sergio bettini
PALAZZO MAGNANI: INDAGINI SUL CANTIERE*
Quando Lorenzo Magnani, nel 15771, inizia a costruire, sotto la regia di Domenico
Tibaldi, il proprio palazzo su strada San Donato (oggi via Zamboni), Bologna è nel
pieno di un’intensa stagione di rinnovamento architettonico, avviata a partire dagli
anni cinquanta dai vicelegati Sauli (1550-55) e Cesi (1560-65) e proseguita dal cardinale Gabriele Paleotti; stagione nella quale Tibaldi occupò un ruolo da protagonista2.
Anche l’antico cuore bentivolesco della città, dove palazzo Magnani doveva sorgere,
segnato dal tempio agostiniano di San Giacomo Maggiore, “chiesa palatina” di Sante
e Giovanni ii, era stato in pochi decenni completamente ridisegnato. Il lungo fronte
di palazzo Malvezzi de’ Medici, assegnato da Pietro Lamo (1560) a «Bartolomeo
Il testo anticipava, in forma ridotta, il saggio Palazzo Magnani: il testamento architettonico di Domenico Tibaldi, in Palazzo Magnani in Bologna, a cura di S. Bettini, Milano 2009, pp. 33-89. Mentre si
attendeva la preparazione di questi atti sono apparsi, ad opera di Maurizio Ricci, due importanti saggi che
trattano più o meno direttamente del palazzo: M. Ricci, Disegni vecchi e nuovi relativi a Palazzo Magnani
in Bologna, in «Palladio», 39, 2007, pp. 37-46, con bibliografia precedente; Id., Per una riconsiderazione
critica dell’opera di Domenico Tibaldi architetto. La sede della Gabella Grossa ed il palazzo Bentivoglio in
Borgo della Paglia a Bologna, in «Bollettino d’Arte», s. vi, xcii, 2007, pp. 69-100, in particolare le pp. 71,
82, 84, 86, 90 e note relative, figg. 17, 20-22. Ringrazio Samuel Vitali per gli scambi avuti nel corso della
revisione di questo testo, per le precisazioni archivistiche e per avermi fornito copia, con ampie traduzioni, della sua tesi di dottorato, S. Vitali, Romulus in Bologna. Die Fresken der Carracci im Palazzo Magnani,
relatore, Prof. P.C. Claussen, Istituto di Storia dell’Arte, Università di Zurigo 2004. Dello stesso autore
si vedano inoltre, S. Vitali, Der Palazzo Magnani in Bologna als Zeugnis und Instrument sozialen Aufstiegs
im Kirchenstaat, in: Modell Rom? Der Kirchenstaat und Italien in der Frühen Neuzeit, a cura di D. Büchel
e V. Reinhardt, Köln-Weimar-Wien 2003, pp. 101-117; Id., Tra “biografia dipinta” e ciclo emblematico:
le “Storie di Romolo e Remo” dei Carracci in Palazzo Magnani a Bologna, in: Ritratto e biografia: arte e
cultura dal Rinascimento al Barocco. Atti del convegno (Siena, 8-9 ott. 2003), a cura di R. Guerrini, M.
Sanfilippo, P. Torriti, Sarzana 2004, pp. 97-116.
1
«Nota che la casa della mia abbitazione fu comenciata a fabbricare alli 2 genaro 1577», Bologna,
Fondazione Archivio Magnani Guidotti (d’ora in poi famgbo), Instrumenti, b. 541 (ex-Libro 12), n. 33,
f. 9v, rinvenuta da Samuel Vitali a margine di una bozza del testamento di Lorenzo Magnani del 1572,
Vitali, Romulus in Bologna, cit., p. 79.
2
Per le azioni di rinnovamento architettonico sostenute da Girolamo Sauli, Pier Donato Cesi e Gabriele
Paleotti, cfr. P. Prodi, Il cardinale Gabriele Paleotti (1522-1597), 2 voll., Roma 1959-1967; R.J. Tuttle,
Piazza Maggiore. Studi su Bologna nel Cinquecento, Venezia 2001, pp. 15-45; 121-139; 141-191.
*
243
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Triachino»3, saldava ora strada San Donato alla piazzetta, facendo da controcanto
alla facciata medievale di San Giacomo. È noto come i Magnani attribuissero un
forte significato politico alla loro presenza in quest’area cittadina, attestata sin dal
Quattrocento, da rieditare ora tramite una doppia operazione d’immagine veicolata
dall’architettura: la costruzione del palazzo che vedremo tra poco e quella di una
cappella, consacrata nel 1575, volute entrambe da Lorenzo Magnani4.
Disponiamo di numerose testimonianze dirette circa le trasformazioni operate
sul tessuto urbano bolognese in questa fase storica: fonti scritte e soprattutto una
campagna di rilevamento e di restituzione cartografica della città e del suo territorio, promossa da papa Gregorio xiii e dal cardinale Paleotti5.
L’esempio forse più eclatante è costituito dalla veduta prospettica, voluta da
Gregorio xiii per il giubileo del 1575, che decora la stanza Bologna nel suo alloggio
in Vaticano, la quale – pur con omissioni e restituzioni non sempre rispondenti
al vero – fotografa il nuovo assetto urbanistico e architettonico della città. Tibaldi
ebbe un ruolo ideativo di primo piano nella realizzazione di quest’impresa cartografica6: doveva apparire al papa come il professionista emergente sulla scena architettonica bolognese, se neppure trentenne, nel 1570, era stato chiamato dal Paleotti,
a dirigere il cantiere della nuova cattedrale di San Pietro e figurare pertanto come
l’architetto che, per la quantità di incarichi ricevuti in quegli anni, aveva la migliore
percezione delle future trasformazioni della città7.
La veduta vaticana doveva restituire un’immagine compiuta della città ma non
poteva esimersi dal completare, con un efficace margine di credibilità, gli isolati
irrisolti, gli edifici rimasti incompiuti, quelli iniziati e da fare. È il caso, questo, del
dettaglio che ritrae palazzo Magnani all’interno del complesso di edifici che insistono sull’attuale piazza Rossini. Nel 1575 mentre il palazzo Malvezzi e il complesso
conventuale agostiniano si presentavano pressoché nelle forme attuali, palazzo
Magnani doveva essere ancora incominciato.
3
P. Lamo, Graticola di Bologna (1560), edizione a cura di M. Pigozzi, saggi di F. Chiodini, M. Marchi, G. Sassu, Bologna 1996, p. 100 (c. 28v). Su Bartolomeo Tassi detto Triachini si rimanda in questi
Atti al contributo di Davide Ravaioli.
