L’autore amatoriale
La presente ricerca si pone l’obiettivo di tracciare l’esistenza di un autore amatoriale.
Se l’età postmoderna lo ha frammentato imbrigliandolo nella logica del brand, quella contemporanea della cultura partecipativa lo ha privato del suo antico ruolo di garante. Le nuove tecnologie (definite da Henry Jenkins innovative, convergenti, quotidiane, interattive, partecipative, globali, generazionali ed ineguali) che hanno dato luogo al processo di ri – mediazione teorizzato da Jay David Bolter e Richard Gruisn, non sono state causa di formazione di un’autorialità virtuale, semmai di trasformazione di Youtube in «deposito senza legge di contenuti amatoriali»
Cfr. Jean Burgess, Green Joshua, Youtube, Egea, 2009. Vedi anche P. Snickars, P. Vonderau, The YouTube Reader, National Library of Sweden - Wallflower Press, Stockholm, 2009.; ne è seguito un processo di manipolazione di immagini che, rifiutando l’esaltazione dell’autore, ha favorito l’evocazione della memoria collettiva.
In realtà tutto ciò non costituisce una novità per la settima arte. Le immagini in movimento dei cineasti disimpegnati, infatti, sono sempre state ri-elaborate per conferire loro uno statuto memoriale piuttosto che autoriale. Emblematici a tal proposito sono gli studi condotti da Roger Odin; all’interno del suo saggio contenuto nella Storia del cinema mondiale, il teorico mostra invero come le immagini amatoriali siano state usate per dal luogo all’«esteriorizzazione di processi della memoria»
Uso qui l’espressione usata da Stan Brakhage in In Defense of the Amateur, saggiò cui farò riferimento più avanti per mettere in discussione quanto finora esposto.
I filmati amatoriali che mostrano gli esordi di alcuni registi, ad esempio, sono state usati per definire la storia dei grandi autori cinematografici; (è il caso della conferenza del 1994 svoltasi presso il Collège d’histoire de l’art cinematographique della Cinemathèque française, apparentemente organizzata allo scopo di confrontare gli amatori con gli autori); Oliver Stone si è servito del video di Zapruder sull’assassinio di J. F. Kennedy per avvalorare la narrazione del suo lungometraggio; ancora James Broughton ha montato il film del suo matrimonio girato da Stan Brakhage per trasformarlo in ricordo di un evento; e i cineasti del cinema - veritè hanno sfruttato l’instabilità delle immagini amatoriali per rendere più autentiche le sensazioni visive suscitate dalle realtà documentate; la Temple University, infine, ha archiviato i film di famiglia per definire il volto della società dell’inibito popolo dei navajo.
A detta dello studioso, poi, chi ha elaborato la storia tecnica, locale e discorsiva del cinema amatoriale, se ne è avvalso per degli scopi non meno mnemonici: si è scelto di mostrare i diversi meccanismi delle macchine da presa (è il caso di M. Auer e M. Ori e della loro Histoire de la caméra ciné-amateur) e le conseguenze di carattere tecnoeconomico (come fa Laurent Creton nel suo saggio Le marché du camescope. Innovation et logique du developpement); di ricostruire la storia del posto in cui si vive e quella del cinema autoctono (è il caso dell’archivio bretone che raccoglie documenti e testimonianze dei film amatoriali per ricostituirne il contesto sociale e delineare i rapporti della regione con la Chiesa e la militanza locale); ed infine di analizzare le conseguenze del cinema amatoriale sulla società.
A tal proposito Odin, cita Reel Families di Patricia Zimmermann, saggio che ricostruisce la storia del cinema amatoriale degli Usa inquadrandola all’interno della sincronica prospettiva foucaultiana dell’Archeologia del sapere; e che, di più, risolve la contraddizione interna della creatività esistente – ma non volutamente estetizzata – del cinema amatoriale, tracciando un percorso che descriva l’evoluzione della società attraverso quella delle tecnologie legate all’amatorialità.
La volontà di manipolare le immagini amatoriali per costruire un archivio della memoria piuttosto che un archeologia dell’autore, non scompare in epoca contemporanea. L’attività di rimaneggiamento di contenuti amatoriali non manca infatti di conferire uno statuto mnemonico ed anonimo ai prodotti filmici ri – mediati oggi on line.
