutti, gra- In alto | casa della famiglia Campanella a Stilo (RC) | Tommaso Campanella ritratto da Francesco Cozza | la cella di Campanella nel monastero di Stilo 20 |QPS| N°3 zie a una visualizzazione che favorisce un apprendimento più rapido ed efficace, consentendo allo stesso tempo un approccio giocoso e spontaneo per i più piccoli. Lungo il XVII e XVIII secolo si susseguirono tentativi riformatori e nuovi sistemi scolastici che rimasero però prevalentemente solo realtà teorizzate. Almeno fino a quando il declino dell’aristocrazia di sangue a favore della progressiva ascesa economica e sociale della nobiltà di nuova toga e della borghesia incrinò definitivamente il tradizionale modello educativo. Solo allora si imposero concreti e profondi cambiamenti che interessarono, prima, le scuole secondarie, riformate nella struttura e nei piani di studio per adeguarsi alle nuove conoscenze scientifiche e tecnologiche, e, in seguito, le scuole popolari che iniziarono ad avere una stabile e significativa diffusione solo dopo la Rivoluzione Francese. L’istruzione venne infatti riconosciuta come fondamentale diritto dell’uomo e del cittadino; in parallelo, venne altresì attribuito al potere politico il dovere di renderne effettivo l’esercizio, attraverso l’istituzione di scuole pubbliche, laiche, con frequenza obbligatoria e gratuite. L’educazione non doveva essere più assoggettata ai dogmi religiosi ma resa accessibile a tutti, indipendentemente dalle differenze di classe, di sesso, di ceto di appartenenza. Nella città immaginata da Campanella i bambini dopo i sette anni sono condotti nei laboratori degli artigiani per osservare la loro inclinazione naturale. La loro futura occupazione non è dunque determinata in base a una tradizione familiare, a un sapere tramandato da padre in figlio, di generazione in generazione: ognuno è incoraggiato a sviluppare la propria attitudine. Tuttavia, qualunque sia la professione di un Solare, questi deve comunque aspirare a un sapere globale e avere conoscenze di scienze naturali, agricoltura, pastorizia e arti militari. Uomini e donne sono ugualmente addestrati alle armi e istruiti allo stesso modo, con la sola differenza che alle donne si riserva la parte fisicamente meno faticosa. Non c’è contrapposizione tra arti liberali, che storicamente hanno goduto di uno status di superiorità in quanto richiedevano un’applicazione intellettuale, e arti meccaniche, che al contrario erano considerate inferiori vista la loro connotazione manuale. Per i Solari nessuna attività è vile; ritengono spregevole solo l’ozio, riabilitando così la dignità stessa del lavoro. L’inattività si ripercuoterebbe sugli altri membri della comunità: solo un’equa suddivisione del lavoro permette agli adulti di lavorare quattro ore al giorno, in modo da riservare il tempo rimanente allo studio e alla meditazione. Ma la modernità fin qui dimostrata dal pensiero di Campanella degenerò in utopia quando si avvicinò all’eugenetica, controversa teoria mirante ad ottenere un miglioramento della specie umana, attraverso le generazioni, distinguendo i caratteri ereditari in favorevoli e sfavorevoli. Secondo lui, il solo apprendimento, seppur senza fine, non è sufficiente a garantire funzionari e governanti all’altezza del ruolo da ricoprire e adeguatamente preparati per guidare con intelligenza e saggezza la società. Per questo teorizzò un concepimento controllato, in modo da selezionare gli individui portatori delle migliori caratteristiche psicofisiche e impedire la riproduzione fra coloro che erano ritenuti meno adatti. Pensiero comune anche a Platone, che raccomandò il matrimonio soltanto ai “migliori”, evitando il proliferare di unioni tra esseri inferiori. Quest’idea nasce dalla concezione che il corpo non sia “proprietà privata”, di cui si può disporre liberamente, ma un bene pubblico al servizio dello Stato: compito di ognuno è partecipare alla prosperità della comunità, seguendo le leggi dell’eu-ghènos, sviluppando le qualità innate di una razza. Distorte interpretazioni dei meccanismi di trasmissione ereditaria si ripresenteranno anche nei secoli successivi, servendo come alibi per giustificare gli eccidi razziali compiuti dai diversi regimi dittatoriali come avvenne nella Germania hitleriana. T. Campanella, La Città del Sole, a cura di A. Savinio, Adelphi, Milano 1995. T. Campanella, La Città del Sole, a cura di L. Firpo, Laterza, Bari,1997. R.Tassi, Origini e sviluppo della scuola popolare dal XVI al XVIII secolo. http://online.scuola.zanichelli.it/itineraripedagogici4e/files/2009/08/1-origini-e-sviluppo-della-scuola-popolare.pdf Alessia Pirola | Milano Nella città immaginata da Campanella i bambini dopo i sette anni sono condotti nei laboratori degli artigiani per osservare la loro inclinazione naturale [...] ognuno è incoraggiato a sviluppare la propria attitudine. L’isola di Taprobana | dove sorge la Città del Sole | si tratta probabilmente dell’isola di Sumatra o Ceylon 21 DOSSIER Utopia tra scienza e uguaglianza Nel corso del Seicento una nuova linfa per la trattazione utopica arriva dalla scienza. Come ha giustamente sottolineato Massimo Cacciari, l’utopia svolge un ruolo chiave all’interno del legame tra la scienza e la politica1. Ogni utopia, infatti, è scientifico-politica, perché la promessa di liberazione deriva dalla forza liberatrice della scienza, la quale proietta la sua “immagine utopica” sul mondo. Ecco allora che nel Somnium (1634) l’astronomo Keplero si serve del viaggio utopico per parlare di astronomia lunare, creando una nuova tradizione di viaggi lunari che si discosta dal racconto fantastico, come poteva essere quello dell’Orlando furioso dell’Ariosto, per divenire racconto scientifico. Da lì in poi vi sarà una netta divaricazione tra utopia e finzione scientifica. La Scienza è alla base anche della Nuova Atlantide (1627) di Francis Bacon, il quale le affida il difficile ruolo di essere strumento per il mi- 1 22 |QPS| N°3 M. Cacciari, in Occidente senza utopie. glioramento umano e sociale nel suo modello di società utopica di stampo fortemente conservatore. Di matrice diversa è il The man in the Moon (1638) di Francis Godwin, dove l’autore gioca con il modello utopico, ora per introdurre concetti scientifico-astronomici, ora per comparare uomini e lunari. Meritano attenzione, invece, due opere poco note di Cyrano de Bergerac, L’autre monde ou les étas et empires de la Lune (1657) e Les états et empires du Soleil (1662). Si tratta di due viaggi immaginari secondo il modello che conosciamo, ma la tecnica che li accomuna è quella del mondo alla rovescia, in particolare nel primo. Sulla Luna, infatti, tutto funziona all’inverso rispetto alla Terra; il terrestre è visto dai lunari come una scimmia, e ogni costume terrestre viene riportato sagacemente all’inverso, ma senza essere corretto: sulla Luna permangono le guerre, la nobiltà, i preti e i giudici. Anche una società perfetta, sembra dire Cyra- no, non è che un riflesso, un’illusione. Il successo dei racconti delle scoperte scientifiche e geografiche dà nuovo materiale per l’immaginazione degli scrittori utopici. Il Nuovo Mondo e l’Oriente sono ambientazioni perfette dove mettere in scena la propria narrazione, proprio perché “altre” rispetto all’Europa. Scrittori come Samuel Sorbière, Gabriel de Foigny, Veiras d’Allais e tanti altri libertini – o comunque vicini al libertinismo - sfruttano il modello utopico fondendolo alla narrazione realista del racconto di viaggio, allo scopo di esternare una domanda di libertà che non trova risposta nel loro mondo. Il tutto unito a un pessimismo di fondo frutto della consapevolezza di non poter cambiare le cose nella propria società. Questo pessimismo è comune anche a Jonathan Swift e al suo famoso romanzo I viaggi di Gulliver (1725). Come More, Swift usa il modello letterario del viaggio utopico per prendersela con i costumi della sua epoca, d’altronde pubblica il romanzo sotto pseudonimo. Quando Gulliver arriva a Lilliput, ad esempio, la descrizione delle leggi lillipuziane è usata in antitesi a quelle inglesi. A Brobdignag, Gulliver è chiamato a dar conto del sistema politico inglese che viene stroncato dai nativi; ancora, a Laputa, è la volta di intellettuali e scienziati ad essere ferocemente criticati dall’autore inglese. Con Swift non siamo più in un mondo u-topico, ma varchiamo i cancelli di quello dis-topico. Se i libertini francesi poco o per nulla si interessano dell’aspetto politico, preferendo il dibattito su costu- J. Kepler | autore ignoto | olio su tela | 1610 23 DOSSIER mi e religione, nel 1656, in Inghilterra, James Harrington dà alle stampe, con una dedica a Cromwell, The Commonwealth of Oceana. Si tratta di un’utopia che poggia la sua trattazione sull’elogio della forma politica della repubblica, a sua volta strutturata sul modello veneziano, che l’autore aveva avuto modo di studiare durante i suoi viaggi. Centrale nella sua trattazione è la distribuzione della proprietà: laddove essa risieda nelle mani di molti, lì vi è una repubblica democratica. Come ha ben osservato