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Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali

2007

Recent developments in the neuroscience offer an increasing amount of "brain-based" explanations of decision-making in ethics (and economics). Are those explanations more basic than the psychological, "social" or philosophical ones? In my paper I address this question analyzing the meaning of "because" in sentences like "when someone is willing to act on a moral belief, it is because the emotional part of his or her brain has become active when considering the moral question at hand" (M. Gazzaniga, The Ethical Brain, 2005, p. 167, emphasis added). My answer is a pluralistic one. I reject brain-fundamentalism and I argue that neuroscientific developments support a moderate form of naturalism, according to which empirical results may indirectly influence moral reflection, but offer no direct evidence to radical reductive naturalism.

Etica & Politica / Ethics & Politics, IX, 2007, 2, pp. 126-143 Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali MICHELE DI FRANCESCO Centro di Ricerca di Epistemologia Sperimentale e Applicata Facoltà di Filosofia, Università Vita-Salute San Raffaele, Milano. difrancesco.michele@hsr.it ABSTRACT Recent developments in the neuroscience offer an increasing amount of “brain-based” explanations of decision-making in ethics (and economics). Are those explanations more basic than the psychological, “social” or philosophical ones? In my paper I address this question analyzing the meaning of “because” in sentences like “when someone is willing to act on a moral belief, it is because the emotional part of his or her brain has become active when considering the moral question at hand” (M. Gazzaniga, The Ethical Brain, 2005, p. 167, emphasis added). My answer is a pluralistic one. I reject brain-fundamentalism and I argue that neuroscientific developments support a moderate form of naturalism, according to which empirical results may indirectly influence moral reflection, but offer no direct evidence to radical reductive naturalism. 1. Premessa. Chi è al timone? Cosa fa il mio cervello quando io prendo una decisione? A giudicare un gran numero di recenti ricerche neurobiologiche molti sono gli studiosi tentati dalla risposta: “sta prendendo quella stessa decisione”: A questo punto, tuttavia, sembra inevitabile chiedersi: che cosa faccio io, quando il mio cervello prende una decisione? E qui la questione diventa spinosa. Potremmo dire che io e il mio cervello facciamo gioco di squadra, ma in questo caso bisognerebbe aggiungere una spiegazione del valore aggiunto portato dalla mia presenza – non facile da spiegare se, come vuole la scienza, la storia causale che dal cervello porta all’azione è già di per sé completa. Alternativamente, potremmo suggerire che io non faccio proprio nulla, mi limito a registrare nel foro della mia coscienza quel che sta accadendo, abbandonandomi alla consolante illusione di essere al comando. Infine, potrei semplicemente negare il senso della domanda, affermando che io sono il mio cervello – una conclusione non priva di fascino, ma che nasconde numerose insidie. Apparentemente, queste e altre questioni similari non sono che l’ennesima esemplificazione di una tematica generale sulla quale i filosofi si interrogano da Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali secoli: il rapporto tra la mente e il corpo. Di fatto, però, gli straordinari sviluppi delle neuroscienza e della psicologia ad essa più vicina rendono la situazione diversa e per molti versi più interessante. Oggi, infatti, non siamo alle prese con versioni generali del mind-body problem, ma con teorie specifiche sulle basi neurali dell’azione. Teorie empiriche, testate in laboratorio e dotate di forte sostegno sperimentale ci raccontano storie causali convincenti e (relativamente) complete sul perché operiamo certe scelte. Di più, queste teorie predicono e riscontrano comportamenti che violano le millenarie norme di razionalità che il pensiero filosofico ha posto alla base dell’agire umano; e lo fanno attribuendo all’attivazione di precise aree cerebrali l’origine dei comportamenti.1 A questo punto la questione “che cosa faccio io mentre il mio cervello decide” assume i contorni di una sfida complessiva all’utilità e alla plausibilità delle macro-descrizioni che parlano delle ragioni che guidano l’azione delle persone nei casi (crescenti) in cui siano presenti spiegazioni alternative di livello neuro-biologico. In queste pagine chiamerò questa situazione “la sfida neurofilosofica”, e la discuterò in relazione a un aspetto specifico: l’esistenza di spiegazioni della genesi dell’azione morale basate sul cervello. Qual è il loro ruolo rispetto ad altre spiegazioni, psicologiche, sociologiche, filosofiche, che descrivono il comportamento delle persone? Le spiegazioni neurobiologiche sono più fondamentali rispetto alle altre? Sono quelle vere ed esatte, mentre le altre solo al massimo approssimazioni faute de mieux, provvisorie e imprecise? Il fondamentalismo neurobiologico è la riposta alla sfida neurofilosofica? 2. Persone o neuroni? Il naturalismo contemporaneo e la neuroetica Una delle caratteristiche essenziali del pensiero contemporaneo è la crescente tendenza al superamento della dicotomia tra scienze naturali e scienze umane. Sul piano filosofico questo equivale a una sempre maggiore confluenza di filosofia della natura e filosofia morale, nel senso classico di queste espressioni. Da un lato, questo risultato è scontato: è un significativo effetto collaterale della nascita di una scienza della natura umana empiricamente fondata e teoreticamente affidabile.2 Dall’altro, richiede un ripensaPer limitarci al caso della neuroetica, cfr. Fara, 2005, Hauser, 2006, Levy, 2007, Illes, 2006, Marcus, 2002, Moreno, 2003, Reichlin, 2007. Per una introduzione generale alle basi cognitive e neurali del decision making cfr. Motterlini, 2006. 