Etica & Politica / Ethics & Politics, IX, 2007, 2, pp. 126-143
Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali
MICHELE DI FRANCESCO
Centro di Ricerca di Epistemologia Sperimentale e Applicata
Facoltà di Filosofia, Università Vita-Salute San Raffaele, Milano.
difrancesco.michele@hsr.it
ABSTRACT
Recent developments in the neuroscience offer an increasing amount of “brain-based” explanations of decision-making in ethics (and economics). Are those explanations more basic than the psychological, “social” or philosophical ones? In my paper I address this question analyzing the meaning of “because” in sentences like “when someone is willing to act
on a moral belief, it is because the emotional part of his or her brain has become active
when considering the moral question at hand” (M. Gazzaniga, The Ethical Brain, 2005, p.
167, emphasis added). My answer is a pluralistic one. I reject brain-fundamentalism and I
argue that neuroscientific developments support a moderate form of naturalism, according
to which empirical results may indirectly influence moral reflection, but offer no direct evidence to radical reductive naturalism.
1. Premessa. Chi è al timone?
Cosa fa il mio cervello quando io prendo una decisione? A giudicare un gran
numero di recenti ricerche neurobiologiche molti sono gli studiosi tentati
dalla risposta: “sta prendendo quella stessa decisione”: A questo punto, tuttavia, sembra inevitabile chiedersi: che cosa faccio io, quando il mio cervello
prende una decisione? E qui la questione diventa spinosa. Potremmo dire
che io e il mio cervello facciamo gioco di squadra, ma in questo caso bisognerebbe aggiungere una spiegazione del valore aggiunto portato dalla mia
presenza – non facile da spiegare se, come vuole la scienza, la storia causale
che dal cervello porta all’azione è già di per sé completa. Alternativamente,
potremmo suggerire che io non faccio proprio nulla, mi limito a registrare
nel foro della mia coscienza quel che sta accadendo, abbandonandomi alla
consolante illusione di essere al comando. Infine, potrei semplicemente negare il senso della domanda, affermando che io sono il mio cervello – una
conclusione non priva di fascino, ma che nasconde numerose insidie. Apparentemente, queste e altre questioni similari non sono che l’ennesima esemplificazione di una tematica generale sulla quale i filosofi si interrogano da
Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali
secoli: il rapporto tra la mente e il corpo. Di fatto, però, gli straordinari sviluppi delle neuroscienza e della psicologia ad essa più vicina rendono la situazione diversa e per molti versi più interessante. Oggi, infatti, non siamo
alle prese con versioni generali del mind-body problem, ma con teorie specifiche sulle basi neurali dell’azione. Teorie empiriche, testate in laboratorio e
dotate di forte sostegno sperimentale ci raccontano storie causali convincenti
e (relativamente) complete sul perché operiamo certe scelte. Di più, queste
teorie predicono e riscontrano comportamenti che violano le millenarie norme di razionalità che il pensiero filosofico ha posto alla base dell’agire umano; e lo fanno attribuendo all’attivazione di precise aree cerebrali l’origine
dei comportamenti.1 A questo punto la questione “che cosa faccio io mentre
il mio cervello decide” assume i contorni di una sfida complessiva all’utilità
e alla plausibilità delle macro-descrizioni che parlano delle ragioni che guidano l’azione delle persone nei casi (crescenti) in cui siano presenti spiegazioni alternative di livello neuro-biologico. In queste pagine chiamerò questa
situazione “la sfida neurofilosofica”, e la discuterò in relazione a un aspetto
specifico: l’esistenza di spiegazioni della genesi dell’azione morale basate
sul cervello. Qual è il loro ruolo rispetto ad altre spiegazioni, psicologiche,
sociologiche, filosofiche, che descrivono il comportamento delle persone?
Le spiegazioni neurobiologiche sono più fondamentali rispetto alle altre?
Sono quelle vere ed esatte, mentre le altre solo al massimo approssimazioni
faute de mieux, provvisorie e imprecise? Il fondamentalismo neurobiologico
è la riposta alla sfida neurofilosofica?
2. Persone o neuroni? Il naturalismo contemporaneo e la neuroetica
Una delle caratteristiche essenziali del pensiero contemporaneo è la crescente tendenza al superamento della dicotomia tra scienze naturali e scienze
umane. Sul piano filosofico questo equivale a una sempre maggiore confluenza di filosofia della natura e filosofia morale, nel senso classico di queste espressioni. Da un lato, questo risultato è scontato: è un significativo effetto collaterale della nascita di una scienza della natura umana empiricamente fondata e teoreticamente affidabile.2 Dall’altro, richiede un ripensaPer limitarci al caso della neuroetica, cfr. Fara, 2005, Hauser, 2006, Levy, 2007, Illes, 2006, Marcus, 2002,
Moreno, 2003, Reichlin, 2007. Per una introduzione generale alle basi cognitive e neurali del decision making cfr. Motterlini, 2006.
2
Nel caso che sia sfuggito a qualcuno, la nascita di una scienza della natura umana empiricamente affidabile
rappresenta la grande rivoluzione scientifica della seconda metà del XX secolo. Lo sviluppo delle scienze cognitive (psicologia e neuropsicologia cognitiva, intelligenza artificiale, linguistica, antropologia e scienza sociale
cognitiva) e delle neuroscienze, insieme ai progressi di genetica e biologia, a cui si aggiungono nuove discipline di confine, come la psicologia evoluzionistica, hanno radicalmente mutato il quadro complessivo in cui
interrogarsi sulla “natura umana”.
1
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mento dei compiti e degli strumenti della riflessione filosofica in ambito morale (e più in generale normativo), che solleva questioni nuove e complesse e
richiede forse la nascita di una nuova tipologia di studi (e di studiosi), decisamente orientati a un sapere interdisciplinare.
