PAOLA CULICELLI
CON ALTRI OCCHI. APPUNTI SULLA SATIRA FAVOLOSA DI LEOPARDI
La riflessione leopardiana sulla satira, testimoniata dallo Zibaldone, così
come dalle lettere, è ben nota alla critica letteraria; prende avvio nel 1819 e, con
l’insistenza di un pensiero dominante, attraversa in filigrana scritti e carteggi del
recanatese1.
Seguendo le tracce delle presenze zoomorfe nell’opera di Leopardi, emergono
suggestive contaminazioni tra satira e favola che, nel tempo, si fanno più complesse
e articolate, subendo interessanti trasformazioni. Da un lato rivolgiamo la nostra
attenzione all’attitudine dell’autore a rovesciare la prospettiva, a vestirsi di altri
panni, a cambiare pelle, a guardare al mondo e agli uomini con altri occhi, atti a
scardinare e destrutturare; dall’altro ci soffermiamo sulle maschere zoomorfe sovente indossate dalla satira leopardiana e, di conseguenza, sulle sue incursioni nel
campo della favola.
Decisive sono le fonti e l’uso che di queste fa l’autore. Gli scritti giovanili in cui
compaiono personaggi animali sono pervasi da una sorta di incantamento, di fascinazione per la favola e per l’affabulazione tout court, subiscono l’influenza favolosa
dei classici, poi la satira prende il sopravvento e la favola si fa satirica – è quanto
avviene nelle «prosette» –, infine la satira cui approda Leopardi, dopo assidue e
documentate riflessioni sul genere, decanta il proprio livore sfumando di nuovo
nella favola e riscoprendo, con un’altra maturità, il modello classico2.
1
Per una puntuale disamina del riso in Leopardi, rimandiamo a Il riso leopardiano: comico, satira, parodia. Atti del IX Convegno di studi leopardiani (Recanati, 18-22 settembre 1995), Firenze,
Olschki, 1998; citiamo inoltre il recente e prezioso contributo di EMILIO RUSSO, Ridere del mondo.
La lezione di Leopardi, Bologna, il Mulino, 2017.
2
Cfr. LUIGI BLASUCCI, Dal «Dialogo tra due bestie» al «Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo»,
in Il riso leopardiano: comico, satira, parodia, cit., pp. 289-290; GIUSEPPE SANGIRARDI, Luciano dalle
«prosette satiriche» alle Operette morali, in Il riso leopardiano: comico, satira, parodia, cit., pp.
305-373.
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Il camuffamento ferino consente all’autore di dire cose inattuali e sconvenienti. Così come nelle favole di Fedro, l’animale schermo affranca la penna dello scrittore che, altrimenti, risulterebbe vincolato. Com’è noto, Leopardi ben conosceva
Gli animali parlanti di Casti3, nella cui prefazione avrà avuto modo di leggere una
riflessione dell’abate di Montefiascone sul genere della favola. A proposito di Esopo, Casti osserva:
Famosissimo sopra tutti […] in questo genere fu Esopo di Frigia, che coll’acutezza dell’ingegno e colla sagacità dello spirito poté vantaggiosamente compensare la deformità della figura e le avversità della sorte; poiché seppe egli,
con allegorici racconti, semplicissimi e alla portata di tutti, e colla forza de’ favolosi esempi tratti dalla natura, spargere fra i rozzi popoli utili insegnamenti
Leopardi cita Casti nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza, dove fa riferimento agli Animali
parlanti come felice esempio d’imitazione: «pieghevolezza dell’ingegno facilità d’imitare, occasione
di parlarne sarà la Batrac. imitata dal Casti» (GIACOMO LEOPARDI, Ricordi d’infanzia e di adolescenza, in Poesie e prose, Milano, Mondadori 1988, II, p. 1187). Fa ancora cenno all’abate di Montefiascone nel Discorso sopra la Batracomiomachia, laddove motiva la sua scelta di adottare «le sestine
endecasillabe, dei vantaggi delle quali, dopo l’uso felicissimo che hanno fatto di loro parecchi
poeti, e singolarmente l’Ab. Casti, non può più dubitarsi» (GIACOMO LEOPARDI, Discorso sopra la
Batracomiomachia, in Poesie e prose, Milano, Mondadori, 1987, I, p. 419). Inoltre nell’Appendice
alle Operette, in merito al Dialogo di un cavallo e un bue, nella fattispecie quando tratta il tema del
Mammut, rimanda a un passo degli Animali parlanti: «Casti. An. Parlanti. C. 10. nota(a) alla st.