2 Nel caso che sia sfuggito a qualcuno, la nascita di una scienza della natura umana empiricamente affidabile rappresenta la grande rivoluzione scientifica della seconda metà del XX secolo. Lo sviluppo delle scienze cognitive (psicologia e neuropsicologia cognitiva, intelligenza artificiale, linguistica, antropologia e scienza sociale cognitiva) e delle neuroscienze, insieme ai progressi di genetica e biologia, a cui si aggiungono nuove discipline di confine, come la psicologia evoluzionistica, hanno radicalmente mutato il quadro complessivo in cui interrogarsi sulla “natura umana”. 1 127 MICHELE DI FRANCESCO mento dei compiti e degli strumenti della riflessione filosofica in ambito morale (e più in generale normativo), che solleva questioni nuove e complesse e richiede forse la nascita di una nuova tipologia di studi (e di studiosi), decisamente orientati a un sapere interdisciplinare. Come accennato, scopo di questo lavoro è la discussione di un problema specifico che sorge all’interno del paradigma della cosiddetta “neuroetica”, e in particolare dallo studio delle basi neurali dei processi decisionali. Il problema specifico è quello del livello di individuazione dei meccanismi causali essenziali (e degli agenti reali – persone o neuroni?) ove collocare la descrizione corretta dell’origine e dello sviluppo del processo decisionale. La questione può essere posta in due modi complementari: (a) che cosa significa “perché” in contesti quali “Tizio ha compiuto l’azione A perché la regione cerebrale XYZ si è attivata (o non attivata)”? (b) Chi decide in questi casi, Tizio o il suo cervello? Qual è il corretto livello a cui ricercare il nesso causale fondamentale? Ed esiste poi un livello fondamentale? La prima questione concerne lo statuto di una classe di giudizi che cadono entro la sfera della neuroetica. Hanno un diretto impatto etico? O lo fanno solo insieme a una serie di assunzioni ulteriori che possono essere criticate? La mia tesi è che le neuroscienze non sono in grado di influenzare direttamente il dibattito etico – non esiste una derivazione diretta da premesse empiriche a conclusioni morali – in quanto i limiti attuali del riduzionismo non consentono di ricostruire all’interno del discorso neurobiologico la complessità del giudizio morale.3 Tuttavia, la neurobiologia e la neurofilosofia possono influenzare indirettamente il discorso etico – e in generale l’intero ambito delle scienze umane e sociali –, in quanto mettono in discussione un’immagine dell’io radicata nel senso comune e sviluppata nel contesto delle scienze umane e sociali, a cui molti giudizi etici sono strettamente correlati.4 Quest’ultima osservazione ci conduce alla seconda questione: quanto radicale deve essere la revisione della nozione di “soggetto di azione” imposta dalle osservazioni neurobiologiche e più in generale neurofilosofiche?5 Per rispondere dovremo valutare la fondatezza dell’idea che il livello di analisi neurobiologico sia esplicativamente fondamentale rispetto a tutti gli altri livelli in cui studiamo il comportamento umano. Un aspetto cruciale è che i truth-makers, i fatti rilevanti che permettono la valutazione dei giudizi morali appartengono a un universo di discorso (dominio ontologico) diverso da quello (neuro)biologico. 4 Come nota opportunamente Simone Pollo nel suo commento al presente lavoro, le neuroscienze possono fornire vincoli empirici a ogni possibile teoria morale. Non sono sicuro che “una società liberale è anche un a società naturalizzata”, ma concordo che certamente sarebbe un grave errore basare la ricerca dei “principi fondamentali” dell’organizzazione di una società liberale su assunzioni empiricamente false. Questo, per altro, mi sembra un altro esempio di influsso indiretto delle neuroscienze sul dibattito etico-politico. 5 L’essenza della neurofilosofia è la tesi che la conoscenza della mente passa essenzialmente per la conoscenza del cervello (Churchland, 1986, 2007). Nella mia lettura personale, questo non significa che, oltre che necessarie, le neuroscienze siano anche sufficienti per esaurire la comprensione dei fenomeni mentali. 3 128 Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali Si tratta di un tema che è oggi tanto più rilevante in quanto gli sviluppi di biologia e neuroscienze mostrano sempre più numerosi aspetti dell’organizzazione cognitiva umana che appaiono in contrasto con le intuizioni prescientifiche sulle quali si basano molte delle premesse con le quali giustifichiamo i nostri giudizi morali. Il rapporto che sussiste tra i risultati scientifici e le conseguenze filosofiche che se ne possono trarre è però controverso, e, cercherò di argomentare, più indiretto di quanto presupponga una lettura radicale della sfida neurofilosofica. Ciò non tanto per timore di qualche versione della “fallacia naturalistica”, ma per problemi schiettamente epistemologici e ontologici relativi alla natura della spiegazione neurofilosofica stessa. Come accennato, in questa sede mi riferirò allo specifico campo di ricerca noto come neuroetica, ma ritengo che le considerazioni si applichino altrettanto bene a settori affini, come la neuroeconomia.6 Fino a pochi anni fa una domanda come “Cosa fa il nostro cervello mentre prendiamo una decisione etica?” non avrebbe potuto neppure essere concepita in ambito scientifico, né tanto meno avrebbe potuto trovare risposta. Oggi, tuttavia, grazie allo sviluppo delle ricerche neurobiologiche basate su tecniche di neuroimmagine e sugli altri progressi della neuro-tecnologia, non solo è entrata nei legittimi scopi della ricerca scientifica, ma ha anche ricevuto risposte che mettono a dura prova millenarie convinzioni filosofiche. In questo caso, possiamo dire, il prefisso di successo “neuro” che genera l’espressione “neuroetica” è ampiamente giustificato. Sotto questa etichetta ritroviamo due tipi di indagine, correlati ma distinti, sia per l’oggetto sia per le competenze di fondo necessarie per affrontarle. In un primo ambito, che possiamo chiamare “neuroetica speciale” si affrontano i problemi etici posti “dall’applicazione delle neuro tecnologie e le loro implicazioni pratiche per gli individui e la società” (Farah, 2005, p. 34). Il secondo ambito, che potremmo chiamare “neuroetica generale”, riguarda invece l’impatto delle neuroscienze cognitive sul modo in cui “pensiamo a noi stessi come persone, agenti morali e esseri spirituali” (ibid.).7 Alla base di questa distinzione c’è la contrapposizione tra due tipi di problemi: i “what we can do problems” e i “what we know problems”.8 Il priCfr. Motterlini, 2006. Per considerazioni più generali sulla dimensione epistemologica del problema, cfr. Di Francesco, Motterlini, Colombo, 2007. 