Come accennato, scopo di questo lavoro è la discussione di un problema
specifico che sorge all’interno del paradigma della cosiddetta “neuroetica”, e
in particolare dallo studio delle basi neurali dei processi decisionali. Il problema specifico è quello del livello di individuazione dei meccanismi causali
essenziali (e degli agenti reali – persone o neuroni?) ove collocare la descrizione corretta dell’origine e dello sviluppo del processo decisionale. La questione può essere posta in due modi complementari: (a) che cosa significa
“perché” in contesti quali “Tizio ha compiuto l’azione A perché la regione
cerebrale XYZ si è attivata (o non attivata)”? (b) Chi decide in questi casi,
Tizio o il suo cervello? Qual è il corretto livello a cui ricercare il nesso causale fondamentale? Ed esiste poi un livello fondamentale?
La prima questione concerne lo statuto di una classe di giudizi che cadono entro la sfera della neuroetica. Hanno un diretto impatto etico? O lo fanno
solo insieme a una serie di assunzioni ulteriori che possono essere criticate?
La mia tesi è che le neuroscienze non sono in grado di influenzare direttamente il dibattito etico – non esiste una derivazione diretta da premesse empiriche a conclusioni morali – in quanto i limiti attuali del riduzionismo non
consentono di ricostruire all’interno del discorso neurobiologico la complessità del giudizio morale.3 Tuttavia, la neurobiologia e la neurofilosofia possono influenzare indirettamente il discorso etico – e in generale l’intero ambito delle scienze umane e sociali –, in quanto mettono in discussione
un’immagine dell’io radicata nel senso comune e sviluppata nel contesto
delle scienze umane e sociali, a cui molti giudizi etici sono strettamente correlati.4 Quest’ultima osservazione ci conduce alla seconda questione: quanto
radicale deve essere la revisione della nozione di “soggetto di azione” imposta dalle osservazioni neurobiologiche e più in generale neurofilosofiche?5
Per rispondere dovremo valutare la fondatezza dell’idea che il livello di analisi neurobiologico sia esplicativamente fondamentale rispetto a tutti gli altri
livelli in cui studiamo il comportamento umano.
Un aspetto cruciale è che i truth-makers, i fatti rilevanti che permettono la valutazione dei giudizi morali appartengono a un universo di discorso (dominio ontologico) diverso da quello (neuro)biologico.
4
Come nota opportunamente Simone Pollo nel suo commento al presente lavoro, le neuroscienze possono
fornire vincoli empirici a ogni possibile teoria morale. Non sono sicuro che “una società liberale è anche un a
società naturalizzata”, ma concordo che certamente sarebbe un grave errore basare la ricerca dei “principi
fondamentali” dell’organizzazione di una società liberale su assunzioni empiricamente false. Questo, per altro, mi sembra un altro esempio di influsso indiretto delle neuroscienze sul dibattito etico-politico.
5
L’essenza della neurofilosofia è la tesi che la conoscenza della mente passa essenzialmente per la conoscenza del cervello (Churchland, 1986, 2007). Nella mia lettura personale, questo non significa che, oltre che necessarie, le neuroscienze siano anche sufficienti per esaurire la comprensione dei fenomeni mentali.
3
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Si tratta di un tema che è oggi tanto più rilevante in quanto gli sviluppi di
biologia e neuroscienze mostrano sempre più numerosi aspetti
dell’organizzazione cognitiva umana che appaiono in contrasto con le intuizioni prescientifiche sulle quali si basano molte delle premesse con le quali
giustifichiamo i nostri giudizi morali. Il rapporto che sussiste tra i risultati
scientifici e le conseguenze filosofiche che se ne possono trarre è però controverso, e, cercherò di argomentare, più indiretto di quanto presupponga
una lettura radicale della sfida neurofilosofica. Ciò non tanto per timore di
qualche versione della “fallacia naturalistica”, ma per problemi schiettamente epistemologici e ontologici relativi alla natura della spiegazione neurofilosofica stessa. Come accennato, in questa sede mi riferirò allo specifico campo di ricerca noto come neuroetica, ma ritengo che le considerazioni si applichino altrettanto bene a settori affini, come la neuroeconomia.6
Fino a pochi anni fa una domanda come “Cosa fa il nostro cervello mentre prendiamo una decisione etica?” non avrebbe potuto neppure essere concepita in ambito scientifico, né tanto meno avrebbe potuto trovare risposta.
Oggi, tuttavia, grazie allo sviluppo delle ricerche neurobiologiche basate su
tecniche di neuroimmagine e sugli altri progressi della neuro-tecnologia, non
solo è entrata nei legittimi scopi della ricerca scientifica, ma ha anche ricevuto risposte che mettono a dura prova millenarie convinzioni filosofiche. In
questo caso, possiamo dire, il prefisso di successo “neuro” che genera
l’espressione “neuroetica” è ampiamente giustificato. Sotto questa etichetta
ritroviamo due tipi di indagine, correlati ma distinti, sia per l’oggetto sia per
le competenze di fondo necessarie per affrontarle. In un primo ambito, che
possiamo chiamare “neuroetica speciale” si affrontano i problemi etici posti
“dall’applicazione delle neuro tecnologie e le loro implicazioni pratiche per
gli individui e la società” (Farah, 2005, p. 34). Il secondo ambito, che potremmo chiamare “neuroetica generale”, riguarda invece l’impatto delle neuroscienze cognitive sul modo in cui “pensiamo a noi stessi come persone,
agenti morali e esseri spirituali” (ibid.).7
Alla base di questa distinzione c’è la contrapposizione tra due tipi di problemi: i “what we can do problems” e i “what we know problems”.8 Il priCfr. Motterlini, 2006. Per considerazioni più generali sulla dimensione epistemologica del problema, cfr. Di
Francesco, Motterlini, Colombo, 2007.