63» (GIACOMO LEOPARDI, Al Dialogo del cavallo e del bue, in Poesie e prose, cit., II, p. 244). La critica si è soffermata sull’influenza esercitata dagli Animali parlanti nei confronti dei Paralipomeni,
tuttavia l’influsso del poeta arcadico, come testimonia questa annotazione leopardiana, si può ragionevolmente ascrivere anche alla stesura delle «prosette». Non è forse un caso che, nella Novella
Senofonte Machiavello, Leopardi scelga la figura del Segretario fiorentino in qualità di educatore
del figlio di Plutone e Proserpina, e che Casti prima di lui, dovendo scegliere un precettore per
istruire una regina, la Leonessa, abbia attinto all’eredità di Machiavelli e abbia scelto di plasmare
esplicitamente il proprio personaggio a immagine e somiglianza dell’autore del Principe. Guida
e primo ministro della Leonessa è la Volpe, la cui lezione è che «Vincasi per virtude ovver per
frode / è sempre il vincitor degno di lode» (GIOVAMBATTISTA CASTI, Gli animali parlanti, Torino,
Unione tipografico editrice, 1866, I, p. 213), un concetto ribadito a più riprese e, anzi, portato alle
estreme conseguenze. Dopo aver ribadito, infatti, che «innocentemente non si regna» (ivi, p. 214),
si consiglia a chi voglia perseguire la virtù di rinunciare al potere: «se innocente esser vuoi, scendi
dal soglio» (ivi, p. 215). È implicito che chi detiene il potere, e intende conservarlo, non può essere
esente dal commettere misfatti. A poco a poco, sulla sagoma fosca della Volpe si proietta sempre
più nitidamente l’ombra del Segretario fiorentino. Emblematicamente si dice che la Volpe «in
quell’età brutali / fu come il Machiavel degli animali» (ivi, p. 178) e che fosse autrice di un’opera
intitolata «L’educazion de prenci» (ivi, p. 162). Nel redigere il suo bestiario politico, Casti fa riferimento da un lato alla favolistica, a Esopo, a Fedro, come abbiamo potuto osservare, e a La Fontaine, dall’altro alla trattazione politica, alla tradizione del realismo eversivo risalente a Machiavelli
che, sviscerando l’anatomia del potere, concepisce l’archetipo del Principe Centauro, mezzo uomo
e mezzo bestia, forte come il leone e insieme astuto come la volpe. Si tratta di un campo d’indagine
suggestivo e ancora aperto quello delle relazioni tra Leopardi e Casti, sotto l’astro di Machiavelli,
cui stiamo dedicando le nostre ricerche.
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di sensata morale e che di rimbalzo andavano a colpire il vizio, per vie facili e
insinuanti instillando la persuasione del vero e del giusto, e l’amore della virtù
negli animi che sembrar potevano i meno atti a ricevere istruzione, e molto meno a profittarne. Per tale ragione viene egli meritatamente considerato
come original modello di tutti gli scrittori che dopo di lui composero favole4.
In merito a Fedro, Casti sottolinea che l’età imperiale, garantendo meno libertà rispetto a quella repubblicana, costrinse gli scrittori, per sfuggire alla vendetta
dei potenti, di servirsi dei mascheramenti della favola, e che tale «stratagemma non
fu però bastante a sottrarre Fedro dall’indignazione e dalle persecuzioni dell’ambizioso Seiano»5. L’istanza politica della satira leopardiana attinge alla favolistica
classica ma tiene bene a mente il modello rappresentato dagli Animali parlanti di
Casti e la sua satira zoopolitica. Vestire la pelle degli animali non consiste per Leopardi in un mero gioco retorico; dapprima rappresenta un’evasione, poi si profila
come una vera e propria rivoluzione copernicana che sovverte il modello antropocentrico.
La curiosità dimostrata dal poeta recanatese nei confronti del regno animale
è non solo precocissima ma anche costante nel tempo, e ne testimonia una lunga
fedeltà. Inaugurata da una favola in versi intitolata L’ucello6 – opera di un Leopardi
appena dodicenne che annoveriamo tra i componimenti Puerili – si protrae nel
tempo esplorando i territori della prosa, fino a cimentarsi di nuovo nella poesia con
i Paralipomeni, laddove protagonisti sono topi, rane e granchi.