Comparato, Harrington declina un’utopia che si fonda su una sorta di equal commonwealth, 2 24 |QPS| N°3 I. Comparato, Utopia, cit., p. 142. dove proprietà e potere politico sono perfettamente bilanciati2; l’autore inglese espone il proprio pensiero in maniera asciutta e schematica, non lasciando spazio alla componente narrativa dell’utopia. Il modello politico di Oceana doveva essere, nelle intenzioni dell’autore, una sintesi di tutti i modelli repubblicani classici, con una spiccata propensione alla democrazia, ma la modalità di accesso alle cariche repubblicane – sul modello veneziano – era impossibilitata al popolo. Conclusasi l’esperienza della rivoluzione inglese, il fulcro delle narrazioni utopiche si sposta nel- la Francia di Luigi XIV: la diaspora ugonotta, seguita alla revoca dell’Editto di Nantes (1685), crea le condizioni per cui uno sparuto gruppo di uomini, come Francois Leguat, potesse provare a fondare una propria società utopica in un’isola dell’arcipelago delle Mascarene. L’esperimento utopico fallisce dopo appena due anni, anche per la mancanza di donne, ma non impedisce a Leguat, nel 1708, di dare alle stampe il proprio resoconto di questo viaggio-esperimento, dove descrive la comunità cristiana instauratasi nell’isola di Diego Rodriguez come una sorta di Eden ritrovato. Anche il barone di Lahontan qualche anno prima aveva pubblicato nei suoi Dialogues (1703) una descrizione del popolo degli Huroni in antitesi con il modello occidentale: la proprietà privata non esiste e la mancanza di comodità è supportata da una ricchezza morale nei costumi, in una saggia combinazione di libertà, eguaglianza e fraternità. La capacità plastica del modello utopico si presta molto bene, come abbiamo visto, alla critica della società civile, e nel Settecento pare quasi che gli intellettuali francesi si mettano a vagliarne e criticarne ogni aspetto. Si diffondono così molte scritture utopiche razionali, scevre – si capisce – della componente millenaristica che permeava quelle classiche. Il Testament di Jean Meslier, molto apprezzato da Voltaire, circolò a lungo solo in forma manoscritta per sfuggire alla censura e all’opposizione del re Sole. Nel testo la teoria libertina dell’impostura delle religioni si fonde con sentimenti anti- In alto | Gulliver a Lilliput | J. Swift | Travels into Several Remote Nations of the World | illustrazione di L. Rhead | Harper Brothers | 1913 tirannici: le imposture e le religioni, per Meslier, non sono altro che uno strumento della tirannia – ecclesiastica e millenaria – per soggiogare il popolo. Disparità sociale, classi inutili, risorse nelle mani di pochi, separazione in odiose casate, matrimoni indissolubili e infine i grandi potenti, sono per Meslier i principali mali che affliggono la società, contrastabili solo attraverso un ritorno genuino alla Natura. L’uguaglianza, punto cardine di tutte le utopie, era cara anche al filosofo Léger Marie Deschamps che mise in piedi un modello utopico definito Vray sistème – diffuso tra i maggiori filosofi del tempo solo attraverso lettere manoscritte – dove viene conservata la religione in quanto per l’uomo è impossibile tornare allo stato di Natura. Una società utopica basata sull’eguaglianza è possibile, dice Deschamps, ma occorre che gli uomini siano iniziati, ovvero illuminati. Un altro filosofo a loro coevo, Étienne-Gabriel Morelly, vede nel desiderio di possedere il vero problema dell’uomo e auspica che un sovrano illuminato possa rimuovere tutti gli impedimenti affinché si realizzi una società equa, in cui saggi e legislatori possano aiutare nella realizzazione dell’opera, attraverso il contributo fondamentale dell’educazione. Sebbene il termine utopia non comparisse nell’edizione dell’Encyclopédie, Diderot, che aveva letto il Vray sistème di Deschamps ne scriverà due: la prima per Caterina II di Russia e l’altra collegata al viaggio intorno al mondo di Bougainville. Nel testo per la zarina, Diderot in- dica nell’esempio di vita di alcuni uomini veramente liberi il perno per rendere libero un intero popolo, mentre nel secondo elogia la società tahitiana in antitesi con quella europea. L’utopia pervade non solo la filosofia francese ma pure la letteratura: se Restif individua nella campagna il modello ideale della propria idea di società, per il marchese de Sade non esiste un modello applicabile per redimere l’uomo dal vizio delle sue passioni. Negli stessi anni nasce anche l’ucronia, grazie all’intuizione del commediografo Louis-Sébastien Mer- cier che scrive nel 1770 L’an deux mille quatre cent quarante. Il protagonista si risveglia dopo 670 anni in una Parigi profondamente cambiata dove convivono la libertà di stampa di Voltaire e la riforma penale di Beccaria, il riconoscimento sociale degli intellettuali e i principi economici dei fisiocraci. In questi anni mutua l’idea stessa di tempo: nel Settecento si corre verso il progresso, ovvero verso un futuro atteso come accrescimento del benessere e delle condizioni di vita nelle società umane. Scienza e Arti, in mano a un’illuminata élite di sapienti, avrebbero potuto creare una In alto | L.S. Mercier | L’an 2440 | frontespizio | London |1772 25 DOSSIER 26 |QPS| N°3 società finalmente matura, libera e armonica. La stessa urbanistica della Parigi ucronica di Mercier è significativa: essa è infatti modellata sulla base dei criteri igienici suggeriti dai progressi scientifici del ‘700, con ampie strade, viali alberati e ospedali fuori dal centro, la Bastiglia è stata sostituita da un palazzo dedicato alla Clemenza. I tempi sono ormai maturi per un mutamento radicale dell’idea stessa di utopia, da mera immagine di “società altra” a “progetto realizzabile”, dove l’uguaglianza si sarebbe potuta realizzare attraverso una legislazione illuminata e un’educazione ad hoc. L’apertura di quella fase rivoluzionaria così importante non solo per le sorti della Francia ma anche del mondo occidentale, ha il merito di aver superato quel limite tra immaginazione utopica e sua realizzazione. Tutte le utopie, ha affermato Bronislaw Baczko, s’impongono come immagini guida che orientano le forze e le speranze collettive quando si apre una fase rivoluzionaria, riuscendo, alle volte, ad imporre i sogni sociali alla rivoluzione stessa3. È in questo clima che Gracchus Babeuf può scrivere in una lettera a Coupé de l’Oise che il compimento del programma egualitario può avvenire attraverso la legislazione, anzi, che ne è fine e coronamento (1791). Sei anni più tardi, il Manifesto degli eguali, sebbene per gli scriventi possa ancora essere realizzabile, è tornato ad essere un’utopia. Se non nella forma lo è nel linguaggio: basti pensare all’invito ai francesi ad aprire gli occhi e il cuore alla felicità, allo scopo ultimo di riconoscere e proclamare la Repubblica degli Eguali4. Per Babeuf la rivoluzione francese non è che l’inizio, deve ancora compiersi la vera rivoluzione, che abolisca definitivamente la proprietà privata e renda tutti uguali. Oramai la strada è spianata perché Henri de Saint-Simon possa conce- pire la propria idea di “socialismo utopistico”. 3 4 In alto | N. Raguenet | Le Pont-Neuf et la Pompe de la Samaritaine, vu du quai de la Mégisserie | 1750-1760 | Paris | Musée Carnavalet B. Baczko, in L’utopia. Il manifesto è consultabile al seguente link | https://digilander.libero.it/education/dati_box/STO_2/BABEUF.pdf Paolo Perantoni | Verona M. Cacciari, P. Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna, 2016. V. I. Comparato, Utopia, Il Mulino, Bologna, 2005 B. Baczko, L’utopia. Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell’età dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1979 G. Babeuf in | L. Gallois | Histoire des journaux et des journalistes de la révolution française, Paris | Bureau de la Société de l’industrie fraternelle | 1846 27 DOSSIER Il socialismo utopistico per Marx e Engels Il termine “socialismo utopistico” fece il suo debutto nel 1837, con la Storia dell’economia politica in Europa dell’economista francese Jérôme-Adolphe Blanqui: tuttavia, solo dopo la pubblicazione del Manifesto del partito comunista (1848), ed in maniera definitiva con l’opuscolo di Engels L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (1880), l’espressione “socialismo utopistico” divenne una categoria storiografica. Alcuni di questi “utopisti”, come Henri de Saint-Simon, Charles Fourier e Robert Owen, rivolsero il loro sguardo soprattutto alla società civile, prospettandone una radicale trasformazione sociale. Altri, come Babeuf e Filippo Buonarroti, al fine di realizzare tale trasformazione, ritennero più opportuno tentare la conquista del potere politico con la forza. Furono soprattutto i primi ad approfondire l’aspetto teorico delle proprie proposte. HENRI DE SAINT-SIMON Aristocratico di antico lignaggio, Henri de Saint-Simon ebbe modo di vedere con i propri occhi il grande sconvolgimento provocato dalla Rivoluzione francese. Per il nobile francese l’antagonismo fra il Terzo Stato e la coppia clero/nobiltà (gli Stati “privilegiati”) prese la forma di uno scontro