7
Cfr. anche Rechlin, 2007a, 2007b, e in generale i testi citati nella nota 1. La questione terminologica non è
priva di interesse. Farah (2005) propone la distinzione tra neuroetica pratica e filosofica. Ma questo sembra
suggerire che la neuroetica pratica non sia filosofica, cosa del tutto dubbia. Un’ulteriore proposta è quella di
Levy (2007), che distingue tra etica delle neuroscienze (che si occupa per esempio dei vincoli morali
all’indagine sperimentale e alle sue applicazioni) e neuroscienze dell’etica, che avrebbe a che fare con le basi
neurali dell’azione etica. Quest’ultima proposta sarebbe forse la preferibile, se non fosse per il difetto di introdurre una separazione un po’ troppo netta tra la ricerca empirica e la valutazione etica – con un implicito
prevalere della prima.
8
Questa distinzione è tratta dal sito web dell’University of Pennsylvania’s Neuroethics Program –
http://www.neuroethics.upenn.edu/overview.html.
6
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mo genere di tematica riguarda che cosa è lecito fare grazie alle scoperte
neuroscientifiche; il secondo che cosa dobbiamo pensare di tali scoperte. Da
un lato, abbiamo quindi la riflessione sulle conseguenze morali
dell’applicazione delle neuroscienze: dalla legittimità di tecniche farmacologiche o genetiche per il potenziamento di tratti mentali come l’intelligenza –
quello che potremmo chiamare “doping cognitivo” –; alla liceità della “lettura della mente” resa teoricamente possibile dalle tecniche di neuroimmagine
(è legittimo negare un impiego a qualcuno perché c’è qualcosa nel suo profilo neurale che non ci convince?). Altre questioni sensibili riguardano
l’alterazione farmacologica dell’umore e delle emozioni, e la questione spinosa dei rapporti tra modifiche neurali e identità personale.9
Dall’altro lato, le ricerche di neuroetica mettono in discussione le nostre
idee ordinarie circa la natura dell’azione consapevole, della razionalità e persino della libertà. Secondo molti studiosi le scienze del cervello ci mostrerebbero un soggetto depotenziato da una pluralità di agenzie neurali, che decidono e si orientano in base a logiche e meccanismi molto diversi da quelli
che (ingenuamente) attribuiamo a noi stessi. In particolare, le scoperte rispetto alla natura parallela e distribuita del funzionamento cerebrale, e
l’esistenza di agenzie cognitive funzionalmente e anatomicamente distinte,
mettono in discussione la natura unitaria e coerente dell’io. Tutto questo apre la porta al potenziale conflitto tra risultati scientifici e modelli della mente eticamente sensibili. A questo proposito va segnalato come la neuropsicologia abbia individuato varie patologie della coscienza – tra cui eminegligenza, “visione cieca” (blindsight), sindrome da disconnessione interemisferica (i cosiddetti split brains), anosognosia, prosopoagnosia, “fughe” epilettiche, ecc. – che rendono molto di ciò che pensiamo sul funzionamento del
nostro io estremamente lontano dal modello del soggetto unitario in possesso
della capacità di deliberazione equanime e razionale. L’elenco potrebbe allungarsi: si pensi ai celebri esperimenti di Benjamin Libet sul free will, o agli slogan di Michael Gazzanica, secondo cui “la mente è l’ultima a sapere”
(ciò che fa il cervello), e di Joseph LeDoux, secondo cui noi siamo le nostre
sinapsi – sviluppi recenti di tesi già proposte nel modello della “società della
mente” di Marvin Minsky, o nella riduzione dell’io a “centro di gravità narrativo” operato da Daniel Dennett.10 Qualcuno potrebbe pensare che queste
sono solo riletture filosofiche estreme di dati empirici, che possono avere interpretazioni meno dirompenti. Anche se questo fosse vero (ed è lecito dubitarne), esistono tuttavia troppe ricerche specifiche meno spettacolari e più
Cfr. Reichlin 2007, Illies, 2006, Fara 2005.
Non tento neanche una rassegna completa della letteratura in merito ai fenomeni citati. Discussioni introduttive di questi fenomeni si trovano in Weiskrantz, 1997 (per il blindsight), e Koch, 2004 (per le altre sindromi). Per le ulteriori discussioni filosoficamente rilevanti, che, a vario titolo, trattano della frammentazione
dell’io e della coscienza, cfr. Dennett 2001 e Metzinger, 2003, Minsky 1986, Libet, 1985, 2004, Gazzaniga
1999, LeDoux 2002.
9
10
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concrete, come quelle legate ai fenomeni di inattentional blindness (dove
l’attenzione determina quali contenuti mentali diventino effettivamente coscienti), e in generale ai rapporti tra coscienza e attenzione, che portano nella
stessa direzione e rendono scarsamente credibile l’ipotesi di una congiura
materialistica contro le nostre intuizioni cartesiane.
In generale, neuroroscienze e scienze cognitive hanno portato a un radicale ridimensionamento del ruolo della coscienza e dell’autocoscienza nella
nostra vita mentale, che presenta quest’ultima come una serie di isole momentanee di consapevolezza le quali emergono da un oceano di reazioni automatiche anche complesse, governate da meccanismi di cui ignoriamo esistenza e funzioni. La complessità di questi meccanismi ha indotto alcuni a
parlare degli zombies che abitano in noi,11 un modo, forse iperbolico, per
mettere in dubbio la convinzione preteorica di essere gli agenti delle nostre
azioni.
