Raul Mordenti, letteratura come rivoluzione
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Alessandro Barile
October 27, 2020
Un libro di memorie e omaggi dedicati a Raul Mordenti.
Scritte murali, anni Settanta (fonte: Wikimedia
Commons)
Raul Mordenti, professore di Critica letteraria presso l’università di Roma Tor
Vergata, va in pensione, e l’editore bordeaux ne onora il suo percorso professionale,
politico ed umano con Letteratura e altre rivoluzioni. Scritti per Raul Mordenti, a cura
di Domenico Fiormonte e Paolo Sordi. Mordenti ha vissuto – e ancora vive pienamente
– molteplici esistenze: militante comunista negli anni Settanta, poi in Democrazia
proletaria e infine in Rifondazione; allievo di Asor Rosa alla Sapienza e poi docente di
Letteratura a Tor Vergata. L’incrocio di letteratura e politica descrive la parabola di
un’intera generazione, e questo è il lascito maggiore di una vicenda che non racconta
solo una vita, ma un pezzo di storia del nostro paese, oggi rimossa.
Un libro di memorie e di omaggi, per di più rivolti a chi è ancora tra noi e di cui si è
amici, sfida il recensore e lo costringe ad auto-inibirsi. Il rischio concreto è quello di
moltiplicare l’omaggio risultando stucchevoli. Ed è proprio ciò di cui non c’è bisogno.
Sin dal titolo, questa pubblicazione centra decisamente il percorso politico-culturale, e
diremmo esistenziale, di Raul Mordenti, ovvero la letteratura come rivoluzione e
la rivoluzione vissuta come ideale continuazione del discorso letterario,
dell’amore per la parola scritta. È d’altronde quanto emerge dalla breve ma
raffinata introduzione di Asor Rosa, che coglie tra le righe esattamente questo dato del
percorso intellettuale di Mordenti, la questione letteraria come problema della realtà,
come mediato rispecchiamento di ciò che si muove nella società. Non per caso dunque
uno dei riferimenti privilegiati di Mordenti è Lukács, che insieme a Gramsci descrive
perfettamente quei confini che si intrecciano e sfumano tra politica e cultura, tra
ideologia e società, e quindi tra realtà e rappresentazione. Se la letteratura è un
modo di intendere la realtà, può essere anche un modo per cambiarla. E ovviamente qui
nascono i problemi e le soluzioni originali: la cultura come arma politica è sovente
declinata, nel Novecento, a pura ideologia, insterilendo la ricerca artistica. Questo
motivo contraddittorio è stato per lungo tempo al centro delle riflessioni della cultura
rivoluzionaria: come tenere insieme capra e cavoli insomma? L’esperienza politicoculturale di Mordenti si muove entro questo perimetro: passione letteraria, militanza
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politica, sovrapposizioni ma anche distinzioni di momenti intrecciati ma eterogenei.
Quanto eterogenei e quanto intrecciati? Non è possibile una risposta certa, questo il
consiglio che ci lascia la vicenda del secolo breve.
Il testo raccoglie testimonianze qualificate di amici e colleghi di Mordenti, che si
snodano attorno a tre temi: la filologia e la critica letteraria; la politica, ovvero i ricordi
della sua vita militante dal ’68 ad oggi; l’informatica umanistica, uno dei campi
professionali a cui Mordenti ha dato maggior contributo. Vogliamo qui concentrarci sul
rapporto dell’autore con Gramsci (l’unico di cui possiamo accennare con qualche
cognizione di causa), che si snoda lungo tutta la sua vicenda biografica, politica e
universitaria, e che viene rivisitato dal bel saggio di Guido Liguori presente nel testo.
Possiamo anzi affermare che Gramsci costituisca un punto di riferimento
imprescindibile di Mordenti, a cui ha dedicato molti suoi scritti, e recentemente il
corposo saggio su De Sanctis, Gramsci e i pro-nipotini di padre Bresciani (2019). Il
tentativo di Mordenti, ancora in corso d’altronde, è al tempo stesso fuori tempo e
lungimirante: recuperare e vivificare una certa tradizione politico-culturale
italiana, quella linea di continuità tra De Sanctis, Labriola e Gramsci,
presentandola come soluzione ideale al decadimento intellettuale odierno (Mordenti
direbbe al servilismo intellettuale). La forza di questa proposta è evidente: a una cultura
tecnicizzata, parcellizzata e specialistica opporre una missione culturale che sia anche
idea del mondo, che non sfugga alla dimensione complessiva dei problemi della
modernità, non si nasconda nel distacco post-moderno e nel disimpegno. Un metodo,
diremmo, prima ancora che una direzione: il metodo volto a avvicinare, ma per
l’appunto non a unificare immediatamente e superficialmente, la cultura alla realtà e gli
intellettuali alla società. Quella vera, non la sua riproduzione universitaria che inizia alle
porte del dipartimento e finisce all’ufficio dell’ordinario di turno, giudice ultimo dei
destini di un’intellettualità precaria senza speranze e senza orizzonti.