7 Cfr. anche Rechlin, 2007a, 2007b, e in generale i testi citati nella nota 1. La questione terminologica non è priva di interesse. Farah (2005) propone la distinzione tra neuroetica pratica e filosofica. Ma questo sembra suggerire che la neuroetica pratica non sia filosofica, cosa del tutto dubbia. Un’ulteriore proposta è quella di Levy (2007), che distingue tra etica delle neuroscienze (che si occupa per esempio dei vincoli morali all’indagine sperimentale e alle sue applicazioni) e neuroscienze dell’etica, che avrebbe a che fare con le basi neurali dell’azione etica. Quest’ultima proposta sarebbe forse la preferibile, se non fosse per il difetto di introdurre una separazione un po’ troppo netta tra la ricerca empirica e la valutazione etica – con un implicito prevalere della prima. 8 Questa distinzione è tratta dal sito web dell’University of Pennsylvania’s Neuroethics Program – http://www.neuroethics.upenn.edu/overview.html. 6 129 MICHELE DI FRANCESCO mo genere di tematica riguarda che cosa è lecito fare grazie alle scoperte neuroscientifiche; il secondo che cosa dobbiamo pensare di tali scoperte. Da un lato, abbiamo quindi la riflessione sulle conseguenze morali dell’applicazione delle neuroscienze: dalla legittimità di tecniche farmacologiche o genetiche per il potenziamento di tratti mentali come l’intelligenza – quello che potremmo chiamare “doping cognitivo” –; alla liceità della “lettura della mente” resa teoricamente possibile dalle tecniche di neuroimmagine (è legittimo negare un impiego a qualcuno perché c’è qualcosa nel suo profilo neurale che non ci convince?). Altre questioni sensibili riguardano l’alterazione farmacologica dell’umore e delle emozioni, e la questione spinosa dei rapporti tra modifiche neurali e identità personale.9 Dall’altro lato, le ricerche di neuroetica mettono in discussione le nostre idee ordinarie circa la natura dell’azione consapevole, della razionalità e persino della libertà. Secondo molti studiosi le scienze del cervello ci mostrerebbero un soggetto depotenziato da una pluralità di agenzie neurali, che decidono e si orientano in base a logiche e meccanismi molto diversi da quelli che (ingenuamente) attribuiamo a noi stessi. In particolare, le scoperte rispetto alla natura parallela e distribuita del funzionamento cerebrale, e l’esistenza di agenzie cognitive funzionalmente e anatomicamente distinte, mettono in discussione la natura unitaria e coerente dell’io. Tutto questo apre la porta al potenziale conflitto tra risultati scientifici e modelli della mente eticamente sensibili. A questo proposito va segnalato come la neuropsicologia abbia individuato varie patologie della coscienza – tra cui eminegligenza, “visione cieca” (blindsight), sindrome da disconnessione interemisferica (i cosiddetti split brains), anosognosia, prosopoagnosia, “fughe” epilettiche, ecc. – che rendono molto di ciò che pensiamo sul funzionamento del nostro io estremamente lontano dal modello del soggetto unitario in possesso della capacità di deliberazione equanime e razionale. L’elenco potrebbe allungarsi: si pensi ai celebri esperimenti di Benjamin Libet sul free will, o agli slogan di Michael Gazzanica, secondo cui “la mente è l’ultima a sapere” (ciò che fa il cervello), e di Joseph LeDoux, secondo cui noi siamo le nostre sinapsi – sviluppi recenti di tesi già proposte nel modello della “società della mente” di Marvin Minsky, o nella riduzione dell’io a “centro di gravità narrativo” operato da Daniel Dennett.10 Qualcuno potrebbe pensare che queste sono solo riletture filosofiche estreme di dati empirici, che possono avere interpretazioni meno dirompenti. Anche se questo fosse vero (ed è lecito dubitarne), esistono tuttavia troppe ricerche specifiche meno spettacolari e più Cfr. Reichlin 2007, Illies, 2006, Fara 2005. Non tento neanche una rassegna completa della letteratura in merito ai fenomeni citati. Discussioni introduttive di questi fenomeni si trovano in Weiskrantz, 1997 (per il blindsight), e Koch, 2004 (per le altre sindromi). Per le ulteriori discussioni filosoficamente rilevanti, che, a vario titolo, trattano della frammentazione dell’io e della coscienza, cfr. Dennett 2001 e Metzinger, 2003, Minsky 1986, Libet, 1985, 2004, Gazzaniga 1999, LeDoux 2002. 9 10 130 Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali concrete, come quelle legate ai fenomeni di inattentional blindness (dove l’attenzione determina quali contenuti mentali diventino effettivamente coscienti), e in generale ai rapporti tra coscienza e attenzione, che portano nella stessa direzione e rendono scarsamente credibile l’ipotesi di una congiura materialistica contro le nostre intuizioni cartesiane. In generale, neuroroscienze e scienze cognitive hanno portato a un radicale ridimensionamento del ruolo della coscienza e dell’autocoscienza nella nostra vita mentale, che presenta quest’ultima come una serie di isole momentanee di consapevolezza le quali emergono da un oceano di reazioni automatiche anche complesse, governate da meccanismi di cui ignoriamo esistenza e funzioni. La complessità di questi meccanismi ha indotto alcuni a parlare degli zombies che abitano in noi,11 un modo, forse iperbolico, per mettere in dubbio la convinzione preteorica di essere gli agenti delle nostre azioni. 