3. Neuroetica e spiegazione dell’azione
Le riflessioni sulla frammentazione dell’io, e molte altre simili (a partire dalle sindromi dissociative dell’identità),12 possono avere un impatto immediato
sulla nostra idea di soggetto morale, responsabilità, libero arbitrio; e hanno
influenza indiretta sulle politiche sociali in materia di educazione prevenzione e repressione del crimine e così via. È quindi facile comprendere come,
questa sfida neurofilosofica possa giungere fino alla proposta di una naturalizzazione dell’etica su base neurobiologica. Una chiara illustrazione di questo progetto appare nel volume The ethical brain del neuroscienziato Michael Gazzaniga.13 Gazzaniga definisce la neuroetica come “l’analisi del modo
in cui vogliamo porci verso le questioni sociali della malattia, della mortalità, dello stile di vita e della filosofia della vita, arricchiti dalla conoscenza
dei meccanismi cerebrali che ne sono a monte”. O meglio, nell’originale: informed by our understanding of underlying brain mechanism (Gazzaniga,
2005, p. xv tr. it, e p. xv ed. ingl.). Vorrei notare l’ambiguità di espressioni
come “informed by” e “underlying”. In linea di principio un corpus di conoscenze può essere arricchito da informazioni provenienti da altri campi del
sapere, senza divenire per ciò stesso un sapere inferiore o meno fondamentale. Tuttavia, dire che le nuove conoscenze riguardano processi che sottostanno (o stanno a monte) dei fenomeni che ci interessa comprendere introduce
per metafora l’idea di dipendenza Una freccia causale è suggerita senza
Cfr. Koch, 2004 per gli zombies neurologici. Da non confondere con quelli filosofici di Chalmers, 1996.
I cosiddetti casi di “personalità multiple”. Cfr. Di Francesco, 1998, Liotti, 1993, Haking 1995, Wilkes,
1988.
13
Per una discussione più comprensiva di questo testo rimando a Di Francesco, 2007a.
11
12
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un’adeguata discussione. E non a caso Gazzaniga chiarisce il suo pensiero
affidando alla neuroetica lo scopo di pervenire a “una filosofia della vita
fondata sul cervello” (a brain-based philosophy of life, ibid.). Qui il metaforico “underlying” è sostituito da un più impegnativo, ma ancora ambiguo,
“brain-based”.
Queste osservazioni terminologiche non vogliono essere un mero esercizio di pedanteria, ma segnalano il pericolo di introdurre, più o meno implicitamente, relazioni fondative – se non vere e proprie forme di dipendenza ontologica – sulla base di evidenze empiriche il cui status epistemologico è tutto da chiarire. Come ho accennato, in quanto segue cercherò di mostrare che
le scoperte in ambito neuoretico possono portare al massimo argomenti in
favore del naturalismo moderato o minimale – all’idea che le ricerche empiriche pongono vincoli alle teorie filosofiche (per esempio, su soggettività e
azione), indicando dati di fatto che non possono essere ignorati o contrastati
con mere analisi concettuali. Queste non possono, tuttavia, fornire argomenti
diretti in favore di un naturalismo radicale, che miri a ridurre l’analisi
dell’azione umana a un discorso giocato sul solo piano neurobiologico.
Questa diffidenza nei confronti del naturalismo radicale non deve essere
fraintesa. I risultati empirici sono rilevanti: per fare un esempio pertinente rispetto ai nostri attuali interessi, la constatazione, empiricamente molto solida, che la deliberazione in ambito morale è correlata con una complessa negoziazione tra aree cerebrali ci obbliga a ripensare la veneranda distinzione
tra ragione ed emozione, e suggerisce la possibilità di trattare molti dei nostri
comportamenti apparentemente spontanei come il prodotto di “decisioni” e
“scelte” operate dalla nostra circuiteria neurale, con poco o nessun controllo
della nostra mente cosciente. Proprio l’assenza di un ruolo cosciente suggerisce prudenza nell’uso di espressioni come “decisioni” o “scelte” (da qui
l’uso delle virgolette); ma ciò nulla toglie all’impatto filosofico delle recenti
scoperte in merito. Fare i conti con un soggetto depotenziato da una pluralità
di agenzie neurali, che “decidono” e si orientano in base a logiche e meccanismi molto diversi da quelli che (ingenuamente) attribuiamo a noi stessi è
una sfida significativa per la filosofia.
Le ricerche a cui abbiamo appena fatto riferimento sembrano essere quelle a cui allude Gazzaniga nel passo seguente:
Di recente, infatti, hanno fatto la loro comparsa sulla ribalta internazionale
una serie di studi che permettono di chiarire i meccanismi cerebrali alla base
del ragionamento morale [suggesting that there is a brain-based account of
moral reasoning]. […Q]uesti nuovi dati mostrano che quando un individuo
decide di agire in base a una credenza morale è perché le aree cerebrali
coinvolte nelle emozioni si attivano durante la valutazione del quesito morale in questione. Analogamente, quando viene presentato un problema morale
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sul quale l’individuo decide di non agire, è perché non si attivano le aree
emotive del cervello” (Gazzaniga, 2005, p. 163 tr. it.. corsivi miei)
Gli studi a cui allude Gazzaniga hanno una storia molto lunga. Un semplice esempio può tuttavia bastare a chiarire il passo. Partiamo dal ben noto
esperimento mentale in cui a un soggetto si chiede di immaginare le seguenti
situazioni: (a) un carrello ferroviario privo di controllo sta per travolgere e
uccidere cinque persone. Per deviarlo su un altro binario è sufficiente tirare
una leva. Sfortunatamente sulla nuova traiettoria si trova comunque una persona che verrebbe a sua volta uccisa. Cosa fare? Sacrificare una vita per salvarne cinque? (b) Stesso scenario, ma con un a differenza significativa: questa volta per bloccare il carrello occorre spingere fisicamente una persona
sotto le ruote. Questo tipo di “test” del nostro senso morale – non certo nuovo alla riflessione filosofica di ambito etico – 14 è stato riproposto dallo psicologico evoluzionista Marc Hauser, nell’ambito di studi sulla (ipotetica)
base universale dei giudizi morali,15 raccogliendo le risposte di una grandissimo campione di soggetti, diversi per cultura, sesso, educazione. Il risultato
sembra essere che per la maggior parte delle persone lo scenario descritto
della situazione (a) appare moralmente lecito, mentre quello della situazione
(b) non è eticamente accettabile. Non discuterò qui i dettagli delle ipotesi di
psicologia dell’azione (morale) che possono spiegare questo stato di cose
(cfr. Hauser, 2006). Segnalo soltanto che una differenza tra i due scenari
sembra risiedere nel maggiore impatto emotivo implicito nel secondo caso,
dove si tratta di spingere fisicamente una persona verso la morte certa, sulla
base di una azione diretta – una azione che prefigura una violazione di atteggiamenti empatici istintivi e universali nei confronti del prossimo –: la differenza di risposta risiederebbe in una differenza del ruolo causale giocato dalle emozioni nei due scenari alternativi. Su questa base è stato ipotizzato che
quando siamo più coinvolti in situazioni che implicano un maggior coinvolgimento personale a livello emotivo, come nel caso (b), allora la nostra reazione appare guidata da un “sistema” di governo dell’azione a base istintiva,
automatica e viscerale. Al contrario, se siamo in grado di distanziarci da noi
stessi, la nostra capacità di un calcolo morale impersonale sembra basarsi su
processi cognitivi più “freddi” e razionali.16 I risultati del “test”, quindi., si
integrano molto bene con l’ipotesi dell’esistenza di due sistemi alla base della scelta umana, che il premio Nobel Daniel Kahneman, uno dei padri
dell’economia cognitiva, chiama sistema 1 e 2:
Cfr. per esempio P. Foot, 1967, J. Jarvis Thompson, 1976.