4
Il giuspatronato sull’altare, per la cappella Magnani in S. Giacomo, era stato acquistato nel 1572,
cfr. Vitali, Romulus in Bologna, cit., p. 35. Per la cappella di Lorenzo Magnani e per quella di famiglia,
cfr. S. Vitali Lorenzo Magnani «nobile et uno de’ senatori della città di Bologna»: tasselli per un ritratto, in
Palazzo Magnani in Bologna, cit., p. 23 ss.
5
Anche il contado bolognese, con le sue emergenze architettoniche, è oggetto in questa fase storica di
una campagna di rilievo, commissionata a Egnazio Danti (Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, ms. Gozzadini 171), cfr. S. Bettini, in: Andrea Palladio e la villa veneta da Petrarca a Carlo Scarpa,
catalogo della mostra (Vicenza 2005), a cura di G. Beltramini, H. Burns, Venezia 2005, cat. 139, pp.
398-399, con bibliografia.
6
Cfr. G.B. Comelli, Piante e vedute della città di Bologna, Bologna 1914, pp. 32-42, 78, doc. 64-68;
Bettini, in Palazzo Magnani in Bologna, cit., pp. 40-42.
7
Per il coinvolgimento di Domenico Tibaldi in S. Pietro si vedano, in questi atti, i saggi di Roberto
Terra e di T. Barton Thurber. Rimangono, tuttavia, ancora non sufficientemente argomentate le ragioni
di un riconoscimento così precoce delle attitudini progettuali del Tibaldi da parte della committenza
bolognese e del Paleotti in primis.
244
palazzo magnani: indagini sul cantiere
Di esso la veduta vaticana restituisce il tetto a due falde come se la facciata fosse già
stata eretta, ma non gli spazi retrostanti e il cortile, quasi gli autori conoscessero i futuri sviluppi del progetto. Dai documenti sappiamo infatti che a essere eretta per prima
fu proprio la fronte del palazzo, realizzata tra il gennaio 1577 e l’aprile 1578, anni in
cui Domenico compare fra i creditori nei «bilanci» di pagamento della fabbrica8.
La prassi costruttiva dei palazzi nobiliari stabiliva infatti che, una volta fissata la
struttura in pianta, si iniziasse dalla facciata, privilegiando la facies pubblica rispetto all’interno dell’edificio. È ragionevole pensare che nel 1575 Domenico fosse al
corrente dei piani del suo committente e che probabilmente stesse già lavorando a
un progetto.
A partire dal 1564, con l’esenzione del dazio ordinario delle porte, Lorenzo
Magnani aveva iniziato ad acquistare alcune porzioni di terreni limitrofi all’area
sulla quale innalzare l’edificio9. Le acquisizioni terminano nel 1576, quando, il 23
agosto, Tibaldi è nominato come architetto nel contratto fra Lorenzo Magnani e
l’asinaro Mariotto di Giovanni Ubaldini, incaricato della rimozione di alcuni materiali dal cantiere e del trasporto in esso di nuovi10.
documenti
A questa fase dei lavori, se non ancor prima, devono probabilmente risalire
alcuni importanti documenti privi di data, conservati nel fondo Malvezzi Lupari,
all’Archivio di Stato di Bologna.
8
Bologna, Archivio di Stato (d’ora in poi asb), Malvezzi Lupari, x, n. 215, cfr. M. Pigozzi, Palazzo
Magnani. La ricerca di una domus, in: Scritti di storia dell’arte in onore di Jürgen Winkelmann, a cura di
S. Béguin, Napoli 1999, pp. 267-281, nota 5 a p. 275 (la serie indicata è la ix). Nel 1579, Tibaldi è
registrato un’ultima volta per lire 123,10.
9
fagmbo, Archivio Magnani, Istrumenti, b. 540, n. 15, 20 aprile 1564, cit. in Roversi, Palazzo Magnani, cit., n. 4 a p. 162. Si ringrazia Paolo Pascale Guidotti Magnani vicepresidente della Fondazione Archivio
Guidotti Magnani per la consultazione e la riproduzione dei materiali d’archivio. Maurizio Ricci ha sostenuto che i lavori menzionati nella concessione del 1564 si debbano invece riferire al completamento del
preesistente palazzo quattrocentesco occupato dai Magnani sulla medesima area di quello cinquecentesco,
cui andrebbe ricondotto un disegno inedito rinvenuto e attribuito dallo studioso a Francesco Morandi (asb,
Malvezzi Lupari, ix, n. 190), cfr. Ricci, Disegni vecchi e nuovi, cit., pp. 38-40 e fig. 3 a p. 39. Non si capisce,
tuttavia, per quale ragione Lorenzo Magnani avesse protratto la sistemazione dell’edificio quattrocentesco
sino al 1576 per poi abbatterlo lo stesso anno per iniziare a edificarne uno nuovo; si fa poi osservare che il
documento del 2 febbraio 1494, richiamato dallo studioso (ibid., p. 38 e n. 11 a p. 45), parla di quattro
corti, mentre la pianta ne indica solo tre. Quanto al ritardo, di oltre un decennio, tra la convenzione (1564)
e l’inizio della costruzione (1577) Vitali riferisce di una lunga diatriba giudiziaria intercorsa tra Lorenzo
Magnani e gli eredi del suocero di Camillo Borgognoni – circa il possesso dei beni di questi e la liquidazione
della dote della prima moglie – che solo nel 1571 giunse a un’intesa, accordando agli eredi Borgognoni una
proroga di altri cinque anni (sino al 1576) per liquidare a Lorenzo Magnani un credito di 5373 lire (scudi),
cfr. Vitali, Romulus in Bologna, cit., pp. 75-76; Vitali, Der Palazzo Magnani, cit., p. 108.
10
fagmbo, Archivio Magnani, Istrumenti, b. 542, n. 14, 23 agosto 1576, trascritto in Roversi, Palazzo Magnani, cit., pp. 168, 170.
245
sergio bettini
Il primo è un autografo di Tibaldi, un «Conto del costo della fabricha», sino ad
oggi sfuggito alla critica11. Si tratta di un preventivo di spesa effettuato dall’architetto per conto di Lorenzo Magnani, prima dell’inizio dei lavori come pare indicare
il tempo al futuro declinato dall’architetto («costarano», «costarà»). Sul verso del
secondo e ultimo foglio è riconoscibile la grafia del committente e la scritta «Lista D.