L’autore assume programmaticamente uno sguardo strabico, filosofico, di chi
è avvezzo a uscire fuori di sé per osservare il mondo da una posizione defilata,
straniante, spesso lontana nel tempo e nello spazio: inattuale e, insieme, marginale. L’empatia e lo sguardo partecipe rivolti agli animali lo portano a interrogarsi, giovanissimo, sull’anima delle bestie nell’omonima Dissertazione del 18117,
argomento già emerso nella favola I filosofi e il cane dell’anno precedente, in cui
immagina che una querelle filosofica sull’anima degli animali venga interrotta dal
sopraggiungere di un cane parlante che, nel momento in cui «Per discacciarlo
/ Ognun contro gli va»8, ammonisce la «dotta turma»9, invitandola a osservare
la bestialità degli uomini prima di ragionare sugli altri esseri viventi. SuccessivaGIAMBATTISTA CASTI, Gli animali parlanti, cit., I, pp. 11-12.
Ivi, p. 12.
6
GIACOMO LEOPARDI, L’ucello, in Poesie e prose, cit., I, p. 740.
7
ID., Dissertazione sopra l’anima delle bestie, in Poesie e prose, cit., II, pp. 506-519. Citiamo
la conclusione cui approda l’autore interrogandosi sull’anima degli animali: «sembrami di poter
concludere con sicurezza che la sentenza la quale afferma esser l’anima dei bruti uno spirito dotato
di senso, di libertà e di un qualche lieve barlume di ragione è certamente più probabile di ogni
altra» (ivi, p. 519).
8
ID., Favola. I filosofi e il cane, in Poesie e prose, cit., I, p. 789, vv. 31-32.
9
Ivi, p. 788.
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mente la riflessione leopardiana si fa più problematica. Prendiamo in esame il
Dialogo filosofico sopra un moderno libro intitolato “Analisi delle idee ad uso della
gioventù”, di cui citiamo un passo ambiguo all’insegna della dissimulazione, che
risulta di grande interesse:
E dove ci troveremmo mai se le bestie fossero dotate di ragione? La terra tutta
diverrebbe un teatro di devastazione e di orrore. Non pochi sono i bruti per
natura feroci, e di sangue avidi, e di stragi. Ora qual danno potrebbero essi
apportare all’uman genere se dotati fossero di ragione!10
La vena ironica, che percorre simile a un fiume carsico queste righe, sembra già
prefigurare la posa satirica del Galantuomo di fronte al Mondo. Non appare molto
distante dall’umore salace di tale provocatorio interrogativo il primo dei pensieri
leopardiani, che risuona tremendo nella sua verità: «Dico che il mondo è una lega
di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili contro i generosi»11. L’attenzione riservata agli animali assume a poco a poco i connotati di una filosofia, un «pensiero
dell’animalità», come lo definisce Gaspare Polizzi, «fortemente connesso alla più
generale visione materialistica»12. Risulta illuminante per comprendere la riflessione e il sentimento dell’autore recanatese riguardo alla dialettica uomo-animale uno
dei Ricordi d’infanzia e d’adolescenza, quello in cui racconta di aver assistito all’uccisione di una lucciola. Si tratta di un episodio emblematico, dai tratti aneddotici,
sulla brutalità degli uomini. L’accaduto viene descritto come un vero e proprio
scelus, un delitto del quale il giovane è testimone inorridito:
giardino presso alla casa del guardiano, io era malinconichiss. e mi posi a una
finestra che metteva sulla piazzetta ec. due giovanotti sulla gradinata della
chiesa abbandonata ec. erbosa ec. sedevano scherzando sotto al lanternone
ec. si sballottavano ec. comparisce la prima lucciola ch’io vedessi in quell’anno ec. uno dei due s’alza gli va addosso ec. io domandava fra me misericordia alla poverella l’esortava ad alzarsi ec. ma la colpì e gittò a terra e tornò
all’altro ec. intanto la figlia del cocchiere ec. alzandosi da cena e affacciandosi
alla finestra per lavare un piattello nel tornare dice a quei dentro = stanotte
piove da vero. Se vedeste che tempo. Nero come un cappello = e poco dopo
sparisce il lume di quella finestra ec. intanto la lucciola era risorta ec. avrei
voluto ec. invece quegli se n’accorse tornò = porca buzzarona = un’altra botta
la fa cadere già debole com’era ed egli col piede ne fa una striscia lucida fra la
polvere ec. e poi ec. finché la cancella. Veniva un terzo giovanotto da una stra-
10
ID., Dialogo filosofico sopra un moderno libro intitolato “Analisi delle idee ad uso della gioventù”, in Poesie e prose, cit., II, p. 545.
11
ID., Pensieri, in Poesie e prose, cit., II, p. 283.
12
GASPARE POLIZZI, Io sono quella che tu fuggi. Leopardi e la Natura, Roma, Edizioni di Storia
e Letteratura, 2015, p. 45.