Nel 2007, ad esempio, compare in rete Redacted di Brian De Palma, film amatoriale che narra lo stupro di una ragazzina irachena e lo sterminio della sua famiglia per mano di alcuni soldati americani. L’accaduto è stato ricostruito dal regista attraverso la manipolazione di blog, canali Youtube, videoregistrazioni e riprese amatoriali effettuate dai protagonisti del film realmente esistiti per esprimere un impegno fondamentalmente politico. Quest’ultimo tuttavia non costituisce il fine della pellicola virtuale che è stato realizzata da De Palma con la precipua volontà di mostrare la crudeltà del tragico evento familiare.
Esperimento parallelo a quello dell’autore sopracitato è costituito da Life in a day di Kevin McDonald (2010). Il lungometraggio è il risultato di un concorso indetto da Youtube e Ridley Scott che hanno chiesto agli utenti di tutto il mondo di narrare la vita in un giorno (il 24 luglio 2010) ; ne è seguito un lavoro di editing di 4500 ore di video amatoriali provenienti da 197 paesi differenti, e la realizzazione di un documentario di novantacinque minuti composto da immagini mnemoniche pregne di vita quotidiana (l’ora dei pasti, la nascita di un bimbo, il giro del mondo in bicicletta di un coreano, momenti di riflessione filosofica intorno alla vita, ecc..). La selezione dei filmati è avvenuta muovendo dal preciso presupposto di mostrare cosa avviene a chi, e non chi fa in modo che succeda cosa; come afferma Chistopher Campbell, Life in a day ha il merito di concentrarsi sul contenuto piuttosto che sul quando, dove, perché e soprattutto chi abbia fatto in modo che si verifichino gli eventi.
I due progetti, oltre che porsi in chiara continuità con il cinema amatoriale ed i processi che lo caratterizzano, riflettono pienamente l’attività effettuata all’interno degli archivi. Essi infatti raccolgono, selezionano e catalogano documenti di ogni tipo solo per ri-scrivere una storiografia puramente veritativa; non c’è la volontà di esprimere l’intenzionalità di un singolo documento già di per sè, secondo Le Goff, oggetto della manipolazione del tempo. Come afferma Derrida in Mal d'archive, une impression freudienne , l’archivio è cominciamento e comando, ha cioè un principio ontologico, indicante il luogo d’inizio delle cose e dunque di conservazione delle tracce, ed uno nomologico, riferito invece al dove le cose prendono ordine e quindi producono sapere; secondo l’Archeologia del sapere di Foucault, invece, è un insieme di singoli enunciati che possono dar luogo ad una serie infinita di discorsi; ancora Ricoeur li considera luogo di rottura della testimonianza orale e di costruzioni possibili della storia attraverso i documenti scritti; per Aleida Aasmann, infine, sono «sistemi di trascrizione che fungono da mediatori esterni della registrazione». L’operazione archivistica, dunque, oltre che essenzialmente mnemonica, appare oggettiva ed eterogenea; non soggettiva ed univoca.
Analisi approfondite di saggi, operazioni presenti in rete ed attività di archivio, però, possono dimostrare l’esatto contrario; è infatti possibile definire, tracciare e delineare l’esistenza di una figura apparentemente inesistente quale quella dell’autore amatoriale. E si può altresì attribuire ai filmati amatoriali degli autori una dimensione non meno mnemonica delle immagini anonime. Come afferma Stan Brakhage all’interno del suo saggio In defense of the amateur: «l’amatore … fotografa persone, posti e oggetti del suo amore come pure gli eventi della sua felicità e di importanza personale con un gesto che può agire direttamente e unicamente a seconda dei bisogni della memoria».