fra “lavoratori” e “oziosi”. Questi ultimi, oltre agli antichi privilegiati, erano tutti coloro che vivevano di rendita senza partecipare alla produzione e al commercio: una classe di parassiti che, nonostante avesse perduto qualsiasi funzione sociale, conservava una posizione di egemonia. Gli “oziosi”, dunque, avevano perso la loro capacità nella direzione spirituale e nel dominio politico: la Rivoluzione francese sancì, emblematicamente, questa che per Saint-Simon era un’ovvietà. Nonostante ciò i nullatenenti, che con il loro dominio caratterizzarono il periodo del Terrore, dimostrarono di non avere quelle capacità che la classe oziosa aveva smarrito. Per Saint-Simon era dunque giunto il momento che la scienza e l’industria prendessero in mano le redini della società. L’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert aveva definitivamente distrutto il sapere dell’epoca “teologico-feudale”; una nuova enciclopedia sarebbe diventata la base di una rinnovata società fondata sull’industria. Sebbene all’epoca la Francia non fosse ancora completamente implicata all’interno dei meccanismi della rivoluzione industriale, già nel 1817 Saint-Simon poteva dichiarare che “lo stato di cose più favorevole all’industria è il più favorevole alla società”. Gli scienziati sarebbero stati i costruttori e i portatori di un nuovo sistema di credenze fondato sui metodi delle scienze positive, ed essendo la scienza universale per definizione, la nuova società industriale fondata su di essa avrebbe avuto anch’essa i caratteri dell’universalità, ossia, sarebbe stata propria dell’umanità intera. Una nuova società, caratterizzata da un progresso inesorabile, senza violente ondate rivoluzionarie. CHARLES FOURIER Ricordato soprattutto per il suo falansterio (edificio economicamente e socialmente autosufficiente), l’obiettivo perseguito da Charles Fourier, già dal suo primo trattato del 1808, Teoria dei quattro movimenti, era, come quello di Saint-Simon, la riorganizzazione della società su nuove basi, senza approdare ad alcuna rottura rivoluzionaria. Marx e Engels | Statua di bronzo | Marx-Engels-Forum Berlino 28 |QPS| N°3 29 DOSSIER ROBERT OWEN Per Fourier ogni progetto di vita e di coesistenza umana doveva trovare nell’uguaglianza e nella solidarietà i suoi primi presupposti. L’utopista francese seppe immaginare e descrivere una società antiautoritaria non solo nel lavoro e nell’educazione, ma addirittura nella vita erotica. In confronto ad una società degenerata, in cui regnavano miseria e frode, la natura, per Fourier, rappresentava un felice e positivo approdo, dove tutte le passioni proprie della natura umana, come l’amore per la ricchezza (a cui si collega strettamente l’ambito lavorativo) e l’amore per i piaceri (legato ai rapporti sessuali), potevano essere soddisfatte. Tali inclinazioni innate degli esseri umani, tuttavia, furono regolarmente represse dalla società, impedendo così il raggiungimento Charles Fourier | incisione 30 |QPS| N°3 di un’organizzazione armonica della stessa. Il lavoro, per Fourier, doveva essere suddiviso in differenti funzioni, esercitate da individui differenti secondo le loro attrazioni passionali. Diversi gruppi si sarebbero formati in base alla convergenza delle passioni individuali, in modo da evitare ogni conflitto e favorire, al tempo stesso, la cooperazione. Accanto all’uguaglianza sociale si ritrova, in Fourier, un evidente spirito libertario. Forte fu la sua critica della forma borghese dei rapporti sessuali e della posizione della donna nella società borghese: in una data società, il grado di emancipazione della donna avrebbe dovuto divenire il metro naturale dell’emancipazione generale. Nei suoi falansteri poteva trovare compimento un’effettiva e compiuta liberazione sessuale. L’Inghilterra, durante il periodo rivoluzionario francese, fu attraversata da importanti cambiamenti. Il vapore ed i nuovi macchinari mutarono la vecchia manifattura in sistema industriale, dando vita ad un imponente sviluppo della produzione, che generò, inevitabilmente, nuovi e acuti conflitti sociali. Delle mutate condizioni degli operai incominciò ad occuparsi Robert Owen, un giovane industriale con notevoli capacità direttive. Appena ventenne, nel 1791 diresse una delle più grandi filande del Lancashire (dove lavoravano cinquecento operai), mentre tra il 1800 e il 1829 a New Lanark, in Scozia, era intento a trasformare una popolazione di 2.500 unità in una perfetta colonia modello, introducendovi importanti novità nell’organizzazione del lavoro. Mentre i suoi concorrenti facevano lavorare i propri operai tredici o quattordici ore al giorno, a New Lanark si lavorava “solo” dieci ore e mezza. Il valore dello stabilimento, nonostante tale politica, raddoppiò, ed i profitti eccedenti vennero trasformati da Owen in servizi sociali a favore dei lavoratori della fabbrica. Egli sostenne che “senza tale nuova ricchezza creata dalle macchine non si sarebbero potute far le guerre contro Napoleone a difesa della società aristocratica. Ma tale nuova potenza fu creata dalla classe operaia” e, dunque, alla classe operaia dovevano appartenere i frutti di questa nuova potenza industriale. Owen sperimentò un modello di società industriale dove i lavoratori e le loro famiglie potessero essere sani, felici del loro lavoro, ben retribuiti e, soprattutto, partecipi della comunità. L’industria sarebbe divenuta così un tramite per la crescita culturale e morale della classe operaia senza il bisogno della “lotta tra proletariato e borghesia”. Owen fu senza dubbio fondamentale per permettere la diffusione del socialismo all’interno del contesto inglese, ma non solo: senza di lui non sarebbero iniziate l’esplorazione e la diagnosi del modo di produzione industriale, delle condizioni di vita e di salute dei lavoratori, nella speranza di creare un nuovo sistema produttivo, maggiormente vivibile rispetto a quello formatosi nella fase embrionale della rivoluzione industriale inglese. IL SOCIALISMO UTOPISTICO A PROCESSO “I primi tentativi fatti dal proletariato per far valere i suoi interessi di classe (…) dovevano di necessità fallire, sia per la condizione poco sviluppata del proletariato stesso, sia per la mancanza delle condizioni materiali della sua emancipazione che sono un risultato solamente dell’epoca borghese” Nel Manifesto del partito comunista, Marx e Engel seppero riconoscere a Saint-Simon, Fourier e Owen di aver saputo individuare “l’opposizione delle classi, e anche l’azione dell’elemento dissolvente nella società dominante”. D’altra parte, essi non seppero scorgere, per quanto riguardava il proletariato, “nessuna azione storica, nessun movimento politico che gli sia proprio”. Dato il parallelo sviluppo dell’antagonismo di classe con la crescita dell’industria, “gli autori di quei sistemi, non trovando già date le condizioni materiali per l’emancipazione del proletariato, vanno alla ricerca di una scienza sociale, o di leggi sociali, per creare quelle condizioni che ancora non esistono”. La personale “attività inventiva” dei socialisti utopisti avrebbe sostituito l’attività sociale, “l’organizzazione del proletariato in classe”. Volendo migliorare la situazione di tutti i membri della società, essi vi compresero anche quella delle persone che vivevano nelle condizioni più vantaggiose. Per Marx e Engels, dunque, gli utopisti, richiamandosi continuamente all’intera società, senza fare differenze, e anzi appellandosi principalmente alla classe dominante, era “naturalmente” destinati al fallimento. “L’importanza del socialismo e del comunismo utopistici sta in rapporto inverso con lo sviluppo storico. Nella misura in cui la lotta di classe si sviluppa e si precisa, questo fantastico disegno di lotta, questa fantastica opposizione alla lotta stessa, perde ogni valore pratico ed ogni giustificazione teorica. Perciò mentre gli autori di questi sistemi erano per molti aspetti dei rivoluzionari, i loro scolari formano sempre delle sette reazionarie. Questi scolari si attengono alle opinioni dei maestri anche in opposizione allo sviluppo stori- Robert Owen | incisione 31 DOSSIER co del proletariato, e cercano di conseguenza di smussare il contrasto di classe e di conciliare gli antagonismi. Sognano sempre la realizzazione sperimentale delle loro utopie sociali […] e per costruire questi castelli in aria devono fare appello alla filantropia dei cuori e delle tasche borghesi.” Engels, nel suo L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, affermò che la “forma teorica del socialismo moderno” apparve, inizialmente, come una “radicale e rigorosa prosecuzione dei princìpi sostenuti dai grandi illuministi francesi del XVIII secolo”. Come ogni nuova teoria, il socialismo dovette ricollegarsi al sistema di idee preesistente. “Ora finalmente sorgeva la luce Stabilimenti | New Lanark | Scozia 32 |QPS| N°3 della Ragione; d’ora in poi la superstizione, l’ingiustizia, il privilegio e l’oppressione sarebbero stati elisi dalla verità eterna, dalla giustizia eterna, dall’uguaglianza fondata sulla natura, dagli inalienabili diritti umani.” Questo “Regno della Ragione” ipotizzato dagli utopisti fu, per Engels, unicamente “il regno della borghesia idealizzato”. Come i loro predecessori, i grandi pensatori settecenteschi non poterono oltrepassare i limiti imposti loro dalla loro stessa epoca. La realizzazione delle istanze socialistiche non poteva, dunque, passare attraverso modelli precostruiti. Jacopo Bernardini | Torino F. Engels, K. Marx, Manifesto del Partito Comunista, Laterza, Bari,1999 F. Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, Editori Riuniti, Milano, 1970 C. Fourier, Teoria dei quattro movimenti; il nuovo mondo amoroso, Einaudi, Torino, 1971 http://www.falsopiano.com/ fourier%20per%20stampa%20def.pdf http://temi.repubblica.it/ micromega-online/lutopia-di-owen-quel-socialismo-che-abbiamo-smarrito/ Pagina del manoscritto del Manifesto | 1847 | Internationaal Institut Voor Sociale Geschiedenis | Amsterdam Archief Marx - Engels | inventarisnummer A 22 33 DOSSIER to senso, sociale. La paura dell’androide da R.U.R a Westworld He wanted to become a sort of scientific substitute for God. […] His sole purpose was nothing more nor less than to prove that God was no longer necessary. The human machine, Miss Glory, was terribly imperfect. It had to be removed sooner or later. R.U.R., Karel Capek Chiudete gli occhi e immaginate un robot. Riapriteli. Se siete onesti e non vi piace complicarvi la vita, con ogni probabilità avete visualizzato, più o meno inconsciamente, l’uomo di latta de Il meraviglioso mago di Oz. Corpo di metallo e niente sentimenti, il boscaiolo arrugginito che L. Frank Baum ha immaginato nel 1900 sarebbe un degno, nonché ante-litteram, rappresentante della categoria; eppure abita un altro emisfero narrativo. A differenza dei suoi successori a) non è meccanizzato e b) diventa di latta per intercessione magica, a seguito di una maledizione. Sta ai cyborg come le sfere di cristallo ai satelliti del meteo, e nella famosa strada di mattoni gialli che lo conduce all’umanità non c’è tecnologia né futuro. La fantascienza ha ben poche ragioni per rivendicarlo. Un altro aspetto che distanzia l’uomo di latta e alcuni suoi predecessori (Galatea, statua di Pigmalione, gli omuncoli nella Storia filosofica dei futuri di Ippolito Nievo e Olimpia, la ragazza di legno in Der Sandmann di E.T.A. Hoffmann) dal robot per come lo intendiamo oggi è la totale assenza di minacciosità. La stessa parola robot – dal ceco robota, che significa più o meno lavoro forzato1 – si affaccia per la prima volta, almeno con la sua attuale definizione, nell’opera teatrale del 1920 R.U.R. (Rossum’s Universal Robots), scritta da Karel Capek (1890-1938), che inaugura il tema della ribellione degli androidi, problematizzandone la questione etica ma anche, in un cer- What sort of worker do you think is the best from a practical point of view? […] the one that is the cheapest. The one whose requirements are the smallest. Young Rossum invented a worker with the minimum amount of requirements. He had to simplify him. He rejected everything that did not contribute directly to the progress of work!–– everything that makes man more expensive. In fact, he rejected man and made the Robot. […] the Robots are not people. Mechanically they are more perfect than we are, they have an enormously developed intelligence, but they have no soul2. Capek, nell’epoca delle catene di montaggio, collega gli «esseri ausiliari»3 alla disumanizzazione delle industrie e del capitalismo. Ma quello dell’automa ribelle è un tema antico e profondo, che arriva prima dei robot e che non sempre può essere osservato con la lente della politica o dell’attualità. Da Talo (la statua bronzea custode di Creta) al Golem, passando per il mostro di Frankenstein (non a caso Il moderno Prometeo) con cui, secondo alcuni, nasce nel 1818 la fantascienza4, tutte le creature umanoidi e tutti i creatori hanno in comune la paura primigenia del senso di colpa: ho generato qualcosa e quel qualcosa mi si ritorcerà contro, perché – e lo sapevo – non avrei dovuto: ora la sua ribellione sarà il mio castigo. Creare, si sa, non è un verbo che l’uomo, da prima di Cristo, possa Rossum’s Universal Robots (R.U.R.) | Sam Chivers | poster | Black Dragon Press | London 34 |QPS| N°3 35 DOSSIER usare con leggerezza. Dalla teogonia alla tragedia classica, il tema della hybris è spesso passato dalla creazione – o in ogni caso dallo scavalcare, nei campi di loro competenza, gli dei: l’uomo non può ri-fare gli uomini, non può sfidare Atena in una gara di tessitura (vedi il mito di Aracne) e, più in generale, non può produrre alla maniera dei numi. Lo studioso Riccardo Campa, in un suo articolo a proposito di Storia filosofica dei secoli futuri di Ippolito Nievo, lo spiega molto bene: “Nievo considera la creazione del robot come la più grande conquista scientifico-tecnologica della storia. L’uomo che crea l’uomo, l’uomo che replica se stesso, è in effetti il limite a cui tende l’immaginario prometeico. Prometeo, dopo aver creato l’uomo, gli fornisce l’arma per rivaleggia- Una scena teatrale di R.U.R. | Praga |1922 36 |QPS| N°3 re con gli dei, ovvero l’intelligenza scientifico-tecnologica, ma l’uomo resta un essere creato, resta cioè un essere che dipende in senso genetico dagli dei. La creazione dell’uomo da parte dell’uomo rappresenterebbe quindi una sorta di uso limite dell’intelligenza tecnologica, un uso che – almeno a livello simbolico – affrancherebbe definitivamente gli uomini dagli dei, o addirittura li renderebbe simili agli dei”5. Tale tabù è sopravvissuto persino alla religione dei Santi e dei miracoli, il Cristianesimo, che non a caso ricollega la nascita a una forma di peccato da scontare – da cui sono esentati solo Dio padre, ingenerato, e Gesù, “generato, non creato”– e che gestisce la resurrezione di Lazzaro, presente solo nel Vangelo di Giovanni6, senza troppo clamore: dopo un’altra, fugace apparizione, il personaggio (venerato come Santo dalla Chiesa Cattolica), scompare. Ma quale paura porta con sé questa surrogazione umana, questo gesto autarchico di costruire, o a volte ridare, la vita? Perché sta alla base della fantascienza e come mai ha un’eco dolce soltanto nelle storie di Pinocchio e Astroboy, le cui manifatture hanno comunque dell’inquietante? Lo scrittore Alessandro Defilippi, in un recente articolo per “La Stampa”7, ha provato a rispondere alla stessa domanda citando Borges: «Gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini», scriveva l’autore argentino in Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, del 19408. In un secondo richiamo all’argomento, virgolettato anche nel racconto, sostituisce il sesso con la paternità: “gli specchi e la paternità sono abominevoli […], perché lo moltiplicano e lo divulgano”. E ancora, nell’arcinoto La Biblioteca di Babele (1941): «L’ordine inferiore è uno specchio dell’ordine superiore; le forme della terra corrispondono alle forme del cielo; le macchie della pelle sono una carta delle costellazioni incorruttibili; Giuda rispecchiava in qualche modo Gesù»9. Non c’è condanna, in Borges, per questo riflesso del figlio di Dio. Non c’è condanna, in generale, per il doppio: è la matrice ad essere pericolosa. Il timore sta tutto qui: che la creatura, a volte innocente (Frankenstein) a volte più intelligente (HAL 9000), sicuramente meno inibita, liberi le ombre del creatore. Alcune opere, poi, ne fanno una questione di generazione, di doppia riproducibilità, e cioè: la mia creazione mi dominerà solo quando sarà capace di creare a sua volta. Dal recentissimo Blade Runner 2049, séguito diretto da Denis Villeneuve del capolavoro di Ridley Scott, andando a ritroso fino a Demon Seed – Generazione Proteus, sottovalutato film di Donald Cammell del ’77, in cui una casa domotica cerca (con successo) di mettere incinta Julie Christie, il tema del robot che riesce a riprodursi alla maniera dei mammiferi si è affacciato raramente ma con coraggio, pronto a scontrarsi con gli ultimi baluardi della sospensione d’incredulità. Libera dalle perplessità della massa, l’idea trova molto più spazio nei fumetti o negli anime. Nella serie Dragonball il bellissimo androide C-18 sposa un umano e genera una figlia. Ma in questo caso sia i timori che le connotazioni filosofiche scarseggiano, e la morale è semplice: l’amore e le sfere del drago (alias: l’intercessione divina) risolvono ogni cosa. Dalle origini a oggi, comunque, il tipo di paura che accompagna il dittico uomo/macchina ha avuto mutazioni lievissime, se non impercettibili. Complice anche l’unico aspetto già scritto del nostro futuro (si guardi al lavoro di Hiroshi Ishiguro, o alla nascita delle automobili a guida autonoma), per nulla diverso da ciò che Thea von Harbou e Fritz Lang hanno reso icona nel 1927, con Metropolis, il rapporto coi (o il timore dei) robot nella storia del cinema e della letteratura sarebbe riassumibile, oggi, con un’infografica brevissima: da R.U.R. al già citato Blade Runner 2049 tutti gli androi- di si sono ribellati, per ragioni più o meno condivisibili, al proprio creatore. Isaac