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della in faccia alla chiesa prendendo a calci i sassi e borbottando ec. l’uccisore
gli corre a dosso e ridendo lo caccia a terra e poi lo porta ec13.
Il giovane che spegne l’esistenza della lucciola inerme è chiamato significativamente «l’uccisore», perché appunto è un crimen quello cui Leopardi assiste e che
annota perché sedimenti e nutra il suo immaginario. Madrina inconsapevole della
vicenda è Teresa Fattorini, che appare sulla scena per poi dileguarsi; in modo icastico il lume della finestra della giovane si spegne così come è destinata a spegnersi
la luce della lucciola, in un suggestivo e melanconico sodalizio dai tratti epifanici.
Anche il tempo, che si preannuncia «nero come un cappello», sembra prefigurare
simbolicamente il buio che seguirà. Veramente dietro la sagoma dei «bruti per
natura feroci, e di sangue avidi, e di stragi» non è difficile ravvisare l’ombra dell’homo homini lupus. È l’uomo stesso la bestia dotata di ragione che reca «danno [..]
all’uman genere»14. Il sarcasmo di Leopardi non risparmia neppure i letterati, o
presunti tali: «veggiamo non di rado – osserva nel già citato Dialogo filosofico sopra
un moderno libro intitolato “Analisi delle idee ad uso della gioventù” – uscire alla
pubblica luce de’ libri che degni sarebbero delle tipografie e delle biblioteche de’
bruti»15.
È nota la predilezione accordata dall’autore, nell’ambito del regno animale,
agli uccelli. Oltre alla già ricordata favola giovanile, ci limitiamo a citare Il passero
solitario e una delle Operette morali: Elogio degli uccelli. L’empatia nutrita nei confronti delle altre forme di vita che popolano la Terra si accompagna a un distacco
dal mondo degli uomini. L’attenzione e la partecipazione a volte accordate ai casi
degli animali si configurano come un ulterioris ripae amor che va di pari passo con
la contemplazione incantata del cielo e della Luna, interlocutrice notturna alternativa al Sole, prediletta da chi si sente diverso. Ecco che anche La storia dell’astronomia (1813) non può apparire come una mera prova enciclopedica ma si inserisce in
questa ricerca dell’altro, e dell’alto, che tradisce una segreta istanza di partecipare
a una dimensione ulteriore.
A guardar bene, anche nella favola L’ucello, si può cogliere una precoce vocazione a mettere in discussione l’antropocentrismo, quella tendenza a guardare da
un “altrove” che indica la successiva linea di sviluppo della sua scrittura satirica.
Nella favola giovanile, che racconta l’evasione dalla «dipinta gabbia» del protagonista omonimo, si può cogliere, infatti, come l’autore deleghi all’animale la propria
istanza di fuga e di ribellione:
LEOPARDI., Ricordi d’infanzia e d’adolescenza, in Poesie e prose, cit., II, pp. 1196-1197.
ID., Dialogo filosofico sopra un moderno libro intitolato “Analisi delle idee ad uso della gioventù”, in Poesie e prose, cit., II, p. 545.
15
Ivi, p. 544.
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Ma quando a lui soffersero
gli arbori verdeggianti,
e i prati erbosi e i limpidi
ruscelli tremolanti,
de l’abbondanza immemore,
e de l’usato albergo,
l’ali scuotendo volsegli
lieto e giocondo il tergo.
Di libertà l’amore
regna in un giovin cuore16.
In essa il volo rappresenta un allontanamento dalla Terra, presuppone un sentimento della propria diversità e, insieme, un moto di rivolta.
Sebbene questi primi indizi, la trasformazione dell’attenzione leopardiana al
mondo animale si fa evidente nella produzione più matura, dove la fascinazione
per gli aspetti favolistici che quello riserva diventa occasione funzionale al discorso
satirico.
Se, infatti, le prime opere, che hanno come protagonisti gli animali, denotano
un legame forte con la tradizione classica, rivisitata proprio per il fascino esercitato
dalle immagini favolose che il suo repertorio suggeriva, nelle prove successive la
lente ferina di osservazione assunta nella narrazione mostra di avere la precisa funzione di scardinare la visione antropocentrica del mondo e di arricchire la potenzialità critica della scrittura satirica. Emblematicamente Leopardi passa dal verso
alla prosa; l’argomento è serio, filosofico, benché trattato nei modi della satira, il
pathos lirico si raggela in un ghigno, e la rima è bandita. A poco a poco, nell’autore, la favola si fa satirica, lo sguardo feroce e la parola mordace, secondo il suo
proposito di vendicarsi del mondo e della virtù. È quanto confida in data 4 settembre 1820 nella lettera all’amico Giordani: «In questi giorni quasi per vendicarmi
del mondo, e quasi anche della virtù, ho immaginato e abbozzato certe prosette
satiriche»17.
