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Gli antenati di Levi

2013, Πολύφιλος Poliphilos

πολύφιλος / poliphilos, vol. 4 (2013) Gli antenati di Levi1 Alberto Cavaglion Università degli Studi di Firenze Il mio intervento ha come titolo “Gli antenati di Levi”. Spiegheremo adesso anche come mai usiamo non a caso la parola antenati. Ma prima di tutto voglio circoscrivere il mio intervento a una ristretta cerchia di scritti di Levi. In particolar modo mi soffermerò su Argon, il racconto con cui si apre Il Sistema periodico e su due più brevi racconti ad Argon correlati: Il fondaco del nonno e Leggere la vita, due brevi articoli per “La Stampa” raccolti ne L’altrui mestiere che appartengono in qualche modo alla geografia di Argon. Argon – e tutto ciò che attiene al mondo di Argon – è qualche cosa di molto diverso dal resto delle cose che Levi ha scritto. È anche il momento in cui la lunga partita con Italo Calvino arriva a un momento di svolta e forse anche di amichevole rottura. In due lettere, scritte da Calvino intorno a “Il sistema periodico”, nonostante il tono amichevolissimo, troviamo un giudizio netto: Argon è assolutamente incompatibile con il resto del libro. Che non dovesse essere messo in posizione di preminenza, subito in apertura di libro, a Calvino pareva indispensabile;se proprio Levi lo voleva mettere, almeno lo mettesse a metà o ancora meglio in fondo, perché Calvino temeva moltissimo una trasformazione di Levi in un “Mario Soldati del positivismo”. La definizione preoccupata di Calvino nel ’73-’74 – epoca alla quale risalgono queste lettere – è questa. In realtà la parola “antenati” che Levi usa nel racconto e negli altri piccoli articoli cui facevo riferimento, e soprattutto nelle lettere a Calvino di quegli anni, erano una sorta di captatio benevolentiae, perché in qualche modo a una sorta di fratello maggiore Levi cercava di spiegare che Argon è a suo modo, in forma concentrata, ristretta, in pochissime pagine - diciotto pagine o poco più – quello avrebbe dovuto essere il suo ciclo degli antenati, il suo modo di raccontare non le storie di baroni rampanti o di cavalieri inesistenti, ma, come dice in Argon, la storia di “savi patriarchi tabaccosi e domestiche regine della casa”. Questa è la definizione che viene data e soprattutto in apertura viene ripresa da Calvino l’idea degli antenati-nobili, perché Levi dice in Argon che “ci sono, nell’aria che respiriamo, i cosiddetti gas inerti, e a un certo punto dice “si chiamano anche gas nobili, e qui ci sarebbe da discutere se veramente tutti i nobili siano inerti e tutti gli inerti siano nobili”. Su questa raffinata definizione di una nobiltà decaduta si richiama poi l’intero racconto, che 1 Per una rilettura più sistematica del racconto rinvio al mio libro A. Cavaglion, Notizie su Argon. Gli antenati di P. Levi da Petrarca a Lombroso, Torino, Instarlibri, 2006. Alberto Cavaglion, Gli antenati di Levi πολύφιλος / poliphilos, vol. 4 (2013) in un prima versione del 1972 non finiva come finisce poi la versione definitiva pubblicata poi nel “Sistema periodico” con quel bellissimo ricordo del padre. Mentre tutto il racconto è fatto di personaggi sostanzialmente immaginari, il padre compare alla fine del racconto accompagnando il ragazzino Levi dalla nonna paterna, in via Po. Tutte le settimane si ripete la stessa scena: il papà entra, presenta il nipotino alla nonna sempre allo stesso modo, dicendo in piemontese: “A l’è ‘l prim d’la scòla”, è il primo della classe”, la nonna annuisce, estrae un cioccolatino e lo dà al giovane Primo, che lo prende e lo mette in tasca, sapendo benissimo che è tarlato. Il racconto finisce con questo ritratto domestico molto fine. Nella prima versione del ’73 il