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r a t i o c i n a t i o n e
RAGIONANDO DI ARCHITETTURA CON ANTONIO MONESTIROLI
Renato Capozzi, Federica Visconti
Questo testo riprende e ri-compone, oggi in una nuova versione, alcuni contenuti di diverse occasioni di incontro che, negli ultimi
anni, abbiamo avuto con Antonio Monestiroli. Occasioni sempre da noi cercate, molte condivise con i nostri studenti, nella convinzione
che potessero rappresentare opportunità per discutere e riflettere ancora di architettura e sulla possibilità del suo insegnamento in
maniera non fossilizzata su modelli da riproporre stancamente ma capace di guardare in avanti con consapevolezza e speranza. A
queste occasioni Antonio Monestiroli ha sempre risposto con grande generosità dimostrando, ancora una volta, di essere un Maestro.
Qui di seguito si trova dunque innanzitutto un primo ‘frammento compiuto’ della intervista fatta ad Antonio Monestiroli nel suo
studio milanese il 3 aprile del 2014, sulla via del ritorno da un intenso Seminario di Studi tenutosi presso il Centro Italo-tedesco di Villa
Vigoni sul lago di Como che, con il titolo di Die Provokation des Realen. Neuer Realismus und Rationalismus. Eine Deutsch-Italienische
Debatte in Architektur und Philosophie/La provocazione del reale. Nuovo realismo e razionalismo. Un dibattito architettonico e
filosofico tra Germania e Italia, era stato occasione per discutere di Architettura della realtà1. In quella occasione Antonio Monestiroli
aveva introdotto una interessante riflessione sul rapporto tra pensiero scientifico e suo contenuto in termini di ‘rischio’, ragionando,
in architettura, sulla necessità della scelta e sulla centralità della meditazione sul tema la cui corretta interpretazione viene verificata
nella accettazione, e quindi nel riconoscimento, da parte della collettività, dell’opera. E così, naturalmente, si era finiti a parlare di
progetti ma anche di quello che, all’epoca, era un esercizio di descrizione, di scrittura sui suoi lavori e che sarebbe poi diventato un
altro dei suoi preziosi libri2. Tra i progetti si parlò invece della Chiesa di San Carlo Borromeo a Roma, allora di recente inaugurata,
ma anche di un ‘vecchio’ progetto, quello del Teatro di Udine, usato a pretesto per ragionare di tema e del rapporto con la realtà che
trasforma l’idea in forma. E proprio questi tre termini – forma, tema, idea – in alcuni casi declinati al plurale costituiscono il titolo del
secondo ‘frammento compiuto’ di questo scritto, tratto dalla Lectio magistralis inaugurale dell’anno accademico del Dipartimento di
Architettura tenuta da Antonio Monestiroli nella ‘nostra’ Federico II.
Chiude questo ‘ri-montaggio’ il testo, inedito in italiano, da qui nacque anche il libro a nostra cura Trentatré domande a Antonio
Monestiroli edito nel 2014 nella Collana “Saper credere in architettura” della Clean di Napoli. A seguito infatti della richiesta da parte
del direttore della rivista argentina “A&P Continuidad”3 di interrogare il maestro milanese sui temi dell’insegnamento, della teoria
e della pratica dell’architettura, conducemmo l’intervista prima citata e concordammo con Antonio Monestiroli, anche per i limiti
editoriali a fronte di una conversazione durata oltre due ore, di pubblicarla in forma di sintetico resoconto. Ma, come abbiamo poi
avuto modo di scrivere, «Sin da allora a noi sembrò che la mole e la profondità delle questioni e degli spunti che erano emersi in quel
confronto meritassero una più ampia, ma anche più agile, versione a stampa che nel mantenere la forma dialogica che aveva avuto il
colloquio non ne riducesse la portata e la rilevanza dei temi trattati e le cose “di maggior valore” che – come ci ricorda Platone – un
discorso anche non scritto sempre contiene»4.
È superfluo sottolineare l’esplicito riferimento al testo A. MONESTIROLI, L’architettura della realtà, CLUP, Milano 1979.
Come
vedrà più
avanti
nel testo
tratta
A. casa?
MONESTIROLI
, Un pagina
trentasei
progettiin,di“A&P
architettura,
LetteraVentidue,
Siracusa 2016.
F. siVisconti
y R.
Capozzi,
¿Quésicosa
esdi
una
Conversación
con su…
Antonio
Monestiroli,
Continuidad”,
n. 01/1, 2014.
3
F. VISCONTI, R. CAPOZZI, Qué cosa es una casa? Conversación con Antonio Monestiroli, in, “A&P Continuidad”, n. 01/1, 2014.
4
F. VISCONTI, R. CAPOZZI, Su un nostro Maestro, in Trentatré domande a Antonio Monestiroli, Clean, Napoli 2014.
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3
2
REASONING ABOUT ARCHITECTURE WITH ANTONIO MONESTIROLI
Renato Capozzi, Federica Visconti
In these pages we presented, at the beginning, a first ‘complete fragment’ of the interview to Antonio Monestiroli in his studio in
Milan on 3 April 2014, on the way back from an intense Seminar of Studies held at the Italian-German Center of Villa Vigoni on Como
Lake that - with the title of Die Provokation des Realen. Neuer Realismus und Rationalismus. Eine Deutsch-Italienische Debatte in
Architektur und Philosophie / The provocation of reality. New realism and rationalism. An architectural and philosophical debate between Germany and Italy - was an opportunity to discuss of Architettura della realtà1. In that occasion Antonio Monestiroli introduced
an interesting reflection on the relationship between scientific thought and its content in terms of ‘risk’, reasoning, in architecture, on
the necessity of choice and on the centrality of meditation on the theme whose correct interpretation is verified in the acceptance, and
therefore in the recognition, by the community, of the work of architecture. Spontaneously, we ended up talking about projects but
also about what, at the time, was an exercise of description and writing about his works and that later would become another of his
precious books2. Among the projects, we spoke particularly of the Church of San Carlo Borromeo in Rome, recently inaugurated, but
also of an ‘old’ project, the Theatre of Udine, used as pretext for reasoning of a theme and the relationship with reality that transforms
the idea in a form.
Precisely these three terms - form, theme, idea - in some cases in the plural form define the title of the second ‘complete fragment’’
of this text, extracted from the Lectio magistralis for the beginning of the academic year at the Department of Architecture held by
Antonio Monestiroli in ‘our’ Federico II.
This ‘re-assembly’ is closed by a text, unpublished in Italian, hence the book Trentatré domande a Antonio Monestiroli, edited by
us and published in 2014 in the series “Saper credere in architettura” of Clean Publisher in Naples, derived. In fact, answering the
request from the director of the Argentine magazine “A&P Continuidad”3 to interview the Milanese Master on the topics of teaching,
theory and practice of architecture, we conducted the interview above mentioned and we agreed with Antonio Monestiroli, also for
editorial limits, to reduce a conversation of more than two hours, in a summary form. But, as we then wrote, «Since then, it seemed to
us that the mass and the depth of the issues and ideas that emerged in that conversation deserved a wider, but also more agile, printed
version, maintaining the dialogical form of the interview and not reducing the scope and relevance of the subjects dealt with and the
“most valuable” things that - as Plato reminds us - a discourse, even if not written, always contains»4.
It is superfluous the reference to A. MONESTIROLI, L’architettura della realtà, CLUP, Milano 1979.
As after in the text, the reference is to A. MONESTIROLI, Un pagina su … trentasei progetti di architettura, LetteraVentidue, Siracusa 2016.
3
F. VISCONTI and R. CAPOZZI, Qué cosa es una casa? Conversación con Antonio Monestiroli, in, “A&P Continuidad”, n. 01/1, 2014.
25 domande a Antonio Monestiroli, Clean, Napoli 2014.
4
F. VISCONTI, R. CAPOZZI (edited by), Su un nostro Maestro, in Trentatré
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DIALOGO CON
ANTONIO MONESTIROLI
A cura di
Federica Visconti e Renato Capozzi
RC e FV: La prima questione che a noi pare fondamentale, sulla quale ti chiediamo una riflessione è: l’Architettura
è scienza o mestiere? Massimo Cacciari, in un intervento tenuto allo IUAV1 all’alba dell’ultima riforma universitaria, ha
parlato di una disciplina «[…] esattamente sulla soglia, al confine: scientia, senza dubbio, in quanto numero, forma e
collocatio, costretta, a differenza di altre technai, a riflettere sui propri principi»2.
AM: Prima di affrontare la vostra questione vorrei fare una premessa e spiegare perché ho accettato con piacere questa conversazione con voi. Saper parlare del proprio lavoro, saper spiegare le ‘ragioni’ del proprio lavoro, è un problema
molto attuale. Se ci fate caso, al di fuori del circuito accademico, oggi, soprattutto se ci riferiamo agli architetti che lavorano di più in Europa e forse anche nel mondo, sta succedendo una cosa assolutamente nuova rispetto a tutta la storia
dell’architettura: nessuno è più capace di parlare di quello che ha fatto. Non ci sono descrizioni dei grandi progetti dell’età
contemporanea, non ci sono relazioni sulle opere. È un fatto singolare. Quando a Milano è stata progettata e poi costruita
la Torre Velasca, Ernesto Rogers ha scritto pagine e pagine su quell’edificio, spiegandone le ragioni, i materiali, la forma.
Oggi invece nessuno descrive più le cose che fa e questo per me è misterioso e comunque pone una domanda molto seria:
è lecito, o addirittura necessario, parlare delle cose che si fanno oppure no? Questa mi sembra una domanda che deve
precedere l’interrogativo che mi ponete sull’architettura come scienza o mestiere.
