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Umano e non-umano in Primo Levi. Una lettura darwiniana

2021, Letteratura e Scienze, Atti del XXIII Congresso dell’ADI, a cura di A. Casadei, F. Fedi, A. Nacinovich, A. Torre, Roma, Adi editore

La questione antropologica è sicuramente uno dei temi più dibattuti all'interno degli studi filosofici attorno all'opera di Primo Levi. L'obbiettivo del presente contributo è quello di offrire una lettura darwiniana del modo in cui lo scrittore torinese ha definito il complesso rapporto tra umano e non-umano. A mio parere, analizzare il pensiero antropologico di Levi a partire dalle tesi psicologico-evoluzioniste esposte da Darwin in The Descent of Man permette infatti di risolvere le contraddizioni e le aporie in cui sembrano cadere alcune interpretazioni post-umaniste e umaniste. L'ipotesi di un Primo Levi 'lettore di The Descent of Man' verrà qui indagata sia dal punto di vista filologico sia da quello argomentativo e concettuale.

Il pensiero antropologico di Primo Levi tra umanesimo e post-umanesimo

In Animals and Animality in Primo Levi's Works del 2018, Damiano Benvegnù ha ricostruito in maniera molto efficace il dibattito venutosi a creare tra gli studiosi dell'opera di Primo Levi in merito all'annosa questione del rapporto tra umano e non-umano. 2 A detta dell'autore, sono rintracciabili due principali linee interpretative. La prima, più tradizionale e di lungo periodo, è una lettura umanista. Stando a quanto sostenuto da Joseph Farrell, uno dei maggiori esponenti di questa corrente 3 , «The question, "What does it mean to be human" is posed by the very title of his most celebrated work, as are also the opposite questions: What forces can undo a man? Or, alternatively, What conduct is incompatible with humanity?». 4 Come molti altri interpreti dell'opera leviana, Farrell trova la risposta a queste domande nel noto capitolo Il canto di Ulisse. Qui Levi, sulla scorta del testo dantesco, ricorre in maniera molto esplicita a una grammatica umanista, rivendicando il carattere irriducibile dell'umano rispetto alle necessità biologiche imposte dalla sopravvivenza («Considerate le vostra semenza/Fatti non foste per vivere come bruti,/Ma per seguir virtute e conoscenza» 5 ). Levi sembrerebbe dunque far sua una prospettiva dualista, all'interno della quale l'umano corrisponderebbe alle nobili facoltà della ragione e del linguaggio, mentre l'inumano a una condizione esistenziale simile a quella istintiva e conservativa dell'animale. Come sostenuto da Nicholas Patruno, Il canto di Ulisse altro non sarebbe che una «reply to Steinlauf», il protagonista del capitolo Iniziazione: la dignità umana non può essere infatti misurata «by the standard of personal hygiene», bensì «by more profound and extraordinary standards, more akin to those that a noble language and culture such as Dante's can instill in the individual». 6 Il secondo approccio, più recente e innovativo, è invece quello post-umanista. Interpreti come Jonathan Druker 7 , Charlotte Ross 8 e Federico Pianzola 9 hanno collocato la riflessione di Levi nel solco del pensiero anti-umanista novecentesco. Stando a questa lettura, l'antropologia leviana tenderebbe a superare i dualismi fondanti della nostra tradizione metafisica: mente e corpo, umano e animale, trascendenza e immanenza. Da Se questo è un uomo, passando per i cosiddetti racconti e saggi fantabiologici, sino a I sommersi e i salvati, Levi avrebbe infatti messo severamente in questione l'idea dell'eccezionalismo umano, ravvisando in Auschwitz non un luogo di 'revival umanista', bensì una sonora smentita storico-empirica di qualsiasi metafisica dell'umano. La «condizione umana», scrive Levi in Se questo è un uomo, «è nemica di ogni infinito». 10 Come sottolinea Benvegnù, questo secondo approccio si dimostra più solido, in quanto prende in considerazione l'opera complessiva dello scrittore torinese. All'opposto, la lettura umanista tende invece a focalizzarsi esclusivamente sui lavori dedicati alla Shoah, all'interno dei quali l'anti-dualismo di Levi risulta indubbiamente più smussato. Una tensione che ha ben messo a fuoco Stefano Bellin: «the more we move away from the Holocaust», scrive, «the more Levi seems to advance positions that are fundamentally anti-Cartesian and postanthropocentric». 11 Levi sarebbe dunque a un tempo un testimone umanista e un pensatore post-umanista. Seguendo la ricostruzione di Benvegnù, questa apparente contraddizione tra umanesimo testificativo e post-umanesimo strutturale emerge in tutta chiarezza se si considera l'altra faccia della riflessione antropologica di Levi, ossia il tema dell'animalità. A tal riguardo, la conferenza L'intolleranza razziale tenuta da Levi a Torino nel 1979 rappresenta uno dei luoghi più controversi della sua produzione letteraria:

Penso che il pregiudizio razziale sia qualcosa di assai poco umano, penso che sia preumano, che preceda l'uomo, che appartenga al mondo dell'animale, al mondo animalesco piuttosto che al mondo umano. Penso che sia un pregiudizio di tipo ferino, di tipo proprio degli animali feroci, e questo per due motivi: uno, perché lo si trova effettivamente negli animali social […], e l'altro perché non c'è rimedio […]. Con questo non voglio dire, anzi mi guardo bene dal dirlo, che sia un male non sradicabile; se siamo uomini è perché abbiamo imparato a metterci al riparo, a contravvenire, a ostacolare certi istinti che sono la nostra eredità animale. 12 Secondo Farrell, «this dialectical opposition between the 'animal' or the bestial and the 'human' is a recurrent and deeply significant theme in Levi, while the underlying fundamental, even fundamentalist reassertion of a basic humanistic credo in the values of being human contained in those words represents his enduring and authentic voice as writer and intellectual». 13 Farrell arriva persino a sostenere che tale contrapposizione tra umano e animale sia un vero e proprio «philosophical dogma» a cui Levi «tenaciously held all his life, even in the face of the atrocities he himself had endured and had seen perpetrated by human beings». 14 Tuttavia, Benvegnù sottolinea come l'interpretazione di Farrell sia fuorviante, in quanto manchevole di una precisa contestualizzazione. In essa, infatti, non vi è alcun riferimento all'influenza che su queste pagine ha esercitato lo studio da parte di Levi dell'etologia contemporanea (in particolare quella di Konrad Lorenz), la quale anima moltissimi dei suoi saggi e racconti «fantabiologici» (testi non minimamente considerati da Farrell) dove appunto l'essere umano è pensato e descritto nientemeno che come un «animale dagli istinti complessi». 15 Riassumendo: che cosa significano 'umano' e 'animale' per Primo Levi? Soprattutto, quale tipo di esistenza rappresenta il sommerso del Lager, l'immagine «di tutto il male del nostro tempo» 16 ? Si tratta di una condizione disumana, animale, come sostengono gli interpreti umanisti? Oppure, data la parzialità filologica della loro lettura, ha ragione Giorgio Agamben quando sostiene che il «mussulmano» con la sua stessa esistenza dimostra «che se si fissa un limite oltre il quale si cessa di essere uomini, e tutti o la maggior parte degli uomini lo attraversano, ciò non prova tanto l'inumanità degli umani, quanto, piuttosto, l'insufficienza e l'astrazione del limite proposto»? 17 Tuttavia, credo che anche una lettura post-umanista non sia in grado di rendere conto della tensione tra umano e animale che caratterizza il pensiero antropologico di Levi. Di fatto, se, da un lato, è vero che, da un punto di vista complessivo, il rapporto tra umanità e animalità sia strutturato da Levi in chiave anti-umanista; dall'altro lato, se si considerano solo le opere che direttamente o indirettamente rimandano alla Shoah, Levi chiaramente e insistentemente fa leva più sull'idea di una discontinuità tra animale e umano che su una continuità tra i due termini. Il pensiero antropologico dello scrittore torinese sembra dunque muoversi tra due livelli teorici: l'indagine etologica, dove l'essere umano è considerato un animale tra gli animali, e quella etico-politica, dove l'umano rappresenta invece una condizione capace di proteggere gli individui dalla bruta animalità che li costituisce.

Se le cose stessero così, la lettura umanista e quella post-umanista sarebbero entrambe corrette a seconda di quale sia il testo di Primo Levi preso in considerazione. La quarantennale riflessione dell'autore di Se questo è un uomo si dimostrerebbe il tal modo fragile e confusa proprio in merito al tema che, senza alcun dubbio, ne costituisce l'asse portante. 18 Non è di certo mia intenzione elaborare un'agiografia di Primo Levi, il cui pensiero, come ogni altro, contiene sicuramente aspetti quantomeno problematici che è bene evidenziare. Soprattutto quando l'oggetto in questione, il rapporto tra umano e non-umano, non solo è per sua natura controverso, ma viene declinato all'interno di un orizzonte concettuale particolarmente delicato come quello di Auschwitz. Sono però convinto che tale contraddizione sia solo apparente o, meglio, sia causata proprio dall'utilizzo di 'etichette' che, qualora applicate all'opera di Levi, finiscono con il genere più confusione che chiarezza. Tanto la lettura umanista, quanto quella post-umanista tendono, a mio avviso, a costringere il pensiero leviano all'interno di orizzonti culturali in cui l'autore stesso avrebbe sicuramente fatto fatica a riconoscersi. In altri termini, queste letture sembrano più voler assimilare il pensiero di Levi ai propri registri discorsivi che approfondirlo per così dall'interno. Di fatto, questo dibattito registra un'assenza molto importante: Charles Darwin. Come cercherò di mostrare, l'opera del biologo inglese può essere utilizzata come chiave ermeneutica per comprendere non solo le fonti proprie dell'antropologia leviana, ma anche l'originale posizione assunta dallo scrittore torinese all'interno del complesso dibattito novecentesco sul totalitarismo.