Tibaldi Architatore». Domenico suddivide la quantificazione in base al tipo di struttura e alle dimensioni computate in oncie bolognesi (1 oncia = cm 3,167) riportando
prima di ciascun parziale la «fatura», ossia il costo della manodopera. Numerose le
informazioni fornite sui materiali impiegati nelle strutture: i pilastri di facciata e i
soprastanti archi, il «regolone [...] sopra li archi» (ossia la fascia marcapiano), le finestre e le porte sono di «masegnia», ossia in arenaria – il cui colore giallognolo farebbe pensare a quella maggiormente friabile proveniente dalle cave di Varignana, di
Barbiano; diversamente i muri, le volte, gli archi, i pilastri interni, «l’architrave nella
faciata» (il cornicione sommitale), le «resalite» (ossia le lesene), le «fasse over resalite
acanto adetti pilastri» (ossia le specchiature) sono di «preda cotta», in muratura; e
ancora i «taseli», cioè i solai, sono dabeto» (abete) o «defiopa» (pioppo).
Tale quantificazione era forse abbinata a due fogli di grandi dimensioni, rinvenuti
da Davide Ravaioli, che riportano la pianta delle fondazioni dell’edificio12. I disegni,
quasi identici e non sempre precisi nel tratto, riportano le misure delle strutture: in
uno sono notate quelle dei pilastri (compresi quelli che reggono le volte sottostanti
il cortile), nell’altro quelle dei collegamenti murari. Assegnati da Ravaioli a Tibaldi,
i fogli sono stati ora riattribuiti da Samuel Vitali – sulla base di un confronto paleografico – a Piero di Magli13, capomastro firmatario di un «Quadernetto del saggio della
fabrica», stilato da Vincenzo degli Alicorni detto «Rose Montalban», su richiesta di
Lorenzo Magnani, nel quale risultano presenti, oltre ai suddetti, Domenico «Tebaldi»
e Alessandro Chiocca14. Si tratta di una verifica dei costi, datata 2 febbraio 1581,
realizzata alla fine dei lavori da un tecnico a tutela delle parti.
Sempre all’Archivio di Stato, Vitali segnala un disegno, appuntato da un’elegante grafia, riconosciuta in quella di Domenico, che riporta con meticolosità il muro
sud di confine del palazzo con «landito del panolino», un corridoio di passaggio tra
i Magnani e la proprietà attigua dei Pannolini15. Il disegno, probabilmente allegato
a un accordo del 1587, che metteva fine a una causa decennale fra le parti16, era
stato messo in pulito, forse dal medesimo Piero di Magli, prima di iniziare i lavori,
dal momento che propone di ingrossare il muro in certi punti, affinché possa sopportare il peso della fabbrica.
D. Tibaldi, «Conto del costo della fabricha», inedito, s.d. asb, Malvezzi Lupari, x, b. 215. Bettini,
in Palazzo Magnani in Bologna, cit., figg. 12-13, p.46, doc. 1, p. 152.
12
asb, Malvezzi Lupari, ix, b. 190, non numerati, cfr. D. Ravaioli, I palazzi di città, in: Le famiglie
senatorie di Bologna, iii. Magnani: storia genealogia e iconografia, a cura di G. Malvezzi Campeggi. Scritti
di A. Antonelli, Bologna 2002, pp. 415-457, qui a p. 419, figg. a p. 449.
13
Vitali, Romulus in Bologna, cit., nota 359 a p. 83.
14
asb, Malvezzi Lupari, x, n. 215, 2 febbraio 1581, cfr. Vitali, Romulus in Bologna, cit., pp. 81-83;
Ricci, Disegni vecchi e nuovi, cit., p. 38 e nota 19 a p. 45.
15
Cfr. Vitali, Romulus in Bologna, cit., p. 78 e fig. 34.
16
fagmbo, Archivio Magnani, Istrumenti, b. 543, n. 31, gentilmente segnalatomi da Samuel Vitali.
11
246
palazzo magnani: indagini sul cantiere
La critica ha individuato due disegni relativi alla facciata del palazzo, riconoscendovi due fasi distinte della progettazione. A un primo momento è stato
assegnato un foglio rinvenuto da Guido Zucchini nella collezione del conte
Venturoli17, successivamente perduto; alla seconda e ultima fase progettuale si è
riferito un disegno della sola metà destra della fronte, conservato a Berlino, pubblicato nel 1975 da Sabine Jacob e richiamato all’attenzione degli studi su palazzo
Magnani da Marinella Pigozzi18. Il primo dei due disegni differisce dall’opera
realizzata in numerosi particolari, sia in pianta che in alzato, nonché nelle dimensioni; anche la grafia, se confrontata con i documenti citati in questa sede, non
pare riconoscibile in quella di Domenico Tibaldi. Sono grato a Maurizio Ricci di
aver voluto condividere con me le sue perplessità in merito a tale foglio e condivido la sua ipotesi di riconoscere in esso un progetto per palazzo Zani di mano
di Floriano Ambrosini19. Il secondo disegno è invece senza dubbio riferibile alla
fronte di palazzo Magnani, tuttavia il ductus grafico, vagamente impressionistico,
nonché alcune imprecisioni, quali l’ordine corinzio in luogo del composito nelle
lesene e il loro slittamento angolare più marcato rispetto a quanto realizzato,
inducono il sospetto che l’autografia tibaldesca sia tutt’altro che sicura e che non
lo si possa ritenere un elaborato di presentazione per il committente.
la facciata
Per chi scorre il portico di via S. Donato, provenendo da via Bendetto xiv,
la fronte di palazzo Magnani impone una pausa obbligata, come se questa fosse
in grado di accogliere la “dittatura” del portico bolognese senza subirla – il quale
generalmente annulla la visibilità del portale d’ingresso, mettendolo in secondo
piano. In questo caso, tuttavia, il numero dispari delle campate ristabilisce un’asse
di simmetria centrale sul quale si allineano l’ingresso e lo stemma gentilizio issato
sul cornicione (sostituito dalle “armi” dei Malvezzi quando il palazzo entrò in loro
possesso). Vedremo successivamente, con quale abilità e controllo, Tibaldi sia riuscito a includere il portale nel sistema costante delle campate del portico.
Una composizione per piani permea l’intera fronte e gran parte dei suoi dettagli
(fig. 1). Il massimo aggetto è conferito ai due segni che scandiscono e delimitano
la bipartizione di facciata: la spessa fascia marcapiano in arenaria (il «regolone de
masegnia») e il cornicione sommitale in laterizio. A questi segni si legano verticalmente le due lesene di spigolo con il corrispondente tratto di trabeazione agget-
17
Cfr. G. Zucchini, Un disegno inedito di Domenico Tibaldi, in «La Mercanzia», xii, 11, 1957, pp.
948-949. La migliore riproduzione si trova in G. Cuppini, I palazzi senatori di Bologna. Architettura come
immagine del potere, Bologna 1974, fig. 86 a p. 105.
18
Progetto per la facciata di palazzo Magnani, Berlino, Kunstbibliothek, Hdz 6549; S. Jacobs, Italienische Zeichnungen der Kunstbibliothek. Architektur und Dekoration 16. bis 18. Jahrhundert, Berlin 1975,
p. 23, cat. 42; Pigozzi, Palazzo Magnani, cit., p. 267 e nota 7 a p. 275.