racconto finisce con la figura di un antenato molto calviniano, che si chiamava Barbabramìn, che ha una serie di disavventure economiche e una serie di amori ancillari, per cui a un certo punto finisce che sale nel letto e nel letto rimane per vent’anni, più o meno quanto il barone rampante decise di rimanere sugli alberi, quando Calvino lo inventò. Il racconto che Calvino ebbe per le mani prima che venisse pubblicato finiva proprio con questo omaggio indiretto agli Antenati per eccellenza nella cultura torinese di quegli anni (parlare di antenati a Torino negli anni Settanta, anche nel mondo della scuola, voleva dire riferirsi al grande ciclo degli antenati di Calvino). Levi però attribuiva a questo racconto qualche cosa di molto di più. Adesso sappiamo – proprio nella circostanza del ventennale è venuto fuori un documento che conferma un’ipotesi che già circolava - che Argon sia stata in realtà una delle prime cose che Levi ha scritto, forse già nel 1946. Questo lo dice nelle interviste pubblicate da Belpoliti, ma incidentalmente. L’11 aprile del 2007 su un blog una allora giovane studentessa, oggi una donna matura, però figlia d’arte, perché è figlia di Aldo Zargani – autore di quel bellissimo libro che è “Per violino solo” – ha messo in rete un’intervista che a suo tempo fece in occasione della sua tesina di maturità. Ben guidata da un padre che con Levi aveva avuto rapporto di familiarità, di dimestichezza, anche consuetudine amicale, e con buone domande, la giovane Lina Zargani parte dal racconto Argon, che era nel 76 appena uscito e alla prima domanda Levi dice: “La descrizione che ho voluto fare in Argon, che ho scritto nel 1946, quindi assai prima della stesura del libro, mette in luce tutto il resto”. Se le cose stanno davvero così e cioè se Argon è davvero in qualche modo la prima scrittura di Levi, che anticipa persino la prima stesura di Se questo è un uomo, le cose per noi si complicano davvero ed anche il legame con Calvino si affievolisce. Fino a qualche anno fa un po’ pigramente la storiografia e la critica su Levi su questo argomento sono state evasive, anche un po’ sbrigative. È stato per esempio detto ripetutamente che Argon era la risposta fredda, a distanza di un po’ di anni, che Primo Levi voleva dare sia al Lessico famigliare di Natalia Ginzburg che al Giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani, cioè che vi fosse un rapporto di causa effetto tra quei Alberto Cavaglion, Gli antenati di Levi πολύφιλος / poliphilos, vol. 4 (2013) racconti, dove il problema del linguaggio, il problema dell’appartenenza religiosa, l’appartenenza a una minoranza religiosa particolare come quella ebraica piemontese o italiana erano stati momenti fondamentali. Lessico famigliare e Il giardino dei Finzi-Contini escono tra il ‘63 e il ‘64, a breve distanza l’uno dall’altro, ma il racconto di Levi a mio modesto modo di vedere ha ben poco a che vedere con quei modelli. È vero che Argon fa conto sul lessico famigliare della famiglia di Levi, è vero anche che la consuetudine, l’ambiente, la cerchia famigliare ha lo stesso tono affettuoso e vagamente riconducibile al mondo ferrarese descritto da Bassani, ma in realtà i modelli letterari e stilistici di Levi sono di altra provenienza. Levi aveva questa grande capacità di citare di nascosto. Lavorare sulla intertestualità di Levi è un lavoro affascinante perché Levi, anche nei suoi libri maggiori, cita tanti testi esplicitamente – pensate a Dante, alle Scritture o a Manzoni – però vi sono tante citazioni che invece sono fatte in modo criptico, nascosto e spesso rivelano presenze e influenze molto curiose. La più importante da ricordare nel nostro caso specifico, proprio perché si tratta di un’affinità in