La tesi di Hauser è che le “intuizioni morali, lungi dall’essere razionali, correlate con l’educazione e la cultura, e soggette pertanto a evoluzione, sono al contrario essenzialmente inconsce, involontarie e universali”
(Motterlini, 2006, p. 198).
16
Per una presentazione più approfondita, cfr. Di Francesco, Motterlini, Colombo, 2007. Cfr, anche Motterlini, 2006, pp. 195-sgg.
14
15
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le operazioni del sistema 1 sono rapide, automatiche, non costose in termini
di sforzo, associative e difficili da controllare o modificare. Le operazioni
del sistema 2 sono più lente, seriali, costose in termini di sforzo e deliberatamente controllate; sono anche relativamente flessibili e potenzialmente
governate da regole. (Kahneman, 2002, p. 81).17
Gli studi neurobiologici raccolti sotto l’etichetta di neuroeconomia hanno
permesso di fornire ulteriore evidenza a favore dell’ipotesi dei due sistemi.
In questo quadro ampliato, il sistema 1 può essere concepito come un sistema (più antico) automatico e basato su risposte affettive (una valutazione
emotiva immediata degli input), che offre risposte veloci e intuitive, del cui
processo di selezione siamo inconsapevoli. Il sistema 2 è invece deputato a
funzioni di controllo da parte del soggetto, permettendo così una deliberazione basata sulla valutazione consapevole degli input. Restando al nostro
esempio del carrello, il neuroscienziato Joshua Greene (Greene et al., 2004)
ha utilizzato l’ipotesi dei due sistemi per una serie di esperimenti basati sulla
risonanza magnetica funzionale, giungendo alla conclusione che quando
siamo impegnanti in situazioni di tipo (b), in cui c’è una violazione diretta
dell’integrità fisica della vittima, si ha una maggiore risposta delle regioni
cerebrali associate alle emozioni e alla cognizione sociale, mentre nelle situazioni di tipo (a) sono le aree normalmente associate al ragionamento e al
controllo cognitivo a svolgere il ruolo preminente.18
La storia, tuttavia, non si arresta a questo punto: l’individuazione di una
correlazione non equivale all’individuazione di una causa. Per esempio, non
potendo individuare una precisa sequenza temporale e un netto ordine di
priorità temporale tra i fenomeni correlati (per problemi tecnici legati ai
tempi di risoluzione delle immagini realizzate via risonanza magnetica funzionale), si potrebbe anche supporre che l’attivazione delle aree “emotive”
sia un effetto e non una causa della decisione morale. Il passo successivo
consiste introdurre un’ulteriore metodologia, basata sugli studi neurospicologici di lesioni, ovvero sul comportamento di pazienti che hanno danni cerebrali. In questo quadro una ricerca a cui hanno partecipato Marc Hauser e
Antonio Damasio (Koenigs et al., 2007) ha preso in esame pazienti con un
danno alla corteccia prefrontale ventromediale (VMPC). Tali pazienti, che
conservano un buon grado di intelligenza generale, nostrano un sensibile calo della propria abilità di gestione delle emozioni sociali – le reazioni di
compassione, colpa e vergogna sono danneggiate, mentre il controllo di rabPer una presentazione introduttiva dell’economia cognitiva e dei suoi rapporti con la neuroeconomia rimando a Motterlini (2006).
18
Cfr; Greene et al. 2001, 2004. Sul piano anatomico l’ipotesi è che il sistema 1 sia maggiormente legato
all’attività di regioni subcorticali; sistema limbico, amigdala, corteccia insulare, corpo striato, ecc.; mentre il
sistema 2 coinvolge aree della corteccia prefrontale (anteriore e dorsolaterale). Cfr, anche, Motterlini 2006,
Di Francesco, Motterlini, Colombo, 2007..
17
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bia e frustrazione è molto carente. Ciò che osserviamo in questa categoria di
pazienti è che nel caso di dilemmi morali, che implicano un maggior coinvolgimento personale a livello emotivo (tipo b), tendono a esibire un comportamento maggiormente improntato al giudizio di utilità – al calcolo razionale – rispetto al campione di controllo. Ciò suggerisce un effettivo ruolo
causale giocato dall’attivazione di VCMP19 (il suo danneggiamento interferisce con l’elaborazione affettiva normalmente associata alle scelte di tipo b,
che implicano una violazione personale della norma morale).
4. Cosa fa il mio cervello mentre io decido?
A questo punto siamo in grado di discutere con maggiore cognizione di causa le tesi di Gazzaniga, e in particolare la sua idea che le ricerche di cui abbiamo appena parlato permettono di affermare che, se un agente attua o meno un certo comportamento morale, è perché certe sue aree cerebrali si attivano (o non si attivano). Innanzi tutto, possiamo avanzare una breve considerazione metodologica, non priva di implicazioni epistemologiche e forse
ontologiche. Nella nostra breve storia dell’esempio del carrello, abbiamo attinto a una pluralità di indagini:
1. riflessioni filosofiche sulla validità di certe intuizioni “utilitaristiche”;
2. indagini di psicologia del ragionamento (teoria dei due sistemi);
3. indagini neurobiologiche basate su tecniche di neuroimmagine;
4. indagini neuropsicologiche basate su studi di lesioni.