Tale è la vendetta nei confronti del Mondo che, in due abbozzi dialogici, annoverati dalla critica tra le «prosette satiriche»18, Leopardi ci proietta in una terra de-
LEOPARDI, L’ucello, in Poesie e prose, cit., I, p. 740.
ID, Lettera a Pietro Giordani, in Lettere, Milano, Mondadori, 2006, p. 279.
18
Per quanto riguarda la distinzione tra «prosette satiriche» e Operette morali, si rimanda a
Luigi Blasucci, Dal «Dialogo tra due bestie» al «Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo», in Il riso
leopardiano: comico, satira, parodia, cit., p. 289: «Una delle inesattezze ancora correnti nella critica
leopardiana è che le cosiddette “prosette satiriche” siano da considerarsi i ‘cartoni’ delle future
Operette morali. In realtà gli scritti che vanno sotto quella denominazione, comprendenti il Dialogo
… Filosofo greco, Murco senatore romano, Popolo romano, Congiurati, il Dialogo tra due bestie, il
Dialogo Galantuomo e Mondo, la Novella Senofonte e Niccolò Machiavello, e assegnabili secondo i
calcoli di Giulio Augusto Levi agli anni 1820-22, riflettono un’ideologia e un programma stilistico
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solata in cui immagina che gli uomini siano ormai estinti. Il leit motiv che percorre
i due testi è quello che Fubini, attingendo all’immaginario dantesco, ha definito
«il motivo del ‘mondo senza gente’»19. Si tratta del Dialogo tra due bestie, p. e. un
cavallo e un toro, e del Dialogo di un Cavallo e un Bue. La presenza di personaggi
animali come interlocutori è annunciata programmaticamente in un Disegno letterario del 1819, che sembra preludere nella «sua vaghezza», come ha osservato
Blasucci20, tanto alle «prosette», quanto alle Operette:
Dialoghi satirici alla maniera di Luciano, ma tolti i personaggi e il ridicolo dai
costumi presenti o moderni, e non tanto tra morti, giacché di Dialoghi de’ morti c’è già molta abbondanza, quanto tra personaggi che si fingono vivi, ed anche
volendo, fra animali […]; insomma piccole commedie, o Scene di Commedie
[…] le quali potrebbero servirmi per provar di dare all’Italia un saggio del suo
vero linguaggio comico che tuttavia bisogna assolutamente creare, e in qualche
modo anche della Satira ch’è, secondo ch’io sento dire, nello stesso caso. […]
Argomento di alcuni Dialoghi potrebbero essere alcuni fatti che si fingessero
accaduti in mare sott’acqua, ponendo per interlocutori i pesci, e fingendo che
abbiano in mare i loro regni e governi, e possessioni d’acqua ec.21
Nel Dialogo tra due bestie, p. e. un cavallo e un toro, a testimoniare il passaggio
dell’uomo sul pianeta non rimangono che ossa e leggende circolanti tra le altre
specie; la parola, che sembrava prerogativa del genere umano, all’insegna di una
visione antropocentrica dell’universo, è invece consegnata agli animali. In questo
testo favola e satira si contaminano in maniera magistrale. La satira, che sottende
una profonda istanza filosofica, atta a irridere e scardinare l’illusione antropocentrica, indossa una maschera zoomorfa. Imbattendosi in ossa che ritengono di poter
verosimilmente attribuire a un uomo, un cavallo e un toro dialogano sulla natura di
tale animale, irridendone la convinzione che il mondo fosse fatto per lui. L’ironia di
Leopardi cammina su un doppio binario e investe anche i due interlocutori:
Credevano poi che il mondo fosse fatto per loro. T. Oh questa sì che è bellissima! Come se non fosse fatto per li tori. C. Tu burli. T. Come burlo? C. Eh
via, non è fatto per i cavalli? T. Tu pure hai la pazzia degli uomini? C. Tu mi
sembri il pazzo a dire che il mondo sia per li buoi, quando tutti sanno che è
fatto per noi22.
alquanto differenti da quelli delle Operette, tanto da potersi ritenere dei prodotti autonomi, anche
se incompiuti».
19
Cfr. GIACOMO LEOPARDI, Opere, a cura di MARIO FUBINI , TORINO, Utet, 1977, p. 623.
20
LUIGI BLASUCCI, Dal «Dialogo tra due bestie» al «Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo», in
Il riso leopardiano: comico, satira, parodia, cit., p. 290.