qualche modo elettiva, è quella che lega, sia pure dal punto di vista geografico in due realtà molto diverse tra loro, la scrittura di Argon ai racconti di Umberto Saba, che erano usciti nel 1956. Dopo le Scorciatoie e raccontini usciti nel 1946, un libro che aveva molto colpito Levi, che scrisse una lettera bellissima a Saba dichiarando tutta la sua simpatia e anche l’emozione che aveva provato leggendo quel primo testo, è soprattutto leggendo i Ricordi. Racconti che Saba pubblica nel 1956, che scatta qualcosa, secondo me, nella mente di Levi, che decide di fare lo stesso, di descrivere la vita della sua famiglia, soprattutto nell’Ottocento, confrontandola con la realtà geograficamente e culturalmente molto diversa da quella incontrata da Saba a Trieste. E qui vi sono tutta una serie di citazioni nascoste che dimostrano quanto Levi fosse debitore rispetto a Saba. Quella che a me ha colpito di più e che voglio condividere con voi è quella che riguarda uno dei frammenti più comici, più divertenti di Argon. In un’intervista Levi definisce Argon come un copione teatrale dove si affollano su una scena ideale, una scena narrativa, tutta una serie di personaggi che raccontano in dieci-dodici righe una piccola sequenza della loro vita che è come una commedia. Quasi tutti sono zii, c’è questo gioco linguistico che fa sì che il loro nome sia col dialetto unito all’essere dei barba o delle magne, Magnavigàia è la zia Abigaille e Barbarônìn, quello di cui adesso parleremo, è lo zio Aronne. Come nel francese e nell’ebraico provenzale, c’era quest’usanza nel gergo ebraico piemontese dell’Ottocento, di cucire insieme il nome ebraico alla qualifica di zio. La linearità dell’ebraismo di Levi non si sviluppa per matrilinearità come la tradizione ebraica vorrebbe ma, potremmo dire, per barba o per magnalinearità. Si è cittadini di Argon nella misura in cui si ha la fortuna di avere avuto in casa un Barbarônìn o una Magnavigàia. Alberto Cavaglion, Gli antenati di Levi πολύφιλος / poliphilos, vol. 4 (2013) (i nonni sono secondari rispetto a questo). Di Barbarônìn si dice “era alto, robusto e di idee radicali: era scappato da Fossano a Torino e aveva fatto molti mestieri. Lo avevano scritturato al Teatro Carignano come comparsa per il Don Carlos, e lui aveva scritto ai suoi che venissero ad assistere alla prima. Erano venuti lo zio Natàn e la zia Allegra, in loggione; quando il sipario si alzò, e la zia vide il figlio tutto armato come un filisteo, gridò con quanta voce aveva: «Rônìn, co’t fai! Posa côl sàber»: «Aronne che fai! Posa quella sciabola!». La verità e la sua rappresentazione teatrale o letteraria si confondono, la mamma non distingue il figlio vero dal figlio vestito da comparsa del Don Carlos. E qui il calco da Saba è proprio da manuale e ci fa anche sorridere, vedendo i molti biografi che hanno utilizzato Argon come una fonte attendibile per scoprire le vere analogie biografiche di Levi e hanno pensato che Barbarunin o Magnavigàia o tutti gli altri fossero in qualche modo veramente gli zii, i prozii o gli antenati effettivi e si sono affannati a ripercorrere i rami genealogici della famiglia, pensando che avessero una rispondenza reale. Certo in parte l’hanno, in parte sono il risultato di racconti orali provenienti dalla sua famiglia o dalle famiglie di amici, ma in larga parte, come in tutte le opere di grandi scrittori, sono il risultato di una lettura approfondita dei classici e soprattutto dei grandi scrittori. Ora, Saba nei Ricordi. Racconti parla anche lui di uno zio e racconta in un episodio molto importante che il giovane Saba chiede allo zio di andare a vedere recitare nel teatro di Trieste un grande attore del tempo, Tommaso Salvini, che nella parte di Pilade