Partiamo pure dicendo che l’architettura è un mestiere – perché l’architettura richiede la sua messa in opera, essa è
‘arte di costruire’ ed io non sono riuscito a trovare una definizione migliore – però io aggiungerei che è un mestiere in cui
non solo si può ma si deve parlare di ciò che si fa: si deve cercare di dare ragione, di spiegare come è nato un progetto,
come sono nate quelle forme, quali sono stati i motivi delle scelte. Si potrebbe addirittura sostenere che non solo oggi
nessuno parla di architettura ma che pochissimi fanno architettura, che l’architettura, oggi, è un mestiere tradito. Molti
architetti contemporanei fanno dei progetti che, secondo me, non sono architettura, ma sono un’altra cosa: sono costruzioni, più o meno complesse dal punto di vista tecnologico, molto appariscenti dal punto di vista della forma: in un certo
qual modo potremmo definirle costruzioni pubblicitarie, forme comunicative non del loro senso ma di altre cose. E se
queste costruzioni raccontano altre cose che non sono architettura si potrebbe arrivare a concludere che il non parlare di
architettura sottende proprio il fatto che non si fa più architettura.
Io credo che sia per questo motivo che nelle relazioni leggiamo del programma, delle funzioni, del modo in cui gli
edifici sono costruiti ma quasi mai del senso di un edificio, quasi mai del perché l’architetto ha fatto certe scelte piuttosto
che altre.
Se questa è la premessa siamo di fronte ad una condizione davvero difficile perché non solo si fa fatica a porre e risolvere un problema ma il problema viene totalmente eluso. In questa condizione tornare al senso dell’architettura oppure, se
non si vuole usare il termine “tornare” troppo rivolto all’indietro, procedere verso una nuova architettura è molto difficile
e non so bene quale sia la strada per poterlo fare. Oggi il mondo delle costruzioni – che, ripeto, non è architettura – non è
più in mano agli architetti ma agli uomini d’affari. Tutto questo per dire che, quando parliamo del rapporto tra mestiere
e disciplina, parliamo di una posizione minoritaria, cioè di un gruppo molto ristretto di persone che, essendo legate all’insegnamento, hanno in qualche modo l’obbligo di rendere conto di quello che fanno. […]
Nella pagina a fronte: Antonio Monestiroli al Cairo.
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Chiesa al quartiere Gallaratese, Milano 1989. A. Monestiroli, con S. Gambirasio, L. Morganti, R. Neri.
Prospetti, sezioni longitudinale e trasversale.
A questo punto possiamo fare un altro passo in avanti nel nostro discorso e parlare di una cosa che in architettura
molti si rifiutano di accettare: nel nostro mestiere non si può evitare di sbagliare, bisogna accettare il rischio di sbagliare
e lasciare agli altri il giudizio sul nostro operato, la possibilità di decidere se l’architettura che abbiamo costruito ha in
sé la qualità espressiva necessaria a rendere riconoscibile il suo significato. Solo in questo caso l’opera si può considerare
riuscita. Finché non c’è il riconoscimento del significato che noi attribuiamo all’opera, l’opera non si può dire riuscita.
Rifiutarsi di correre questo rischio vuol dire fallire, vuol dire costruire una forma senza vita e senza senso. In architettura
se non si vuole rischiare si deve per forza ripetere una cosa che già c’è. Se invece si prova a fare una cosa che ancora non
c’è bisogna accettare il rischio che non sia quella giusta.
RC: Ma se non si accetta il rischio, quindi si rischia la retroguardia?
AM: Infatti, credo che sempre il pensiero scientifico contenga il rischio di fallimento.
RC: Appunto perché indaga terreni che non sono ancora solcati.
FV: Ci si addentra nel terreno delle possibilità ancora da verificare.
AM: Io credo che il problema sia sempre quello dell’interrogarsi su cosa stiamo facendo. Gli studenti si disorientano –
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Chiesa al quartiere Gallaratese, Milano 1989. A. Monestiroli, con S. Gambirasio, L. Morganti, R. Neri.
Assonometria.
ma accade anche a noi – quando non sanno cosa stanno facendo. Quando ci si accorge che lo studente tarda a trovare la
soluzione è perché, in realtà, non sa cosa sta facendo. Se invece si riesce a comunicare, non solo agli studenti ma anche alle
altre competenze del progetto cosa intendiamo fare, il nostro lavoro diventa molto interessante e divertente per tutti. […]
RC: Marc Bloch3 ha scritto: «il pericolo di ogni pedagogia è finire per insegnare parole al posto delle cose». All’autore
di Questioni di metodo quale tuo progetto consideri esemplare per spiegare agli studenti il metodo in architettura e la sua
necessità e come lo illustreresti?
AM: In questo ultimo mese sto facendo un esercizio che consiglio di fare anche a voi e di far fare agli studenti. Per
alcuni dei miei progetti ho scritto una pagina – mi sono imposto di stare dentro ad una sola pagina di 1500 battute – e ho
intitolato questa pagina “una pagina su…”. […] Questo è un esercizio che ho fatto dopo ma andrebbe fatto durante o addirittura prima di fare il progetto. Per ritornare alla domanda: io spero che il procedimento adottato si capisca guardando
il progetto. Ad esempio, nella Chiesa di San Carlo Borromeo4 a Roma, il rapporto con il luogo è stato importante, è stato
quello che ha condizionato maggiormente le scelte successive. La chiesa è stata costruita su un terrapieno che esisteva
già, che era una discarica di macerie di tutte le case costruite lì intorno e che dovevano essere portate via. Quando io e
Tomaso siamo arrivati sul posto per la prima volta, ci hanno detto che avrebbero portato via subito tutti quei materiali
e noi abbiamo chiesto di non farlo perché abbiamo visto in quel terrapieno un basamento, un podio e sul podio abbiamo
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fondato una torre. In questi due elementi c’è gran parte del nostro progetto. Con il passare degli anni il procedimento si
accelera, con l’esperienza tutti i passaggi diventano più rapidi, si accavallano. Sempre a proposito della chiesa di Roma
abbiamo pensato subito che la chiesa sarebbe stata rivestita in lastre di tufo e l’abbiamo deciso prima ancora di pensare
alla struttura per cui la struttura, in questo progetto, è diventata un fatto secondario, è una struttura tradizionale.
Ognuno di questi ‘cinque punti’ delle Questioni di metodo (il tema, il luogo, il tipo, la costruzione, il decoro) può diventare importante o trascurabile, secondo l’occasione, anche secondo la disposizione d’animo per cui certe volte si ha voglia
di fare un discorso più su uno che su un altro di questi punti.
RC: Quello della chiesa è un tema che hai praticato in varie occasioni: prima la pianta allungata (Chiesa al quartiere
Gallaratese a Milano del 1989), poi la pianta a croce (Chiesa di Santa Maria di Loreto a Bergamo del 2000)5. Lo stesso
tema, certo, ma che con scale diverse, luoghi diversi può trovare risposte differenti, sviluppi ulteriori, magari progressivi
perché penso che quella che piace di più è sempre l’ultima, o no? O comunque quella che si è riusciti a realizzare…
AM: Quella che ho costruito è quella che mi piace di più, forse perché l’ho costruita. Però il nostro consulente liturgico,
Monsignor Santi, trova che la nostra chiesa più bella è quella di Bergamo.
RC: All’autore de L’architettura della realtà6, infine, in questo – spero non solo apparente – ritrovato interesse per il
realismo7, chiedo una riflessione su cosa significa realismo in architettura e se si può condividere, ancora con Edgar Morin,
che «la razionalità [sia] dispositivo di dialogo tra l’idea e il reale».
AM: Io per la verità ho qualche difficoltà a tenere separate realtà e idea. Secondo me l’idea si forma nel rapporto con
la realtà, e non può venire da fuori, da un luogo che non c’è. Certamente ognuno di noi ha una propria cultura, un insieme
di idee che si porta dentro e ogni volta che si stabilisce un rapporto con la realtà il sistema di idee si confronta con questa
realtà. L’idea prende forma proprio in questo confronto. Per esempio, a proposito del tema del teatro: dove si va a indagare
questo tema se non nella realtà? Nella testa dell’architetto ci sono già i materiali, si conoscono tutti i teatri della storia,
come le ‘balene di Melville’, però poi si inizia a elaborare questi materiali.
Il progetto per il teatro di Udine è del 19748. In quel momento, il rapporto fra attori e spettatori era inteso dalle avanguardie in modo diverso rispetto al teatro tradizionale. Molti negavano la divisione fra le due parti del teatro e invocavano
una maggiore relazione, anche fisica, fra attori e spettatori. Il nostro teatro è fatto da due edifici contenuti uno dentro
l’altro e lo spazio è tutto compreso fra questi due edifici, non c’è separazione, non c’è il sipario del teatro Ottocentesco.
Lo spazio si allestisce di volta in volta. L’idea del Living Theatre ci ha molto suggestionati, anche se non abbiamo voluto
assecondarla del tutto. Ci piaceva [a ma e a Paolo Rizzatto] il fatto di trasferire la teatralità, l’idea di teatro, nella contrapposizione di due scene fisse che si guardano perennemente. Per noi il teatro era questo. Ma questa idea è venuta fuori
dalla realtà, dalla cultura del teatro di quel momento, dal modo in cui si viveva il teatro, dal modo in cui si frequentava il
teatro. Il tema non è stato elaborato partendo dai teatri della storia dunque, non da una riflessione su quei teatri, non da
una loro riduzione all’essenziale ma provando a ‘inventare’, come dicevamo prima, ‘rischiando’. Immaginando una forma
che rappresentasse quella idea di teatro.