21
LEOPARDI, Disegno letterario, in Poesie e prose, cit., II, pp. 1206-1207.
22
ID., Dialogo tra due bestie, in Poesie e prose, cit., vol. II, p. 238.
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Nelle intenzioni di Leopardi il Dialogo avrebbe dovuto «contenere un colpo d’occhio in grande, filosofico e satirico sopra la razza umana considerata in
natura»23 e avrebbe dovuto toccare temi quali l’infelicità umana, l’ambizione, il denaro, la guerra, la tirannia e il suicidio24. La novità del suo scritto – all’autore preme precisarlo – non consiste nella mera prospettiva straniante, nel far discorrere
intorno all’uomo due animali, bensì nel presentare la razza umana ormai «perduta
e sparita dal mondo»25. Non si tratta semplicemente di filosofeggiare sull’uomo da
una postazione stravagante; l’intento è quello di proiettare il lettore in un mondo
in cui l’uomo è assente, altro non è che una rimembranza, non molto dissimile da
quello che per noi potrebbe rappresentare il mammut26. La situazione che si offre
al lettore in questo dialogo incompiuto, così come in quello che analizzeremo successivamente, sembra essere anticipata, come indicato acutamente da Blasucci27, in
una riflessione dello Zibaldone:
L’uomo non vive d’altro che di religione o d’illusioni. Questa è proposizione esatta e incontrastabile. Tolta la religione e le illusioni radicalmente, ogni
uomo, anzi ogni fanciullo alla prima facoltà di ragionare (giacché i fanciulli massimamente non vivono d’altro che d’illusioni) si ucciderebbe infallibilmente di propria mano, e la razza nostra sarebbe rimasta spenta nel suo
nascere per necessità ingenita, e sostanziale. Ma le illusioni, come ho detto,
durano ancora a dispetto della ragione e del sapere. È da sperare che durino
anche in progresso: ma certo non c’è più dritta strada a quello che ho detto,
di questa presente condizione degli uomini, dell’incremento e divulgamento
della filosofia da una parte, la quale ci va assottigliando e disperdendo tutto
quel poco che ci rimane; e dall’altra parte della mancanza positiva di quasi
tutti gli oggetti d’illusione, e della mortificazione reale, uniformità, inattività,
nullità ec. di tutta la vita. Le quali cose se ridurranno finalmente gli uomini
a perder tutte le illusioni, e le dimenticanze, a perderle per sempre, ed avere
avanti gli occhi continuamente e senza intervallo la pura e nuda verità, di
questa razza umana non resteranno altro che le ossa, come di altri animali di
cui si parlò nel secolo addietro.28
23
Ibid.
Cfr. ibid.
25
Ibid.
26
Proprio la figura del mammut è citata da Leopardi quale esempio di animale estinto nelle
chiose Al Dialogo del cavallo e del bue: «Il Mammut grandissimo quadrupede. Non è ben deciso
se distinguasi dall’Elefante o se sia la cosa stessa; la specie se n’è perduta, e soltanto trovansene
dei resti e dei grossi ossami nella Siberia e altrove. Casti. An. Parlanti. C. 10. nota(a) alla st. 63»
(GIACOMO LEOPARDI, Al Dialogo del cavallo e del bue, in Poesie e prose, cit., II, p. 244).
27
Cfr. LUIGI BLASUCCI, Dal «Dialogo tra due bestie» al «Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo», in Il riso leopardiano: comico, satira, parodia, cit.
28
GIACOMO LEOPARDI, Zibaldone, 18-20 agosto 1820, Roma, Newton Compton, 2007, p. 83.
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Con altri occhi. Appunti sulla satira favolosa di Leopardi
L’immagine finale, introdotta da una profonda riflessione filosofica sulle illusioni che mascherano e addolciscono agli occhi e al cuore dell’uomo la vanità delle
cose, prelude con l’icasticità di un’epifania i due dialoghi tra animali che stiamo
prendendo in considerazione. L’humus in cui sedimentano, dunque, è quello di
una meditazione sull’esistenza. Nel Dialogo di un cavallo e un bue, gli interlocutori,
la situazione e i temi sono i medesimi, ma Leopardi li approfondisce e offre nuove
argomentazioni. La degenerazione dell’uomo rispetto alla natura e agli altri animali è testimoniata dalla sua postura eretta, che sembra sussumerne l’arroganza e,
allo stesso tempo, la ferocia: «Era una sorta di bestie da quattro zampe come siamo
noi altri, ma stavano ritti e camminavano con due sole come fanno gli uccelli, e
coll’altre due s’aiutavano a strapazzare la gente»29. Per bocca del cavallo, l’autore
si fa beffe dell’antropocentrismo:
Gli uomini credevano che il sole e la luna nascessero e tramontassero per
loro e fossero fatti per loro, benché dicessero che il sole era infinite volte più
grande non solo degli uomini ma di tutti i paesi di quaggiù, e lo stesso delle
stelle, e tuttavia credevano che queste fossero come tanti moccoli da lanterna
infilzati lassù per far lume alle signorie loro30.