3. Neuroetica e spiegazione dell’azione Le riflessioni sulla frammentazione dell’io, e molte altre simili (a partire dalle sindromi dissociative dell’identità),12 possono avere un impatto immediato sulla nostra idea di soggetto morale, responsabilità, libero arbitrio; e hanno influenza indiretta sulle politiche sociali in materia di educazione prevenzione e repressione del crimine e così via. È quindi facile comprendere come, questa sfida neurofilosofica possa giungere fino alla proposta di una naturalizzazione dell’etica su base neurobiologica. Una chiara illustrazione di questo progetto appare nel volume The ethical brain del neuroscienziato Michael Gazzaniga.13 Gazzaniga definisce la neuroetica come “l’analisi del modo in cui vogliamo porci verso le questioni sociali della malattia, della mortalità, dello stile di vita e della filosofia della vita, arricchiti dalla conoscenza dei meccanismi cerebrali che ne sono a monte”. O meglio, nell’originale: informed by our understanding of underlying brain mechanism (Gazzaniga, 2005, p. xv tr. it, e p. xv ed. ingl.). Vorrei notare l’ambiguità di espressioni come “informed by” e “underlying”. In linea di principio un corpus di conoscenze può essere arricchito da informazioni provenienti da altri campi del sapere, senza divenire per ciò stesso un sapere inferiore o meno fondamentale. Tuttavia, dire che le nuove conoscenze riguardano processi che sottostanno (o stanno a monte) dei fenomeni che ci interessa comprendere introduce per metafora l’idea di dipendenza Una freccia causale è suggerita senza Cfr. Koch, 2004 per gli zombies neurologici. Da non confondere con quelli filosofici di Chalmers, 1996. I cosiddetti casi di “personalità multiple”. Cfr. Di Francesco, 1998, Liotti, 1993, Haking 1995, Wilkes, 1988. 13 Per una discussione più comprensiva di questo testo rimando a Di Francesco, 2007a. 11 12 131 MICHELE DI FRANCESCO un’adeguata discussione. E non a caso Gazzaniga chiarisce il suo pensiero affidando alla neuroetica lo scopo di pervenire a “una filosofia della vita fondata sul cervello” (a brain-based philosophy of life, ibid.). Qui il metaforico “underlying” è sostituito da un più impegnativo, ma ancora ambiguo, “brain-based”. Queste osservazioni terminologiche non vogliono essere un mero esercizio di pedanteria, ma segnalano il pericolo di introdurre, più o meno implicitamente, relazioni fondative – se non vere e proprie forme di dipendenza ontologica – sulla base di evidenze empiriche il cui status epistemologico è tutto da chiarire. Come ho accennato, in quanto segue cercherò di mostrare che le scoperte in ambito neuoretico possono portare al massimo argomenti in favore del naturalismo moderato o minimale – all’idea che le ricerche empiriche pongono vincoli alle teorie filosofiche (per esempio, su soggettività e azione), indicando dati di fatto che non possono essere ignorati o contrastati con mere analisi concettuali. Queste non possono, tuttavia, fornire argomenti diretti in favore di un naturalismo radicale, che miri a ridurre l’analisi dell’azione umana a un discorso giocato sul solo piano neurobiologico. Questa diffidenza nei confronti del naturalismo radicale non deve essere fraintesa. I risultati empirici sono rilevanti: per fare un esempio pertinente rispetto ai nostri attuali interessi, la constatazione, empiricamente molto solida, che la deliberazione in ambito morale è correlata con una complessa negoziazione tra aree cerebrali ci obbliga a ripensare la veneranda distinzione tra ragione ed emozione, e suggerisce la possibilità di trattare molti dei nostri comportamenti apparentemente spontanei come il prodotto di “decisioni” e “scelte” operate dalla nostra circuiteria neurale, con poco o nessun controllo della nostra mente cosciente. Proprio l’assenza di un ruolo cosciente suggerisce prudenza nell’uso di espressioni come “decisioni” o “scelte” (da qui l’uso delle virgolette); ma ciò nulla toglie all’impatto filosofico delle recenti scoperte in merito. Fare i conti con un soggetto depotenziato da una pluralità di agenzie neurali, che “decidono” e si orientano in base a logiche e meccanismi molto diversi da quelli che (ingenuamente) attribuiamo a noi stessi è una sfida significativa per la filosofia. Le ricerche a cui abbiamo appena fatto riferimento sembrano essere quelle a cui allude Gazzaniga nel passo seguente: Di recente, infatti, hanno fatto la loro comparsa sulla ribalta internazionale una serie di studi che permettono di chiarire i meccanismi cerebrali alla base del ragionamento morale [suggesting that there is a brain-based account of moral reasoning]. […Q]uesti nuovi dati mostrano che quando un individuo decide di agire in base a una credenza morale è perché le aree cerebrali coinvolte nelle emozioni si attivano durante la valutazione del quesito morale in questione. Analogamente, quando viene presentato un problema morale 132 Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali sul quale l’individuo decide di non agire, è perché non si attivano le aree emotive del cervello” (Gazzaniga, 2005, p. 163 tr. it.. corsivi miei) Gli studi a cui allude Gazzaniga hanno una storia molto lunga. Un semplice esempio può tuttavia bastare a chiarire il passo. Partiamo dal ben noto esperimento mentale in cui a un soggetto si chiede di immaginare le seguenti situazioni: (a) un carrello ferroviario privo di controllo sta per travolgere e uccidere cinque persone. Per deviarlo su un altro binario è sufficiente tirare una leva. Sfortunatamente sulla nuova traiettoria si trova comunque una persona che verrebbe a sua volta uccisa. Cosa fare? Sacrificare una vita per salvarne cinque? (b) Stesso scenario, ma con un a differenza significativa: questa volta per bloccare il carrello occorre spingere fisicamente una persona sotto le ruote. Questo tipo di “test” del nostro senso morale – non certo nuovo alla riflessione filosofica di ambito etico – 14 è stato riproposto dallo psicologico evoluzionista Marc Hauser, nell’ambito di studi sulla (ipotetica) base universale dei giudizi morali,15 raccogliendo le risposte di una grandissimo campione di soggetti, diversi per cultura, sesso, educazione. Il risultato sembra essere che per