19
Tale ipotesi, avanzata in Ricci, Per una riconsiderazione critica, cit., p. 82 e nota 69 a p. 95, è stata
ulteriormente argomentata dallo studioso nel suo intervento al presente convegno.
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tante. Il retrostante piano è definito dal partito delle lesene giganti i cui piedistalli,
appoggiati sulla fascia marcapiano, sono allineati al piano dei balconi. Le lesene
trovano inoltre una corrispondenza “tettonica” nel bugnato sottostante che pare
muoversi e fuoriuscire per poterle sostenere. Le bugne fuoriuscenti sottolineano
inoltre il punto d’incontro dei conci radiali delle arcate del portico, con un gioco
sofisticato che rimanda, più che alle ironiche proposte di Giulio Romano, alla fronte di palazzo Gondi a Firenze di Giuliano da Sangallo.
Durante i lavori dell’ultimo restauro, realizzato nel 1997, si è operata una descialbatura delle parti in arenaria, originariamente tinteggiate, che ci consente di fare alcune
ipotesi sul sistema costruttivo del livello bugnato. Mentre i pilastri sono interamente
costituiti da blocchi d’arenaria sovrapposti, gli archi paiono invece rivelare un sistema
murario a sandwich, nel quale le bugne e l’intradosso dell’arco sono realizzati tramite
lastre in arenaria che rivestono un’ossatura composta, probabilmente, di mattoni. Tale
soluzione potrebbe trovare una spiegazione, non tanto come misura di contenimento
dei costi per risparmiare nella fornitura di arenaria, quanto come soluzione tecnica che
poteva assicurare un maggior controllo e un minor dispendio di manodopera nella
realizzazione degli archi strutturali in muratura da rivestire poi in arenaria.
La sovrapposizione di un ordine gigante a un piano terra bugnato rimanda evidentemente a palazzo Caprini di Donato Bramante e a tutto ciò che ne conseguì a
Roma nel primo Cinquecento, con Raffaello prima, e con Giulio Romano, Jacopo
Sansovino, Baldassarre Peruzzi poi, vale a dire quando, sulle facciate dei palazzi romani, prende forma un linguaggio appiattito al limite dell’astratto, ottenuto tramite
l’impiego di fasci di paraste, di specchiature, di riquadri appena denunciati. Il motivo
del fascio di paraste angolari risale a opere del Quattrocento: è impiegato ad esempio
nel palazzo della Cancelleria a Roma, per sottolineare uno slittamento dei volumi di
testa che si affacciano sull’omonima piazza e nel secondo ordine del cortile di palazzo
Ducale a Urbino, dove il raddoppio angolare del sostegno, aiutato da un soprastante
tratto di trabeazione aggettante, produce un lieve effetto di profondità prospettica.
Sempre alla Cancelleria troviamo inoltre un precedente per il gioco di piani ottenuto tramite l’avanzamento di piedistalli e parapetti. Soluzioni note a Raffaello che le
addotta nei palazzi Alberini e Jacopo da Brescia, dove sono anticipati ulteriori elementi ripresi sulla fronte del palazzo bolognese, come le edicole con timpani arcuati e
volute, la piattabanda al piano nobile. Riflessi, nel settentrione peninsulare, di questi
motivi si trovano già nella Loggia Cornaro di Giovanni Maria Falconetto datata al
1524 e ancor più in un catalogo di opere del terzo e quarto decennio del secolo che
adottano l’ordine gigante di lesene sovrapposto al bugnato: nei palazzi Landshut e
Thiene di Giulio Romano, nonché nei primi progetti di Andrea Palladio per palazzo
Porto Festa (1542-45) a Vicenza. Sulla parte destra del disegno (riba xvii, 9r) lesene
giganti, elevate su piedistalli poggiati su una piattabanda corrente, inquadrano edicole
e finestre a orecchia con una soluzione d’impaginato assai simile – nota Marinella
Pigozzi20 – al caso bolognese, ma è bene ricordare che si tratta di una soluzione acerPigozzi, Palazzo Magnani, cit., p. 272. Sui palazzi Thiene e Porto a Vicenza, cfr. H. Burns, “Da
naturale inclinatione guidato”: il primo decennio di attività di Palladio architetto, in: Storia dell’architettura
italiana. Il primo Cinquecento, a cura di A. Bruschi, Milano 2002, pp. 387-393, 400-402.
20
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palazzo magnani: indagini sul cantiere
ba, scartata da Palladio il quale cercava di ottenere, qui come a palazzo Chiericati,
un effetto opposto tramite il maggior risalto plastico del piano nobile con ordini,
serrando le edicole all’interno di strette campate inquadrate da semicolonne. Rispetto
a Palladio, Tibaldi perseguiva un linguaggio meno plastico e più pittorico, costituito
da risalti appena denunciati dalle modanature. In tal senso allora palazzo Magnani
pare piuttosto confrontabile con il veronese palazzo Canossa, nel quale l’architetto –
Michele Sanmicheli secondo Christoph Luitpold Formmel, Giulio Romano secondo
Howard Burns –21 attenua la misura dilatata degli intercolunni al piano nobile, tramite il raddoppio delle lesene e l’inserzione di un sistema di serliane allacciate.
Nel caso bolognese il “tempo lungo” degli intercolunni è invece sottolineato da
una serie di specchiature orecchiate, che ne accentuano la profondità prospettica,
quasi fossero il prodotto di un’ombra prodotta sulla parete dal profilo dei capitelli.
Precedenti riquadri si devono al palazzo Stati Maccarani di Giulio Romano, mentre
a Bologna, il motivo compare, unito al fascio di paraste, nel progetto di Vignola
per la facciata di San Petronio (1545), nella cappella del Legato di Galeazzo Alessi
(1553-55) e ancora il semplice riquadro è presente nel secondo ordine del palazzo
dei Banchi (1564-65)22. La soluzione orecchiata, introdotta a palazzo Magnani, verrà
ripresa sulla facciata di palazzo Marescalchi, mentre il fascio di paraste angolari e le
specchiature semplici torneranno sulla fronte di S. Cristina, realizzata da Giulio Torri
(e non Antonio come riportato dal Landi), collaboratore di Domenico Tibaldi.