Quindi la frase di Morin non mi convince tanto perché è come se ci fosse l’idea da una parte e la realtà dall’altra e un
conflitto o un confronto tra le due: per me l’idea prende forma nel momento in cui entra in rapporto con la realtà, che è
sempre un rapporto fecondo.
Il presente testo ricompone, per gentile concessione dell’editore, alcuni brani estratti dall’intervista pubblicata in: F. VISCONTI, R.
CAPOZZI (a cura di), Trentatrè domande a Antonio Monestiroli, Saper credere in Architettura, Clean, Napoli 2014.
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Chiesa di Santa Maria di Loreto, Bergamo 2000.
A. Monestrioli, T. Monestiroli, con M. Ferrari, M. Landsberger. Modello.
Forme, temi, idea*
Una posizione frequente oggi è quella che considera che il significato delle forme dell’architettura coincida con il loro
scopo, che fra scopo e significato non ci sia differenza. E questo è sempre stato il pensiero dei funzionalisti.
C’è poi chi dice che ogni forma porta con sé il suo significato, che forma e significato sono inscindibili e dunque il
problema dell’espressione del significato non si pone. Per chi pensa che il rapporto fra forma e significato sia dato una
volta per tutte all’origine della architettura il problema è solo quello di trovare la forma adatta al tema di architettura
scegliendola fra le tante già date, in una specie di catalogo delle forme e delle loro combinazioni possibili.
Io penso, al contrario, che il rapporto fra forme e significato vada stabilito ogni volta di nuovo, con tutta la consapevolezza della tradizione ma con la libertà di pensiero che ci consente di trasgredire rispetto ad ogni relazione prestabilita.
Ripeto: il rapporto fra forme e significato va stabilito ogni volta di nuovo.
Ho già detto e scritto più volte di questo problema, oggi qui voglio sottolineare un aspetto di questo delicato ma fondamentale passaggio.
Io credo che quel che muta nel tempo sia la nostra interpretazione dei temi di architettura. Credo che la nostra idea
di casa non sia la stessa degli antichi ma sia diversa perché diversa è la nostra cultura.
Paradossalmente la casa è la stessa dal punto di vista funzionale. Quel che cambia è il suo significato, il significato che
noi attribuiamo ad essa. […]
Ricordo una bella definizione dell’arte di Heidegger che dice, appunto, che l’arte è la messa in opera della verità.
Mi ha sempre affascinato questo passaggio da un concetto astratto come la verità, a una forma concreta, materiale, che
va “messa in opera”. È il passaggio da un mondo immateriale come è il mondo delle idee ad un mondo materiale come
è quello della costruzione. Una specie di metamorfosi dell’idea. Per questo passaggio non ci sono regole fisse. Semmai
raccomandazioni. Una di queste è che le idee e i loro significati devono essere profonde e non superficiali e le forme della
costruzione devono essere semplici e chiare.
Non essendoci regole nel passaggio dalle idee alle forme non vi sono nemmeno riferimenti certi. Il rischio è totale, nel
senso che quando il passaggio non si compie il significato non compare.
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Progetto per la nuova Biblioteca di Pescara. Pescara 2004.
Monestiroli Architetti Associati (A. Monestiroli, T. Monestiroli) con M. Ferrari, M. Polignano. Veduta interna.
La definizione dell’idea viene prima di qualsiasi forma.
Per idea non intendo l’idea di progetto ma ancor prima di questa l’idea di ciò che il progetto deve realizzare: l’idea di
casa, di teatro, di museo, ecc.
Questa prima fase del progetto, di cui ho parlato sempre molto, è la più difficile e impegnativa, perché senza avere una
idea di casa è impossibile progettare una casa.
L’idea su cui si costruisce il progetto non può scaturire dalla mente di chi progetta, deve essere fondata nella cultura e
nelle condizioni materiali di una società. La cultura della casa, del teatro, del museo nei paesi dell’Europa del nord sarà
diversa da quella dei paesi del Mediterraneo e su queste idee si costruiranno case, musei, teatri diversi.
MASSIMO CACCIARI, Intervento, in GIANCARLO CARNEVALE (a cura di), Il progetto di architettura e il suo insegnamento, Città studi, Milano 1995,
pp. 43-48.
2
Ibidem, pp. 44-45.
3
MARC BLOCH, Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 1978.
4
ANTONIO MONESTIROLI, MASSIMO FERRARI, TOMASO MONESTIROLI, Chiesa di San Carlo Borromeo, Roma, in “Casabella” n. 808, 2011, pp. 70-81.
5
Cfr. Antonio Monestiroli. Opere, progetti, studi di architettura, a cura di MASSIMO FERRARI, Electa, Milano 2001, et, Antonio Monestiroli. Prototipi di architettura, a cura di MASSIMO FERRARI, CLAUDIA TINAZZI, CINZIA SIMIONI, ALESSANDRO TOGNON, Il Poligrafo, Padova 2012.
6
ANTONIO MONESTIROLI, L’architettura della realtà, 1 ed., Clup, Milano 1979; 2 ed., Allemandi, Torino 1999.
7
Cfr. SILVIA MALCOVATI, FEDERICA VISCONTI, MICHELE CAJA, RENATO CAPOZZI, GAETANO FUSCO (a cura di), Architettura e Realismo. Riflessioni sulla
costruzione architettonica della realtà, Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna (RN) 2013.
8
Antonio Monestiroli: Progetti 1967-1987, pres. di FRANCESCO MOSCHINI, Ed. Kappa/A.A.M. Architettura Arte Moderna, Roma 1988.
1
*
Estratto dalla Lectio magistralis inaugurale dell’anno accademico “Architettura e insegnamento della architettura”, tenuta da Antonio Monestiroli presso il Dipartimento di Architettura dell’Università di Napoli “Federico II” il 3 ottobre 2014. Versione integrale ANTONIO MONESTIROLI,
L’architettura e il suo insegnamento, in CAMILLO ORFEO (a cura di), Lectiones. Riflessioni sull’architettura, Clean, Napoli 2017.
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Progetto per la nuova Biblioteca di Pescara. Pescara 2004.
Monestiroli Architetti Associati (A. Monestiroli, T. Monestiroli) con M. Ferrari, M. Polignano. Veduta esterna.
DIALOGUE WITH
ANTONIO MONESTIROLI
Edited by
Federica Visconti and Renato Capozzi
RC and FV: The first fundamental subject that we would like to have a reflection on is: Is Architecture a science or a craft?
Massimo Cacciari in a conference at IUAVof Venice1 after the last university reform stated of a discipline «[…] precisely on the
threshold, on the boundary: scientia, without doubts, because number, forma and collocatio, forced to reflect on its principles,
unlike other technai»2.
AM: I’d like to make a premise in order to explain why I accepted this dialogue with you. Being able to talk about your
work, about its ‘reasons’ is a problem really topical. Today there is a condition absolutely new related to the entire history of
architecture, above all outside the academic circuit and thinking of the architects that work more in Europe and in the world:
nobody is able to talk about what he did yet. There are no descriptions of the great projects of the contemporary age, there are
no reports on the works of architecture. It is really singular. When the Torre Velasca was built in Milan, Ernesto Rogers wrote
pages and pages on that building, explaining its reasons, materials and form. However, today nobody describes the things he
does and this is, for me, mysterious and, in any cases, a very serious question is posed: is it permissible, or even necessary, to
talk about the things you do or not? This seems to me a question that must precede the question you ask me about architecture
as a science or a craft.
We can start stating that architecture is a craft – because architecture needs the construction, it is ‘art of construction’
and there isn’t for me a better definition – but I’d like to add that it is an craft where you can and must talk of what you do:
you have to try to give the reasons, to explain how a project was born, how those forms were born, what were the reasons of
the choices. It could be argued that not only today nobody talks about architecture, but very few people do architecture, that
architecture, today, is a betrayed craft. Many contemporary architects make projects that, in my opinion, are not architecture,
but are something else: they are buildings, more or less complex from the technological point of view, very showy from the point
of view of the form; in a certain way we could define them advertising buildings, communicative forms not of their meaning but
of other things. And if these buildings tell other things that are not architecture, it is possible to state that if not talking about
architecture underlies that architecture is no longer made today.
Probably it is for this reason that in the project reports we read about the program, the functions, the way in which the
buildings are built but almost never about the sense of a building, almost never about the reasons of certain choices rather than
others that the architect made.
If this is the premise, we are in front of a very difficult condition because not only it is difficult to pose and solve the problem
but the problem is completely avoided. In this condition is really difficult to go back to the sense of architecture or, if the term
“go back” is too much backwards, to go towards a new architecture and I don’t know what is the right way to do it. Today the
world of the construction companies – that, I repeat the concept, is not architecture – is no longer in the hands of the architects
but of the businessmen. This to say that, when we talk about the relationship between craft and discipline, we are talking of a
minority position, of a restricted group of people that teach and in some way are obliged to account for what they do.
At this point, we are able to do another step of our reasoning and talk about something that many people refuse to accept
in architecture: in our craft we cannot avoid to fail, we must accept the risk of making mistakes and leave the judgment on our
work to the others, the possibility of deciding if the architecture we built has an expressive quality necessary to make its meaning
recognizable. Only in this case the work can be considered successful. As long as there is no recognition of the meaning we attribute
to the work of architecture, the work cannot be defined a success. Refusing to take this risk means failing, it means building a form
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without life and without meaning. If you don’t want to risk in architecture, you must necessarily repeat something that already
exists. If, on the other hand, you try to do something new, you have to accept the risk that it is not the right one.
RC: But, if you do not accept the risk, in this way you risk the rear-guard?