la maggior parte delle persone lo scenario descritto della situazione (a) appare moralmente lecito, mentre quello della situazione (b) non è eticamente accettabile. Non discuterò qui i dettagli delle ipotesi di psicologia dell’azione (morale) che possono spiegare questo stato di cose (cfr. Hauser, 2006). Segnalo soltanto che una differenza tra i due scenari sembra risiedere nel maggiore impatto emotivo implicito nel secondo caso, dove si tratta di spingere fisicamente una persona verso la morte certa, sulla base di una azione diretta – una azione che prefigura una violazione di atteggiamenti empatici istintivi e universali nei confronti del prossimo –: la differenza di risposta risiederebbe in una differenza del ruolo causale giocato dalle emozioni nei due scenari alternativi. Su questa base è stato ipotizzato che quando siamo più coinvolti in situazioni che implicano un maggior coinvolgimento personale a livello emotivo, come nel caso (b), allora la nostra reazione appare guidata da un “sistema” di governo dell’azione a base istintiva, automatica e viscerale. Al contrario, se siamo in grado di distanziarci da noi stessi, la nostra capacità di un calcolo morale impersonale sembra basarsi su processi cognitivi più “freddi” e razionali.16 I risultati del “test”, quindi., si integrano molto bene con l’ipotesi dell’esistenza di due sistemi alla base della scelta umana, che il premio Nobel Daniel Kahneman, uno dei padri dell’economia cognitiva, chiama sistema 1 e 2: Cfr. per esempio P. Foot, 1967, J. Jarvis Thompson, 1976. La tesi di Hauser è che le “intuizioni morali, lungi dall’essere razionali, correlate con l’educazione e la cultura, e soggette pertanto a evoluzione, sono al contrario essenzialmente inconsce, involontarie e universali” (Motterlini, 2006, p. 198). 16 Per una presentazione più approfondita, cfr. Di Francesco, Motterlini, Colombo, 2007. Cfr, anche Motterlini, 2006, pp. 195-sgg. 14 15 133 MICHELE DI FRANCESCO le operazioni del sistema 1 sono rapide, automatiche, non costose in termini di sforzo, associative e difficili da controllare o modificare. Le operazioni del sistema 2 sono più lente, seriali, costose in termini di sforzo e deliberatamente controllate; sono anche relativamente flessibili e potenzialmente governate da regole. (Kahneman, 2002, p. 81).17 Gli studi neurobiologici raccolti sotto l’etichetta di neuroeconomia hanno permesso di fornire ulteriore evidenza a favore dell’ipotesi dei due sistemi. In questo quadro ampliato, il sistema 1 può essere concepito come un sistema (più antico) automatico e basato su risposte affettive (una valutazione emotiva immediata degli input), che offre risposte veloci e intuitive, del cui processo di selezione siamo inconsapevoli. Il sistema 2 è invece deputato a funzioni di controllo da parte del soggetto, permettendo così una deliberazione basata sulla valutazione consapevole degli input. Restando al nostro esempio del carrello, il neuroscienziato Joshua Greene (Greene et al., 2004) ha utilizzato l’ipotesi dei due sistemi per una serie di esperimenti basati sulla risonanza magnetica funzionale, giungendo alla conclusione che quando siamo impegnanti in situazioni di tipo (b), in cui c’è una violazione diretta dell’integrità fisica della vittima, si ha una maggiore risposta delle regioni cerebrali associate alle emozioni e alla cognizione sociale, mentre nelle situazioni di tipo (a) sono le aree normalmente associate al ragionamento e al controllo cognitivo a svolgere il ruolo preminente.18 La storia, tuttavia, non si arresta a questo punto: l’individuazione di una correlazione non equivale all’individuazione di una causa. Per esempio, non potendo individuare una precisa sequenza temporale e un netto ordine di priorità temporale tra i fenomeni correlati (per problemi tecnici legati ai tempi di risoluzione delle immagini realizzate via risonanza magnetica funzionale), si potrebbe anche supporre che l’attivazione delle aree “emotive” sia un effetto e non una causa della decisione morale. Il passo successivo consiste introdurre un’ulteriore metodologia, basata sugli studi neurospicologici di lesioni, ovvero sul comportamento di pazienti che hanno danni cerebrali. In questo quadro una ricerca a cui hanno partecipato Marc Hauser e Antonio Damasio (Koenigs et al., 2007) ha preso in esame pazienti con un danno alla corteccia prefrontale ventromediale (VMPC). Tali pazienti, che conservano un buon grado di intelligenza generale, nostrano un sensibile calo della propria abilità di gestione delle emozioni sociali – le reazioni di compassione, colpa e vergogna sono danneggiate, mentre il controllo di rabPer una presentazione introduttiva dell’economia cognitiva e dei suoi rapporti con la neuroeconomia rimando a Motterlini (2006). 18 Cfr; Greene et al. 2001, 2004. Sul piano anatomico l’ipotesi è che il sistema 1 sia maggiormente legato all’attività di regioni subcorticali; sistema limbico, amigdala, corteccia insulare, corpo striato, ecc.; mentre il sistema 2 coinvolge aree della corteccia prefrontale (anteriore e dorsolaterale). Cfr, anche, Motterlini 2006, Di Francesco, Motterlini, Colombo, 2007.. 17 134 Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali bia e frustrazione è molto carente. Ciò che osserviamo in questa categoria di pazienti è che nel caso di dilemmi morali, che implicano un maggior coinvolgimento personale a livello emotivo (tipo b), tendono a esibire un comportamento maggiormente improntato al giudizio di utilità – al calcolo razionale – rispetto al campione di controllo. Ciò suggerisce un effettivo ruolo causale giocato dall’attivazione di VCMP19 (il suo danneggiamento interferisce con l’elaborazione affettiva normalmente associata alle scelte di tipo b, che implicano una violazione personale della norma morale). 