Eccezionale il modo in cui Domenico conferisce monumentalità ed eleganza al
portale, che il Quadernetto del saggio della fabbrica, sopra richiamato, dice realizzato due volte per ottenere la massima apertura del varco d’ingresso23: un sistema di
modanature esilissime consente di stirare la parte sommitale, tramite il montaggio
di elementi sovrapposti, in modo da ritagliare uno spazio sufficiente per inscrivere
il timpano arcuato nell’arco della campata. La ghiera a conci pentagonali ricorda
l’arco di Druso sull’Appia antica, dove tuttavia l’elemento giunge a lambire una
trabeazione rettilinea. Diverse varianti sul tema erano state proposte da Giulio
21
Su palazzo Canossa cfr. Michele Sanmicheli. Architettura, linguaggio e cultura artistica nel Cinquecento, a cura di H. Burns, C.L. Frommel, L. Puppi, Milano 1995, in particolare: C.-L. Frommel, Roma e
l’opera giovanile di Sanmicheli, pp. 14-31 e note pp. 247-249, a p. 24 per l’attribuzione a Sanmicheli; H.
Burns, “Vasti desiderij e gran pensieri”: i palazzi veronesi di Sanmicheli, pp. 54-79 e note pp. 273-276, alle
pp. 57-60, 78-79 per l’attribuzione a Giulio Romano.
22
Per palazzo Stati Maccarani, cfr. C.-L. Frommel, Palazzo Stati Maccarani, in: Giulio Romano,
saggi di E.H. Gombrich, M. Tafuri, S. Ferino Pagden, C.L. Frommel, K. Oberhuber, A. Belluzzi e K.W.
Forster, H. Burns, catalogo della mostra (Mantova 1989), Milano 1989, pp. 294-295; per Vignola in S.
Petronio, R.J. Tuttle, in Jacopo Barozzi da Vignola, a cura di R.J. Tuttle, B. Adorni, C.L. Frommel, C.
Thoenes, Milano 2002, cat. 25-26, pp. 145-146; per la cappella del Legato e i Banchi, Tuttle, Piazza
Maggiore, cit., pp. 130-135, 203-238.
23
«Item per aver poste in opera la porta de masegna come la iera prima com la suoia e poi averla tolta
d’opera monta in tute L. 55 - 0. Item per aver posta in opera la porta dita de masegna del mode che la se
ritrova al presente che più larga che l’altra con un pitafii dentre de masegna sopra de pie 4 e pie 2 e grose
d 6 che monta in tute L. 45 - 0, asb, Malvezzi Lupari, x, cit., c. 5v, cfr. Vitali, Romulus in Bologna, cit.,
n. 357 a p. 82.
249
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Romano, da Vignola e poi diffuse da Serlio nel Quarto e nell’Extraordinario libro24.
A Bologna una soluzione “corrotta” del motivo compare per la prima volta nel
portale di Palazzo Bocchi25 e pure Domenico Tibaldi la impiega diffusamente in
questi anni, nel distrutto portico della Gabella Grossa di cui si conserva all’Archivio
di Stato di Bologna un modello originale e ancora nel cortile dell’Arcivescovado26.
Nel portale di palazzo Magnani i conci irrompono in un timpano arcuato, spezzato
inferiormente, con una soluzione di evidente accento michelangiolesco (Porta Pia,
Palazzo dei Conservatori, ecc.) – peraltro anche questa presente nel laboratorio
formale del Quattrocento come mostra la facciata del Duomo di Pienza – ma è
una rottura equilibrata e composta, come evidenzia il concio in chiave di volta che
accetta di fondersi e di farsi contenere da un’esile cornice.
Coerentemente alla facciata, il disegno delle modanature del portale e delle
finestre al piano terra, ripetute nel medesimo livello del cortile, è condotto tramite
un procedimento compositivo per strati. Nelle finestre inginocchiate, le mostre, le
mensole «triglifate», le cartelle che incorniciano le bocche di lupo si giustappongono
al bugnato che riemerge in alto all’interno del timpano arcuato, con una soluzione
inedita tutta tibaldesca. La terminazione con timpano triangolare è assai frequente
e si trova nel palazzo Stati Maccarani di Giulio Romano e pure a Bologna nella
fontana Vecchia del Laureti27, mentre l’impiego di un timpano arcuato è molto più
raro. Nel portale il gioco si spinge addirittura ad arguzie linguistiche come il motivo
che decora le lesene, costituito da una serie di targhe sovrapposte che paiono come
imbullonate a parete, ripreso da Floriano Ambrosini nel camino monumentale del
salone al piano nobile28.
l’interno
Per quanto riguarda la distribuzione interna occorre premettere che il palazzo
ha subito, continue modifiche, alcune delle quali ne hanno in parte alterato l’originario impianto. Ci vengono in aiuto alcuni rilievi antecedenti, realizzati nel corso
del Sei-Settecento: il più antico è stato recentemente rinvenuto da Maurizio Ricci
e riporta l’arrivo al piano nobile dello scalone e la distribuzione dei vani adiacenti
24
Giulio Romano impiega per la prima volta il motivo nella casa romana a Macel de’ Corvi (cfr.
C.-L. Frommel, in: Giulio Romano, cit., p. 296; mentre Vignola lo adotta al piano terra della facciata di
villa Giulia, cfr. C.-L. Frommel, in: Jacopo Barozzi da Vignola, cit., pp. 163-166.
25
Cfr. D. Ravaioli, in: Palazzo Bocchi, a cura di M. Danieli, D. Ravaioli, testi di A. Angelini, R. Dodi,
Bologna 2006, pp. 21-57, alle pp. 25, 31-34.
26
Ricci, Per una riconsiderazione critica, cit., p. 71.
27
Cfr. Tuttle, Piazza Maggiore, cit., pp. 162-162; D. Righini, La fontana “vecchia” di Bologna, ovvero
la mostra terminale dell’AQVA PIA, in: Arti a confronto. Studi in onore di Anna Maria Matteucci, a cura di D.
Lenzi, Bologna 2004, pp. 127-136 e tavv. 83-90.
28
Sul camino si veda Tuttle, I camini, in Palazzo Magnani in Bologna, cit., pp. 137-143.
250
palazzo magnani: indagini sul cantiere
alla grande sala29; il secondo è una pianta del piano terra schizzata da Francesco
Muttoni nel 170830; il terzo, molto più dettagliato, è una perizia del 1798, stesa
dall’architetto Angelo Venturoli31 (fig. 2).