era impegnato a recitare l’Oreste di Alfieri. Nel racconto di Saba si legge così: “L’eroe grande e grosso aveva il volto nascosto dalla clamide, ignaro di aver ucciso la madre. Pilade si rivolge all’amico”, porgendo a Levi su un vassoio d’argento la stessa battuta che in Argon, privata della sua classicità, non è più nella lingua di Alfieri ma nel dialetto della zia Allegra. Solo che Tommaso Salvini non dice «Posa côl sàber», ma dice più aulicamente “dammi quel brando”, che è proprio un calco letterale. Altri ve ne sono di meno significativi ma sono ugualmente importanti. Un altro episodio curioso è quello del Po gelato. In un uno dei passaggi più rapidi di Argon, dove i protagonisti vivono tutti lo spazio di un mattino, un personaggio, per la precisione una sposa, ci viene presentata incidentalmente, fra parentesi, tre righe in tutto: Magnavigàia, zia Abigaille. Tra la prima versione del racconto e quella raccolta nel Sistema periodico vi è, come spesso accade, una metamorfosi topografica. In un primo tempo Abigaille va sposa a Saluzzo, poi a Chieri, sempre “a cavallo di una mula bianca” e sempre “risalendo il Po gelato”2. 2 Nell’inverno del 1929 Primo Levi era un bambino di dieci anni, Giorgio Bassani di anni ne aveva tredici. E’ curiosa la simmetria fra due scrittori, che s’ignorarono in vita, ma conservano lo stesso ricordo di quel gelido inverno. Nel cap. VI di “Lida Mantovani”, la seconda delle “Storie ferraresi”, si legge: “Nessuno ha certo dimenticato l’inverno del 1929. Alberto Cavaglion, Gli antenati di Levi πολύφιλος / poliphilos, vol. 4 (2013) Delle due notazioni che la riguardano non si riesce a individuare quale delle due sia la più fantasiosa: la mula bianca, variante povera e rustica del principesco e fiabesco cavallo bianco, o il Po gelato? Se si volesse un giorno dotare “Argon” di un apparato iconografico riuscirebbe davvero arduo trovare negli album di famiglia degli ebrei piemontesi una fotografia che ritraesse la scena e immortalasse l’evento, sia a Saluzzo, dove le anse del Po sono ancora piccine, sia vicino a Chieri, dove si fanno più maestose, ma sono più difficili a vedersi. Magnavigàia è una sposa che vive in un mondo di pure fantasie e spettri letterari, come tutti gli altri protagonisti delle decine di “novelle teatrali” che vanno a far parte di questo assai strano racconto di Levi, così diverso dagli altri. Qui gioverà soffermarsi sul Po gelato o meglio su una metafora ossessiva, assai importante in Levi, quella che concerne il condensarsi o il gelarsi dell’acqua, il rinchiudersi del mare o il gelarsi del fiume. E bisognerà dunque collegare la fastosa marcia nuziale di Magnavigàia al dantesco “mare richiuso (o rinchiuso)” di Se questo è un uomo e soprattutto agli esperimenti scientifici di Curti nel racconto Ottima è l’acqua di Vizio di forma. Il lavoro “diligente e idiota” di Curti concerne la misurazione del coefficiente di viscosità dell’acqua, un mestiere “insipido”, “da lavandaio non da giovane fisico” se non subentrasse il ricordo liceale del verso di Pindaro: “Ottima è l’acqua”. Un giorno Curti si accorge che qualcosa nei suoi esperimenti non funziona e la stranezza balza agli occhi osservando un fiume che potrebbe essere lo stesso Po gelato di Magnavigàia: “Conosceva quel torrente da molti anni, ci era venuto a giocare da bambino, e più tardi, proprio in quel punto, con una ragazza e poi con un’altra: bene, l’acqua era strana. Dava l’impressione di essere meno mobile, meno viva: le cascatelle non trascinavano bolle d’aria, la superficie era meno increspata, anche lo scroscio non sembrava quello, era più sordo, come attonito”. Poco più tardi la scoperta della mostruosa verità: 1,300 centripoise a 20° C, il 30 per cento di più