Asimov, Philip K. Dick, Terminator e il bambino di A.I. Intelligenza Artificiale sono autori e protagonisti di una stessa distopia: ci faremo conquistare dal nostro lato peggiore, quello sorto nella modernità e ben riflesso nel metallo delle macchine. C’è un altro aspetto immutato, nella storia della paura dell’androide: la condizione di sudditanza. Ogniqualvolta si descriva il filone si parla, infatti, di “Ribellione della macchina”, il cosiddetto – e probabilmente più corretto – AI takeover10, che letteralmente descrive uno scenario in cui le intelligenze artificiali prendono il posto dell’uomo, subentrano ad esso: una rivoluzione. Il sospetto, a questo punto, sor- gerebbe legittimo: che i robot non siano altro che una cripto-classe disagiata, e lo scenario fantascientifico in cui si ribellano all’uomo la reiterazione (o sublimazione) a) dell’incubo di un nuovo ordine mondiale dominato dagli oppressi, b) del sogno di un comunismo realizzato e quindi nient’altro che c) un sovvertimento futuristico della condizione delle classi? Ovvio che sì, l’umanoide di Capek vuole essere, più o meno deliberatamente, «uno strumento per raccontare l’orrore nei confronti dell’era della meccanizzazione di massa e i suoi effetti sull’umanità» , non a caso in Europa, a Praga, negli anni ’20; è una metafora del proletario, niente di più chiaro. Il punto è un altro: c’è ancora bisogno di temerne la rivoluzione? O meglio, è ancora questo che fa davvero paura Due scene tratte da | Blade Runner 2049 | Denis Villeneuve | 2017 37 DOSSIER a chi scrive, racconta, dirige e disegna storie con gli androidi che, inevitabilmente, finiscono per uccidere il padre? Veniamo a Westworld, la serie prodotta da HBO sulla base di un film omonimo scritto e diretto da Micheal Crichton nel 1973, in Italia uscito come Il mondo dei robot. È un successo mondiale di critica e pubblico, un prodotto ritenuto un “chillingly provocative”12, “unusually intelligent”13 e “undeniably exciting journey”14. Eppure ha il soggetto di un film degli anni ’70, racconta una paura degli anni ’70 e, in linea di massima, degli anni ’70 ha anche il feticismo esotico per i mondi, quindi i generi, in questo caso il West e il Western (e, dalla seconda stagione, il Giappone del periodo Edo e l’Impero anglo-indiano): cosa resta, dunque, di provocatorio e inusuale? Che paura racconta, quale angoscia contemporanea intercetta? Si potrebbe rispondere con una prima ma attenta im- Westworld | poster di lancio | 2 ottobre 2016 38 |QPS| N°3 pressione, e cioè che di nuovo non c’è niente, e che il successo e la buona riuscita si devono alla perfezione formale, all’ottima recitazione, a uno sceneggiatore tra i migliori in circolazione (Jonathan Nolan, fratello di Cristopher, che ha ideato il progetto con sua moglie Lisa Joy) e a un intelligente battage pubblicitario. E sarebbe tutto vero, sì; ma di un vero parziale e vagamente presbite. Da sempre, come abbiamo visto, siamo abituati a leggere il rapporto tra uomo e androide come un servizio che diventa rischio, con l’uomo che si serve della macchina e quella che, per acquisizione di coscienza o per malfunzionamento, interrompe il rapporto di sottomissione. La scintilla che dà il via al processo, il turning point, varia di storia in storia, ma perlopiù ha a che fare con un sentimento: l’amore, gli ideali, la bramosia di potere. Insomma, per compiere la sua ribellione, l’androide deve sfiorare l’umanità, se non farsi uomo del tutto. Ma come av- viene questo processo? Fisicamente non è contemplata, se non in casi di inventiva parossistica. Nelle Avventure di Pinocchio serve l’aiuto magico, mentre il computer di Generazione Proteus aveva già i filamenti di RNA al posto del silicio a comporgli le unità di calcolo. Più in generale, però, possiamo affermare che l’androide viene considerato umano quando sviluppa memoria ed etica. Una memoria anche ereditata e riproducibile, intendiamoci; i suoi ricordi possono essere falsi, l’importante è che generino vere emozioni. In Blade Runner 2049 il personaggio di Ryan Gosling è consapevole di avere in sé ricordi artificiali, creati in laboratorio dalla dottoressa Stelline, ma comprende anche che non è tanto la veridicità di quei ricordi a farne un completo essere senziente, quanto la speranza, la nostalgia e la tenerezza che l’avere una memoria risveglia in lui: l’introspezione, potremmo dire, e il sospetto che le cose abbiano un senso segreto, tutto da indagare. In poche parole, la memoria genera coscienza, come i libri in Fahrenheit 451. Ma perché il piano, dalla cultura, si è spostato sui ricordi? Come mai Ryan Gosling (il cui personaggio, a un certo punto, decide di chiamarsi Joe) manda tutto all’aria per una flebile reminiscenza e non per la libertà di stampa o la lettura di Madame Bovary? Certo, lo richiede il tipo di storia: la problematica di Joe, come quella di Deckard e Rachael prima di lui, riguarda classi e categorie solo di striscio, per il resto è tutta una questione d’amore, e di felicità individuale. No, il punto è un altro: come in Westworld, la In questo universo crichtoniano ripensato da Jonathan Nolan e Lisa Joy, la cura per la memoria e di conseguenza i sentimenti sembrano totalmente demandati alle macchine. Quindi è proprio la definizione di umanità a traballare. Cosa è umano, e cosa no? In alto | Ford e Bernard “discutono” In basso | Maeve 39 DOSSIER denuncia di chi scrive non è politica perché la paura maggiore non nasce dalle multinazionali, dalla corruzione, dallo sfruttamento o dal cambiamento climatico. C’è spazio anche per questo, ma come conseguenza del disastro principale. In Westworld la memoria e il vuoto emotivo generano, tra Maeve e Dolores, immenso patimento e, conseguentemente, consapevolezza e autonomia. I due personaggi, interpretati da Thandie Newton e Evan Rachel Wood, sono androidi di un parco divertimenti in cui la gente ricca vive un’esperienza estremamente realistica di amore e morte tra i robot. La cosa che eccita i clienti è che i figuranti, pur dotati di una specie di coscienza, non sanno di essere macchine. Si innamorano, provano dolore e piacere, vivono nella convinzione che il loro West sia la realtà. Invece, ad ogni morte (gli ospiti si divertono a ucciderli) vengono ritirati e aggiornati con le cosiddette “ricordanze”, un’invenzione del dot- tor Robert Ford, direttore creativo del parco, interpretato da Anthony Hopkins. Come in Blade Runner, ancora, queste ricordanze sono la chiave della storia. Grazie a esse Dolores riesce a invertire la narrazione che i programmatori hanno pensato per lei, cioè quella della romantica e vagamente ingenua bellezza del villaggio, abbastanza timorosa e remissiva da permettere (e, nelle intenzioni dei suoi creatori, indurre) i visitatori ad abusare di lei. Dolores sviluppa curiosità, e dopo la curiosità insofferenza, e dopo l’insofferenza rabbia, voglia di libertà, istinti violenti. Tutto questo per l’immagine di un panorama sconosciuto, una voce d’uomo nell’orecchio e un inafferrabile senso d’inquietudine, generato da un paio di flashback. A Maeve va peggio, lei ricorda proprio di essere già morta. È opportuno notare, però, che solo i residenti (cioè i robot) danno tanto valore alla memoria. Gli umani, i creatori, Ford e tutto il suo entoura- ge, no. La camuffano, la omettono, la mistificano. Il passato, negli uffici di Westworld, sembra un incidente. Risolvibile, peraltro, proprio come quelli che capitano nel parco, e in cui sono coinvolti gli androidi. Insomma, in questo universo crichtoniano ripensato da Jonathan Nolan e Lisa Joy, la cura per la memoria e di conseguenza i sentimenti sembrano totalmente demandati alle macchine. Quindi è proprio la definizione di umanità a traballare. Cosa è umano, e cosa no? Come si distinguono, se entrambi hanno ricordi e provano emozioni, gli uomini dalle macchine? Cosa stabilisce in maniera incontrovertibile la condizione di umanità? Lo chiede Bernard, l’assistente-androide di Ford, a pochi episodi dalla fine della prima stagione, in un momento cruciale. “Il dolore [dei robot] esiste solo nella testa, è solo immaginato. Ma qual è la differenza tra il mio dolore e il suo?”