AM: In fact, I believe that scientific thinking always contains the risk of failure.
RC: Precisely because it investigates field that is not yet known.
FV: One enters the field of possibilities yet to be verified.
AM: I believe the problem is always the questioning on what we are doing. Students get confused – but it happens also to
us – when they do not know what they are doing. When one realizes that the student has difficulties in finding the solution, it
is because, in reality, he doesn’t know what he is doing. If, on the contrary, we can communicate not only to the students but
also to the other skills of the project what we intend to do, our work becomes very interesting and amazing for everyone. [...]
RC: Marc Bloch3 wrote: «the danger of any pedagogy is to end up teaching words instead of things». The question to the
author of Questioni di metodo is: which project do you consider exemplary to explain to the students the method in architecture
and its necessity and how can you illustrate it?
AM: In the last month, I’m doing an exercise that I recommend to you and to the students. For some of my projects I wrote a
page – I forced myself to stay in a single page of 1500 characters – and I titled this page “a page on...”. [...] This is an exercise I
did later, but it should be done during or even before the project. Coming back to the question: I hope that the adopted procedure
can be understood by looking at the project. For example, in the Chiesa di San Carlo Borromeo4 in Rome, the relationship with
the place was important, it was what mostly influenced the subsequent choices. The church was built on an embankment that
already existed, which was a dump of all the houses built around it and which had to be taken away. When Tomaso and I arrived
on the place for the first time, was told us that remains would be immediately taken away and we asked not to do it because we
saw a hill, a podium and a tower on the podium. In these two elements there is the main part of our project. Over the years, the
process accelerates, all the steps become faster with experience, they overlap. Again about the church in Rome, we immediately
thought that the church would have been covered with tufa slabs and we decided it before thinking about the structure and so
the structure, in this project, became a secondary fact, is a traditional structure.
Each of these ‘five points’ of Questioni di metodo (Il tema – the theme, il luogo – the place, il tipo – the type, la costruzione
– the construction, il decoro – the decorum) can become important or negligible, according to the occasion, also according to the
mood: in this way sometimes we wants to make a speech more on one than on another of these points.
RC: In several occasions, you worked on the theme of the church: the first had an elongated plan (Chiesa al quartiere
Gallaratese in Milan in 1989), then a cross plan (Chiesa di Santa Maria di Loreto in Bergamo in 2000)5. The same theme, of
course, but with different scales and different places, it can find different answers, further developments, perhaps progressive
because I think the one you like most is always the last one, or not? Or in any case the one we were able to build…
AM: The church I built is the one I like more, maybe because I built it. But our liturgical consultant, Monsignor Santi, finds
that our most beautiful church is that in Bergamo.
RC: Finally, to the author of L’architettura della realtà6, in this rediscovered interest in realism7 – I hope not only apparent
–, I ask a reflection on what realism means in architecture and if we can share, again with Edgar Morin, that «the rationality
[is] a device for dialogue between the idea and the reality».
AM: To tell the truth, I have difficulties in separating reality and idea. In my opinion, the idea is formed in the relationship
with reality, and cannot come from outside, from a place that there isn’t. Certainly each of us has its own culture, a set of ideas
that everyone carries within and, every time a relationship with reality is established, this set of ideas faces this reality. The idea
takes form precisely in this comparison. For example, on the subject of the theatre: where do we investigate this theme if not
in the reality? In the architect’s mind there are already the materials, all the theatres of history are known, like the ‘Melville’s
whales’, but then we start to process these materials.
The project of the teatro di Udine is of the 19748. At that moment, the relationship between actors and spectators was
understood by the avant-gardes differently than in traditional theatre. Many people denied the division between the two parts
of the theatre and invoked a wider relationship, also physical, between actors and spectators.
Our theatre is made of two buildings contained one in the other and the space is all included between these two buildings,
there isn’t separation, there isn’t curtain as in the nineteenth-century theatre. The space is set up from time to time. The idea
of the Living Theatre impressed us very much, even if we didn’t want to indulge with it completely. We liked [to me and Paolo
Rizzatto] the fact of transferring the theatricality, the idea of theatre, in the contrast between two fixed scenes that perpetually
watched each other. This was the theatre for us. But this idea came out of the reality, from the theatre culture of the moment,
from the way theatre was lived, from the way theatre was attended. The theme wasn’t elaborated starting from the theatres of
history, therefore, not from a reflection on those theatres, not from their reduction to the essential but trying to ‘invent’, as we
said before, ‘risking’. Imagining a shape able to represent that idea of theatre.
For this reason Morin’s sentence doesn’t convince me at all, because it is as if there was the idea on one hand and the reality
on the other hand or a conflict or a comparison between them: for me the idea takes form when it enters in relationship with
reality, which is always a fruitful relationship.
34
Chiesa di Santa Maria di Loreto, Bergamo 2000. A. Monestiroli, T. Monestiroli, con M. Ferrari, M. Landsberger. Prospettiva interna.
Forms, themes, idea*
A frequent position today is considering that the meaning of the architectural forms coincides with their purpose, that there
is no difference between purpose and meaning. And this has always been the thinking of functionalists.
Then there are those who say that every form carries its meaning with it, that form and meaning are inseparable and, therefore,
the problem of the expression of meaning doesn’t exist. For those who think that the relationship between form and meaning
is given once and for all to the origin of architecture, the problem is only that of finding the form coherent with the theme of
architecture, choosing it among the many forms already given, in a kind of catalogue of forms and of their possible combinations.
I think, on the contrary, that the relationship between form and meaning must be established every time again, with all the
awareness of our tradition but with the freedom of thought that allows us to transgress any pre-established relationship.
I repeat: the relationship between form and meaning must be established every time again.
I have already said and written several times about this problem, today I want to underline here an aspect of this delicate
but fundamental passage.
I believe that what changes over time is our interpretation of the themes of architecture. I believe that our idea of house is
not the same of the ancients but is different because our culture is different.
Paradoxically, the house is the same from a functional point of view. What it changes is its meaning, the meaning we
attribute to it. […] I remember a fine definition of art by Heidegger that states exactly that art is the implementation of the truth.
This passage from an abstract concept like the truth to a concrete, material form that must be “built” always fascinated me.
It is the transition from an immaterial world, like the world of ideas is, to a material world, like that of construction. A kind of
metamorphosis of the idea. For this step there aren’t fixed rules. Rather, recommendations. One of these is that the ideas and
their meanings must be profound and not superficial and the forms of construction must be simple and clear.
Because of there are no rules in the transition from ideas to forms there are not even certain references. The risk is total, in the
sense that when the passage does not take place the meaning does not appear. The definition of the idea comes before any form.
When I say ‘idea’, I don’t mean the idea of a project but even before the idea of what the project has to accomplish: the
idea of home, theatre, museum, etc. This first phase of the project, of which I have always spoken a lot, is the most difficult and
arduous, because without having an idea of house it is impossible to design a house.
The idea on which the project is built cannot come from the mind of who design, it must be founded in the culture and in
the material conditions of an entire society. The culture of the house, of the theatre and the museum in the countries of northern
Europe is different from that of the Mediterranean countries and on these ideas houses, museums, different theatres will be built.
MASSIMO CACCIARI, Intervento, in GIANCARLO CARNEVALE (edited by), Il progetto di architettura e il suo insegnamento, Città studi, Milano 1995, pp. 43-48.
Ibidem, pp. 44-45.
3
MARC BLOCH, Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 1978.
4
See ANTONIO MONESTIROLI, MASSIMO FERRARI, TOMASO MONESTIROLI, Chiesa di San Carlo Borromeo, Roma, in “Casabella” n. 808, 2011, pp. 70-81.
5
Cfr. Antonio Monestiroli. Opere, progetti, studi di architettura, edited by MASSIMO FERRARI, Electa, Milano 2001, et, Antonio Monestiroli. Prototipi di architettura, edited by MASSIMO FERRARI, CLAUDIA TINAZZI, CINZIA SIMIONI, ALESSANDRO TOGNON, Il Poligrafo, Padova 2012.
6
ANTONIO MONESTIROLI, L’architettura della realtà, 1 ed., Clup, Milano 1979; 2 ed., Allemandi, Torino 1999.
7
Cfr. SILVIA MALCOVATI, FEDERICA VISCONTI, MICHELE CAJA, RENATO CAPOZZI, GAETANO FUSCO (edited by), Architettura e Realismo. Riflessioni sulla
costruzione architettonica della realtà, Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna (RN) 2013.
8
Antonio Monestiroli: Progetti 1967-1987, pres. by FRANCESCO MOSCHINI, Ed. Kappa/A.A.M. Architettura Arte Moderna, Roma 1988.
1
2
* Extracted from Lectio magistralis at the beginning of the academic year “Architettura e insegnamento della architettura” by Antonio Monestiroli
at Department of Architecture in the University of Naples “Federico II” on October, the 3th, 2014. Full version ANTONIO MONESTIROLI, L’architettura
e il suo insegnamento, in CAMILLO ORFEO (edited by), Lectiones. Riflessioni sull’architettura, Clean, Napoli 2017.
35
Trentatré domande a Antonio Monestiroli, a cura di FEDERICA VISCONTI, RENATO CAPOZZI, Clean, Napoli.
“A&P Continuidad”, n. 01/1, 2014.
COS’È UNA CASA?
Una conversazione con Antonio Monestiroli*
WHAT IS A HOUSE?