del valore normale. Prima il torrente Sangone, poi anche il Po diventa anomalo, “dapprima in alcuni suoi tratti, poi in tutto il corso fino alla foce”, le melme sedimentano e dal Po l’anomalia si estende con piogge viscose che colpiranno il Montenegro, la Danimarca, la Lituania. Moriranno alberi di alto fusto, ma presto anche la vita normale nelle città si dovette interrompere, le vasche da bagno e i lavandini impiegavano più tempo a svuotarsi e le lavatrici divennero inutilizzabili. L’uomo dovette con orrore scoprire di essere torpido come l’acqua: “E’ stato segnalato che il livello dei Grandi Laghi è in Per trovare un inverno simile bisognava rifarsi al 1903, quando il Po aveva gelato…”. Nel 1929, né Bassani né Levi potevano immaginare il Po insanguinato. Alberto Cavaglion, Gli antenati di Levi πολύφιλος / poliphilos, vol. 4 (2013) rapido aumento, che l’intera Amazzonia si sta impaludando, che lo Hudson supera e rompe gli argini in tutto il suo corso alto, che i fiumi e i laghi dell’Alaska si rapprendono in un ghiaccio che non è più fragile, ma elastico e tenace come l’acciaio. Il Mare dei Caraibi non ha più onde”. A fianco di Saba il grande interesse per i problemi attinenti alla lingua, alla storia del linguaggio, alla storia dei dialetti, e in generale alla storia della comunicazione tra gli esseri umani, che è uno dei più grandi temi della narrativa di Levi. In Argon questo problema si traduce quasi in una trasformazione narrativa di una serie di esperimenti linguistici fatti a tavolino. La professoressa Massariello vi spiegherà meglio di quanto possa fare io che dietro al lavoro che prepara la redazione di Argon vi fu un lavoro di ricercatore, cioè vi fu una accurata ricerca di vocaboli del linguaggio ebraico piemontese, cercati e schedati con la competenza del glottologo, tanto è vero che quando il racconto fu pubblicato Levi non scrisse una saggio di linguistica o di storia della glottologia, ma si rese conto che aveva scritto un mannello di schede piuttosto interessante, che forse poteva incuriosire chi si occupava scientificamente del tema. La professoressa Massariello, figlia di una deportata politica, esponente di un’associazione di ex deportati, che era allora una studentessa di glottologia, ebbe in dono questa vaschetta con tutte le schede. Lei vi racconterà bene come Levi arrivasse a inventare dei personaggi, cucendo loro sopra una descrizione che fosse adeguata al gioco linguistico, al nome stesso che queste persone si portavano addosso, oppure più genericamente al senso dell’umorismo che Levi aveva in grande misura. Pensate che Levi è così acuto da dire persino che il pappagallo che il Gnôr Côlômbô riceve in dono in Argon (siccome il signor Côlômbô aveva contratto un matrimonio misto e aveva sposato, come si diceva allora, una donna non ebrea, cioè una gôià), veniva dalla Guyana. Tutte le vicende, le microsequenze narrative di questo racconto sono come una sorta di esemplificazione, di messa in pratica di un principio linguistico o di un nome, di una parola, di un’espressione che in qualche modo fa da scintilla e suggerisce il racconto. Vi sono delle figure simboliche che ritornano molto di frequente e che Levi naturalmente attinge alla tradizione ebraica. La figura del semplice per esempio, o del perverso, è una delle figure archetipiche della narrazione pasquale. Il semplice o colui che non sa fare domande era – si dice nel racconto di Argon – si dice di lui che era un semplice, la figura potremmo dire dell’ingenuo o come recita il suo soprannome la figura di Piantabibini, cioè una mescolanza di tradizioni ebraiche, perché era un semplice ma era anche un semplice che aveva letto Pinocchio, perché credeva che come nel capolavoro di Collodi