4. Cosa fa il mio cervello mentre io decido? A questo punto siamo in grado di discutere con maggiore cognizione di causa le tesi di Gazzaniga, e in particolare la sua idea che le ricerche di cui abbiamo appena parlato permettono di affermare che, se un agente attua o meno un certo comportamento morale, è perché certe sue aree cerebrali si attivano (o non si attivano). Innanzi tutto, possiamo avanzare una breve considerazione metodologica, non priva di implicazioni epistemologiche e forse ontologiche. Nella nostra breve storia dell’esempio del carrello, abbiamo attinto a una pluralità di indagini: 1. riflessioni filosofiche sulla validità di certe intuizioni “utilitaristiche”; 2. indagini di psicologia del ragionamento (teoria dei due sistemi); 3. indagini neurobiologiche basate su tecniche di neuroimmagine; 4. indagini neuropsicologiche basate su studi di lesioni. Ciascuna di queste indagini è mossa da obiettivi specifici, e segue proprie regole metodologiche e disciplinari. Nel loro insieme, tuttavia, interagiscono tra loro e contribuiscono a una visione integrata dei fenomeni studiati che appare più ricca di quanto si osserverebbe da una singola prospettiva isolata. Se guardiamo alla scienza com’è effettivamente praticata (senza pregiudizi riduzionistici a-priori), troviamo una pluralità di modi in cui teorie di differenti livelli possono interagire. In alcuni casi abbiamo separazioni nette tra i domini; in altri si perseguono genuini obiettivi riduzionistici; e in altri ancora osserviamo una dinamica di coevoluzione e integrazione tra vari campi di ricerca. Nel caso da noi esaminato, gli stessi obiettivi di ricerca posti (per esempio) da ricerche di livello maggiormente “di base” sono individuate e concettualmente proponibili solo a partire da quanto ipotizzato ai livelli superiori. Questo stato di cose limita ogni lettura forte delle tesi di Gazzaniga, che può essere comodo riprendere nei dettagli: 19 Vedremo che la natura di questo contributo causale può essere discussa. 135 MICHELE DI FRANCESCO quando un individuo decide di agire in base a una credenza morale è perché le aree cerebrali coinvolte nelle emozioni si attivano durante la valutazione del quesito morale in questione. Analogamente, quando viene presentato un problema morale sul quale l’individuo decide di non agire, è perché non si attivano le aree emotive del cervello” (Gazzaniga, 2005, p. 163 tr. it, corsivi miei) In questo passo, la parola chiave è “perché”: assunto che esistano meccanismi cerebrali “alla base” del ragionamento morale, questi possono assumersi l’onere di spiegazione fondamentale (ed esaustiva) dell’azione? Questa è la risposta “fodnamentalista” alla sfida neurobiologica: i nuovi dati derivati dalle ricerche di neurobiologia mostrerebbero che si agisce in base a una credenza morale “perché” [because] certe aree cerebrali sono attive. Abbiamo, quindi, due tesi: (1) esistono e sono individuabili spiegazioni basate sul cervello del giudizio morale; (2) questa scoperta spiega il perché si agisce in seguito a una credenza morale. Si tratta di tesi vere? E la prima implica o aiuta a giustificare la seconda? Ora, per quanto riguarda (1), abbiamo già notato che l’espressione “basate su” o “alla base” è ambigua. Che certi fatti biologici siano “alla base” del pensiero è un’ovvietà compatibile con le più svariate teorie della relazione psicofisica. Comprese quelle anti-riduzionistiche, o emergentistiche, che attribuiscono un’autonomia del livello mentale da quello fisico. La novità scientificamente rilevante e affascinante non è l’affermazione generica dell’esistenza di tali basi, ma l’individuazione effettiva delle medesime. Ben pochi filosofi negherebbero che perché ci sia pensiero (compreso il pensiero morale) deve accadere qualcosa a livello cerebrale. Questo può essere fatto, giova ribadirlo, anche da chi ritiene che l’occorrenza dei fenomeni descritti al livello di base (i fenomeni individuati con il linguaggio neurobiologico) sia una condizione necessaria ma non sufficiente per l’occorrere di fenomeni mentali di livello superiore. Tuttavia, il punto in discussione è proprio se la descrizione cerebrale è sufficiente a qualificare determinati eventi elettrochimici come esempi di pensiero; se l’analisi del pensiero deve (e può) avvenire a livello sinaptico; se le ragioni che si dispiegano del pensiero possono essere descritte in termini fisici, e così via. La mera individuazione della correlazione non dirime tali questioni, come prova il fatto che essa sia addirittura compatibile con una forma radicale di dualismo: il parallelismo psicofisico. Ma anche il riconoscimento di un ruolo causale svolto dai fenomeni del livello di base non giustifica il fondamentalismo neurobiologico. La ragione è che un determinato evento può essere causalmente necessario per l’occorrenza di un determinato effetto senza esserne una causa in senso pieno; può determinare una precondizione, può essere una concausa, può fare 136 Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali parte delle condizioni che sono necessarie per l’emergere della connessione causale rilevante, e così via. La verità di (1) non può, quindi, fornire evidenza diretta in favore di (2), che è del resto una tesi molto ardita. La spiegazione giusta del perché io compio una data azione si rintraccia in una regione del mio cervello? Possiamo davvero immaginare una situazione reale in cui un soggetto umano valuta coscientemente se impegnarsi in una determinata azione morale (dotata di sufficiente complessità),20 che sia descrivibile parlando soltanto di ciò che avviene nelle aree cerebrali del suo cervello? Una risposta positiva, mi sembra, richiede il successo di un programma estremamente forte di naturalizzazione, il cui successo in un remoto futuro è tutto meno che scontato. Restando all’oggi, supponiamo di avere individuato una correlazione tra l’azione morale A e l’attivazione dell’area cerebrale X. Qual è la relazione tra A ed X? Le risposte sembrano essere molteplici. Eccone tre (tra quelle che mi appaiono più significative, ma ve ne sono altre): (a) naturalismo radicale (modello della spiegazione causale riduttiva): compio l’azione morale A perché si attiva l’area X. Ovvero: l’attivarsi dell’area causa fisicamente l’azione e la storia causale