Story of a conversation with Antonio Monestiroli
di Federica Visconti e Renato Capozzi
by Federica Visconti and Renato Capozzi
Antonio Monestiroli ha accettato con piacere di dialogare con noi sui temi dell’architettura, del suo essere
mestiere e del suo insegnamento perché ha rilevato un
fatto singolare, quella che ha definito una solo apparente ovvietà: «nessuno descrive più le cose che fa e questo
è misterioso» afferma Monestiroli «quindi io partirei da
qui: è lecito o addirittura, di più, necessario parlare delle cose che si fanno o no?». Fermo, per sua orgogliosa
ammissione, a un’idea di Architettura intesa come “arte
del costruire”, Monestiroli è convito che in architettura si
debba poter «raccontare come è nato un progetto, come
sono nate quelle forme, quali sono stati i motivi di scelta,
di ispirazione» e ci ha quindi avanzato il legittimo dubbio che, dietro il “silenzio” di tanti architetti dello star
system si nasconda una architettura che non è più capace di rappresentare il suo senso ma che rappresenta altre
cose ed altri valori. Impossibile non essere d’accordo. Nel
mondo contemporaneo la progressiva virtualizzazione,
in ogni campo dell’arte e della vita umana in genere, si
è spinta eccessivamente in avanti producendo spesso la
smaterializzazione delle cose che da reali sono diventate
immaginarie: l’economia, i valori, l’architettura, le città.
In architettura – e non solo – l’ansia del ‘nuovo’ dell’‘inedito e sorprendente’ ad ogni costo ha sostituito una paziente costruzione del futuro: una categoria del mercato/
marketing – il ‘nuovo inteso come merce’ – ha soppiantato
il concetto di futuro che appartiene invece, singolarmente,
tanto alla politica quanto all’architettura.
Antonio Monestiroli kindly accepted to talk with us
about the themes of architecture, of his nature of craft
and of his teaching because he pointed out a singular fact
that he defined only an apparent obviousness: «nobody
describes any more the things that does and this is mysterious» says Monestiroli « so I would start from here: is
it lawful or even more necessary to talk about the things
that are done or not?». Steady, for his proud admission,
to an idea of architecture understood as “the art of building”, Monestiroli is convinced that in architecture «how
a project was born should be told, how those forms were
born, what were the reasons for a choice, of inspiration»
and then he proposed a legitimate doubt that, behind the
“silence” of so many architects of the star system is hiding
an idea of architecture that is no longer able to represent
its meaning but which represents other things and other
values. It is impossible not to agree. In the contemporary
world, the progressive virtualization, in every field of art
and of human life in general, went too far, often producing the dematerialization of things that are no longer real
but imaginary: the economy, the values, the architecture
and the cities. In architecture - and not only - the anxiety
of the ‘new’, the ‘inedited’ and the ‘surprising’ at all costs
replaced a patient construction of the future: a category
of the market/marketing - the ‘new as commodity’ - supplanted the concept of future that instead belongs, singly,
both to politics and architecture.
36
Ma pur di fronte a questa lucida analisi, l’atteggiamento di Monestiroli non appare rinunciatario: una parola che è ricorsa spesso nel nostro incontro e che ha assunto una valenza del tutto positiva è stata “rischiare” e,
mentre si parlava di rischio, si sottolineava la necessità di
un carattere progressivo del nostro mestiere, volto per sua
stessa natura al futuro. Sta già qui, limpida, la risposta
alla domanda Architettura: arte o mestiere? Perché Monestiroli ci ha parlato di una disciplina che non può essere
soltanto deduttiva: «la cosa interessante» ci ha detto «è
costruire una base solida della conoscenza dei dati materiali su cui fondare la propria immaginazione, il proprio
pensiero soggettivo […] non si può essere riduttivi, non si
può continuare a lavorare su quello che si sa: puoi combinarlo in mille modi ma è quello che già sai, mentre per
forza a un certo punto bisogna distaccarsi, osare, tentare
di capire, conoscere – usiamo la parola ‘conoscere’ che è
bellissima perché scienza vuol dire conoscenza – conoscere quel che ancora non si sa, rischiando».
Il rischio quindi come modalità per far progredire la
conoscenza, come ben lo ha descritto Piergiorgio Odifreddi paragonando la conoscenza a una “isola nell’oceano
della verità” – definizione ripresa da Isaac Singer che –
alla obiezione fatta nel Novecento da Ralph Sockman,
secondo la quale estendendo la sua superficie, l’isola ampliava anche i suoi confini sull’ignoto, rispondeva: l’area
di un cerchio è proporzionale al quadrato del raggio, la
sua circonferenza è proporzionale solo al raggio. Dunque,
l’area dell’isola della conoscenza cresce molto più velocemente della lunghezza del confine dell’ignoranza!
Rimanendo in tema di metafora questo rischio ha a
che fare con la domanda che costituisce il titolo di questa
conversazione e che ci è stata proposta a tavola, prima
dell’inizio “ufficiale” dell’intervista. “Cos’è una casa?”
Di fronte a questa domanda, ci ha detto Monestiroli, chi
ha avuto il compito di fare una casa può copiarla oppure
analizzare, schematizzare e classificare tutte le case esistenti per trarne un’astrazione – che in questo caso non
può che essere però riduttiva – oppure andare a fondo
in questa interrogazione, indagare il tema. Un passaggio
che Monestiroli ha definito «importante e necessario» e
che è stato per lui fondamentale per superare l’apparente
inconciliabilità tra pensiero logico e pensiero analogico –
ancora abbastanza misteriosa e irrisolvibile prima della
uscita della Autobiografia Scientifica di Aldo Rossi che,
scritta in America negli anni ‘80, uscirà in Italia solo nel
1990 – che viveva negli anni Settanta, gli anni «[…] della
tecnologia imperante, della interdisciplinarietà, di troppe
cose eteronome che circolavano, del pensiero di Umberto
Eco, dell’Opera aperta, delle tesi del Gruppo ’63 […]». A
distanza di quasi quarant’anni, la riflessione sul tema rimane la cosa che Antonio Monestiroli è «contento di aver
scritto» e il primo capitolo de L’architettura della realtà
– sul “tema” appunto – quello che, con l’ultimo dedicato
alla “analogia”, certamente salverebbe. A dire il vero il
libro nel suo insieme, con la più recente raccolta di lezioni La metopa e il triglifo, restano a parere di chi scrive,
due riferimenti abbastanza insuperati anche, ma non solo,
quanto alla loro utilità didattica.
In front of this lucid analysis, Monestiroli doesn’t appear to be renouncing: a word that has often been used
in our meeting and assuming a totally positive value
was “risking” and, while we were talking about risk, we
stressed the need of a progressive character of our craft,
aimed by its nature to the future. The answer to the question Architecture: art or craft? is already here, clear. Because Monestiroli told us about a discipline that cannot
be only deductive: «the interesting thing» he told us «is
to build a solid foundation of the knowledge of the material data on which to base our imagination, our subjective
thought [...] we cannot be reductive, we cannot continue
to work on what we know: we can combine it in thousand ways but it is what you already know, while at some
point we break away detachment, risk, try to understand
and know - we use the word to know that is beautiful because science means knowledge - knowing what is not yet
known, risking».
Therefore, the risk is a way to develop knowledge, as
Piergiorgio Odifreddi well described comparing knowledge to an “island in the ocean of truth” - a definition taken by Isaac Singer -that answered to the objection made
in the twentieth century by Ralph Sockman, according to
which extending its surface, the island also extended its
boundaries on the unknown: the area of a circle is proportional to the square of the radius, its circumference
is proportional only to the radius. Thus, the area of the
island of knowledge grows much faster than the length of
the boundary of ignorance!
Again through a metaphor, this risk has to do with
the question that constitutes the title of this conversation
and that was proposed to us before the “official” beginning of the interview. “What is a house?”. Answering this
question, Monestiroli told us, who had the task of design
a house can copy it or analyse, schematize and classify
all the existing houses to draw an abstraction - that in
this case obviously will be reductive - or go deep into
this question, investigate the theme. A passage that Monestiroli defined “important and necessary” and that was
fundamental for him to overcome the apparent irreconcilability between logical and analogical thought - still quite
mysterious and unsolvable before the publishing of Aldo
Rossi’s Scientific Autobiography, written in America in the
‘80s and published in Italy only in 1990 -. An irreconcilability which lived in the seventies, the years «[…] of the
prevailing technology, the inter-disciplinarity, too many
heteronomous things that circulated, the thought of Umberto Eco, the Opera aperta, the thesis of the Gruppo ’63
[…]». After almost forty years, the reflection on the theme
remains the thing that Antonio Monestiroli is “happy to
have written” and the first chapter of L’architettura della
realtà – precisely on the “theme” – the chapter that, with
the last dedicated to the “analogy”, he would certainly
save. Actually the book as a whole, with the most recent
collection of lessons La metopa e il triglifo, remain in the
opinion of the writers, two fairly unsurpassed references,
also, but not only, for their educational usefulness.
A deepening of the theme of the house, according to
Monestiroli, the need to say “what is a house?”, cannot be
37
Concorso per il Teatro di Udine, Udine 1974. A. Monestiroli, con P. Rizzatto.
Modello senza coperture.
Per Monestiroli approfondire il tema della casa, il dover
dire quindi “cos’è una casa?”, non può ridursi alla conoscenza di tutte le case, al senso che è stato dato nella storia
al tema della casa perché la sfida dell’architettura, che è
anche la sua bellezza, «è poter in qualche modo pensare o
dare una definizione diversa da quella che hai ereditato»:
una possibilità per l’oggi che, per Monestiroli, deve restare
sempre aperta perché non necessariamente tutti i dati sono
contenuti nella tipologia che rischia, così, di diventare un
modello immutabile, una «gabbia restrittiva» e forse anche
di distaccarsi dalla realtà della vita; invece il tema della
casa, come di ogni altra opera di architettura, «va conosciuto ogni volta da capo» perché è proprio il tema «quello
che si deve mettere in evidenza, rappresentare e quindi da
lì, poi a seconda del luogo in cui si trova, non si sceglie un
tipo tra quelli che già ci sono ma se ne propone una versione più adeguata al tema di progetto».