Ciascuna di
queste indagini è mossa da obiettivi specifici, e segue
proprie regole metodologiche e disciplinari. Nel loro insieme, tuttavia, interagiscono tra loro e contribuiscono a una visione integrata dei fenomeni studiati che appare più ricca di quanto si osserverebbe da una singola prospettiva isolata. Se guardiamo alla scienza com’è effettivamente praticata (senza
pregiudizi riduzionistici a-priori), troviamo una pluralità di modi in cui teorie di differenti livelli possono interagire. In alcuni casi abbiamo separazioni
nette tra i domini; in altri si perseguono genuini obiettivi riduzionistici; e in
altri ancora osserviamo una dinamica di coevoluzione e integrazione tra vari
campi di ricerca. Nel caso da noi esaminato, gli stessi obiettivi di ricerca posti (per esempio) da ricerche di livello maggiormente “di base” sono individuate e concettualmente proponibili solo a partire da quanto ipotizzato ai livelli superiori. Questo stato di cose limita ogni lettura forte delle tesi di Gazzaniga, che può essere comodo riprendere nei dettagli:
19
Vedremo che la natura di questo contributo causale può essere discussa.
135
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quando un individuo decide di agire in base a una credenza morale è perché
le aree cerebrali coinvolte nelle emozioni si attivano durante la valutazione
del quesito morale in questione. Analogamente, quando viene presentato un
problema morale sul quale l’individuo decide di non agire, è perché non si
attivano le aree emotive del cervello” (Gazzaniga, 2005, p. 163 tr. it, corsivi
miei)
In questo passo, la parola chiave è “perché”: assunto che esistano meccanismi cerebrali “alla base” del ragionamento morale, questi possono assumersi l’onere di spiegazione fondamentale (ed esaustiva) dell’azione? Questa è la risposta “fodnamentalista” alla sfida neurobiologica: i nuovi dati derivati dalle ricerche di neurobiologia mostrerebbero che si agisce in base a
una credenza morale “perché” [because] certe aree cerebrali sono attive.
Abbiamo, quindi, due tesi: (1) esistono e sono individuabili spiegazioni
basate sul cervello del giudizio morale; (2) questa scoperta spiega il perché
si agisce in seguito a una credenza morale. Si tratta di tesi vere? E la prima
implica o aiuta a giustificare la seconda?
Ora, per quanto riguarda (1), abbiamo già notato che l’espressione “basate su” o “alla base” è ambigua. Che certi fatti biologici siano “alla base” del
pensiero è un’ovvietà compatibile con le più svariate teorie della relazione
psicofisica. Comprese quelle anti-riduzionistiche, o emergentistiche, che attribuiscono un’autonomia del livello mentale da quello fisico. La novità
scientificamente rilevante e affascinante non è l’affermazione generica
dell’esistenza di tali basi, ma l’individuazione effettiva delle medesime. Ben
pochi filosofi negherebbero che perché ci sia pensiero (compreso il pensiero
morale) deve accadere qualcosa a livello cerebrale. Questo può essere fatto,
giova ribadirlo, anche da chi ritiene che l’occorrenza dei fenomeni descritti
al livello di base (i fenomeni individuati con il linguaggio neurobiologico)
sia una condizione necessaria ma non sufficiente per l’occorrere di fenomeni
mentali di livello superiore. Tuttavia, il punto in discussione è proprio se la
descrizione cerebrale è sufficiente a qualificare determinati eventi elettrochimici come esempi di pensiero; se l’analisi del pensiero deve (e può) avvenire a livello sinaptico; se le ragioni che si dispiegano del pensiero possono essere descritte in termini fisici, e così via. La mera individuazione della
correlazione non dirime tali questioni, come prova il fatto che essa sia addirittura compatibile con una forma radicale di dualismo: il parallelismo psicofisico. Ma anche il riconoscimento di un ruolo causale svolto dai fenomeni
del livello di base non giustifica il fondamentalismo neurobiologico. La ragione è che un determinato evento può essere causalmente necessario per
l’occorrenza di un determinato effetto senza esserne una causa in senso pieno; può determinare una precondizione, può essere una concausa, può fare
136
Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali
parte delle condizioni che sono necessarie per l’emergere della connessione
causale rilevante, e così via.
La verità di (1) non può, quindi, fornire evidenza diretta in favore di (2),
che è del resto una tesi molto ardita. La spiegazione giusta del perché io
compio una data azione si rintraccia in una regione del mio cervello? Possiamo davvero immaginare una situazione reale in cui un soggetto umano
valuta coscientemente se impegnarsi in una determinata azione morale (dotata di sufficiente complessità),20 che sia descrivibile parlando soltanto di ciò
che avviene nelle aree cerebrali del suo cervello? Una risposta positiva, mi
sembra, richiede il successo di un programma estremamente forte di naturalizzazione, il cui successo in un remoto futuro è tutto meno che scontato.
Restando all’oggi, supponiamo di avere individuato una correlazione tra
l’azione morale A e l’attivazione dell’area cerebrale X. Qual è la relazione
tra A ed X? Le risposte sembrano essere molteplici. Eccone tre (tra quelle
che mi appaiono più significative, ma ve ne sono altre):
(a) naturalismo radicale (modello della spiegazione causale riduttiva):
compio l’azione morale A perché si attiva l’area X. Ovvero: l’attivarsi
dell’area causa fisicamente l’azione e la storia causale implicata è tutto ciò
che mi serve per avere una spiegazione completa. Questa lettura sembra richiedere che le descrizioni di alto livello delle interazioni causali associate al
comportamento morale siano riducibili al livello di base neurobiologico, oppure siano in un senso forte superflue una volta acquisita la descrizione di
base. Siamo in presenza di un caso netto di fondamentalismo neurobiologico.