Il problema distributivo di un palazzo signorile era regolato dai modi di collocare
gli ambienti, i vani di risalita e di collegamento attorno al cortile. Tibaldi opta per
un tipo quadrato con tre campate per lato che, per esiguità di spazio a disposizione,
decide di porticare su due soli lati, paralleli alla facciata e immediatamente visibili
entrando, quasi fossero il portato di una successione di quinte disposte lungo un asse
prospettico obbligato, che originariamente non si concludeva nel buio ambiente che
contiene la statua del Gigante in stucco imitante il bronzo, ma in una «curtesela»
aperta, come attestano il saggio di Alicorni e i disegni delle fondazioni che sono
privi del corrispondente tratto di muratura32. L’aspetto della «curtesela» sul fondo,
pensata da Tibaldi, non era pertanto quello illustrato dalla sezione settecentesca di
Giovanni Antonio Landi (fig. 3), costruita per esaltare la centralità della statua di
epoca posteriore. Sui restanti lati, privi delle logge, Tibaldi ripete i due tipi di finestre
a edicola trovati in facciata e sotto il portico, con la differenza che quelle al piano
nobile si trovano ora inscritte in campate ad arco il cui estradosso è sottolineato da
una cornicetta in rilievo. Il motivo costituisce una variante di quanto Domenico
andava proponendo, negli stessi anni, nel chiostro del capitolo di San Procolo.
La collocazione della scala e il suo sviluppo erano intimamente legati alla forma
del cortile. Questa infatti doveva risultare immediatamente visibile, non appena
superato l’andito, essendo posta al termine della prima loggia. La stretta corrispondenza tra loggia porticata e scala è documentata da un’ampia casistica di edifici dove,
per necessità imposte dal sito, si poteva realizzare un solo ramo di peristilio, come
nel palazzo Baldassini di Antonio il Giovane, oppure nei progetti di Baldassarre
Peruzzi per palazzo Ricci a Montepulciano. A palazzo Magnani, Tibaldi ha la
possibilità di replicare sul fronte opposto all’ingresso una doppia loggia, in modo
da espandere in senso longitudinale la profondità dell’impianto. La successione
andito-loggia-cortile quadrato-loggia-spazio retrostante ricorda una serie di edifici
che Domenico poteva aver visto dal vivo o conosciuto dalle opere a stampa, come
29
fagmbo, Istrumenti, b. 552, n. 27/2. Anonimo, pianta parziale del piano nobile di palazzo Magnani, 1678, cit. Ricci, Disegni vecchi e nuovi, cit., p. 40, fig. 4 a p. 41. Per un quadro ricostruttivo più ampio
sulla distribuzione interna del palazzo, cfr. Bettini, Palazzo Magnani: il testamento, cit., pp. 48-69.
30
Francesco Muttoni, Palazzo del Marchese Magnani in Bologna, Archivio del Comune di Porlezza,
sezione disegni Architetto Muttoni; cfr. N. Grilli, Un archivio inedito dell’architetto Francesco Muttoni,
Firenze 1991, p. 138, n. xiv, 110 (90); Pigozzi, Palazzo Magnani, cit., p. 274.
31
Bologna, Fondazione Collegio Artistico Venturoli, Archivio Venturoli, perizia m 25, 10 luglio
1798, integralmente pubblicata e trascritta in Palazzo Magnani in Bologna, cit., Doc. 7, pp. 168-181,
tavv. i-x.
32
asb, Malvezzi Lupari, x, cit., cc. 9v, 11v, cfr. Vitali, Romulus in Bologna, cit., nn. 358-359 a p. 82.
La statua non è in «vigoroso macigno dipinto» e non è neppure sicuro che essa rappresenti un Ercole, cfr.
Pigozzi, Palazzo Magnani, cit., p. 271; S. Vitali, Palazzo Magnani: le decorazioni pittoriche e scultoree del
Cinquecento, in Palazzo Magnani in Bologna, cit., p. 129.
251
sergio bettini
palazzo Gaddi, assegnato a Jacopo Sansovino dal figlio Francesco e da Vasari33, il
palladiano palazzo Valmarana (1565) e fra gli esempi con il cortile allungato sono
state anche richiamate le case per Angelo e Pietro Massimo di Peruzzi34.
L’imbocco della scala di palazzo Magnani è preceduto da due piccoli vani: il
primo incrocia una galleria corrente sotto la rampa superiore, il secondo è una
sorta di pianerottolo rialzato che annuncia l’inizio della scala. Si tratta di un elemento «colto», che Frommel chiama «podio», documentato sin dal Quattrocento
a partire dal palazzo Ducale di Urbino e dal palazzo della Cancelleria, e ripreso da
Antonio da Sangallo il Giovane a palazzo Farnese, in quella che nel Cinquecento
può ritenersi la più aulica ricostruzione della domus vitruviana35, ripresa a Piacenza
da Vignola, nel primo progetto per palazzo Farnese36.
L’originario sistema di risalita occupava un intero lato del cortile e, biforcandosi
“a farfalla”, consentiva di raggiungere due poli opposti del palazzo. La circolazione
interna all’edificio veniva in tal modo regolata da un impianto a “C” simmetrico
rispetto all’asse trasversale dell’edificio, secondo il quale ogni rampa collegava una
loggia superiore, dalla quale si accedeva agli ambienti del piano nobile.
Rimane, invece, problematico l’effetto di “foratura”, prodotto dalle finestre
nella volta a botte inclinata dello scalone, che pare il portato della volontà di privilegiare l’unitarietà visiva del cortile a detrimento dell’aspetto e dell’illuminazione
interni37.
La posizione della scala lungo il senso longitudinale del cortile è suggerita da
Palladio per il godimento di coloro che percorrono il palazzo del conte Iseppo da
Porto a Vicenza38, dove peraltro non vi sono le restrizioni imposte dal sito di palazzo Magnani. Se escludiamo il palazzo di Leonardo Spinola, a Milano che presentava
una doppia scala a forbice, su progetto del fratello Pellegrino, databile al 1570-1575
ma ancora incompiuto nel 1598 alla morte del committente proprio nella parte
contenente lo scala39, l’unico precedente noto agli studi rinascimentali di uno scala
a farfalla distribuito sul lato longitudinale di un cortile, delimitato trasversalmen-
M. Morresi, Jacopo Sansovino, Milano 2000, cat. 8, pp. 50-65.
Cfr. Pigozzi, Palazzo Magnani, cit., p. 272.
35
C.-L. Frommel, Scale maggiori dei palazzi romani del Rinascimento, in: L’éscalier dans l’architecture
de la Renaissance. Atti del convegno (Tours 1979), Parigi 1985, pp. 135-143 e figg. alle pp. 281-288.
36
Adorni, in: Jacopo Barozzi da Vignola, cit., cat. 169, pp. 312-313, fig. 169.
37
Sulla questione si veda ora S. Bettini, Ricerche sulla luce in architettura: Vitruvio e Alberti, in «Annali
di architettura», 22, 2010(2011), pp. 21-44: p. 38.
38
A. Palladio, I Quattro libri dell’architettura, Venezia 1570, ii, pp. 8-10, cfr. R. Cevese, Palladio e le
scale, in «Annali di architettura», 17, 2005, pp. 107-113.