Il tema, il suo significato, per produrre una estensione della conoscenza della realtà, deve passare dal pensiero
collettivo, e l’architetto se ne fa interprete pensando a qual
è la casa più bella, più adeguata, più giusta: l’architetto
deve trovare – nel confronto necessario con la natura e la
tecnica – le forme, la distribuzione, il senso, la costruzione
che abbiano un valore più generale possibile e in questo
caso si può dire che quell’opera ha un valore collettivo. E
ritorna così la questione del “rischio” perché la riflessione
reduced to the knowledge of all the houses, to the sense
that has been given over history to the theme of the house
because the challenge of architecture, which is also its
beauty, «is the possibility to think in some way or to give a
different definition from what you inherited»: a possibility
for today that, for Monestiroli, must always remain open
because not necessarily all the data are contained in the
typology that risks to become an immutable model, a “restrictive cage” and perhaps also to detach itself from the
reality of life; on the other hand, the theme of the house,
like any other architectural work, «should be known every time from the beginning» because it is precisely the
theme «what must be highlighted, represented and then,
depending on the place where is, we don’t choose a type
among those that already exist but we propose a version
more appropriate to the theme of the project».
The theme, its meaning, in order to produce an extension of knowledge of the reality, must pass through the
collective thought, and the architect interprets it thinking of what is the most beautiful, most adequate, fairest
house: the architect must find - in the necessary comparison with nature and technique - the forms, the distribution, the sense, the construction that have a more general
value and, in this case, we can say that the work has a collective value. The question of the “risk” returns, because
the reflection on the theme, in the craft as in the school,
38
Concorso per il Teatro di Udine, Udine 1974. A. Monestiroli, con P. Rizzatto.
Sezioni trasversali della sala piccola e della sala grande.
sul tema, nel mestiere come nella scuola, non produce ancora l’elaborazione di una forma e, come Monestiroli dice
«per elaborarla si può ridurre al minimo, se si ha una certa
poetica, oppure rendere ridondante se ne si ha un’altra ma
non si può evitare il rischio di fallimento, non si può evitare
di fallire, bisogna accettare di poter fallire […] se l’opera
che si costruisce ha in sé la capacità espressiva per cui viene
riconosciuta da una collettività, allora si può considerare
riuscita ma, finché non c’è questo riconoscimento di quel
che è stato attribuito a quell’opera, non si può considerare
riuscita. Evitare questo rischio, non voler correre questo rischio vuol dire fallire, vuol dire costruire una forma senza
vita e senza senso». Sarebbe a questo punto legittimo chiedere se vi sia un modo per rendere questo rischio, che pure
abbiamo inteso deve essere connaturato al nostro mestiere,
meno forte ma forse la domanda all’autore di Questioni di
metodo rischia di diventare retorica. Preferendo la parola
“metodo” alla troppo impegnativa “teoria” – perché il primo si può correggere, modificare in ogni momento mentre
una teoria può essere sostituita solo da un’altra teoria –
Antonio Monestiroli afferma di «non riuscire a muovere un
passo senza il metodo»: a scuola, per guidare gli studenti,
ma anche nel mestiere, anzi la messa a punto del metodo nasce, per lui, non solo da una esigenza didattica ma
innanzitutto da quella di risolvere nodi problematici che
emergono durante il suo lavoro di progettista.
doesn’t produce the elaboration of a form and, as Monestiroli says, «to produce it, you can reduce to a minimum,
if you have a certain poetics, or make redundant, if you
have another, but you cannot avoid the risk of failure, you
cannot avoid failing, you must accept you can fail [...] if
the work that you build has in itself the expressive capacity for which is recognized by a community, then it can be
considered successful, but until this recognition doesn’t
exist, it cannot be considered successful. Avoiding this
risk, not wanting to take this risk means failing, it means
building a form without life and without meaning». At
this point it would be legitimate to ask whether there is a
way to make this risk, which we also understood must be
inherent in our craft, less strong but perhaps the question
to the author of Questioni di metodo is likely to become
rhetorical. Preferring the word “method” to the too arduous “theory” - because the first can be corrected, modified
at any time while a theory can only be substituted by another theory - Antonio Monestiroli says he «cannot move a
step without the method»: in the school, to guide students,
but also in the craft, indeed the development of the method was born, for him, not only from an educational need
but above all from the need of solving problematic knots
that emerge during his work as an architectural designer.
The theme, then the place, then the typology, the construction and the decorum: these are the “steps” of the
39
Progetto per una loggia a Fidenza 2007. A. Monestiroli, con M. Ferrari, T. Monestiroli, C. Tinazzi.
Disegno di studio (collage).
Il tema, quindi, poi il luogo, quindi il tipo, la costruzione e il decoro: queste sono le “tappe” del metodo che,
come Monestiroli ci dice, riguardano ogni suo progetto ma
sono diventate via via, con l’esperienza, passaggi simultanei, accavallati, talvolta di importanza differente. È il
caso ad esempio della Chiesa di San Carlo Borromeo alla
Fonte Laurentina (2005-2011) a Roma dove sicuramente c’è una riflessione sul tema: «La chiesa è il luogo in
cui una collettività partecipa a un rito che la accomuna»
sono le parole iniziali di un testo che lo stesso Monestiroli ha dedicato al suo progetto anche se ci ha poi detto che, in quel caso, il passaggio determinante è stato il
luogo, un terrapieno esistente, una discarica di macerie
che la committenza voleva far rimuovere e che è diventata
un’occasione, uno straordinario podio, un basamento di
quattro metri di altezza sul quale ha «messo una torre»,
risolvendo così in due “mosse” uno dei temi più complessi che l’architettura possa affrontare. Il caso della Chiesa
di San Carlo Borromeo è ancora emblematico della non
rigidità e equipollenza dei passaggi del metodo perché
qui, come lo stesso progettista ci racconta, la costruzione
è tradizionale ed è invece stata seguita una idea iniziale
per il decoro «io ho pensato: questa chiesa sarà tutta di
tufo ancora prima di pensare alla struttura […]». Una
chiesa interpretata in riferimento alla sua “materialità”,
come Monestiroli scrive «una materialità che si oppone
a qualsiasi tentata sublimazione, a qualsiasi tentativo di
trasferire il suo senso altrove, in un luogo che non c’è. Noi
crediamo che la chiesa debba essere fondata nella terra,
method that, as Monestiroli tells us, concern every project
but They have gradually become, with experience, steps
simultaneous, overlapping, sometimes of different importance. This is the case, for example, of the Chiesa di San
Carlo Borromeo alla Fonte Laurentina (2005-2011) in
Rome, where there is certainly a reflection on the theme:
«The church is the place where a community participates
in a common ritual» are the initial words of a text that
Monestiroli dedicated to his project even if he then told
us that, in that case, the crucial step was the place, an
existing embankment, a dump that the client wanted to
remove and which has become an opportunity, an extraordinary podium, a four meter high base on which he
«placed a tower», thus resolving “in two moves” one of the
most complex themes that architecture can present. The
case of the Church of San Carlo Borromeo is still emblematic of the non-rigidity and equivalence of the steps of the
method because here, as the designer himself tells us, the
construction is traditional and was instead followed by
an initial idea for decorum «I thought: this church will
be all of tufa before thinking of the structure […]». A
church interpreted in relationship with its “materiality”,
as Monestiroli writes, «a materiality opposed to any attempted sublimation, to any attempt to transfer its meaning elsewhere, to a place that is not there. We believe that
the church must be founded on the ground, that the altar must emerge from the ground and that its forms must
know how to express this belonging to the earth». The
small acropolis where the church stands and the tufa, dug
40
che l’altare debba emergere dalla terra e che le sue forme
debbano saper esprimere questo appartenere alla terra».
E di questo senso ci raccontano la piccola acropoli dove
sorge la chiesa e il tufo, cavato nei dintorni, con il quale
è costruita. La Chiesa di San Carlo Borromeo a Roma è
quella che ad Antonio Monestiroli piace di più tra quelle
che ha progettato (la Chiesa al quartiere Gallaratese a
Milano nel 1989, la Chiesa di Santa Maria di Loreto a
Bergamo nel 2000 fino al recente progetto di concorso per
la Chiesa della Madonna del Carmine a Santa Maria la
Carità (NA) del 2013) – «perché l’ho costruita» spiega.