(b) pluralismo casuale: compio l’azione morale A e quindi si attiva
l’area X. So di compiere A, e so anche che ogni mia azione è correlata – in
un modo che la scienza lascia metafisicamente indeterminato – a un evento
cerebrale; ricerche empiriche hanno individuato una correlazione tipica tra
eventi A ed eventi X, quindi, dall’occorrere di A inferisco l’esistenza di un
evento cerebrale di tipo X (relazione inferenziale sulla base di premesse empiriche e concettuali). Questa lettura è compatibile con l’idea che le descrizioni delle interazioni causali a livello di base contribuiscano21 alla storia
causale della mia azione. Tuttavia, lascia spazio a una lacuna tra i vari livelli
esplicativi.
(c) emergentismo: si attiva l’area X perché compio l’azione morale A.
Al livello delle azioni umane si manifestano nuovi poteri causali, non risconQui non si tratta di decisioni come premere un pulsante in situazioni sperimentalmente controllate. Stiamo
parlando di situazioni nelle quali sono in gioco complesse negoziazioni tra la nostra identità narrativa, i nostri
valori coscientemente assunti, le pressioni sociali, le pulsioni inconsce che operano in noi, le dinamiche relazionali ecc. Ho tentato di descrivere la complessità di questi fattori in Di Francesco (2007d).
21
Si noti che richiedere che in ogni data situazione è necessario che vi sia una realizzazione fisica, non equivale a dire che esiste una realizzazione fisica che sia necessaria in ogni situazione – almeno se si prende sul serio
la possibilità di realizzabilità multipla.
20
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MICHELE DI FRANCESCO
trabili a quello microfisico, ma che influenzano la configurazione microfisica che li accompagna. Questo modello non nega il ruolo causale del cervello
nell’azione, ma afferma che parte dei poteri causali che ha, il cervello li possiede in quanto parte di un sistema più ampio – individuo, persona, io. Questo è un modello emergentistica (abbastanza)22 radicale, che implica la causazione verso il basso (downward causation) e depotenzia la descrizione di
livello neurobiologico a un ruolo di supporto.
Non è possibile discutere nei dettagli le varie alternative, ma vorrei sottolineare la ragionevolezza di (b), che è forse il modo meno dispendioso in termini ontologici ed epistemologici per render conto dei fattori in gioco: in base ad esso affermiamo che, da un lato, abbiamo motivi filosofici ed empirici
generali per sostenere che ogni volta che Io compio un’azione, nel mio cervello si verificano certi eventi fisici; dall’altro, le affascinanti ricerche di
neuroimmagine ci dicono dove si verificano questi eventi. Si tratta di un sapere prezioso, che tuttavia non si risolve in un modello riduzionistico della
mente, dato che non si suppone che le descrizioni operate ai vari livelli esplicativi siano riducibili al solo linguaggio neurobiologico. Questo modello
è, dunque, in linea con un pluralismo causale molto vicino a quello che di
fatto riscontriamo nell’articolazione concreta delle ricerche.
Certo (b) non risolve tutte le dispute metafisiche implicate, ma questo
non è il nocciolo della nostra attuale discussione, che verte invece su che cosa provano le ricerche di neuroetica – e in particolare che cosa proverebbe la
scoperta di un’ipotetica “base” biologica di alcune delle nostre scelte morali.
Il problema di (a), invece, è che vuole collocare nella stessa catena causale
entità di livelli molto diversi. La spiegazione intenzionale di alto livello, che
descrive il perché io (una persona umana con queste e quelle preferenze psicologiche, un’entità sociale inserita in relazione con questo e quel sistema di
valori, ecc.) ho agito in un certo modo, corre su binari paralleli rispetto a
quelli che descrivono le modificazioni fisiologiche che necessariamente si
accompagnano (e contribuiscono a rendere possibili, in un senso da chiarire)
le mie capacità cognitive, affettive e conative. Per quanto riguarda (c), si
tratta di una posizione che molti considererebbero estrema, e che non è necessario discutere, se non per notare che è in sé coerente e compatibile con i
dati neurobiologici, a cui aggiunge solo la tesi ulteriore che il livello causale
intenzionale personale è quello pertinente per spiegare la genesi dell’azione,
e offre la spiegazione di alto livello migliore della dinamica cerebrale.
Va infine ribadito che né (b) né (c) negano che il cervello abbia un ruolo
causale nel determinare il comportamento, ma affermano che non c’è motivo
di pensare che questo ruolo sia, in assoluto, fondamentale. In assenza di riPer non appesantire il discorso non introduco qui una classificazione rigida delle varie forme di emergentismo. Cfr. Di Francesco, 2005, 2007b.
22
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Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali
duzioni effettive, dire che una spiegazione causale è fondamentale sarà in
questa prospettiva relativo all’interesse epistemico volta a volta in gioco:
differenti spiegazioni avranno diversa rilevanza causale a seconda del contesto.
In sostanza, sulla sola base delle scoperte sul funzionamento cerebrale in
contesti eticamente sensibili (senza cioè introdurre ulteriori assunzioni filosofiche) non ci sono motivi per preferire (a) a (b) o (c). In particolare, sulla
base della precedente discussione circa la differenza dei sistemi concettuali
coinvolti nelle spiegazioni causali relative ai vari livelli, mi sembra che la
cautela nei confronti di (a) appaia giustificata. Come l’analisi dell’esempio
del carrello mostra, presupporre la convergenza (riduttiva o eliminativa) tra i
livelli è un’ipotesi che non fotografa certamente lo stato attuale della ricerca,
e che può essere avanzata solo assumendo la prospettiva metafisica riduzionistica che si vuole dimostrare.23
Ciò detto, non vorrei che queste osservazioni venissero lette in chiave
dualistica o anti-scientifica. Se hanno qualche valore, possono indurre a diffidare del fondamentalismo neurobiologico, ma nulla tolgono al valore filosofico della prospettiva neurofilosofica, incentrata sull’idea che se si vuole
capire la mente (e l’azione), bisogna capire il cervello. Da una lato, le interazioni tra livello neurobiologico e livello psicologico-comportamentale sono
profonde e interessanti; dall’altro, proprio fenomeni come l’emergenza
dell’io devono confrontarsi con i risultati scientifici ricordati in precedenza.