L’etica del paradosso caratterizzante l’operazione che qui s’intende effettuare e che, talaltro, ha sempre contraddistinto l’autore (al cinema nasce poco prima che i saggi di Roland Barthes e Michel Foucault sull’autore ne decretino la morte e muore quando filosofi contemporanei come Giovanni Bottiroli, Philippe Le – Jeune ed Antoine Compagnon ne rivendicano l’esistenza attraverso rispettivi studi sull’asimbolia, l’autobiografia e gli atti illocutori di Austin) muove dalla verifica dell’esistenza di tre realtà antitetiche a quelle più su tratteggiate: un attenta rilettura del saggio di Odin sopracitato ed un approfondimento di un altro studio critico pubblicato qualche anno prima dallo stesso teorico; l’analisi del progetto on line di Jonas Mekas 365 day project; e l’attività di digitalizzazione ed editing effettuata a Bologna all’interno dell’Archivio nazionale dei film di famiglia, nonché quella di Peter Forgacs sui filmini privati degli archivi privati ungheresi.
Se le prospettive di studio fornite da Roger Odin privilegiano tutto ciò che ruota intorno alle immagini amatoriali, è vero anche che lo studioso dimostra come sia possibile studiare chi queste immagini le realizza. Il teorico segnala infatti l’esistenza di Familienkino, opera in due volumi di Michael Kuball che contiene una serie di monografie cronologicamente ordinate e che, citando nomi, opere e notazioni estetiche di molti cineasti li tratta come veri e propri autori. Ancora, in un suo saggio precedente, Odin mostra l’esistenza di una triplice autorialità amatoriale dotata di intenzionalità mnemonica: quella nata all’interno dello spazio familiare, quella che da quest’ultimo spazio si sposta verso quello dei cineclub, e quella del cinema indipendente.
Il cineasta familiare non va in cerca di notorietà e non svolge attività di editing in alcun modo, se non quando prende coscienza della volontà del mezzo televisivo di fagocitare quanto da lui ripreso; resosi infatti conto che il tubo catodico vuole conferire autenticità ai propri prodotti attraverso le immagini familiari, l’amatore di famiglia sposta l’interesse prima incentrato sugli eventi dei suoi cari (matrimoni, nascite, viaggi, ecc..) sul versante politico – sociale e sulle catastrofi naturali. Un avvicinamento al cinema indipendente, poi, li induce a concentrarsi sulla soggettività della persona ripresa e a presentare tematiche fino ad allora vietate all’interno dei film di famiglia (soggetti intimi, conflitti familiari, soggetti drammatici, ecc …). I suoi home movies, insomma, acquisiscono un’intenzione preliminare volta a riscrivere la memoria collettiva.
Tutto ciò si traduce in un processo di trasformazione dell’amatore familiare in amateur vero e proprio; allontanarsi dallo spazio domestico gli permette infatti di manipolare le immagini ed elaborare una vera e propria cifra stilistica che gli permette di accedere allo spazio dei cineclub. Ivi gli amatori sono considerati dei veri e propri professionisti della paradossale estetica del benfatto; i loro film presentano infatti immagini fluide e scorrevoli, panoramiche non troppo tremolanti, ed un montaggio senza salti né rotture che mostra una certa attenzione per raccordi e dissolvenze. Nessun interesse dichiarato (ma semmai vietato dagli stessi cineclub) per tematiche politiche, filosofiche e religiose e se in qualche modo questi filmati riflettono la società, ne esprimono ed estetizzano l’ideologia e la morale; vige insomma una vera e propria autocensura. Tuttavia Odin non manca di descrivere la presenza di immagini in 16 mm che documentano lavori artigianali, tecniche industriali, feste locali, viaggi; immagini memoriali, insomma, che, come afferma Patricia Zimmermann, possiedono una dimensione antropologica, storica, politica e sociale.
Meno istituzionalizzato e dunque più libero d’esprimersi l’amatore indipendente. Capace di profondere un impegno formale, sociale ed autobiografico, il cineasta di questo tipo dimostra la ferrea volontà di ascrivere la propria autorialità all’espressione di contenuti memoriali; rifiuta il cinema degli amatori che sembra fatto per puro divertimento da uomini appartenenti a classi agiate, e si concede il cosiddetto diritto all’errore per evitare di costruire un’immagine benfatta. Ne elabora infatti una malfatta che rafforza l’autenticità dei contenuti realizzati attraverso una cifra stilistica che rompe gli schemi; s’impegna così a manipolare le immagini affinché il cinema funzioni come mezzo d’espressione politico – sociale capace di non perdersi dietro il narcisismo visibile e facilmente ascrivibile alle videografie. Sebbene quest’ultime funzionino da diario dell’io, non si può non ravvisare l’intenzione dell’attore/amatore/autore posto davanti il video di porsi come vero e proprio testimone sociale.