39
Anche Ricci ha messo in relazione l’esempio bolognese con Palazzo Spinola proponendo una datazione precedente, Ricci, Disegni vecchi e nuovi, cit., p. 42 e fig. 7, sulla scorta di A. Scotti, Scale milanesi
del Cinquecento, in: L’éscalier, cit., pp. 145-151 e figg. 225-232 pp. 289-290, in particolare pp. 148-149
e fig. 226 a p. 289. Per una datazione più circostanziata vedi sL. Giacomini, Tre palazzi privati milanesi
e l’architetto Pellegrino Pellegrini, in «Arte Lombarda» 136, 2002, pp. 74-90, in particolare le pp. 74-77 e
note 1-43 alle pp. 85-86, gentilmente segnalatomi da Francesco Rephisti.
33
34
252
palazzo magnani: indagini sul cantiere
te da due logge aperte, è costituito dal progetto, non realizzato, per il palazzo di
Vettor Grimani sul Canal Grande a Venezia, nel quale Jacopo Sansovino40 coniuga
la tradizione delle scale veneziane con l’esempio antico più noto di una struttura
doppia di risalita, il presunto palazzo di Mecenate a Montecavallo. Edificio rilevato
da Giuliano da Sangallo, pubblicato da Serlio (fig. 4) e che suggerisce al Palladio
– il primo a riconoscere nel complesso non più un palazzo ma un tempio dedicato
a Giove – uno schema per servire due unità abitative indipendenti41. Mentre a
Venezia l’impiego di scale siffatte poteva vantare un lungo catalogo42, a Bologna
una tradizione doveva ancora fiorire e non v’è dubbio che la grande stagione degli
“scaloni” settecenteschi trovò in palazzo Magnani uno dei riferimenti obbligati.
conclusioni
«Decoro» e «licenza», per usare due connotazioni estetiche del tempo, introdotte da Sebastiano Serlio, paiono i poli equilibratissimi entro i quali si muove il
fare di Domenico Tibaldi, a palazzo Magnani43. Con il decoro – ha spiegato James
Ackerman44 – si attribuivano all’edificio una pluralità di caratteri (rispetto della
tradizione, funzionalità, stato sociale); con licenza si riteneva la libertà di invenzione, senza la quale un progetto diveniva convenzionale. Sappiamo, tuttavia, poco o
nulla circa le indicazioni tridentine in merito a questi temi per l’architettura civile,
Per palazzo Grimani cfr. da ultimo Morresi, Jacopo Sansovino, cit., cat. 11, pp. 72-83, a p. 78.
Nella pianta del «Tempio di Giove» (I Quattro libri, cit., iv, p. 42), Palladio non indica lo sviluppo
dei gradini delle scale ma i sottostanti ambienti voltati. Nelle precedenti ricostruzioni, ad esempio in quella
di Giuliano da Sangallo «Palazzo di Macinata in Roma», 1513 ca., Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana,
Codice Barberiniano Latino, 4424, f. 65v) , le scale sono sempre a rampe affiancate, ma pare non esservi
una biforcazione a farfalla come a palazzo Magnani e come riportato nella sezione al monumento antico da
Palladio (ibid., i, p. 66). Sulla conoscenza del monumento nel Rinascimento, cfr. R. Santangeli Valenzani,
La torre Mesa, in: La Roma di Leon Battista Alberti. Umanisti, architetti e artisti alla scoperta dell’antico nella
città del Quattrocento, a cura di F.P. Fiore, con la collaborazione di A. Nesselrath, Milano 2005, pp. 270273, fig. a p. 272. Cfr. P. Gros, Palladio e l’antico, introduzione di H. Burns, Centro Internazionale di studi
di Architettura Andrea Palladio, Venezia 2006, pp. 40-44. Anche Ricci propone il medesimo riferimento
per sciogliere un fraintendimento generato da Carlo Cesare Malvasia che, nella sua Felsina pittrice (Bologna
1678, i, p. 200), attribuiva erroneamente la «doppia scala» al Quirinale, fonte d’ispirazione del Tibaldi, a
Ottaviano Mascarino, cfr. Ricci, Disegni vecchi e nuovi, cit., p. 42 e fig. 6 a p. 41.
42
Cfr. Morresi, Jacopo Sansovino, cit., p. 78 ricorda inoltre i progetti di Mauro Codussi per le scuole
Grandi di S. Marco (perduto) e di S. Giovanni Evangelista.
43
Per questi concetti, anche con opinioni divergenti, cfr. M. Carpo, La maschera e il modello. Teoria
architettonica ed evangelismo nell’Extraordinario Libro di Sebastiano Serlio, Milano 1993, pp. 13-62; F.P.
Fiore, Il “giudizio” in Sebastiano Serlio, in: Studi in onore di Renato Cevese, a cura di G. Beltramini, A.
Ghisetti Giavarina, P. Marini, Vicenza 2000, pp. 237-249; Id., Introduzione, in: Sebastiano Serlio, L’architettura: I libri I-VII e l’Extraordinario nelle prime edizioni, Milano 2001, pp. 18 ss.
44
J. Ackerman, L’estetica dell’architettura nel Rinascimento, in: Architettura e disegno. La rappresentazione da Vitruvio a Gehry, Milano 2003, pp. 152-159, specialmente le pp. 155-156.
40
41
253
sergio bettini
soprattutto se confrontate con quanto si discuteva e proponeva per l’architettura
ecclesiastica negli stessi anni45.
Abbiamo individuato una pluralità di riferimenti, richiamando “progenitori”
romani, ma occorre fare attenzione poiché ciò che si metteva in opera, sulle facciate
dei palazzi nella città capitolina, era assai lontano da quanto si faceva a Bologna.
A Roma, gli ordini architettonici, ad esempio, erano scomparsi da tempo e ogni
concessione alla loro «magnificenza rappresentata» pare fosse lasciata alle chiese46.
La ricerca di Tibaldi sembra piuttosto allinearsi alle proposte dei grandi architetti operanti nel nord peninsulare, Giulio Romano, Sanmicheli, Sansovino,
Palladio, Vignola, espressioni di una maniera grandiosa e rigorosa, nella quale ogni
concessione, ogni divagazione “manierista” – come un tempo si diceva – è attutita
e ricomposta all’interno di una matrice razionale e controllata. Ad esempio, nel
collocare sotto il portico le sue edicole michelangiolesche, Domenico sembra aver
ascoltato il consiglio di Palladio, che suggeriva di non impiegare finestre con timpani spezzati sulle facciate dei palazzi perché non avrebbero svolto adeguatamente
la loro funzione protettiva47.