Secondo i dettami del naturalismo minimale, esistono crescenti vincoli empirici che devono interagire con la riflessione filosofica.
Infine, occorre distinguere tra ciò che le ricerche neuroetiche dimostrano
e ciò che suggeriscono. Pur non essendo dimostrative, le indagini di neuroetica possono servire da “pompe di intuizione” in favore del naturalismo radicale riduzionistico: ci dicono come potrebbe essere l’“uomo neuronale”; ci
fanno capire a che cosa assomiglierebbe una spiegazione naturalistica completa dell’azione umana. Anche nutrendo molti dubbi circa la plausibilità di
questo obiettivo, occorre ammettere che i crescenti successi delle neuroscienze lo rendono quanto meno concepibile.
Per chiunque ritenga il livello personale non riducibile a quello neurobiologico sarà cruciale nel prossimo futuro mostrare come i fenomeni e le entità
postulate al livello personale lo siano in termini accettabilmente coerenti con
i dati scientifici. In questo senso, la neurobiologia può (o potrà) influenzare
È quasi superfluo notare che dilemmi morali quali quelli del carrello offrono già di per sé versioni estremamente semplificate delle vere dinamiche psicologiche implicate nei dilemmi morali – dove ritroviamo autoriflessione, introspezione, identità narrativa, introiezione di valori con forte componente sociale, e così via.
Più ci avviciniamo alla realtà psichica della situazione, meno la promessa fondamentalista appare facile da
mantenere.
23
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MICHELE DI FRANCESCO
in modo significativo il discorso etico, sociale e politico, e in generale
l’intero ambito delle scienze umane.24
Il fondamentalismo neurobiologico ci dice che delle molte spiegazioni
disponibili dell’azione, quelle di livello neuro raccontano verità. Le altre sono solo narrazioni provvisorie, forse mitiche. Citando ancora Gazzaniga:
[…] siamo grossi animali. Tutte le altre spiegazioni riguardo alle nostre origini sono solo delle storie [stories] che, per quanto possano fornire conforto,
persuasione e persino motivazione, sono soltanto storie (p. 161 – tr. it. modificata).
Qui Gazzaniga sta verosimilmente riferendosi alle teorie religiose o mitiche delle nostre origini, ma il punto è suscettibile di generalizzazione: da un
lato, ci sono “storie”; dall’altro, spiegazioni genuine. Cosa le distingue? Potremmo pensare a una distinzione tra cause reali e fondate, e cause apparenti.
Ma, come abbiamo notato, questa distinzione non sembra giustificata dalla
realtà della ricerca. Il fondamentalismo (neuro)biologico sembra trarre
dall’osservazione corretta che siamo animali, quella che siamo solo animali
– e quindi che il livello giusto di analisi della natura umana è quello biologico. Ora, senza impegnarsi nella discussione di un concetto così ardito come
quello di natura umana (al singolare), mi sembra che una cosa la scienza e la
filosofia della mente contemporanee hanno reso evidente: se esiste una natura umana, nel senso di una dotazione biologica che contribuisce a renderci
specificamente umani, esseri diversi dagli altri animali che abitano il nostro
mondo, essa ha a che fare non solo con la nostra conformazione fisica o genetica, ma anche con la nostra struttura cognitiva e affettiva e con le forme
in cui si indirizza la nostra socialità dispiegata. Fa parte in modo intrinseco
della nostra natura di animali umani, che la nostra natura di individui e di
persone sia aperta al completamento culturale Lo chiede la plasticità del nostro cervello, che si è co-evoluto con la complessità delle nostre culture. Lo
chiede l’apertura all’ambiente della nostra struttura cognitiva, che delega ad
artefatti cognitivi esterni parte dei compiti computazionali supportati dal
cervello.25
In un quadro di questa portata, la domanda “cosa fa il mio cervello quando io prendo una decisione?” non ha una risposta semplice – e passa attraverso la chiarificazione dei rapporti tra l’io e il suo cervello. Una analisi ar-
Ciò che è in discussione è un’immagine dell’io radicata nel senso comune e sviluppata nel contesto delle
scienze sociali, a cui molti giudizi etici sono strettamente correlati. Cfr. Sterlelny, 2003 sui rapporti tra scienze
sociali e folk psychology; per una tesi per certi versi simmetrica e opposta, De Caro, 2004.
25
Per la coevoluzione tra cervello, cultura (e società) cfr. Tomasello, 1999; per l’apertura della cognizione
all’ambiente cfr. Clark 1997, Wilson, 2004, Di Francesco, 2004, 2007c.
24
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Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali
dua, che non si presta a scorciatoie, e lascia aperte molte opzioni sul modo in
cui rispondere alla sfida neurofilosofica.26
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Quasi tutto del poco che so degli aspetti neuroscientifici trattati nel presente lavoro l’ho imparato (in ordine
cronologico) da Andrea Moro, Stefano Cappa e Matteo Motterlini. Senza attribuir loro alcuna responsabilità
per come ho applicato il loro ammaestramento, li ringrazio sinceramente. Così come ringrazio i miei colleghi
Roberto Mordacci e Massino Reichlin per le lunghe conversazioni su temi di etica e bioetica, che temo di aver praticato senza gran costrutto. Infine, la mia gratitudine va a Simone Pollo per i suoi commenti a una versione preliminare del presente lavoro e a Barbara de Mori per lo spietato incoraggiamento a scriverne la versione finale.
26
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