Poco più avanti, Leopardi ritorna sul tema della violenza. Non è un caso che i
due interlocutori siano entrambi erbivori, altrimenti la rivelazione fatta dal cavallo
al bue «Mangiavano gli altri animali»31 non avrebbe destato alcuno scalpore. A
poco a poco la riflessione filosofica assume tinte politiche. In maniera significativa
è proprio il paragone con il lupo fatto dal bue a segnare tale passaggio:
B. Come fa il lupo con le pecore? C. Ma erano nimicissimi de’ lupi e ne ammazzavano quanti potevano. B. Oh bravi, in questo gli lodo. C. Eh sciocco,
non lo facevano mica per le pecore ma per loro che poi se ne servivano ec. (si
procuri di render questo pezzo allusivo alla cura che hanno i monarchi d’ingrassare i sudditi per poi spremerne il sugo). Ma poi venne un’altra moda e i
padroni non si curavano più d’ingrassare le loro bestie, ma secche com’erano
se le spremevano e se le mangiavano (allusivo al tempo presente)32.
Il dicorso politico usa metafore zoomorfe: paradigma della violenza è la favola
del lupo e dell’agnello, che si declina in chiave moderna nell’homo homini lupus. I
sistemi di governo e di controllo delle masse sono paragonati da Leopardi ad allevamenti di bestiame, in uno scenario da Fattoria degli animali ante litteram. Se in
29
30
31
32
ID., Dialogo di un cavallo e un bue, in Poesie e prose, cit., II, p. 239.
Ibid.
Ivi, p. 240.
Ibid.
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un primo tempo, la favola si fa satirica, come avviene nelle «prosette», in un secondo momento la satira diviene favolosa, come avviene nelle Operette. Non si tratta
di un mero gioco di parole. Nelle Operette la satira perde livore e si fa più leggera,
rarefatta, permeandosi di un’atmosfera a tratti incantata, favolosa, attraverso la
quale uno sguardo fermo e lucido scruta il vero. Non è un caso che uno scrittore
come Calvino ravveda in queste prose di Leopardi la genesi del fantastico italiano,
un fantastico che nel caso di Leopardi è ispirato dall’immaginario classico33.
La satira non rappresenta per Leopardi un approdo tardo né tantomeno un’incursione sporadica. Emblematico il Discorso di prolusione alla traduzione della
Batracomiomachia del 1815, in cui compaiono interessanti riflessioni sulla scrittura
giocosa. A sostegno delle proprie argomentazioni, cita Pope, annotando
che un grande autore può qualche volta ricrearsi col comporre uno scritto
giocoso, che generalmente gli spiriti più sublimi non sono nemici dello scherzo, e che il talento per la burla accompagna d’ordinario una bella immaginazione, ed è nei grandi ingegni, come sono spesso le vene di mercurio nelle
miniere d’oro34.
La satira per il nostro scrittore è una cosa seria. Introducendo la sua traduzione dell’opera attribuita a Omero, ne rivendica la dignità e la grandezza, autorizzando quelle che poi saranno le sue prove satiriche:
La Batracomiomachia però, ossia la Guerra dei topi e delle rane, può veramente dirsi un’opera interessante. La bassezza dell’argomento non può farle
perdere nulla del suo pregio. Il Genio si manifesta dappertutto, e tutto è
prezioso ciò che è consacrato dal Genio35.
È sottinteso che l’autore tra quei «grandi ingegni», quegli «spiriti più sublimi»
nei quali «il talento per la burla» affianca «una bella immaginazione», similmente
alle «vene di mercurio nelle miniere d’oro» stia idealmente annoverando sé stesso.
Nello Zibaldone, in data 27 luglio 1821, osservava:
33
È Luciano a rappresentare per Leopardi una preziosa amalgama in cui confluiscono spirito fantastico e satirico, vis ludica e, insieme, polemica, come nota Sangirardi citando la Storia
dell’Astronomia, in cui «a finto sostegno della tesi sulla pluralità dei mondi» (GIUSEPPE SANGIRARDI,
Luciano dalle «prosette satiriche» alle Operette morali, in Il riso leopardiano: comico, satira, parodia,
cit., p. 307), Leopardi fa riferimento alla Storia vera di Luciano e al favoloso viaggio sulla Luna in
essa narrato, riferimento testuale che è «indizio – osserva Sangirardi – di una sintonia istintiva con
la sua vena ironico-fantastica» (ibid).