. Ford ci pensa su, premette che la risposta gli sem- bra ovvia. Poi dice una cosa alla Jep Gambardella: “Non possiamo definire la coscienza, perché la coscienza non esiste. Noi umani sogniamo che ci sia qualcosa di speciale nel modo in cui percepiamo il mondo, ma viviamo in cicli tanto stretti e tanto chiusi quanto quelli dei residenti. Senza dubitare delle nostre scelte. Contenti perlopiù di sentirci dire cosa fare dopo. No, amico mio, non ti sei perso proprio niente”. Domanda più o meno vecchia, risposta nuova: il creatore persegue nel regime di sudditanza, manche se in fondo non ci crede. Ma la questione è troppo grossa, porta alla follia, quindi la liquida dicendo al robot che non vale la pena di ambire all’umanità. Ed ecco che al centro non c’è più solo l’intelligenza artificiale che agogna il quid dell’essere umano, ma l’essere umano che rinnega se stesso. Dunque, se c’è un tassello che Westworld ha aggiunto al topos sul rapporto uomo/macchina e che ne giustifica la straordinarietà è stato questo servirsi della paura della ribellione dei robot per ribaltare, all’improvviso, la prospettiva presentando un timore nuovo, biforcuto, contemporaneo: non tanto che gli automi prendano il potere, che siano più forti, più intelligenti o, in generale, migliori, ma che siano definitivamente più umani dell’uomo, più fragili e sensibili. Che possano ugualmente sorpassarci, come prevediamo, ma percorrendo una strada che mai avremmo pensato come strategicamente importante: quella della gentilezza, della nostalgia, del pianto facile e della passione. I personaggi “vivi” che abitano il parco o la struttura che lo tiene in piedi, vale a dire i visitatori e i programmatori, sono egoisti, freddi, anaffettivi, controllati. Per loro il pathos di Maeve, l’ambizione di Dolores, il senso del valore di Teddy (lo sceriffo-principe azzurro interpretato da James Marsden) sono sentimenti antichi, stantii, da relegare nel vecchio West. Che temano il lasciarsi andare? Che si siano evoluti tanto da non sentirne la necessità? Non conosciamo la risposta. Certo è che Westworld, come conferma Blade Runner 2046, apre ad un nuovo scenario distopico: quello in cui l’uomo ha rinnegato l’umanità, e la paura del replicante è diventata, inaspettatamente, la paura di non sentire niente. Nicola Cosentino | Cosenza Believe in people. The essential Karel Čapek, a cura di Š. Tobrmanová-Kühnová, Faber and Faber, Londra, 2010, pp. 13, 339 2 K. Čapek, R.U.R. (Rossum’s universal robots), nella versione inglese tradotta da P. Selver e N. Playfair per Doubleday, Page nel 1923 (Garden City, NY), e riproposta nel 2001 da Dover Publications (Mineola, NY). Atto I, pagina 6. 3 Omuncoli, uomini di seconda mano, esseri ausiliari, embrione dell’uomo: così Ippolito Nievo chiama gli automi nel suo Storia filosofica dei secoli futuri, del 1860. L’opera di Nievo viene da molti ritenuta la vera fonte battesimale, almeno in narrativa, del robot. 4 P. Alkon, Science Fiction before 1900. Imagination discovers technology, Twayne Publishers, CT, 1994. Testuale, in prima pagina: «Science fiction starts wth Mary Shelley’s Frankenstein». 5 R. Campa, La “Storia filosofica dei secoli futuri” di Ippolito Nievo come caso esemplare di letteratura dell’immaginario sociale, “AdVersuS”, IX, dicembre 2012, pp13-30 6 Vangelo secondo Giovanni, 11,1-44. A proposito di Lazzaro e delle resurrezioni nei Vangeli si veda anche S. Veronesi, Non dirlo. Il vangelo di Marco, Bompiani, Milano, 2015. 7 A. Defilippi, Come vincere la paura dei robot, “La Stampa”, 18 settembre 2017 8 J. L. Borges, Finzioni, a cura di A. Melis, Adelphi, Milano, 2003 9 Ibidem 10 T. Lewis, Don’t Let Artificial Intelligence Take Over, Top Scientists Warn, “Live Science”, 12 gennaio 2015 11 K. Richardson, An Anthropology of Robots and AI: Annihilation Anxiety and Machines, Routledge, NY/OX, 2015, p. 24 12 M. Roush, “Tv Magazine”, 3-9 ottobre 2016 13 D. Wiegand, Westworld is a gripping sci-fi brain-teaser, “San Francisco Chronicle”, 29 settembre 2016 14 B. Travers, ‘Westworld’ Review: Western Philosophy Tops the Wild West in Deep-Thinking HBO Drama, “IndieWire”, 29 settembre 2016 1 Un’iconica scena da | Blade Runner | Ridley Scott | 1982 40 |QPS| N°3 41 G A L L E RY Utopie possibili: comunità che resistono Immagini e storie delle comunità utopiche nate nel corso del ‘900 e che continuano a resistere, non senza difficoltà, ai giorni nostri. Užupis è un quartiere di Vilnius, Lituania. Si è autoproclamato repubblica nel 1997, ha una sua bandiera, una valuta propria, un presidente, un Consiglio dei Ministri, e ovviamente, una costituzione. La Città libera di Christiania, Copenaghen, è stata fondata nel 1971 da un gruppo di hippy che occuparono alcuni edifici abbandonati della marina danese. Dopo anni di lotte col governo, dovute anche ai problemi di spaccio, gli abitanti hanno acquistato le proprietà occupate. Auroville | India | centro per la “ricerca dell’unità umana” | riconosciuto UNESCO | fondazione 1968 | 2.300 abitanti 42 |QPS| N°3 43 G A L L E RY Marinaleda è un piccolo comune andaluso di 2.700 abitanti, dove si stanno sperimentando forme di autogoverno, economia collettivista e democrazia partecipativa. Nel 1979 in zona si registrava oltre il 60% di disoccupazione, a fronte di molte campagne abbandonate e ricoltivate dal progetto. Fondata nel 1967, Twin Oaks è una comunità di 100 membri della Virginia. Qui si condivide il reddito seguendo uno stile di vita di “povertà intelligente”. Si vive in abitazioni comuni, coltivando e consumando i pasti tutti insieme. Si percepisce anche uno stipendio per le piccole spese. Cherry Grove, New York, è una delle più popolari comunità LGBTQ+ degli Stati Uniti, al punto da essere stata definita “l’utopia gay”. Nel 2013 la Cherry Grove Community House è stata inclusa nel registro nazionale dei luoghi storici. L’accesso è possibile solo dall’acqua. 44 |QPS| N°3 The Farm in Tennesse conta circa 200 membri. Fondata nel 1971, fu subito meta di hippy ed esponenti della controcultura americana. Attualmente è anche sede di un moderno centro di ricerca nel campo dell’ostetricia. Orania è una città separatista afrikaner che sorge sul fiume Orange in Sud Africa. La città è abitata da una comunità “chiusa” di afrikaner: conta circa 1.500 abitanti ed è completamente autosufficiente. L’autonomia della città è ancora al centro di controversie legali. Fu visitata amichevolmente da Mandela nel 1995. Fondata nel 1962, la Fondazione Findhorn è il nucleo centrale di una comunità internazionale costituita attualmente da più di 500 persone. Si trova in Scozia, a sud del villaggio di Findhorn, e può contare su un ecovillaggio completamente sostenibile, che ha fatto da modello per altri nel mondo. 45 G A L L E RY Ecovillaggio Solare Alcatraz, Gubbio. Si tratta di un progetto di co-living a tema green. Ecologico, certificato e garantito, l’Ecovillaggio Solare mira a offrire nuove possibilità di vita a chi vuol riscoprire il contatto con la natura e il senso di comunità. Già 200 persone vivono o frequentano il luogo. Pune, India. Negli anni ‘70 Osho creò qui un ashram, ovvero un luogo di meditazione. Con gli anni si è creata una comune in cui vive e lavora una forte comunità che, col tempo, si è via via diffusa in tutto il mondo. Nell’1981 i sannyasin provarono a creare una comune in Oregon ma, a causa di varie attività illegali, venne soppressa. Panta Rei, Perugia. Ecovillaggio, comunità e centro di educazione gestisce un territorio di 2 ettari: ha come temi fondanti l’interesse per l’ambiente, la sostenibilità, l’arte, la qualità della vita e la consapevolezza dei gesti quotidiani, il fare e la partecipazione. Damanhur in Piemonte. Attorno a un gigantesco tempio sotterraneo si sviluppa un ecovillaggio, dove la comunità damanhuriana vive in un mix di new-age e ritualità politeistiche, attorno al proprio carismatico capo spirituale. Valle degli Elfi, Pistoia. Dal 1980, si è formata l’eco-comunità del popolo degli Elfi. Vi sono 15 nuclei autosufficienti, lontani circa un’ora di cammino l’uno dall’altro, quasi nessuno ha energia elettrica. Non ci sono obblighi, si produce e ci si scambia i prodotti a seconda delle necessità. 46 |QPS| N°3 La comunità mormona di Rockland Ranche nello Utah è stata fondata 35 anni fa. Attualmente vi vivono circa 100 persone. Rispetto alle altre comunità mormone, qui è consentita la poligamia. 47 RUBRIC Giardini verticali e progettazione dell’ utopia urbana Il concetto di utopia urbana nelle città ideali fu espresso a partire dall’età classica, con le definizioni di Platone e di Sant’Agostino. La città ideale di Platone esiste in un altro mondo, quello delle idee pure, non realizzabile, un posto ove all’uomo non è dato di intervenire. Sant’Agostino descrive la città ideale di Dio, rispetto alla quale ancora una volta l’intervento umano è precluso, in quanto punto finale e ricompensa dell’uomo. Con la Modernità si genera un rapporto e un immaginario strumentale nei confronti dello spazio urbano abitato, sulla base del quale l’ordine cui deve sottoporsi la città non è più solo la riproduzione di una visione più ampia, ma è il mezzo razionale per perseguire la felicità, per riequilibrare le ingiustizie e le diseguaglianze sociali. L’inaugurazione della teoria sull’utopia moderna è da attribuire a Thomas More (1516) con Utopia, libro fornito di tutti quei tratti che diventeranno tipici del ge- nere utopista, indipendentemente dalla caratterizzazione del pensiero politico e della visione urbana proposti. In questa nuova visione si evidenzia un distacco rispetto al disegno della città ideale dell’antichità: non solo con la Modernità il soggetto che critica il presente può operare storicamente per prospettare, almeno all’inizio, un’azione spaziale d’intervento, ma, in un certo senso, egli deve anche condurre questo tentativo, per il semplice fatto che ne ha concepito e immaginato la possibilità. L’utopia urbana di oggi è un pensiero nascosto e invasivo, che frammenta e ricompone tutti