Quest’attività archivistico – memoriale portata avanti dagli autori amatoriali non manca di verificarsi on line. Direttamente in contrapposizione a Redacted di De Palma e Life in a day di Kevin Macdonald, troviamo in rete il 365 day project di Jonas Mekas. Il progetto nasce dalla volontà del cineasta di esprimere se stesso, il proprio intimismo e, nondimeno, il proprio impegno politico. Noto da sempre per la sua volontà autobiografica, il regista non manca di esprimerla in questo progetto virtuale che prevede il caricamento in rete di un cortometraggio al giorno a partire dal 1 gennaio 2007 fino alla fine dell’anno. Ogni filmato si compone di immagini riprese dal cineamatore mischiate ad altre provenienti dal proprio archivio personale. Privi di qualsiasi unità spazio – temporale, i filmati di Mekas sono avvolti da un’aura poetica che rende partecipe lo spettatore della vita interiore di chi le realizza e costituiscono ed istituiscono un archivio del passato, del presente e del futuro.
Così come Life in a day e Redacted si sono posti in continuità fra il cinema amatoriale e l’attività degli archivi, allo stesso modo il 365 day project si inserisce perfettamente tra l’attività archivistico – memoriale dell’autore amatoriale e quella dell’Archivio nazionale dei film di famiglia. Presso l’istituzione bolognese infatti, oltre che un processo di catalogazione di una quantità infinita di filmati, sta avendo luogo un’operazione del tutto insolita: la ricostruzione e reinterpretazione della storia di alcune famiglie attraverso un’attività di editing e digitalizzazione. L’archivio dà letteralmente luogo ad un processo di rielaborazione della memoria attraverso i documenti filmici. In un’intervista rilasciata alla rivista Film History, il direttore dell’archivio Paolo Simoni afferma infatti che il lavoro di manipolazione svolto dagli archivisti mira a ricontestualizzare le immagini per evocarne il contenuto memoriale.
Un lavoro simile è stato eseguito dal regista Peter Forgacs presso l’Archivio Privato ungherese. Attingendo ai filmati ivi contenuti, il cineasta ha realizzato Private Hungary (2003) ovvero un’opera mastodontica, ma senza dubbio monumentale, contenente 15 pellicole che analizzano le vicende storiche della Shoah, della seconda guerra mondiale e dello stato ungherese. Accostando le immagini familiari ai cinegiornali del tempo ha effettuato un’attività di found footage su immagini memoriali che gli hanno permesso di ricostruire la storia del suo paese dal 1920 al 1980.
C’è insomma nelle attività effettuate dagli e negli archivi un’intenzionalità ben precisa che corrisponde ad un intervento artistico sulla memoria, ad una sua trasformazione in altro statuto e in creazione differente.
Facendo riferimento agli studi di Aleida Assmann, è inoltre possibile attribuire al cinema e a chi lo realizza, seppur sconosciuto, un'intenzionalità memoriale ascrivibile all’articolazione della dicotomia memoria – archivio/memoria – funzionale propugnata dalla studiosa tedesca. Se è vero infatti che la memoria funzionale corrisponde alla raccolta e selezione di dati che possano costituire un orientamento per il futuro, e che la memoria archivio è costituita dal un cumulo di ricordi inutilizzati cui è possibile attingere per elaborare una memoria funzionale, l’attività dell’autore amatoriale all’interno dei contesti delineati sembra riflettere perfettamente questo meccanismo. Lo studio pragmatico sulla memoria condotto da Ricoeur, inoltre, non fa che confermarne lo statuto creativo; egli afferma infatti che «ricordarsi, non significa accogliere, ricevere un’immagine dal passato, ma anche crearla». E secondo Godard: «il cinema ha sempre creato dei ricordi».
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