Parlando di altri suoi progetti, sembra che Monestiroli
avverta l’esigenza e la necessità dell’esaltazione. Il riferimento è, ovviamente, al ‘razionalismo esaltato’ di Aldo
Rossi cui ha dedicato un piccolo libro – Antonio Monestiroli, Il razionalismo esaltato di Aldo Rossi, Ogni uomo è
tutti gli uomini Edizioni, Bologna 2012 – che pure abbiamo evocato. «Analizziamo la coniugazione “razionalismo
esaltato”» – dice Monestiroli – «essa contiene già le due
parti del discorso nel senso che il razionalismo è analitico,
è conoscenza razionale che parte da dati razionali anche
se poi sperimenta analogie, passaggi scoperti… e poi la
parola “esaltazione” anche etimologicamente richiede un
complemento oggetto: che cosa viene esaltato? Parlo di
questa cosa non da teorico ma proprio perché ci passo
ogni volta che faccio un progetto, ogni volta mi pongo
il problema di qual è la cosa che mi interessa mettere in
evidenza di ogni progetto, nel senso che ogni progetto si
costruisce sulla conoscenza – usiamo pure questa parola –
sistematica di quello che si sta facendo però poi, volendo
esprimere il senso di quello che si sta facendo, bisogna
esaltarne un aspetto, esaltarne in qualche modo il nucleo
concettuale e allora questa esaltazione – che è poi una
esaltazione formale perché attraverso la forma l’architetto
esalta quel che sembra essere il senso di quella cosa – può
avvenire solo se c’è la conoscenza empirica di quella cosa
ed è impossibile fare una cosa senza l’altra se non rinunciando a questo rapporto». L’esempio straordinariamente efficace che Monestiroli ci fa è quello di Moby Dick di
Melville. Melville intitola il capitolo XXXII Cetologia e lì
ci racconta di tutte i tipi di balene che popolano l’oceano e Melville, nel secolo della scienza positiva, con questo
capitolo «costruisce il controcanto e l’unicità della balena
bianca che invece è assolutamente un fatto straordinario, è stra-ordinaria, è una balena “esaltata”! Attraverso
questa straordinarietà Melville rappresenta il mistero della natura, la sua brutalità, la sua impossibilità di essere
veramente conosciuta». Così deve poter accadere anche
in architettura dove deve poter esistere un rapporto progressivo tra ‘classificazione’ e ‘induzione’ o, come Monestiroli suggerisce, “immaginazione”, parola “più nostra”:
«noi conosciamo tutte le balene però ne immaginiamo una
diversa, ne immaginiamo una che non c’è, una che noi
rincorriamo, una che non sappiamo se riusciremo a raggiungere». E questa immaginazione nasce però, secondo
Monestiroli, dal rapporto ineludibile con la realtà.
Un altro progetto, legato in particolare alla riflessione
sul tema, di cui Antonio Monestiroli ci parla dopo aver
raccontato di uno dei suoi più recenti – la chiesa di Roma
in the surroundings, with which it is built tell us about
this sense. The Church of San Carlo Borromeo in Rome
is the church that Antonio Monestiroli likes most among
those he designed (the Church in the Gallaratese district
in Milan in 1989, the Church of Santa Maria di Loreto in
Bergamo in 2000 and the recent competition project for
the Church of Madonna del Carmine in Santa Maria la
Carità (NA) of 2013) – «because I built it» he explains.
Talking about his projects, it seems that Monestiroli
feels the need of a kind of ‘exaltation’. Of course, the
reference to the razionalismo esaltato of Aldo Rossi, to
which he dedicated a small book – A. Monestiroli, Il razionalismo esaltato di Aldo Rossi, Ogni uomo è tutti gli
uomini Edizioni, Bologna 2012 – and that we also evoked.
«Let us analyse the conjugation “exalted rationalism”» –
Monestiroli says – «it already contains two parts of the
discourse in the sense that rationalism is analytical, it is
rational knowledge that starts from rational data even if
it then experiences analogies, uncovered passages ... and
then the word “exaltation” also etymologically requires
an direct object: what is exalted? I’m talking about this
subject not with a theoretical approach but just because,
every time I make a project, every time I ask myself what
is interesting to highlight in every project, I need to reflect
in this sense: in the sense that every project is built on
systematics knowledge – let use this word – of what we are
doing but then, wanting to express the sense of what we
are doing, we need to exalt an aspect, exalt in some way
the conceptual core and then this exaltation - a formal
exaltation because through the form the architect exalts
what seems to be the meaning of that thing - can only
happen if there is a empirical knowledge of that thing and
it is impossible to do one thing without the other except
renouncing this relationship». The extraordinarily effective example that Monestiroli made is that of Moby Dick
by Melville. Melville entitles the chapter XXXII Cetologia and tells us about all the types of whales that inhabit
the ocean and Melville, in the century of the positive science, with this chapter «builds the counterpoint and the
uniqueness of the white whale that instead is absolutely
a fact unexpected, it is extra-ordinary, it is an “exalted”
whale! Through this extraordinariness Melville represents
the mystery of nature, its brutality, its impossibility of
being truly known». The same thing must also happen
in architecture where a progressive relationship between
classification and induction must be able to exist or, as
Monestiroli suggests, imagination, word “more ours”: «we
know all the whales but we imagine a different one, we
imagine one that there isn’t, one that we chase, one that
we don’t know if we will be able to reach». And this imagination was born, according to Monestiroli, from the inescapable relationship with reality.
Another project, particularly linked to the reflection on
the theme, of which Antonio Monestiroli talked about after one of his most recent – the church in Rome – is one of
his first: the project for the Concorso per il teatro di Udine
of 1974. Despite having in mind all the “whales of Melville” – from the Greek to the Roman theatre, to the Renaissance, to the nineteenth century – the theatre in Udine
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wants to reflect on a different sense of the space where the
separation between actors and spectators it is no longer so
clear: «there are two opposing C and the space is all there,
there isn’t any caesura, there isn’t any diaphragm typical
of the nineteenth-century theatre and then the space is
set up from time to time ... the idea of the Living Theatre
impressed us very much, even if we didn’t want to indulge
with it completely but we liked the fact of transferring the
theatricality, the idea of theatre, in the contrast between
two fixed scenes that perpetually watched each other. This
was the theatre [the theme] for us but this idea came out
of the reality, from the theatre culture of the moment,
from the way theatre was lived, from the way theatre was
attended».
This reference to the reality of our time, of the modus
hodiernus, is a reference that, in the case of Antonio Monestiroli, not only concern, through the theme, the reality
of the life, of Lebenswelt, but also the reality of the construction. Also in this case the subject was crossed and
faced by Monestiroli in the research, in the school and
in the craft. On the other hand, as Carlos Martí Arís reminded us in the “Introduzione” to the Allemandi edition
of L’architettura della realtà, «What interests above all
Monestiroli is the idea of architecture as a specific form
of knowledge, as a way of understanding and interpreting
the world. For this reason he doesn’t perceive any discontinuity between theory, teaching and project. This unified
vision of the architectural discipline gives great strength
to his statements and proposals».
In the Faculty of Civil Architecture of Politecnico di
Milano, the dean Antonio Monestiroli proposed to involve
in the Studios teachers of many different disciplines – architectural composition, construction but also technology and others – called, in the first phase of the work, to
share the objective, to agree on the answer to the question
What are we doing? and this thing has long obliged the
teachers with the students to confront and share, avoiding «those increasingly partial and almost secret specializations» that Aldo Rossi announced in 1997 in the “Introduzione” to the book Scienza o arte del costruire? by
Pier Luigi Nervi. Specializations that Aldo Rossi thought
would have led our schools, both those of architecture and
of engineering for different reasons, to the disaster. In addition, he tells us, the Progetto per la nuova Biblioteca
di Pescara in 2004 was born at school, from the reflection on the theme of the relationship between technical
forms and architectural forms made with the engineer
Vincenzo Petrini: a huge undivided hall of 70 meters that
Monestiroli would never have done without the contribution of Petrini, who, in turn, let himself be involved in an
unprecedented challenge for him, understanding that the
structure had not only a static or technical constructive
value but also a cultural value, linked to the possibility of
making expressive the forms of construction through the
principle of decorum.
Throughout the long conversation with Antonio Monestiroli, we continually move from dealing with practical
and concrete topics to discussing theory: in fact, he proposed three possible definitions of architecture that are
– è uno dei suoi primi: il progetto di Concorso per il teatro
di Udine del 1974. Pur avendo in testa tutte le “balene di
Melville” – dal teatro greco a quello romano, a quello del
Rinascimento, a quello ottocentesco – il teatro di Udine
vuole riflettere su un senso diverso dello spazio teatrale
nel quale la separazione tra attori e spettatori non sia più
così netta: «ci sono due C contrapposte e lo spazio è tutto
lì, non c’è cesura, non c’è il diaframma del teatro ottocentesco e poi si allestisce di volta in volta… l’idea del Living
Theatre ci ha molto suggestionato, anche se non abbiamo
voluto assecondarla del tutto ma ci piaceva il fatto di trasferire la teatralità, l’idea di teatro, nella contrapposizione
di due scene fisse che si guardavano perennemente, per
noi il teatro [il tema] era questo ma questa idea è venuta
fuori dalla realtà, dalla cultura del teatro di quel momento, dal modo in cui si viveva il teatro, dal modo in cui si
andava a teatro».
Questo richiamo alla realtà del nostro tempo, del modus hodiernus, è un richiamo che, nel caso di Antonio
Monestiroli, non riguarda solo, attraverso il tema, la realtà della vita, della Lebenswelt, ma anche la realtà della costruzione. Anche in questo caso la questione è stata
attraversata e affrontata da Monestiroli nella ‘ricerca’,
nella ‘scuola’ e nel ‘mestiere’. D’altra parte, come ci ha
ricordato Carlos Martí Arís nella “Introduzione” alla edizione Allemandi de L’architettura della realtà, «Ciò che
interessa prima di tutto Monestiroli è l’architettura come
forma specifica di conoscenza, come modo di intendere
e di interpretare il mondo. Per questa ragione non avverte alcuna discontinuità tra teoria, didattica e progetto.
Questa visione unitaria della disciplina architettonica dà
grande forza ai suoi enunciati e alle sue proposte».