Altre concessioni a un vocabolario «licenzioso», adottate all’interno del palazzo,
possono forse trovare una giustificazione se inserite in una logica preordinata: il
pilastro bugnato che sottolinea il passaggio tra i due ambienti che precedono la
scala simula, tramite il gioco dei filari delle bugne, uno sguincio prospettico, uno
schiacciamento quasi a ricordare che quel vano si trova all’incrocio della loggia
d’ingresso mentre l’altro ramo del peristilio è stato omesso per ragioni di spazio.
Anche il gioco delle membrature architettoniche di facciata sembra conoscere
quanto scrive Serlio nel suo Settimo libro, secondo il quale il loro aggetto dev’essere
regolato tramite un’appropriata definizione cromatica, che assegnava agli elementi
più in «rilievo» un colore chiaro e a quelli più lontani un colore «oscuro»48.
Tutte ragioni che potrebbero inoltre spiegare la lunga fortuna critica di palazzo
Magnani nella letteratura successiva, tanto da ricevere addirittura gli elogi – dopo
quelli di Francesco Algarotti49 – dal più impietoso critico dell’architettura tardo cinquecentesca, Francesco Milizia che, nelle sue Memorie degli architetti antichi e moderni del 1781, scrive: «Questo edificio è a due ordini, senza cornicione tramezzo; onde
ne risulta un’armoniosa unità: è di mediocre capacità ma perché è trattato nella gran
maniera, sembra grande, ed il suo cortile benché piccolo, pare spazioso»50.
Per i caratteri “riformati” nell’architettura ecclesiastica, cfr. F. Rephisti, R. Schofield, Architettura e
Controriforma. I dibattiti per la facciata del Duomo di Milano 1582-1682, Milano 2004.
46
C. Conforti, Roma: architettura e città, in: Storia dell’architettura italiana. Il secondo Cinquecento, a
cura di C. Conforti e R.J. Tuttle, Milano 2001, p. 36.
47
Palladio, I quattro libri, cit., i, p. 52.
48
S. Serlio, Settimo libro, Francoforte 1545, p. 126. Si tratta pertanto di un problema di adeguatezza
cromatica nella percezione prospettica dell’edificio e non tanto di adeguatezza chiaroscurale per connotare «una funzione statica importante», Carpo, La maschera, cit., pp. 56-57.
49
F. Algarotti, Saggio sopra l’architettura (1756), ed. cons. Venezia 1784, nota 1, p. 32.
50
F. Milizia, Memorie degli architetti antichi e moderni, 2 voll., Bassano, 1785 (seconda edizione),
ii, p. 61.
45
254
nadja aksamija
DOMENICO TIBALDI E GIOVANNI GALEAZZO ROSSI:
ARCHITETTURA E LETTERATURA NELLA VILLA IL TUSCOLANO
DI GIOVANNI BATTISTA CAMPEGGI∗
Nella seconda metà del Cinquecento, Il Tuscolano di Giovanni Battista
Campeggi era una delle più celebri ville del contado bolognese. Già situata a nord
della città, nella regione di Saliceto sul canale Navile – in una località illustrata sulla
carta della Bononiensis Ditio di Egnazio Danti nella Galleria delle carte geografiche in Vaticano, come anche su quella del territorio bolognese nell’adiacente Sala
Bologna – la villa fu tragicamente distrutta nel 1820. Le testimonianze visive e le
numerose poesie e lettere che ne parlano, hanno attratto l’attenzione degli studiosi
fin dall’Ottocento1. Sulla base di ampie evidenze letterarie e d’archivio, molte delle
quali inedite, il presente studio intende contribuire alla discussione di questo notevole edificio, offrendo una nuova interpretazione della sua funzione ideologica nel
contesto della cultura di riforma post-tridentina e proponendo Domenico Tibaldi
come architetto della magnifica loggia costruita nei primi anni ’70 sul suo lato
meridionale.
∗
Il presente saggio è la traduzione di una versione significativamente ridotta del mio articolo Architecture and Poetry in the Making of a Christian Cicero: Giovanni Battista Campeggi’s Tuscolano and the
Literary Culture of the Villa in Counter-Reformation Bologna, pubblicato su «I Tatti Studies», 13, 2011,
pp. 127-199, articolo che include anche trascrizioni complete di numerosi documenti e opere poetiche.
Sono grata a Liliana Leopardi, Daniela Viale, e soprattutto Francesco Ceccarelli per la traduzione delle
varie parti del testo inglese, e a Sergio Fusai per le traduzioni dal latino. Ringrazio Roberto Terra per
alcune immagini e per i fecondi colloqui. Dedico questo studio alla memoria di Richard J. Tuttle, carissimo amico ed ineguagliabile studioso dell’architettura bolognese del Cinquecento, che lo aveva letto e
commentato con tantissima cura e generosità.
1
Studi precedenti sul Tuscolano includono: G. Giordani, Descrizione della Villa Bolognese detta il Toscolano, in «Almanacco Statistico Bolognese», v, 1834, pp. 137-204; G. Zucchini, Il Vignola a Bologna, in
Memorie e studi intorno a Jacopo Barozzi pubblicati nel IV centenario dalla nascita, Vignola 1908, pp. 201255; G. Roversi, Il Tuscolano: vicende e splendori di una villa scomparsa, in «Strenna storica Bolognese»,
14, 1964, pp. 317-362; e G. Cuppini e A.M. Matteucci, Ville del Bolognese, Bologna 1967, pp. 37-40,
82-84. Questi studiosi hanno tentato principalmente di ricostruire l’apparenza della villa servendosi dei
resoconti letterari pubblicati; i punti concettuali e le nuove evidenze letterarie qui presentate non sono
ad oggi state esaminate.
255
[1.]
[3.]
[2.]
[4.]
[5.]
sergio bettini
1. Giovanni Antonio Landi, Raccolta di alcune facciate di
Palazzi e Cortili de più ragguardevoli di Bologna, metà del
XVIII sec., tav. 18: Prospetto del Palazzo Magnani in Strada
San Donato.
2. Angelo Venturoli, Palazzo Magnani, pianta piano primo,
allegata alla perizia di stima del 16 luglio 1798. Bologna,
Fondazione Collegio Artistico Venturoli, Archivio
Venturoli, Perizie, Cartone M, Fascicolo 25, n. 3.
3. Giovanni Antonio Landi, Raccolta di alcune facciate di
Palazzi e Cortili de più ragguardevoli di Bologna, metà del
XVIII sec., tav. 19: Prospetto del cortile nel Palazzo Magnani
(dettaglio).
4. Sebastiano Serlio, pianta del palazzo a «Monte Cavallo»
(in Terzo libro, Venezia, Marcolini, 1540, p. LXXX).
5. Palazzo Magnani, pilastro ‘sguinciato’ posto tra la scala e
la galleria ad essa sottostante (foto S. Bettini).
376