34
ID., Discorso sopra la Batracomiomachia, in Poesie e prose, cit., I, p. 407.
35
Ivi, p. 405.
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Con altri occhi. Appunti sulla satira favolosa di Leopardi
A volere che il ridicolo primieramente giovi, secondariamente piaccia vivamente, e durevolmente, cioè la sua continuazione non annoi, deve cadere
sopra qualcosa di serio, e d’importante. Se il ridicolo cade sopra bagatelle,
e sopra, dirò quasi, lo stesso ridicolo, oltre che nulla giova, poco diletta, e
presto annoia. Quanto più la materia del ridicolo è seria, quanto più importa,
tanto il ridicolo è più dilettevole, anche per il contrasto ec. Ne’ miei dialoghi
io cercherò di portare la commedia a quello che finora è stato proprio della
tragedia, cioè i vizi dei grandi, i principi fondamentali delle calamità e della
miseria umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla
morale universale36.
Nei suoi propositi, si tratta di rifondare un genere. Così scriveva in una lettera
all’amico Giordani da Recanati il 6 agosto 1821:
Quasi innumerevoli generi di scrittura mancano o del tutto o quasi del tutto agl’italiani, ma i principali, e più fruttuosi, anzi necessari, sono, secondo
me, il filosofico, il drammatico, e il satirico […] In ogni modo proveremo di
combattere la negligenza degl’italiani con armi di tre maniere, che sono le più
gagliarde; ragione, affetti e riso37.
Leopardi pone un discrimine tra la satira degli antichi, basata sulle cose, e la
satira dei moderni, che gioca sulle parole38, definendo «bazzecole grammaticali»
le prove satiriche di Vincenzo Monti. Nelle intenzioni del nostro autore i suoi
dialoghi dovranno trattare argomenti seri, propri della tragedia, ma nei modi della satira. Nello Zibaldone, in data 23 settembre 1828, appuntava: «Terribile ed
awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come
chi ha il coraggio di morire»39. Approdiamo infine ai Paralipomeni, scegliendo di
soffermarci sulla figura di Dedalo, il creatore del labirinto desideroso di volare e,
insieme, evadere:
Così d’ali ambedue vestito il dosso,
su pe’ terrazzi del romito ostello
il novo carco in pria tentato e scosso
preser le vie che proprie ebbe l’uccello.
ID., Zibaldone, 27 luglio 1821, cit., p. 320.
ID., Lettera a Pietro Giordani, in Lettere, cit., pp. 318-319.
38
In una lettera a Pietro Giordani datata 20 novembre 1820, anno in cui si intensifica la sua
riflessione sulla satira e sul riso, osserva: «gli studi miei non cadono oramai sulle parole, ma sulle
cose» (Lettera a Pietro Giordani, in Lettere, cit., pp. 289-290).
39
ID., Zibaldone, 23 settembre 1828, cit., p. 921. Similmente nel LXXXVIII dei Pensieri
asserisce: «Grande tra gli uomini e di gran terrore è la potenza del riso: contro il quale nella
sua coscienza trova se munito da ogni parte. Chi ha coraggio di ridere è padrone del mondo,
poco altrimenti di chi è preparato a morire» (ID., Pensieri, in Poesie e prose, cit., II, p. 327).
36
37
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Parea Dedalo appunto un uccel grosso
L’altro al suo lato appunto un pipistrello,
volar per tratto immenso ed infiniti
vider gioghi dall’alto e mari e liti40.
Si tratta di versi che, in apparenza, rappresentano una violazione al nostro
discorso sulla satira in prosa, eppure lo concludono perfettamente. D’altronde, la
riflessione da noi condotta ha preso le mosse, in maniera stravagante, proprio dalla
lirica giovanile L’ucello. La prospettiva dell’ottava citata è aerea. I personaggi si
muovono in un elemento che è antitetico alla terra, all’insegna della fuga e dell’evasione. Ritorna inoltre nei Paralipomeni il tema giovanile dell’anima delle bestie;
il topo Leccafondi, dal nome eloquente, conduce infatti, sulla falsariga di Enea e
di Ulisse, una catabasi, una discesa negli inferi alla ricerca dei propri antenati. Ma
questa è un’altra storia, e la racconteremo un’altra volta.
40
ID., Paralipomeni della Batracomiomachia, in Poesie e prose, cit., I, VII, pp. 289-290.
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