gli spazi, negandone di fatto l’eterogeneità, la diversità, nel momento stesso in cui concilia frettolosamente le molteplicità delle forme spaziali all’interno di una narrazione voluta universale perché neutra, democratica perché asettica. Oggi nella progettazione urbana si ricerca la verticalizzazione estrema degli spazi, un modo per poter costruire sulla linea d’aria quello che prima si concepiva in orizzontale. Gli edifici si trasformano: in un primo momento erano costruiti come grattacieli; poi, negli ultimi anni, sono stati trasformati in torri urbane, delle città nella città. Il paesaggio muta, si plasma sotto l’influenza della nuova architettura. Il termine paesaggio, nella Convenzione europea del 2010, è definito come “una determinata parte di territorio, così com’è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”1. Alla parola paesaggio va accostato il termine urbano e si può descrivere una visione utopica della città odierna. L’architettura, da sola, non riesce più a essere protagonista dello spazio urbano, perché intorno vi è una grande densità, anziché il vuoto del passato. Secondo l’architetto Andrea Brauzi, nell’era della globalizzazione del mercato e dell’industria disseminata nel mondo, si vive all’interno di un sistema che non ha confini. Si tende a spaziare all’infinito e il concetto di utopia urbana nella progettazione si esprime attraverso diversi strumenti, uno dei quali è il verde. I muri vegetali e i giardini verticali ne sono esempi concreti. Utilizzati per migliorare il microclima urbano, in città dove le estati sono caratterizzate da temperature elevate e vi sono aree densamente abitate (pensiamo a Kowloon e Hong Kong), questi strumenti si rivelano alleati essenziali per la sostenibilità ambientale. 1 http://www.convenzioneeuropeapaesaggio.beniculturali.it/uploads/2010_10_12_11_22_02.pdf 48 |QPS| N°3 Bosco verticale | Studio Boeri | Milano 49 RUBRIC La caratteristica da tenere in maggiore considerazione per garantire la durata dei muri vegetali è la compatibilità tra l’elemento organico e l’elemento tecnico: l’insieme deve risultare un elemento unico perfettamente integrato. A Tokyo, ad esempio, lo studio di architettura di Ingenhoven sta pianificando la realizzazione di due torri che, una volta edificate, diventeranno un una città-giardino verticale. Queste torri, alte rispettivamente 185 e 220 m, saranno le più alte della città e saranno situate nel quartiere di Toranomon che ospita anche la Roppongi Hills Mori Tower. Una di queste torri avrà funzione residenziale, l’altra ospiterà degli uffici, per un totale di quasi 300.000 mq che modificheranno sensibilmente lo skyline della capitale nipponica. Quello che accomuna entrambe è il verde verticale, che contribuisce a realizzare una sorta di città-giardino. Toranomon project | Ingenhoven | Tokyo 50 |QPS| N°3 Le torri sono infatti caratterizzate dalla presenza di lunghe balconate presenti su ogni piano. Le funzioni principali della presenza del verde sono duplici: da un lato, il raffrescamento delle torri, grazie al microclima generatosi all’interno; dall’altro, l’abbattimento nella concentrazione degli inquinanti disperi nell’area. L’efficienza energetica è garantita anche dalla presenza di un impianto di cogenerazione: sfruttando una sola fonte energetica, vengono prodotte energia elettrica e termica, in progettualità che, superando i limiti delle centrali termiche tradizionali, evitano il disperdersi, sotto forma di calore, dell’energia generata. In un impianto di cogenerazione, infatti, il calore viene recuperato e convertito in energia termo-elettrica pronta all’uso. Il tutto unito al riciclo delle acque reflue e alla raccolta di quelle piovane, a vetrate altamente performanti e al sistema fotovoltaico. Secondo l’architetto Andrea Brauzi, nell’era della globalizzazione del mercato e dell’industria disseminata nel mondo, si vive all’interno di un sistema che non ha confini. Si tende a spaziare all’infinito e il concetto di utopia urbana nella progettazione si esprime attraverso diversi strumenti, uno dei quali è il verde. Nel progetto VetiVertical City di Roppongi Hills Mori Tower | J. Pedersen Fox | Tokyo | 2013 51 RUBRIC Shanghai, dell’architetto italiano Eugenio Aglietti, il grattacielo è a forma di montagna: alto 410 metri con 280.000 piante di Vetiver su ogni facciata. Attraverso un duplice sistema di condotti, le acque reflue e le acque piovane vengono portate fino alle radici delle piante per essere depurate e poi reimmesse nella rete domestica. Le virtù del Vetiver consentiranno di assorbire l’anidride carbonica presente nell’aria dimezzando i livelli d’inquinamento che affliggono molte città cinesi. Anche l’Italia si pone nella scia di queste filosofie urbane green. A Milano, grazie al Bosco Verticale progettato dallo Studio Boeri, si realizza un ambizioso progetto di riforestazione metropolitana per contribuire a rigenerare l’ambiente e la biodiversità urbana senza implicare un’espansione della città nel territorio. Valentina Quitadamo | Torino Kowloon Park | Honk Kong | 1970 52 |QPS| N°3 T. Riley, Architettura naturale e design artificiale, Emilio Ambasz, Mondadori Electa, 2001 F. Choay, La città. Utopie e realtà, Einaudi, Torino, 2000 R. Pulselli, G. Paolinelli, S. Bastianoni, Il giardino rampante. Diamo vita ai muri degli edifici – Soluzioni per la città sostenibile, Edifir, Firenze, 2014 M. Foucault, Spazi altri. I luoA. Wood, P. Bahrami, D. ghi delle eterotopie, Safarik, Green Walls in HiMimesis, Milano, 2002 gh-Rise Buildings: An output of the CTBUH Sustainability Platone, La Repubblica, La- Working Group, The Images terza, Bari, 2005 Publishing Group, Mulgrave-Melbourne, 2014 M. Foucault, Utopie eterotopie, Cronopio, Napoli, 2006 S. Boeri, G. Musante (a cura di), A. Muzzonigro (a A. Lambertini, M. Ciampi, cura di), Un bosco verticale. Giardini in verticale, Libretto di istruzioni per il Verbavolant,Siracusa, 2007 prototipo di una città foresta, Corraini, Mantova, 2015 E. Bit (a cura di), Come costruire la città verde dalla riqualificazione edilizia all’Urban Farming, Sistemi Editoriali, Napoli, 2014 VetiVertical City Project | E. Aglietti | Shangai 53 REVIEW Le forme antropiche del potere La forma del potere è sempre la stessa: è la forma di un albero. Dalle radici fino alla cima, un tronco centrale che si ramifica e ramifica all’infinito. N. Alderman La donna e l’uomo. Sono due mondi complessi, due poteri complementari, l’uno il riflesso dell’altro: cosa succederebbe se uno dei due prendesse il sopravvento? In un mondo contemporaneo, in cui la società mira al superamento delle antiquate concezioni di genere, l’idea di un capovolgimento dei ruoli ha stuzzicato la fantasia di due note scrittrici della letteratura distopica contemporanea, Margaret Atwood e Naomi Alderman. Il risultato è stato la pubblicazione, a trent’anni di distanza, di due romanzi di “anticipazione”, caratterizzati da sottili trame distopiche tipicamente orwelliane: Il racconto dell’ancella (The Handmaid’s Tale), di Margaret Atwood, e Ragazze elettriche (The Power) di Naomi Alderman. Due volumi che, rispondendo alla domanda “What if?”, offrono un interessante spunto di riflessione sulle tematiche legate al problema del sessismo. L’elemento distopico si fa, dunque, “donna”: utilizzando l’espediente letterario del fittizio documento storico (ne Il racconto dell’ancella si tratta di un audio-diario, mentre in Ragazze elettriche è un saggio storiografico), le scrittrici narrano, a posteriori, il destino della società odierna, di cui le donne ne diventano, pur in modi diversi, le assolute protagoniste. Il racconto dell’ancella. La vicenda vede protagonista l’Ancella, una giovane donna fertile chiamata Difred (ma il suo vero nome è June). Come tante altre donne, è stata trasformata in una serva dei “Patriarchi” che, in lei, vedono uno strumento avente il solo scopo di procreare. Siamo in un futuro non troppo lontano dal nostro, in cui la Repubblica di Galaad - un regime teocratico pretta- mente patriarcale - ha appena preso il posto del governo degli Stati Uniti, avviando un processo di privazione di ogni libertà e diritto alle donne. Il tema della natalità è la miccia che accende gli avvenimenti de Il racconto dell’ancella: le guerre civili, il dissesto finanziario e l’inquinamento ambientale hanno aggravato il problema della sterilità, con un conseguente calo delle nascite, provocando un dissesto demografico come non si era mai visto nella storia del genere umano. Ispirandosi al precetto biblico della Genesi 30, 1-4 (la storia di Rachele e Lia), secondo cui i mariti potevano generare figli con le serve in caso di sterilità della moglie, un gruppo di fanatici religiosi, chiamati “Figli di Giacobbe”, riescono a far cadere il governo degli Stati Uniti e a proclamare un regime di ispirazione religiosa, in cui il potere è solo nelle mani degli uomini. La nuova gerarchia sociale della Repubblica di Galaad si lega, così, al genere sessuale ed è suddivisa per ruoli: gli uomini si trovano al vertice della piramide sociale e possono ricoprire