implicata è tutto ciò che mi serve per avere una spiegazione completa. Questa lettura sembra richiedere che le descrizioni di alto livello delle interazioni causali associate al comportamento morale siano riducibili al livello di base neurobiologico, oppure siano in un senso forte superflue una volta acquisita la descrizione di base. Siamo in presenza di un caso netto di fondamentalismo neurobiologico. (b) pluralismo casuale: compio l’azione morale A e quindi si attiva l’area X. So di compiere A, e so anche che ogni mia azione è correlata – in un modo che la scienza lascia metafisicamente indeterminato – a un evento cerebrale; ricerche empiriche hanno individuato una correlazione tipica tra eventi A ed eventi X, quindi, dall’occorrere di A inferisco l’esistenza di un evento cerebrale di tipo X (relazione inferenziale sulla base di premesse empiriche e concettuali). Questa lettura è compatibile con l’idea che le descrizioni delle interazioni causali a livello di base contribuiscano21 alla storia causale della mia azione. Tuttavia, lascia spazio a una lacuna tra i vari livelli esplicativi. (c) emergentismo: si attiva l’area X perché compio l’azione morale A. Al livello delle azioni umane si manifestano nuovi poteri causali, non risconQui non si tratta di decisioni come premere un pulsante in situazioni sperimentalmente controllate. Stiamo parlando di situazioni nelle quali sono in gioco complesse negoziazioni tra la nostra identità narrativa, i nostri valori coscientemente assunti, le pressioni sociali, le pulsioni inconsce che operano in noi, le dinamiche relazionali ecc. Ho tentato di descrivere la complessità di questi fattori in Di Francesco (2007d). 21 Si noti che richiedere che in ogni data situazione è necessario che vi sia una realizzazione fisica, non equivale a dire che esiste una realizzazione fisica che sia necessaria in ogni situazione – almeno se si prende sul serio la possibilità di realizzabilità multipla. 20 137 MICHELE DI FRANCESCO trabili a quello microfisico, ma che influenzano la configurazione microfisica che li accompagna. Questo modello non nega il ruolo causale del cervello nell’azione, ma afferma che parte dei poteri causali che ha, il cervello li possiede in quanto parte di un sistema più ampio – individuo, persona, io. Questo è un modello emergentistica (abbastanza)22 radicale, che implica la causazione verso il basso (downward causation) e depotenzia la descrizione di livello neurobiologico a un ruolo di supporto. Non è possibile discutere nei dettagli le varie alternative, ma vorrei sottolineare la ragionevolezza di (b), che è forse il modo meno dispendioso in termini ontologici ed epistemologici per render conto dei fattori in gioco: in base ad esso affermiamo che, da un lato, abbiamo motivi filosofici ed empirici generali per sostenere che ogni volta che Io compio un’azione, nel mio cervello si verificano certi eventi fisici; dall’altro, le affascinanti ricerche di neuroimmagine ci dicono dove si verificano questi eventi. Si tratta di un sapere prezioso, che tuttavia non si risolve in un modello riduzionistico della mente, dato che non si suppone che le descrizioni operate ai vari livelli esplicativi siano riducibili al solo linguaggio neurobiologico. Questo modello è, dunque, in linea con un pluralismo causale molto vicino a quello che di fatto riscontriamo nell’articolazione concreta delle ricerche. Certo (b) non risolve tutte le dispute metafisiche implicate, ma questo non è il nocciolo della nostra attuale discussione, che verte invece su che cosa provano le ricerche di neuroetica – e in particolare che cosa proverebbe la scoperta di un’ipotetica “base” biologica di alcune delle nostre scelte morali. Il problema di (a), invece, è che vuole collocare nella stessa catena causale entità di livelli molto diversi. La spiegazione intenzionale di alto livello, che descrive il perché io (una persona umana con queste e quelle preferenze psicologiche, un’entità sociale inserita in relazione con questo e quel sistema di valori, ecc.) ho agito in un certo modo, corre su binari paralleli rispetto a quelli che descrivono le modificazioni fisiologiche che necessariamente si accompagnano (e contribuiscono a rendere possibili, in un senso da chiarire) le mie capacità cognitive, affettive e conative. Per quanto riguarda (c), si tratta di una posizione che molti considererebbero estrema, e che non è necessario discutere, se non per notare che è in sé coerente e compatibile con i dati neurobiologici, a cui aggiunge solo la tesi ulteriore che il livello causale intenzionale personale è quello pertinente per spiegare la genesi dell’azione, e offre la spiegazione di alto livello migliore della dinamica cerebrale. Va infine ribadito che né (b) né (c) negano che il cervello abbia un ruolo causale nel determinare il comportamento, ma affermano che non c’è motivo di pensare che questo ruolo sia, in assoluto, fondamentale. In assenza di riPer non appesantire il discorso non introduco qui una classificazione rigida delle varie forme di emergentismo. Cfr. Di Francesco, 2005, 2007b. 22 138 Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali duzioni effettive, dire che una spiegazione causale è fondamentale sarà in questa prospettiva relativo all’interesse epistemico volta a volta in gioco: differenti spiegazioni avranno diversa rilevanza causale a seconda del contesto. In sostanza, sulla sola base delle scoperte sul funzionamento cerebrale in contesti eticamente sensibili (senza cioè introdurre ulteriori assunzioni filosofiche) non ci sono motivi per preferire (a) a (b) o (c). In particolare, sulla base della precedente discussione circa la differenza dei sistemi concettuali coinvolti nelle spiegazioni causali relative ai vari livelli, mi sembra che la cautela nei confronti di (a) appaia giustificata. Come l’analisi dell’esempio del carrello mostra, presupporre la convergenza (riduttiva o eliminativa) tra i livelli è un’ipotesi che non fotografa certamente lo stato attuale della ricerca, e che può essere avanzata solo