Alla Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di
Milano fu proposto, da Antonio Monestiroli allora preside,
di coinvolgere nei Laboratori docenti di molte discipline –
composizione architettonica, strutture ma anche tecnologia e altre – chiamati, nella prima fase del lavoro, a condividere l’obiettivo, a essere d’accordo sulla risposta da dare
alla domanda Cosa stiamo facendo? e questo ha obbligato
a lungo i docenti con gli studenti al confronto e alla condivisione evitando che si producessero «quelle specializzazioni sempre più parziali e quasi segrete» che Aldo Rossi
preannunciava, nel 1997, nella “Introduzione” a Scienza
o arte del costruire? di Pier Luigi Nervi, avrebbero portato
le nostre scuole, per motivi diversi tanto quelle di architettura che quelle di ingegneria, al disastro. In più, ci racconta, il Progetto per la nuova Biblioteca di Pescara del
2004 nasce proprio a scuola, dalla riflessione sul tema del
rapporto tra forme tecniche e forme architettoniche fatta
col collega strutturista Vincenzo Petrini: una grande aula
indivisa di 70 metri di lato che Monestiroli non avrebbe
mai fatto senza l’apporto di Petrini che, a sua volta, si
è lasciato coinvolgere in una sfida inedita per lui capendo che quella struttura non aveva solo un valore statico
o tecnico costruttivo ma anche uno culturale, legato alla
possibilità di rendere espressive le forme della costruzione
attraverso il principio del decoro.
In tutta la lunga conversazione con Antonio Monestiroli si passa continuamente dal trattare argomenti pratici
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e concreti a discutere di teoria: d’altra parte lui stesso ci
ha proposto tre possibili definizioni di architettura che su
questa coesistenza si fondano. Vitruvio con il suo notissimo ea nascitur ex fabrica et ratiocinatione ma anche Leonardo da Vinci che definisce l’arte – e ciò vale anche per
l’architettura – una scienza che usa le mani perché senza
metodo scientifico le mani non possono produrre alcunché
e, infine, Paul Valéry che nel suo Discorso sull’estetica afferma che la poesia è una scienza esatta. La poesia che
sembra la più istintiva delle produzioni artistiche richiede
fatica, un processo di scelta delle parole lungo e complesso
perché la parola “esatta” deve essere collocata nel posto
“esatto” altrimenti tutto il castello crolla. Così accade anche all’architettura dove tanto le regole della disciplina
quanto la componente soggettiva di chi compone l’architettura sono indeducibili e irrinunciabili. Non è un caso
che la ricerca dell’esattezza e al contempo della espressività anche per Mies sostanziano l’essenza dell’architettura.
In esergo al già richiamato libro dedicato al razionalismo esaltato di Rossi, Monestiroli riporta queste parole
dell’architetto milanese: «Il pensiero logico si esprime in
parole e si indirizza all’esterno come un discorso. Il pensiero analogico, immaginato e muto, non è un discorso ma
piuttosto una meditazione sui materiali del passato…».
L’idea di Antonio Monestiroli, ci pare evidente, è che entrambi questi modi della conoscenza non possano fare a
meno di coesistere perché ci sia architettura.
based on this coexistence. Vitruvius with its famous ea
nascitur ex fabrica et ratiocinatione but also Leonardo da
Vinci that defines the art - and this can also applies to architecture - a science that uses the hands because without
scientific method the hands cannot produce anything and
finally, Paul Valéry that in his Discorso sull’estetica states
that the poetry is an exact science. Poetry that seems the
most instinctive of artistic productions requires effort, a
long and complex process of choice of the words because
the “right” words must be placed in the “right” place
otherwise the whole castle collapses. This is also true in
architecture, where both the rules of the discipline and
the subjective component of who composes architecture
are non-deductible and indispensable. It is not a case that
the search for exactness and, at the same time, for expressiveness, also for Mies, substantiates the essence of
architecture.
At the beginning of the aforementioned book dedicated
to the exalted rationalism of Aldo Rossi,
Monestiroli quotes these words of the Milanese architect: «Logical thought is expressed in words and addressed
to the outside as a discourse. The analogical thought, imagined and silent, is not a discourse but rather a meditation on the materials of the past...». The idea of Antonio
Monestiroli, it seems evident, is that both these ways of
knowledge must coexist for there to be architecture.
Il presente testo è stato pubblicato in lingua spagnola in: F. VIR. CAPOZZI, Qué cosa es una casa? Conversación con Antonio
Monestiroli, in, “A&P Continuidad”, n. 01/1, 2014.
*
SCONTI,
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Antonio Monestiroli (Milano, 1940) si è laureato in architettura al Politecnico di Milano nel 1965 con Franco Albini. Dal
1970 ha insegnato Composizione Architettonica alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano e dal 1997 alla Facoltà
di Architettura Civile. Dal 1988 al 1994 è stato Direttore del Dipartimento di Progettazione dell’Architettura del Politecnico
di Milano. Dal 1987 è membro del Collegio dei docenti del Dottorato di Ricerca in Composizione architettonica allo IUAV di
Venezia. Dal 2000 al 2008 è stato Preside della Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano del quale è Professore
Emerito dal 2011. Dal 1999 è accademico della Accademia Nazionale di San Luca, la più alta istituzione per le arti italiana,.
Svolge la sua ricerca sui temi della teoria della progettazione e ha pubblicato nel 1979 L’Architettura della realtà, CLUP, Milano; 3a edizione, Allemandi, Torino 2004; (ed. spagnola: La arquitectura de la realidad, Barcellona, 1993). Ha curato l’edizione
italiana del libro di Hilberseimer su Mies Van der Rohe, CLUP, Milano 1984 e, in seguito ad una lunga conversazione con Ignazio Gardella, ha pubblicato L’architettura secondo Gardella, Laterza, Roma-Bari 1997. Nello stesso anno scrive Temi urbaniUrban Themes, edizioni Unicopli, Milano 1997. Nel 2002 ha pubblicato La metopa e il triglifo, Laterza, Roma-Bari, il suo libro
con il maggior numero di ristampe (ed. inglese The metope and the Triglyph, SUN publisher, Amsterdam, 2005). Nel 2010 ha
pubblicato La ragione degli edifici, Christian Marinotti, Milano, nel 2013 In compagnia di Palladio, e, nel 2015, Il mondo di
Aldo Rossi, entrambi per i tipi LetteraVentidue, Siracusa. È autore della voce “Teoria” in Architettura del Novecento, a cura di
M. Biraghi e A. Ferlenga, Einaudi, Torino 2012. Sempre per LetteraVentidue nel 2016 ha pubblicato Una pagina su...Trentasei progetti di architettura, giunto alla seconda ristampa. Si segnala la sua bella “conversazione” contenuta nel recentissimo
volume: I. Cortesi, Conversazione in Sicilia con Antonio Monestiroli, LetteraVentidue, Siracusa 2017. L’attività di progettista
è intensissima, con la partecipazione a concorsi nazionali e internazionali nei quali i progetti si legano sempre ai temi della
ricerca teorica della quale possono essere letti come verifica, da un lato, e alimento, dall’altro. Molti i progetti realizzati, alcuni
pubblicati in Antonio Monestiroli. Opere, progetti, studi di architettura, Electa, Milano 2000: tra i più recenti la Chiesa di San
Carlo Borromeo a Roma (pubblicata su “Casabella” n. 808, 2011) e il nuovo planetario di Cosenza (in corso di realizzazione)
entrambi documentati in Antonio Monestiroli. Prototipi di architettura, a cura di M. Ferrari, C. Tinazzi, C. Simioni, A. Tognon,
Il Poligrafo, Padova 2012.
Antonio Monestiroli (Milan, 1940) graduated in Architecture at Politecnico di Milano in 1965 with Franco Albini. From
1970 taught Architectural Composition in the Faculty of Architecture of Politecnico di Milano, from 1997 at Faculty of Civil
Architecture. From 1988 to 1994 Head of the Department of Architectural Project at Politecnico di Milano. From 1987 member
of the board of PhD program in Architectural Composition at IUAV of Venice. From 2000 to 2008 Dean of the Faculty of Civil
Architecture at Politecnico di Milano, of which is Professor Emeritus from 2011. From 1999 Academic of Accademia Nazionale
di San Luca, the most important institution in Italy for Arts. His research is on theory of architectural design and published
in 1979 L’Architettura della realtà, CLUP, Milan; 3a edizione, Allemandi, Turin2004; (Spanish edition: La arquitectura de la
realidad, Barcelona, 1993). Edited the Italian edition of the book by Hilberseimer on Mies van der Rohe, CLUP, Milan 1984
and, after a very long conversation with Ignazio Gardella, published L’architettura secondo Gardella, Laterza, Rome-Bari 1997.
In the same year wrote Temi urbani-Urban Themes, edizioni Unicopli, Milan 1997. In 2002 published La metopa e il triglifo,
Laterza, Rome-Bari, his book with the biggest number of reprints (English edition: The metope and the Triglyph, SUN publisher
Amsterdam 2005). In 2010 published La ragione degli edifici, Christian Marinotti, Milan, in 2013 In compagnia di Palladio,
and, in 2015, Il mondo di Aldo Rossi, both for LetteraVentidue, Syracuse. Author of the item “Teoria” in Architettura del
Novecento, edited by M. Biraghi e A. Ferlenga, Einaudi, Turin 2012. Really intensive activity as architectural designer, through
participation in national and international competitions where the proposals are always related to the themes of the theoretical
research of which can be read as verification, on one hand, and nutriment, on the other. Many the built projects, some of them
published in Antonio Monestiroli. Opere, progetti, studi di architettura, Electa, Milan 2000: among the recent the Church of
San Carlo Borromeo in Roma (published in “Casabella” n.808, 2011) and the new Planetarium in Cosenza (under construction)
both documented in Antonio Monestiroli. Prototipi di architettura, edited by M. Ferrari, C. Tinazzi, C. Simioni, A. Tognon, Il
Poligrafo, Padova 2012.
For his teaching and for all this, for his intense career that has seen him engaged both in the school as in the craft, we asked
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