la posizione di Comandanti (i gerarchi), Angeli (i militari), Occhi (i servizi segreti) o Guardiani (i servi dei Comandanti); le donne, invece, ricoprono solo posizioni subalterne e asettiche, diventando Mogli (le spose dei Comandanti), Economogli (le spose degli uomini non Comandanti), Marte (le domestiche), Ancelle (le serve della procreazione dei Comandanti), Zie (le guardiane delle donne), oppure Nondonne (donne ripudiate e condannate dalla società). L’elemento che risalta maggiormente nel racconto è l’assenza del The handmaid’s tale | rappresentazione grafica 54 |QPS| N°3 55 REVIEW diritto di scelta per l’intero universo femminile, a qualsiasi scala sociale esse appartengano: sebbene in passato le donne abbiano lottato per ottenere tale diritto, nel nuovo mondo adattarsi al sistema significa sopravvivere alle severe e, molto spesso, fatali punizioni della nuova giustizia di Galaad. Il mondo dipinto dalla Atwood mette in luce, quindi, i punti critici della realtà sociale: trattandosi di un racconto introspettivo, che assume i caratteri di un diario personale, l’autrice affronta la storia con una narrazione dai tratti saggistici e dal realismo spietato, seppur distopico. Gli atteggiamenti degli uomini di Galaad verso la popolazione femminile possono sembrare, infatti, una estremizzazione della discriminazione sessuale attuata nella realtà presente; invece si tratta di atteggiamenti già visti nel corso della storia. È questo fattore di realismo distopico a rendere ancor più riflessivo Il racconto dell’ancella. The power | immagine di copertina per | Ragazze elettriche 56 |QPS| N°3 Spunti di riflessione che aumentano nell’analisi dei segnali di solidarietà femminile captati all’interno del racconto: così come avvenuto nella storia d’epoca contemporanea, in cui i soprusi e le discriminazioni di genere sono stati combattuti dai movimenti di unione femminile, anche nel mondo di Galaad è la forza delle donne a emergere dietro un sistema che si fa sempre più patriarcale. La solidarietà femminile traspare dagli atteggiamenti delle Ancelle verso le donne che versano nelle medesime condizioni. Allo stesso tempo, però, sono le donne stesse a permettere l’esistenza di una realtà come quella di Galaad, sottomettendo coloro che non risultano essere degne agli occhi dei precetti biblici della dottrina cristiana. Si pensi alle Zie, che indottrinano le Ancelle all’arte dell’asservimento e della procreazione; o alle Mogli, che le schiavizzano all’interno dell’ambiente domestico: le donne che diventano nemiche delle donne stesse. In conclusione, la narrazione della Atwood si fa femminile, ma l’analisi critica, che vige dietro la distopia, colpisce le donne quanto gli uomini. Ragazze elettriche. La storia dipinta da Alderman è il riflesso del mondo de Il racconto dell’ancella. Il potere, secondo l’autrice, può assumere aspetti differenti nel corso della storia, ma la forma rimane sempre quella di un albero che, costantemente, punta verso l’alto. Se in passato era la popolazione maschile a detenere tale potere - in virtù della propria forza fisica - nella nuova realtà di Ragazze elettriche il potere cambia aspetto. Un evento inaspettato, avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale, porta alla fuoriuscita in mare di sostanze chimiche in grado di rafforzare la potenza del corpo umano. Queste, utilizzate in passato dalle forze alleate come protezione contro gli attacchi dei gas nemici, provocano una mutazione nel corpo delle donne, dotandole di un potere paranormale: la capacità di emanare scariche elettriche, grazie allo sviluppo di un nuovo organo individuato nella clavicola e chiamato “matassa” (in inglese “skein”). A settant’anni dalla mutazione, rimasta sopita nei corpi femminili, tale capacità si desta nelle giovani donne, che a loro volta possono risvegliarla nelle più anziane. Il vento del cambiamento inizia a crescere e il potere cambia aspetto, assumendo quello femminile: le donne diventano, così, il sesso forte. Cosa succederebbe, però, se un fatto del genere dovesse accadere realmente oggi? Alderman spiega la propria idea attraverso gli occhi dei cinque protagonisti principali (Allie, Roxy, Tunde, Margot, Jocelyn): le donne si emancipano, risvegliano la consapevolezza della propria forza, ma, allo stesso tempo, danno un nuovo peso alle ingiustizie di cui sono state vittime nel corso della storia a causa della prepotenza maschile. Col tempo, le donne “elettriche” cadono nel medesimo errore del sesso opposto: dilagano violenza, prepotenza, cupidigia, vessazioni, tutti fattori che rimandano a un unico elemento, ossia la sete di potere. L’instabilità globale condurrà, poi, le diverse fazioni alla guerra più grande della storia umana (conosciuta come “Cataclisma”). Cinquemila anni dopo, le strutture del potere avranno cambiato aspetto, ma non la forma: le donne al potere continueranno a vessare gli uomini, mentre gli uomini diventeranno promotori di un cambiamento ispirato alla pace tra i sessi. L’analisi dell’autrice, quindi, si fa critica verso la lotta di genere: non importa quali ideali vengano prospettati da una parte o dall’altra, perché, secondo Alderman, l’albero del potere si ramifica all’infinito, indipendentemente da chi lo esercita. Il solo modo di cambiare le cose, quindi, non è conquistarlo, né innalzare un genere sottomettendo l’altro: è necessario cambiare, congiunta- mente, il modo di agire nel presente, iniziando da un ripensamento del passato. Il potere cerca il suo sbocco. Fatti come questi sono accaduti in precedenza; torneranno ad accadere. Fatti come questi accadono sempre. N. Alderman Cosa succederebbe se uno dei due prendesse il sopravvento? Questa era la domanda iniziale della nostra riflessione. Dopo aver analizzato le due opere in questione, la risposta sembra sorgere spontanea: il potere agisce sulle persone, siano esse uomini o donne. Il racconto dell’ancella e Ragazze elettriche seguono una linea narrativa perfettamente continua e speculare allo stesso tempo, in cui è il potere a costituire lo sfondo comune alle vicende narrate. Il patriarcato di Atwood e il matriarcato di Alderman, per quanto The handmaid’s tale | Nathalie Coen 57 REVIEW possano sembrare due mondi opposti, in realtà non sono altro che le facce della stessa medaglia. Nei due romanzi, entrambi gli schieramenti credono di poter gestire il potere in base ad attitudini e inclinazioni “naturali” appartenenti al proprio sesso, cadendo nell’errore della generalizzazione delle classi sessuali. In realtà, entrambi i casi sembrano condurre la società a una degenerazione del sistema socio-politico, con la conseguente marginalizzazione di uno dei due generi. Le originali analisi di Atwood e Alderman sono due visioni controcorrente sulla medesima questione del sessismo, poiché entrambe evitano di aderire alle generalizzazioni delle posizioni uomo/donna e concentrano la propria riflessione sulle conseguenze sociali e politiche degli schieramenti basati sul “genere”. Una parte dei lettori, però, ha proposto un’interpretazione diversa di questi romanzi: dato che le autrici hanno dato voce soprattutto alle donne, le due opere hanno finito per apparire come i manifesti letterari delle nuove correnti femministe. Per esempio, Il racconto dell’ancella - forse complice il successo dell’omonima serie televisiva ad essa ispirata - negli ultimi anni è stata erroneamente riletta come il simbolo di un rinnovato movimento femminile occidentale, sempre più vicino alle idee populiste, sebbene nel romanzo non vi si legga nessun intento femminista di tal genere. Piuttosto che difendere aprioristicamente la posizione della donna, Atwood - così come Alderman - ha voluto affrontare la questione degli schieramenti sessisti con una netta voce critica, presentandoli come una preoccupante deriva della politica occidentale e della società contemporanea. Ciò che risulta evidente da queste analisi è il problema della contrapposizione discriminatoria tra generi sessuali. Una concezione dualistica che oggi risulta essere fondamentalmente sbagliata, poiché il desiderio di prevalere l’uno sull’altro può condurre uomini e donne verso la strada dell’autodistruzione umana. In conclusione, Il racconto dell’ancella e Ragazze elettriche - sebbene siano romanzi distopici - sono opere che hanno saputo dare un contributo critico alle questioni moderne legate al “genere”. La loro lettura può offrire degli originali spunti di riflessione sui problemi antropici del presente, aiutando il lettore a seguire la via del ripensamento sulla storica questione della lotta tra i generi Il genere è come il gioco dei bussolotti. Che cos’è un uomo? È tutto ciò che non è una donna. Che cos’è una donna? È tutto ciò che non è un uomo. Se dai un colpetto sul bussolotto, suona vuoto. Se giri il bussolotto, non trovi niente. N. Alderman Vanessa Genova | Catania M. Atwood Il racconto dell’ancella Ponte alle Grazie, Milano, 2017 pp. 400 ] N. Alderman Ragazze elettriche Nottetempo, Milano, 2017 pp. 446 Copertine dell’edizione americana | confronto 58 |QPS| N°3 59 (STORICHE) 3