Il limite, almeno per chi scrive, sta proprio nel riproporre una tradizione che è stata
egemone, davvero in questo caso utilizzando il lemma in senso propriamente
gramsciano, nel nostro paese per circa un quarantennio, tra la fine della Seconda guerra
mondiale e gli anni Ottanta. Quell’approccio storicista costruito sul mito di Gramsci che
oltre ai pregi ha presentato i suoi forse inevitabili difetti. La sola forza organizzativa e
ideologica del Pci non esaurisce i motivi di questa egemonia. Se ha affondato come
coltello nel burro dei ceti intellettuali del paese è perché aveva profonde radici nel
retroterra culturale dei protagonisti dell’Italia dell’epoca. Una tradizione che consentiva
il recupero e la valorizzazione di Croce e di Gentile, del letterato come primus inter
pares del discorso umanistico nazionale e, viceversa, del sospetto verso le scienze
sociali, verso le tecniche e le scienze produttive, chiuso agli apporti teoretici del
dibattito europeo. Cose note. Su cui però bisogna procedere accorti, come infatti fa
Mordenti. Riconoscendo in Gramsci una specifica autonomia politico-culturale,
possibile dall’«originale e determinante intreccio fra leninismo e idealismo» (p. 71). C’è
in questo passaggio un culmine di molteplici verità, spesso celate da quell’intellettuale
“servile” di cui sopra, che vanno velocemente sottolineate: in primo luogo, riconoscere
Gramsci come “leninista”, ossia come rivoluzionario, fatto questo per nulla scontato
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dopo tre decenni in cui si è tentato di presentare il dirigente comunista come un
professore di letteratura fortuitamente impegnato nella battaglia politica. Il leninismo
di Gramsci ha anche altre e più profonde motivazioni (e controversie), su cui non
entriamo per ragioni di spazio. Secondo poi: riconoscere l’influenza idealistica sul
pensiero e l’azione di Gramsci. Anche questo, un fatto per nulla assodato, in contrasto
con l’edificazione del mito Gramsci tutto interno alla tradizione marxista e materialista
del comunismo internazionale. Invece di perdersi nelle motivazioni contingenti,
Mordenti nel suo percorso di scavo dei Quaderni ne mette in luce questa originalità, la
rivendica e ne descrive i limiti e i pregi.
(licenza Creative Commons)
Ma lo studio di Mordenti sui Quaderni è anche critico e filologico, e giustamente
aggiungiamo noi. La lettura dei testi gramsciani come pienamente dentro una
tradizione novecentesca, ovvero quella «costitutiva incompiutezza» che lega la
letteratura dello scorso secolo, il tramonto delle certezze ottocentesche, la crisi del
positivismo e la messa in discussione delle verità filosofiche: tutto contribuisce a
modellare l’opera gramsciana come parte di quella crisi che attraversa la cultura
europea del tempo, una crisi che in Gramsci non può che essere dialetticamente anche
confronto critico e non immediato rifiuto. Gramsci è insomma, e paradossalmente,
figlio di quella decadenza che lui combatte, sperimentando soluzioni di fuoriuscita da
u n cul de sac che è anche, in lui, critica radicale del materialismo volgarizzato dalla
Seconda internazionale. Lontano da lui ma simile a lui, nello stesso torno di tempo,
Benjamin. Anche qui: non casualmente. Lukács, Gramsci, Benjamin
costituiscono dunque un orizzonte di senso per Mordenti, solidi riferimenti
attraverso cui si sviluppa il suo discorso letterario e culturale. E attraverso
cui comprendere anche il suo percorso politico, soprattutto quello che parte dal ’68,
passa per il ’77 e transita poi in Democrazia proletaria. Per capirlo è ancora utile
rileggersi la sua intervista presente in uno straordinario libro di memorie collettive
edito da Odradek, Una sparatoria tranquilla (2005). Il punto di vista di un militante
della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta, distante al tempo stesso da quel
movimentismo, dalla sua radicalità incompiuta e dalla progressione militare. Un punto
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di vista “altro”, interno e critico, come in fondo è stato sempre Mordenti. Con cui si può
concordare o meno, sapendo di farlo con un militante, della politica e della cultura, e
non con un mero osservatore delle cose altrui.
Alessandro Barile
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