assumendo la prospettiva metafisica riduzionistica che si vuole dimostrare.23 Ciò detto, non vorrei che queste osservazioni venissero lette in chiave dualistica o anti-scientifica. Se hanno qualche valore, possono indurre a diffidare del fondamentalismo neurobiologico, ma nulla tolgono al valore filosofico della prospettiva neurofilosofica, incentrata sull’idea che se si vuole capire la mente (e l’azione), bisogna capire il cervello. Da una lato, le interazioni tra livello neurobiologico e livello psicologico-comportamentale sono profonde e interessanti; dall’altro, proprio fenomeni come l’emergenza dell’io devono confrontarsi con i risultati scientifici ricordati in precedenza. Secondo i dettami del naturalismo minimale, esistono crescenti vincoli empirici che devono interagire con la riflessione filosofica. Infine, occorre distinguere tra ciò che le ricerche neuroetiche dimostrano e ciò che suggeriscono. Pur non essendo dimostrative, le indagini di neuroetica possono servire da “pompe di intuizione” in favore del naturalismo radicale riduzionistico: ci dicono come potrebbe essere l’“uomo neuronale”; ci fanno capire a che cosa assomiglierebbe una spiegazione naturalistica completa dell’azione umana. Anche nutrendo molti dubbi circa la plausibilità di questo obiettivo, occorre ammettere che i crescenti successi delle neuroscienze lo rendono quanto meno concepibile. Per chiunque ritenga il livello personale non riducibile a quello neurobiologico sarà cruciale nel prossimo futuro mostrare come i fenomeni e le entità postulate al livello personale lo siano in termini accettabilmente coerenti con i dati scientifici. In questo senso, la neurobiologia può (o potrà) influenzare È quasi superfluo notare che dilemmi morali quali quelli del carrello offrono già di per sé versioni estremamente semplificate delle vere dinamiche psicologiche implicate nei dilemmi morali – dove ritroviamo autoriflessione, introspezione, identità narrativa, introiezione di valori con forte componente sociale, e così via. Più ci avviciniamo alla realtà psichica della situazione, meno la promessa fondamentalista appare facile da mantenere. 23 139 MICHELE DI FRANCESCO in modo significativo il discorso etico, sociale e politico, e in generale l’intero ambito delle scienze umane.24 Il fondamentalismo neurobiologico ci dice che delle molte spiegazioni disponibili dell’azione, quelle di livello neuro raccontano verità. Le altre sono solo narrazioni provvisorie, forse mitiche. Citando ancora Gazzaniga: […] siamo grossi animali. Tutte le altre spiegazioni riguardo alle nostre origini sono solo delle storie [stories] che, per quanto possano fornire conforto, persuasione e persino motivazione, sono soltanto storie (p. 161 – tr. it. modificata). Qui Gazzaniga sta verosimilmente riferendosi alle teorie religiose o mitiche delle nostre origini, ma il punto è suscettibile di generalizzazione: da un lato, ci sono “storie”; dall’altro, spiegazioni genuine. Cosa le distingue? Potremmo pensare a una distinzione tra cause reali e fondate, e cause apparenti. Ma, come abbiamo notato, questa distinzione non sembra giustificata dalla realtà della ricerca. Il fondamentalismo (neuro)biologico sembra trarre dall’osservazione corretta che siamo animali, quella che siamo solo animali – e quindi che il livello giusto di analisi della natura umana è quello biologico. Ora, senza impegnarsi nella discussione di un concetto così ardito come quello di natura umana (al singolare), mi sembra che una cosa la scienza e la filosofia della mente contemporanee hanno reso evidente: se esiste una natura umana, nel senso di una dotazione biologica che contribuisce a renderci specificamente umani, esseri diversi dagli altri animali che abitano il nostro mondo, essa ha a che fare non solo con la nostra conformazione fisica o genetica, ma anche con la nostra struttura cognitiva e affettiva e con le forme in cui si indirizza la nostra socialità dispiegata. Fa parte in modo intrinseco della nostra natura di animali umani, che la nostra natura di individui e di persone sia aperta al completamento culturale Lo chiede la plasticità del nostro cervello, che si è co-evoluto con la complessità delle nostre culture. Lo chiede l’apertura all’ambiente della nostra struttura cognitiva, che delega ad artefatti cognitivi esterni parte dei compiti computazionali supportati dal cervello.25 In un quadro di questa portata, la domanda “cosa fa il mio cervello quando io prendo una decisione?” non ha una risposta semplice – e passa attraverso la chiarificazione dei rapporti tra l’io e il suo cervello. Una analisi ar- Ciò che è in discussione è un’immagine dell’io radicata nel senso comune e sviluppata nel contesto delle scienze sociali, a cui molti giudizi etici sono strettamente correlati. Cfr. Sterlelny, 2003 sui rapporti tra scienze sociali e folk psychology; per una tesi per certi versi simmetrica e opposta, De Caro, 2004. 25 Per la coevoluzione tra cervello, cultura (e società) cfr. Tomasello, 1999; per l’apertura della cognizione all’ambiente cfr. Clark 1997, Wilson, 2004, Di Francesco, 2004, 2007c. 24 140 Neurofilosofia, naturalismo e statuto dei giudizi morali dua, che non si presta a scorciatoie, e lascia aperte molte opzioni sul modo in cui rispondere alla sfida neurofilosofica.26 Riferimenti Chalmers, D. (1996), The Conscious Mind, Oxford University Press, Oxford, New York; tr. it. La mente cosciente, McGraw-Hill, Milano, 1999. Churchland, P. S. (1986), Neurophilosophy, MIT Press, Cambridge (MA). – (2007), Neurophilosophy: the early years and new directions, “Functional Neurology”, 2007; 22 (4), pp. 185-195. De Caro, M. (2004), Il libero arbitrio. Una introduzione, Laterza, RomaBari. Dennett, D. (1991), Consciousness Explained, Little Brown and Company, Boston; tr. it. Coscienza, Rizzoli, Milano, 1993. Di Francesco, M. (1998), L’io e i suoi sé. Identità personale e scienza della mente, Raffaello Cortina Editore, Milano – (2005) Filling the gap, or jumping over it? 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