mettendo delle monete a terra si potesse far crescere degli alberi con delle monete attaccate, mettendo delle piume di tacchino per terra si facessero crescere degli alberi con dei tacchini attaccati. I tacchini attaccati e tutti i volatili nell’universo zoofilo, amante Alberto Cavaglion, Gli antenati di Levi πολύφιλος / poliphilos, vol. 4 (2013) degli animali di Levi sono i sovrani indiscussi. Ci sono ragioni anche storiche precise: il tacchino e soprattutto le oche nella parte del Piemonte che va verso Casale e Vercelli sono la parte principale della cucina ebraica piemontese e sono anche legati a storie meno divertenti, perché fino a tutto il 1848 e ancora molto dopo nei ghetti o ex ghetti del Piemonte era usanza nella settimana dopo Carnevale che gli ebrei dovessero dare una sorta di omaggio servile alle autorità del luogo che era fatto da un numero x di volatili, soprattutto tacchini, e che quindi vi fosse una solidarietà tra afflitti o tra reietti perché spesso nella piazza di Mondovì, di Saluzzo, di Savigliano a questi volatili veniva allegramente tirato il collo, accompagnando il gesto non gentile con espressioni altrettanto poco gentili verso i donatori. Quindi c’è tutto un dialogo sottile, anche affettuoso, che lega questa realtà a quella del mondo animale. In conclusione, Levi aveva una grandissima passione per il fenomeno linguistico e ci ha dato in questo brevissimo racconto un documento straordinario di una lingua che già parlavano pochissimi quando lui scrisse per la prima volta Argon e che oggi è sicuramente una lingua scomparsa, una lingua che solo con molto entusiasmo e molto ottimismo potremmo definire un piccolo yiddish subalpino: non ne ha i tratti, non ne ha avuto neanche nel suo momento di grande splendore qualcosa di paragonabile alla lingua di grandi scrittori come Singer del mondo centro europeo. Levi però leggeva assolutamente tutto e si informava prima di scrivere anche un semplicissimo racconto e quindi non aveva dimenticato l’insegnamento di Augusto Monti, non perché fosse stato suo allievo in questo palazzo, perché quando Levi arrivò al D’Azeglio Monti era già costretto al confino e il liceo che Levi frequentò era ormai totalmente fascistizzato. Però circolava nella gioventù ebraica vicina all’antifascismo ma non necessariamente antifascista, un racconto di Augusto Monti, poi confluito nel ciclo dei Sansôssi e prima ancora in un racconto che s’intitola “L’iniqua mercede”, un racconto che s’intitola Un savio Natano monferrino, dove Monti descrive anche lui la sua infanzia, la sua giovinezza ad Acqui e parla delle amicizie che contarono molto nella formazione di suo padre. Tra queste vi è un ebreo di Acqui, un certo De Benedetti, che parlava una lingua abbastanza spettacolare, un dialetto infarcito di espressioni ebraiche molto simili a quelle di Argon, ma soprattutto colpevole agli occhi di Levi, che lesse questo racconto, di una colpa per Levi imperdonabile. Il motto di questo amico del padre di Augusto Monti era “Io leggo la vita a tutti”. E questo modo di dire diventerà oggetto di quel bellissimo articolo legato ad Argon che s’intitola Leggere la vita dove da quel grande linguista che era Levi ragiona anche un po’ pro domo sua perché scopre ad esempio che “leggere la vita” è un’espressione che è legata a un modo di dire assai diffuso che è “Leggere il Levitico”, e leggere il Levitico per uno che si chiamava Primo Levi era in qualche modo anche raccontare e indagare su di sé. Però la conclusione di Levi è agli Alberto Cavaglion, Gli antenati di Levi πολύφιλος / poliphilos, vol. 4 (2013) antipodi di quella di Monti perché Levi dice, come non poteva non dire, “Io non leggo mai la vita a nessuno”. Alberto Cavaglion, Gli antenati di Levi